Rassegna stampa 2 settembre

 

Giustizia: Napolitano; serve confronto, per riforma condivisa

di Liana Milella

 

La Repubblica, 2 settembre 2008

 

L’agenda della giustizia di Alfano è sul tavolo del capo dello Stato. Indice e titoli. Perché, per ora, non c’è più di questo. Il contenuto dei capitoli della manovra giudiziaria del governo Berlusconi, che si annuncia molto ampia (dal civile, al penale, alle carceri, al Csm, alle carriere), è ancora tutto da scrivere.

Ma il Guardasigilli, in un colloquio di un’ora al Quirinale, che fonti di via Arenula definiscono "cordiale, sereno, costruttivo", ha voluto comunque ragguagliare Napolitano con una ricognizione che, allo stato dell’arte, è ferma alle "intenzioni".

Ricevendone in cambio un’esplicita raccomandazione: il Colle considera "fondamentale" che l’intervento sulla giustizia avvenga garantendo il massimo confronto politico per puntare su "soluzioni condivise".

Un invito che ha trovato il ministro azzurro in piena sintonia. Alfano, che considera i suoi futuri ddl "un’occasione storica per la giustizia e per il Paese", ha già messo in pratica il consiglio di Napolitano e del "già fatto e del da farsi" ha voluto parlare col presidente. La riforma, ha assicurato, sarà fatta "nel rispetto delle istituzioni, dei partner della maggioranza e anche di quelli dell’opposizione". Passi formali i suoi. Tant’è che, prima di recarsi sul Colle, ha voluto confrontarsi con la presidente della commissione Giustizia della Camera Giulia Bongiorno. Che, con Fini in Giappone, ha parlato da plenipotenziaria di An.

L’agenda di Alfano è densa: si parte con la riforma del processo civile, si prosegue con quello penale, si affronta il pianeta carcere con l’incubo di una popolazione detenuta destinata a raggiungere presto livelli pre-indulto, si passa ai capitoli più delicati, Csm, carriere, obbligatorietà. Qui la Bongiorno ha messo un paletto: An non sarà disponibile a smontarla per una discrezionalità che non darebbe sufficienti garanzie su sicurezza e legalità. Ma per le grandi riforme c’è tempo.

E sul Colle non si è parlato di Costituzione. Per Alfano era troppo presto affrontare lo spinoso tema del futuro intervento sulla Carta e il capo dello Stato dà per scontato che essa resterà intatta. Sicuramente di ciò si discuterà oggi al seminario sulla giustizia dell’Udc. A porte chiuse, "per parlarsi in libertà" come dice l’organizzatore Michele Vietti, i big della politica verificheranno fino a che punto l’invito di Napolitano a fare riforme condivise è percorribile.

Per certo, non lo è sulle intercettazioni. Su cui il leader dell’Idv Antonio Di Pietro, dal blog, spara a zero contro Berlusconi e Pd. Reo il primo di "perdere il pelo ma non il vizio" e di voler fare l’ennesima legge "immorale, fascista, piduista per mettere il bavaglio alla magistratura e la museruola alla libera informazione".

Se il Pd "ammicca" lui non ci sta e annuncia, dopo quello sul lodo Alfano, un altro referendum per la futura legge sulle intercettazioni. Paolo Bonaiuti, "voce" del premier, gli risponde che quella legge "serve a tutti gli italiani, i più intercettati del mondo", ma l’ex pm la battezza come una mossa "strozza indagini". No, su questo un’intesa condivisa non ci sarà mai.

Giustizia: prove di dialogo, botta e risposta Alfano - Violante

 

Ansa, 2 settembre 2008

 

Separazione delle carriere tra giudice e pm, corte disciplinare per i magistrati, riforma del Csm, revisione della procedura penale e del processo civile, superamento del principio di obbligatorietà dell’azione penale e infine anche un nuovo sistema carcerario. È il ministro della giustizia Angelino Alfano a illustrare i punti principali della "grande riforma d’autunno della giustizia italiana". "Adesso è arrivato il momento di mettere tutto in pratica e segnare un solco profondo tra noi e un passato fatto di lentezze processuali, inefficienze e dunque ingiustizie". A spiegarlo è il Guardasigilli in un’intervista a "Il Foglio". Il ministro assicura però prima di tutto che la "riforma si farà con il dialogo con le opposizioni".

Ottenuto il placet sulla bozza della riforma da Silvio Berlusconi, Angelino Alfano non ha perso tempo. Ieri sera è salito al Quirinale. Durante l’incontro al Colle, durato circa cinquanta minuti, il ministro ha illustrato a grandi linee i punti principali della riforma.

 

La riforma del Popolo della Libertà

 

"La riforma della giustizia segnerà la linea di demarcazione tra riformatori e riformisti, tra coloro i quali vogliono lasciare le cose come sono e chi vuole cambiare", ha spiegato Alfano. "I tempi del processo sono inaccettabili e le carceri non funzionano". Il Guardasigilli però non avrà vita facile. Proprio lui, che si era presentato all’Associazione Nazionale Magistrati con il motto "il mio programma è il vostro programma", da Giuseppe Cascini (segretario dell’Anm) è stato tacciato di "fascismo" per le idee sulla riforma della giustizia. Gli ha fatto eco Luca Palamara (presidente Anm), il quale ha spiegato che l’abolizione dell’obbligatorietà "sarebbe un incentivo a delinquere".

Alfano però tranquillizza tutti, promette di regalare a Cascini e Palamara il libro "di Alessandro Pizzorno dal titolo Il potere dei giudici, stato democratico e controllo della virtù" e aspetta il Pd al varco. "Veltroni dovrà scegliere una volta per tutte se davvero vorrà imboccare la via delle riforme. Dobbiamo ritornare allo spirito della Bicamerale (all’epoca presieduta da Massimo D’Alema, n.d.r.)". Per migliorare la giustizia, Angelino Alfano propone così una terza via, "quella né dei giustizialisti né quella dei teorici del farla franca". Recita un mea culpa sull’indulto: "un errore da non ripetere, perché i detenuti sono usciti senza che vi fosse stata un’operazione di recupero".

 

L’apertura di Luciano Violante

 

"La politica consiste nel dialogo: altrimenti c’è lo scontro permanente e pregiudiziale di tutti contro tutti e la conseguente inerzia. Va sostenuto lo sforzo di Walter Veltroni per costruire un rapporto non di debolezza ma di lungimiranza". Le parole sono di Luciano Violante, in un’intervista rilasciata a "Il Giornale". Sollecitato sulla prossima riforma della giustizia, l’ex giudice parla a tutto campo. Dalle intercettazioni, "non capisco come la magistratura arrivi a catturare Provenzano e non riesca a capire quale pubblico ufficiale diffonde le sbobinature ai giornalisti", alla riforma del Csm, "necessaria, se è vero che anche il giudice Falcone non venne nominato consigliere perché fuori della burocrazia delle correnti". Per Violante allora il Csm andrebbe "eletto per un terzo dai magistrati, per un terzo dal Parlamento e per un terzo dal Presidente della Repubblica tra personalità di particolare rilievo".

Se Violante concede un’apertura di credito al governo per discutere della bozza sulla giustizia, si dice "contrario alla separazione delle carriere: quanti pm chiedono di passare a fare il giudice? Pochissimi. Invece è necessaria la distinzione tra ruolo della polizia e del pm in un’indagine, perché da anni il ruolo della polizia è schiacciato da quello dei magistrati".

 

Dialogo e futuro

 

Se dunque per il Pd è importante avviare il dialogo sulla riforma della giustizia, per il Guardasigilli Alfano è un momento ancora più alto: "questa riforma sarà uno degli interventi attraverso cui la storia giudicherà l’esperienza politica di Silvio Berlusconi". Benvenuti al tavolo con la Storia.

Giustizia: Alfano; la "riforma delle riforme" non può aspettare

 

Il Foglio, 2 settembre 2008

 

Il ministro Angelino Alfano ci spiega la riforma delle riforme, ricorda al Pd lo spirito della Bicamerale, ma dice che stavolta il processo riformatore non si fermerà.

"La riforma della giustizia sarà uno degli interventi attraverso cui la storia giudicherà l’esperienza politica di Silvio Berlusconi, è assolutamente centrale all’interno del processo riformatore del governo". E dunque separazione delle carriere, corte disciplinare per i magistrati estrapolata dal Csm, riforma radicale del Consiglio superiore, revisione della procedura penale e del processo civile, superamento del principio di obbligatorietà dell’azione penale, e infine anche un nuovo sistema carcerario. È la riforma "ab imis" promessa dal Cav. "con coerenza dal 1994 - dice il ministro - Adesso è venuto il momento di mettere tutto in pratica, fino in fondo, e segnare un solco profondo tra noi e un passato fatto di lentezze processuali, inefficienze, e dunque ingiustizie". Pasciuto nella De di Agrigento, e voluto avvocato dal papà consigliere comunale della sinistra democristiana, il Guardasigilli Angelino Alfano si è guadagnato la laurea alla Cattolica e altri allori a Palermo (un dottorato), ma soprattutto non ha niente a che vedere con quel costume democristiano (e siciliano), quel linguaggio arcivescovile che ispirarono a Leonardo Sciascia "Todo Modo" e "Il contesto"; quell’afasia evasiva che veniva dalle sacrestie, dall’interloquire solitario tra il demone e il santo: "Noi la riforma la facciamo - dice - prenderemo in mano la procedura penale per ammodernarla".

E dev’essere l’energia dei suoi trentott’anni vissuti nel rimestio tragico della politica italiana del dopo Tangentopoli. Giovane promettente della De in Sicilia, dopo la tempesta di Mani pulite a venticinque anni era già deputato dell’Assemblea regionale, dentro Forza Italia, "dalla fondazione", racconta. Dieci anni dopo ne sarebbe divenuto il coordinatore. Adesso è il designato per affrontare il grande rimosso giudiziario del paese, con spirito bicamerale ma non troppo.

"Intendiamo dialogare, ma intendiamo dialogare e decidere alla fine. L’infinito chiacchiericcio non appartiene alla nostra cultura di governo, è l’esatto contrario della richiesta del paese. Se a cento giorni dall’avvio del suo mandato i sondaggi premiano Berlusconi è perché questo governo ha finora saputo interpretare il disperato bisogno di decisioni che il paese ha espresso con il voto alle politiche".

Ma i sondaggi non premiano soltanto il governo nel suo complesso. Lo stesso Alfano, a tre mesi dalla nomina a Via Arenula, è tra i ministri che riscuotono maggiore fiducia e apprezzamento. Un evento raro per un ministero come quello della Giustizia che, di solito, ha offuscato e sbalzato nelle polemiche quasi sempre (e quasi subito) il titolare di turno.

Non è così per Alfano, il Guardasigilli che gli antipatizzanti definivano una "mera protesi" di Berlusconi alla Giustizia oggi ha il merito riconosciuto d’aver posto di fronte all’opinione pubblica, con successo, garbo e fermezza, le questioni dirimenti del rimosso giudiziario. Anche l’Anni, pur negli ultimi, duri, attacchi rivolti al governo, ha sempre usato cautela e attenzione nei confronti del ministro che disse loro al Congresso nazionale: "Il mio programma è il vostro programma".

Perché nella dottrina Alfano "il dialogo viene prima di tutto ma poi devono seguire le scelte anche impopolari, purché utili e necessarie". Mercoledì scorso Giulio Tremonti, applauditissimo al Meeting di Rimini, ha detto che "fare delle scelte non significa tornare al fascismo, ma compiere un dovere istituzionale".

Il Guardasigilli è d’accordo, "ma una decisione senza dialogo assomiglia troppo a una unilaterale dichiarazione di guerra. Per questo noi chiediamo alla parte più ragionevole dell’opposizione di condividere con noi le scelte che riguardano l’assetto e il futuro del nostro paese. Del resto se si fece la Bicamerale, e se la Bicamerale arrivò a un determinato punto, il motivo fu proprio questo. Cioè la necessità che alcune regole di funzionamento nell’ambito del sistema giustizia si riscrivessero insieme".

La Bicamerale doveva essere il Tempio della trasformazione italiana, lì dentro il verme-crisalide doveva diventare farfalla e il serpente mutare la pelle. "Non fu così", ammette Alfano. Allora tutti si convinsero che sarebbero passati alla storia, ma fu una storia fatta di carte, bozze, contro bozze, aerei di carta, poesiole d’occasione, ghirigori, arabeschi, trappole insidiose, nervosismi e disfunzioni ormonali: "Questa volta non ci saranno perdite di tempo - dice - la riforma della Giustizia sarà la linea di demarcazione più attuale tra riformatori e riformisti, fra coloro i quali vogliono lasciare le cose così come sono e chi vuole cambiare.

Per come la vedo io, si ha tutto il diritto di essere conservatori, a condizione però - aggiunge - che i cittadini sappiano cosa si intende conservare: tempi del processo inaccettabili, un sistema delle carceri che non funziona, un complesso di distorsioni ingiustificabili che rende poco competitivo il nostro paese anche sulla scena internazionale".

La strada è piena di ostacoli. Il dialogo va cercato con l’opposizione, con il Partito democratico, ma anche con i magistrati che di separazione delle carriere, riforma del Csm e revisione del principio di obbligatorietà dell’azione penale proprio non vogliono sentir parlare. Il segretario dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Cascini, ha definito "modello fascista" l’idea di riequilibrare la composizione, tra laici e togati, all’interno del Consiglio superiore.

Mentre il presidente dell’Anm, Luca Palamara, ha spiegato che l’abolizione dell’obbligatorietà "sarebbe un incentivo a delinquere", tanto che, contro l’ipotesi di una riforma l’Anm resta in "vigile attesa", senza escludere il ricorso a uno sciopero. Non c’è il rischio che la riforma della Giustizia blocchi, in un pantano di veti e contestazioni, il processo riformatore del governo tout court?

"La Giustizia è il cardine del processo riformatore del governo e non si può fermare - spiega Alfano -. Ai giudici voglio dire che, in riferimento a ogni singola questione, intendiamo entrare nel merito e valutare con serietà la posizione di ciascuno. Infine, per quanto riguarda Palamara e Cascini, mi pregerò di regalare loro un bel libro di Alessandro Pizzorno (studioso che non si può certo definire fascista) dal titolo "Il potere dei giudici, stato democratico e controllo della virtù".

L’obbligatorietà dell’azione penale non è un dogma. E poi - aggiunge - la declinazione pratica di questo principio costituzionale ci ha consegnato nel tempo una cosa un po’ diversa rispetto a quella che era immaginata dai padri costituenti. L’obbligatorietà si è tradotta in una sostanziale discrezionalità. Se ne sono accorti in molti, a sinistra e nella magistratura, tant’è che numerosi uffici giudiziari nel tempo si sono organizzati per assicurare l’efficienza attraverso un sistema basato su priorità ben ordinate, che offrano un indirizzo preciso e una certa razionalità negli interventi".

Come la circolare di Marcello Maddalena, il procuratore di Torino amico di Giancarlo Caselli. "Il governo si è già incamminato su questa strada quando abbiamo approvato il pacchetto sicurezza. È il percorso che affronteremo fino in fondo, con il decreto sicurezza abbiamo agito per via legislativa affidando poi le modalità ai singoli uffici giudiziari, adesso è arrivato il momento di far sedimentare quelle scelte attraverso un intervento costituzionale".

Ma le toghe non criticano solo questo, sostengono il retro-pensiero che la riforma, nel suo complesso, abbia una volontà punitiva nei loro confronti. "Non vi è nessuna volontà di ritorsione, al centro della riforma non ci sono tanto i magistrati, quanto una serie di misure che nel loro insieme saranno orientate a rendere efficiente il sistema dei processi. Abbiamo anche trovato il sistema di ovviare ai tagli imposti dalla Finanziaria al comparto giustizia attraverso l’utilizzo dei fondi confiscati alla criminalità organizzata".

Eppure c’è chi, come Antonio Di Pietro, ma anche nel Partito democratico, sostiene che in fondo si tratti sempre e comunque di azioni dettate dalla necessità di preservare il presidente del Consiglio dai suoi, personali, problemi giudiziari. Walter Veltroni, il 20 agosto, ha presentato la festa del Partito democratico partendo con un affondo contro il governo e il suo capo: "I destini del paese - ha detto - sono confusi con i destini giudiziari di un solo uomo".

Un’idea diffusa, che tra gli osservatori ha avuto per corollario la convinzione che una volta approvato il lodo sulle immunità e messo al riparo il premier dagli attacchi delle procure, il processo riformatore tanto sbandierato dal governo, in realtà, non avrebbe avuto nessun seguito. "Si tratta di un ragionamento capzioso, nonché sbagliato - dice Alfano - Anzi è proprio il contrario. È grazie al Lodo che adesso, finalmente, riteniamo non possano più esserci fraintendimenti".

Perché fino a ieri, ogni volta che si è arrivati al dunque, regolarmente e affannosamente la politica se l’è data a gambe, intimidita inseguita e spernacchiata dai migliori, i sacerdoti della Verità e della Giustizia, le stelle fisse che brillavano nel cielo milanese di Mani pulite. E il dibattito sulla riforma della Giustizia è degradato inevitabilmente a un pro e contro Berlusconi, alla stucchevole contesa sull’imprenditore - imputato - deputato.

"Quella stagione è finita - dice Alfano - In virtù dell’immunità approvata dal Parlamento viene meno il principale dei pretesti utilizzati da chi intende conservare lo stato della giustizia. Non credo che nessuno più possa giocare in malafede con questo ritornello, la litania nasale di chi crede che ogni intervento sulla giustizia nasconda, in fondo, l’interesse occulto di Berlusconi".

L’eterno ritorno alla rivoluzione italiana del forcaiolismo dipietrista, a quella vicenda di energia popolare e di strumentalizzazione, di vitalità morale e di focoso moralismo, con il suo carico di emergenza, esagerazione, esagitazione. "La vera questione - continua Alfano -non è se la maggioranza si sia liberata dall’accusa di fare leggi per il premier, ma se il Pd riesce a tirarsi fuori dal bivio tra l’antiberlusconismo giustizialista e la via delle riforme. È il Partito democratico ad avere qualcosa da dimostrare, dovrà scegliere una volta per tutte se imboccare finalmente la strada del progresso, oppure no. Se non sarà capace - conclude - e nutrirà ancora di antiberlusconismo i suoi gruppi dirigenti, allora avrà abbandonato ogni prospettiva riformista e forse abiurato la sua vocazione. Insisto: c’è un’occasione storica per fare una riforma condivisa e non ce la lasceremo scappare".

Questo paese - spiega il ministro -"ha un urgente bisogno di riforme, specie nella giustizia. Il sistema carcerario dev’essere ristrutturato, ne va della dignità umana dei detenuti, della civiltà giuridica della nostra comunità. Davvero ci si può rifiutare di collaborare, su un tema così importante, che ha ricadute sulla pelle di altri esseri umani? Non credo". Che cosa farà il governo? "Cerchiamo un’altra via, tra quella dei giustizialisti e i teorici del farla franca".

L’indulto è fallito perché i detenuti "tornano a delinquere se non hanno un lavoro", spiega il ministro. Eppure Alfano l’indulto, da parlamentare, lo ha votato, "Ma è stato un fallimento. Un errore da non ripetere - dice - i detenuti sono usciti senza che vi fosse stata un’operazione di recupero" che evitasse loro di tornare a delinquere.

D’altra parte è questo il vero scopo sociale del carcere, secondo la dottrina del governo Berlusconi quarto: "In carcere ci si salva solo grazie a un incontro, a una buona compagnia - spiega il ministro - La funzione delle istituzioni deve essere questa: aiutare l’incontro. Indurre, costringere a tirare fuori il meglio di sé". Così l’idea di introdurre il braccialetto elettronico, "affinché i detenuti possano lavorare e tentare di recuperare un loro posto al mondo". Un progetto che in Francia ha funzionato, "come mi ha raccontato Rachida Dati", il ministro della Giustizia di Nicolas Sarkozy.

Giustizia: Di Pietro; la riforma del ministro Alfano? è piduista

 

Ansa, 2 settembre 2008

 

"Non ci vuole Mandrake per sapere cosa fare in materia di giustizia". È quanto sostiene il leader dell’Italia dei valori, Antonio Di Pietro, parlando con i giornalisti davanti a Montecitorio. "C’è da fare tutto tranne quello che vogliono fare", aggiunge. Per Di Pietro l’unico luogo dove si fa la riforma della giustizia "è il Parlamento" e poi aggiunge: "c’è solo una riforma da fare, ossia più soldi per la sicurezza, per la polizia e le forze dell’ordine e una serie di provvedimenti ordinari per avere più personale".

Inoltre "bisogna che si accorcino i tempi per fare giustizia e si riducano i gradi di giudizio". È opportuno che "si eliminino le farraginosità nel sistema delle notificazioni e impugnazioni". Riguardo alla proposta Alfano dice: "è una riforma della giustizia di marca piduista". Secondo Di Pietro, "qui si vuole mettere bavaglio alla libera informazione e la museruola ai magistrati". E sull’apertura del Pd al dialogo con la maggioranza, Di Pietro chiarisce: "è per questo motivo che ci chiamiamo Italia dei valori perché noi Berlusconi lo conosciamo per la sua storia personale, politica giudiziaria e imprenditoriale. Quando parla di giustizia, sappiamo che parla della sua".

Giustizia: Sappe; tavolo di confronto sulla sanità penitenziaria

 

Comunicato stampa, 2 settembre 2008

 

Il Sappe è più volte intervenuta in merito al Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 1 aprile 2008, con cui si dà attuazione al trasferimento del Sistema Sanitario Penitenziario al Servizio Sanitario Nazionale.

La tematica coinvolge sensibilmente il settore della sicurezza e il Corpo di Polizia Penitenziaria, atteso che l’attività dei medici negli istituti incide inevitabilmente sulle capacità di intervento operativo del personale, spesso impiegato in traduzioni e piantonamenti presso strutture esterne, pur in presenza di sintomatologie lievi.

Per tale ragione, una volta previsto il trasferimento, il Sappe ha insistito per un confronto sull’argomento, al fine di concertare le misure da realizzare nella fase di concreta attuazione del riordino: a tal riguardo, riveste una fondamentale importanza per la tutela delle specifiche funzioni di sicurezza la regolamentazione dei rapporti di collaborazione tra l’ordinamento sanitario e la sicurezza, secondo le procedure di cui all’art 7 del Dpcm in esame.

Tuttavia, fino ad oggi, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non ha fornito alcun riscontro in merito, sebbene risultano emanate disposizioni di carattere generale. Ciò posto, si ribadisce l’esigenza di attivare, almeno nella fase del trasferimento delle funzioni, un confronto con le organizzazioni di categoria e con le OO.SS. del comparto sicurezza, per individuare misure condivise nell’ambito delle procedure di attuazione del riordino della medicina penitenziaria, specificamente per tutto ciò che può riflettersi sulla sicurezza degli istituti penitenziari.

Lecce: Uil; su situazione carcere ingiustificato silenzio del Dap

 

Il Velino, 2 settembre 2008

 

"L’ennesima rissa scoppiata tra opposte fazioni di detenuti nel carcere salentino non fa che confermare i nostri allarmi e le nostre richieste di verifica sulla gestione dell’istituto". Così Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Pa Penitenziari, commenta quanto accaduto sabato nel carcere di Lecce. Una rissa, scoppiata tra opposte fazioni di detenuti leccesi e partenopei, ha coinvolto alcune decine di detenuti. Per un detenuto, causa le ferite riportate, è stato necessario anche il ricovero in ospedale.

Sarno sottolinea che per tempo era stato "segnalato l’estrema delicatezza della situazione di Lecce. Nonostante decine di aggressioni, molteplici risse, una ventina di agenti feriti nell’ultimo trimestre il Dap si caratterizza per un ingiustificato, ingiustificabile, immobilismo. Tantomeno sono ancora pervenuti dal dipartimento chiarimenti in ordine alla determinazione di sottrarre una naturale competenza di verifica del provveditore regionale per avocare un’inchiesta interna, che, evidentemente, somiglia sempre più a una vera insabbiatura". La Uil Pa Penitenziari attraverso il suo segretario generale invita e sollecita il ministro Alfano a far luce su quanto accede a Lecce e accertare le relative responsabilità.

"Il ministro della Giustizia Alfano - aggiunge Sarno - aveva già avuto modo di comunicarci direttamente la sua intenzione a verificare quanto stesse accadendo a Lecce. Voglio sperare che l’intervenuto periodo feriale non abbia inciso diversamente sui suoi propositi e che intenda concretamente approfondire e verificare quanto accade a Lecce".

Sarno ritiene "che vi siano tutte le condizioni perché si avvii una incisiva inchiesta amministrativa tendente a verificare l’idoneità della gestione amministrativa, la cause e le responsabilità che hanno originato troppi episodi di violenza (con il ferimento di diverse decine di unità di polizia penitenziaria), la situazione complessiva dell’istituto anche in relazione alla gestione delle risorse umane, lo stato effettivo delle relazioni (con i relativi conflitti di attribuzione) tra il dirigente e il comandante del reparto. Dovessimo - prosegue il segretario generale - registrare ancora silenzio e immobilismo da parte della autorità dipartimentali non ci resterebbe che la via della mobilitazione a oltranza".

Secondo la Uil la Casa Circondariale di Lecce è uno degli istituti maggiormente sovraffollati del panorama nazionale. "Quando in una struttura capace di contenere al massimo poco più di 500 detenuti ve ne sono stipati oltre mille è facile immaginare quali e quante tensioni si possano generare. Le gravi e documentate deficienze delle risorse idriche e la mancanza di condizionatori coniugate agli spazi esigui fomentano tensioni e violenze. Se queste difficoltà non vengono idoneamente seguite e monitorate è consequenziale che accada ciò che sta accadendo. Ad aggravare il quadro complessivo le condizioni di assoluta insicurezza in cui operano gli operatori di polizia penitenziaria. Di fatto abbandonati, basti immaginare - conclude il segretario generale della Uil Pa Penitenziari - che circa l’80 per cento dei poliziotti ha dichiarato recentemente di non aver mai visto né conosciuto il dirigente-direttore dell’istituto".

Asti: carcere è strapieno, non c’è posto per il nuovo arrestato

 

La Stampa, 2 settembre 2008

 

Lo hanno arrestato gli agenti della polstrada: lui, un ragazzo albanese di 23 anni, clandestino, era in corso Torino alla guida di una Citroen. Un controllo come tanti e si è scoperto che non aveva il permesso di soggiorno. Mai rilasciato dalla questura, come del resto la patente italiana, che infatti non aveva.

Come prevede la legge, il giovane è stato arrestato per violazione della "Bossi-Fini" sull’immigrazione e denunciato per la mancanza della licenza per condurre auto. Ma, dopo le formalità burocratiche, ci si è posti il problema di dove portare quel ragazzo in carcere in attesa del processo per direttissima. L’ispettore Marco Colmo, della Stradale, come di prassi ha telefonato alla Casa Circondariale di Quarto per annunciare l’arrivo del nuovo ospite.

Ma il sottufficiale di turno della polizia penitenziaria ha pregato il collega: "No, chiedete per favore alla procura di portarlo da qualche altra parte. Qui scoppiamo, non ci sono davvero più posti. Non sapremmo proprio dove metterlo". Un rapido consulto con il magistrato di turno e si è scelta come destinazione Alba, dove i problemi di sovraffollamento sono meno gravi. Ma la vicenda fa tornare alla ribalta il vero e proprio dramma che si consuma ogni giorni per agenti e detenuti nel carcere di Quarto: 340 reclusi, di cui 120 "alta sicurezza", con poco più di 100 poliziotti a sorvegliarli.

La Spezia: impresa ristruttura il carcere con materiale rubato

 

Secolo XIX, 2 settembre 2008

 

Per ristrutturare il carcere di villa Andreino utilizzava del materiale edile rubato. È con questa accusa che i carabinieri della stazione di Mazzetta hanno denunciato alla magistratura un imprenditore edile di 57 anni residente in vai di Magra.

L’indagine ha preso le mosse da un furto messo a segno un paio di settimane fa in un terreno adiacente al carcere dove un imprenditore edile aveva accatastato del materiale. Il terreno era sotto esproprio e a doverlo liberare per prepararlo al successivo intervento doveva essere proprio l’uomo ora denunciato per ricettazione.

Intorno alla metà di agosto il materiale che era sul terreno è sparito e il proprietario quando se n’è accorto ha presentato denuncia di furto e ha segnalato anche dei tubi di plastica del tipo di quelli utilizzati per scaricare sui camion i residui della demolizione di pareti e pavimenti che sembravano proprio i suoi e utilizzati per effettuare dei lavori nel vicino carcere circondariale.

I carabinieri della stazione di Mazzetta hanno effettuato alcune indagini e sono riusciti a recuperare parte del materiale rubato e tra questo un rotolo di rete, alcuni tubi e altri oggetti. Assieme all’imprenditore che è stato denunciato per ricettazione è finito nei guai anche un suo dipendente, un ventiseienne residente a Sarzana, che, per ristrutturare la casa di alcuni congiunti, ha utilizzato anche lui del materiale proveniente dalla catasta lasciata nel terreno nelle adiacenze di via Valdilocchi. Per il giovane geometra una denuncia per appropriazione e indebita. Sia lui che il suo datore di lavoro dovranno spiegare come sono entrati in possesso di quel materiale e quindi in fase di processo le imputazioni potrebbero anche cambiare.

Ravenna: il sindaco prova a mettere ordine, anche in carcere

 

Corriere Adriatico, 2 settembre 2008

 

Adeguamento e manutenzione dei servizi igienici, lavori alle docce e installazione, nelle celle, di lavelli per il lavaggio delle stoviglie. È quanto prevede l’ordinanza firmata ieri mattina dal sindaco Matteucci per cercare di migliorare le condizioni di vita dei detenuti e del personale di polizia penitenziaria all’interno del carcere di via Port’Aurea.

Si tratta di un’iniziativa annunciata dallo stesso Matteucci dopo che, insieme al senatore Mercatali, aveva avuto modo di constatare di persona le condizioni della casa circondariale ravennate, dove attualmente sono detenute circa 140 persone, a fronte di una capienza di 49.

"Le condizioni di vita all’interno del carcere - ribadisce il primo cittadino - sono indegne di un Paese come l’Italia. Non posso accettare una situazione del genere, perché il carcere è un luogo di detenzione, ma non di tortura. E quando le condizioni disumane superano un certo limite, si rasenta la tortura.

Le celle all’interno della struttura di via Port’Aurea - continua Matteucci - sarebbero inadeguate anche per una persona, ma spesso sono almeno tre i detenuti all’interno di una sola cella. Tra l’altro si tratta di detenuti in carcere per motivi molto diversi tra loro". Lo Stato, secondo il sindaco, deve dimostrare "fermezza e severità contro i malviventi", senza però sfociare "nella ferocia. In questo caso, si tratta di una colpa gratuita da parte delle istituzioni".

Attesa per il nuovo carcere. Nel testo dell’ordinanza, notificata anche al ministro di Giustizia Angelino Alfano, è presenti; anche un velato richiamo alla richiesta da parte del sindaco di creare i presupposti per la realizzazione di una nuova struttura. Dopo averla formalizzata in una lettera inviata ;:l ministro, il sindaco attende "fiducioso" novità in questo senso. "Al momenti) - conferma - non abbiamo ricevuto alcun riscontro. Colgo quindi l’occasione per sollecitare risposte scritte da par te del ministro. Prossimamente mi incontrerò comunque con il capo di gabinetto del ministro La Russa, Roberto Petri, per affrontare il tema".

L’ordinanza. Per quanto riguarda l’ordinanza firmata ieri mattina da Matteucci, si suddivide in due parti: nella prima il sindaco ordina "tutto quello che posso ordinare -assicura - in termini di criticità strutturali e igienico-sanitarie. Nella seconda parte - continua il primo cittadino - siamo costretti solo a proporre alcuni interventi di carattere infrastrutturale, sperando di poter essere da stimolo".

Entrando nel dettaglio, per superare alcune criticità strutturali il documento prevede che vengano eseguiti "lavori per l’adeguamento dei servizi igienici annessi alle celle (entro aprile 2009)", oltre a "lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria all’impianto idrico di alimentazione e di scarico dei gruppi docce" e, sempre leggendo testualmente l’ordinanza, "interventi di manutenzione ai servizi igienici posti al primo piano ad uso del personale addetto alla custodia".

Le criticità igienico-sanitarie dovranno invece essere risolte con l’installazione, nelle celle, di "idonei lavelli per il lavaggio delle stoviglie individuali", l’eliminazione di "materiale non pertinente depositato nello spogliatoio del personale addetto alla cucina" e una "adeguata manutenzione del servizio igienico a disposizione del personale di cucina".

Ma l’ordinanza non si limita solo a indicare gli interventi da eseguire, ma anche i tempi: "I lavori di ordinaria manutenzione - si legge nel testo - devono essere eseguiti entro 60 giorni". In questi due mesi di tempo, assicura inoltre il sindaco "verrà nominato un funzionario del Comune che verifichi il rispetto dell’ordinanza. Non si tratta - conclude Matteucci - di un’ordinanza "spot", ma di un’iniziativa che dovrà avere effetti concreti".

"Si tratta comunque di un rapporto di collaborazione con il carcere - assicura poi l’assessore alla Sanità del Comune, Pericle Stoppa -, la cui direttrice dimostra comunque buona volontà". L’assessore, infine, sottolinea l’impegno, anche da parte dell’Amministrazione, nel cercare di educare alla legalità all’interno del carcere.

"Abbiamo redatto un protocollo con le associazioni di volontariato che operano nella struttura - spiega Stoppa - oltre ad un tavolo di coordinamento per ottimizzare l’attività. L’impegno è quello di mettere in atto progetti concreti per i detenuti che possano accompagnarli anche fuori dalla casa circondariale, al momento del loro reinserimento".

Una palestra entro il 2010? L’ultima parte dell’ordinanza riguarda una serie di interventi che l’Amministrazione propone, non potendo fare altrimenti, per il miglioramento delle condizioni del carcere. Le proposte, si legge nell’ordinanza, sono quelle di "abbattimento delle barriere architettoniche" e realizzazione di "palestra, lavanderia e refettorio". Il tutto entro il 2010.

Milano: Ramadan per i detenuti; mini-moschee e celle aperte

di Oriana Liso

 

La Repubblica, 2 settembre 2008

 

Ci sono musulmani che non hanno i tanti problemi della comunità di viale Jenner per trovare un posto dove pregare nel mese del Ramadan senza incorrere in proteste di residenti e politici. Sono i tanti fedeli islamici detenuti nelle carceri milanesi: da ieri anche per loro è iniziato il mese del digiuno e della preghiera, con ritmi simili a chi è fuori dal carcere.

Perché negli istituti di San Vittore, Bollate e Opera si fa attenzione al rispetto del culto musulmano, data l’alta presenza di cittadini arabi e nordafricani. Hanno moschee - locali arredati con tappeti rivolti verso la Mecca, spesso con le pareti decorate da frasi del Corano e testi sacri a disposizione - normalmente frequentate per la preghiera del venerdì, momenti riservati al rito religioso, menù specifici serviti dopo il tramonto, come prescrive la loro religione nel mese sacro.

A San Vittore, in questi giorni, saranno 300 gli uomini detenuti a seguire la preghiera del Ramadan, più otto donne e altre cinque persone ricoverate nel centro clinico. Si divideranno tra i quattro locali adibiti a moschea (concentrati tra il quinto e il sesto raggio). Qui, come nelle altre carceri, un detenuto a turno rivestirà il ruolo di imam, leggendo il Corano e conducendo le riflessioni.

Le cucine centrali di Piazza Filangieri hanno avuto disposizioni per servire dopo il tramonto un unico pasto che comprende pranzo e cena, più un bicchiere di latte caldo a sera. Quattro moschee, una per reparto, e circa 200 islamici praticanti anche nel carcere di Bollate, dove i detenuti possono liberamente circolare per l’istituto, visto che le celle sono aperte, fino alle 23 circa.

Su una popolazione carceraria di 1.200 persone, saranno oltre cento i detenuti di religione musulmana che in questo mese pregheranno quotidianamente nelle due piccole moschee del carcere di Opera: una è per i detenuti comuni, l’altra - frequentata da una ventina di persone - per chi è sottoposto al regime di alta sicurezza. Di fatto, come spiegano dalla direzione, la maggior parte dei musulmani preferisce pregare in cella tutto il giorno, andando in moschea solo per determinati momenti di incontro.

In tutte e tre le strutture, poi, viene garantito un altro dei capisaldi che derivano dal digiuno di Ramadan: la possibilità di non lavorare per tutto settembre, né all’interno né all’esterno del carcere. Una deroga che viene concessa dalle amministrazioni carcerarie a chi gode di regimi di semilibertà per motivi lavorativi, appunto.

Chi è fuori dal carcere, invece, da ieri ha trovato un’altra delle soluzioni-ponte che in questi mesi si stanno alternando per la comunità di viale Jenner. Dopo un unico incontro nella sede storica, domenica sera (perché per tradizione si prega già la vigilia di Ramadan), da ieri i musulmani sono al teatro Ciak-Fabbrica del Vapore in via Procaccini. Attese circa 400 persone, che potranno pregare nella tensostruttura dalle 21 alle 24, ogni giorno: mezz’ora prima si incontreranno nella sede di viale Jenner per poi raggiungere il teatro. L’affitto chiesto, ha spiegato il direttore del centro islamico Abdel Hamid Shaari, "è soddisfacente per entrambe le parti: per questa soluzione ringraziamo il teatro, il Comune e il prefetto".

Genova: quella focaccia "alla ligure" sfornata dietro le sbarre

 

Il Giornale, 2 settembre 2008

 

Questa volta il detto "pane e acqua", leggendaria dieta affibbiata ai galeotti, pende a favore del primo. Al carcere di Marassi, infatti, da un anno è attivo un panificio che occupa 8 detenuti. Ne parla Pietro Civello, presidente della Cooperativa "Tara" che si occupa di avviamento al lavoro e assistenza alle persone disagiate.

"L’iniziativa - racconta - è stata avviata d’intesa con il direttore della casa di pena, Salvatore Mazzeo. Abbiamo pensato ad un panificio perché è un lavoro che occupa tutti i giorni e dà prospettive sicure di occupazione per chi sta scontando una pena in carcere e non sempre trova un posto di lavoro quando esce". Così Civello, con l’assistenza della direzione carceraria e dei soci della cooperativa, "uno è un panificatore", apre "Italforno" un pastificio dietro le sbarre che all’esterno ha subito incontrato il gradimento di rivendite e catene di distribuzione.

Ogni giorno dai forni di Marassi vengono sfornati 200 chilogrammi di pagnotte e altrettanti di pizza e focaccia ligure, tutti prodotti con farine e olio extravergine di prima qualità. I prezzi sono quelli di mercato all’ingrosso: il pane va alla grande distribuzione attorno a 1,65 euro. Riferisce, anche ai microfoni di Franca Brignola su Telegonova Civello: "I detenuti sono molto contenti di questo impiego. Percepiscono uno stipendio attorno ai mille euro e, cosa più importante, una volta scontata la pena e rimessi in libertà, hanno molte possibilità di trovare un lavoro stabile.

Del resto - aggiunge il responsabile della coop Tara - secondo i dati del ministero il 75 per cento degli ex detenuti che trovano lavoro a fine pena non tornano a delinquere". Tra gli 8 nuovi panificatori ce n’è uno che tornerà libero tra 4 mesi e ha già un contratto per andare a lavorare in un forno cittadino. "Segno che il lavoro onesto paga sempre" sentenzia Civello che ha già in mente un nuovo progetto quello di aprire "sempre con l’autorizzazione della direzione carceraria", una torrefazione. "Perché anche il caffè - spiega Civello - ha un gran mercato e per i detenuti che stanno cercando un lavoro diventare esperto in tostatura potrebbe essere una seconda chance da prendere al volo".

Cagliari: Caligaris; detenuto in sciopero di fame da 42 giorni

 

Agi, 2 settembre 2008

 

In 42 giorni di sciopero della fame ha perso tredici chili. Un detenuto nel carcere cagliaritano di Buoncammino, alto 1,85 è arrivato a pesare 51 chili, non si regge più sulle gambe e manifesta "un grave stato confusionale" che ne rende indispensabile il ricovero urgente in ospedale. Lo sollecita il consigliere regionale socialista Maria Grazia Caligaris, che denuncia le condizioni in cui vive il giovane, un detenuto di 31 anni in attesa di giudizio in carcere da un anno e quattro mesi. Dopo averlo incontrato nel penitenziario, Caligaris l’ha invitato invano a sospendere la protesta.

"Il rifiuto del cibo, che il giovane considera ormai come un veleno cui sottrarsi, ha indotto uno stato anoressico", spiega il consigliere regionale, componente della commissione "Diritti civili" dell’assemblea sarda. "Il detenuto, assistito dal suo compagno di cella, ha rifiutato il ricovero nel centro clinico di Buoncammino. Finora sono stati vani i tentati di farlo recedere dal proposito autolesionista, compresi quelli dei suoi legali, gli avvocati Luigi Concas e Paolo Pilia".

"Il giovane respinge le accuse che gli vengono contestate", prosegue Caligaris, sostenendo che per salvarlo e capire le cause psicologiche del suo gesto sia necessario il ricovero in ospedale. "L’atteggiamento, però, danneggia gravemente le sue condizioni mentali, provocandogli stati di psicosi maniaco-depressiva e somatizzazioni. In casi così gravi", conclude Caligaris, "è opportuno che i giudici individuino soluzioni alternative al carcere in attesa che il processo accerti le reali responsabilità del detenuto".

Verona: il francescano dei detenuti alla "Giornata della carità"

 

L’Arena di Verona, 2 settembre 2008

 

Il francescano frà Beppe Prioli 55 anni fa scelse di essere cappellano dei reclusi; oggi insegna che "la trasgressione si può prevenire, con più coscienza nei comportamenti quotidiani, educando alla legalità partendo dalle generazioni più giovani, crescendo in equità di giudizi, con atteggiamenti più obiettivi e razionali".

Di questo, e di come si possa rispondere alla domanda "chi sbaglia merita amore?" parlerà fra Beppe Prioli venerdì 5 settembre alle 20.30 nella chiesa di Santa Maria dei Domenicani. È al frate dei detenuti che la fondazione Ettore Ruffo Onlus (organizzazione non lucrativa di utilità sociale) ha chiesto di animare la Giornata della carità.

Fra Beppe, nato a Bonaldo di Zimella, ha scelto di dedicare la sua vita ai giovani detenuti quando aveva vent’anni: lo colpì la notizia di un coetaneo condannato all’ergastolo. Dopo aver iniziato la sua pastorale nei penitenziari, quarant’anni fa accolse l’invito dei detenuti di Porto Azzurro e fondò il gruppo La Fraternità: da allora fra Beppe è diventato una presenza amica nelle carceri, dove ascolta i detenuti, cerca di portare luce nelle anime di chi vive dietro le sbarre e restituisce speranza e sostegno ai prigionieri e alle loro famiglie, grazie anche a un piccolo, ma agguerrito esercito di volontari che collaborano alla sua missione.

Ad accogliere il cappellano saranno il sindaco Lino Gambaretto, il parroco don Claudio Tezza e il presidente della Fondazione Ettore Ruffo Onlus Giovanni Salvagno, che sarà anche moderatore della serata. La fondazione, prossima al decennale di vita, è stata costituita con l’obiettivo di ricordare la figura di Ettore Ruffo, uomo del vino amato e stimato per la sua riconosciuta generosità, nato nel 1901 e scomparso giusto trent’anni fa.

Chi lo ha conosciuto, e soprattutto la sua famiglia, ha creduto che il modo migliore per onorarne la memoria fosse quello di proseguire il suo impegno: nacque così la fondazione che anno dopo anno si fa promotrice di iniziative di sostegno concreto a chi ha più bisogno e di occasioni di riflessione sul concetto morale di solidarietà: ecco spiegata la scelta di affrontare l’argomento, ogni anno con un testimone diverso, proprio alla vigilia della giornata che la Chiesa dedica alla carità.

Immigrazione: Veltroni scrive a Fini; diritto voto agli stranieri

 

www.partitodemocratico.it, 2 settembre 2008

 

Il segretario del Partito Democratico Walter Veltroni ha inviato al presidente della Camera Gianfranco Fini una lettera sul tema del voto agli immigrati.

Signor Presidente, le scrivo per sottoporle una questione di estrema rilevanza, perché strettamente legata ad uno dei più grandi e complessi temi del nostro tempo: quello dell’immigrazione, delle conseguenze che i fenomeni migratori hanno in tutti i paesi europei e nelle nostre società, di come la presenza sempre più forte e sempre più stabile in Italia di cittadini stranieri cambia la nostra vita e la qualità della nostra convivenza.

La questione, sulla quale lei stesso qualche tempo fa dimostrò sensibilità e apertura, è quella del diritto di voto nelle elezioni amministrative e nelle altre elezioni locali a tutti coloro che sono residenti in Italia da un certo numero di anni, anche se non in possesso della cittadinanza italiana. A questo proposito, insieme a chi da sempre è impegnata in prima fila su questi temi, l’on. Livia Turco, nei prossimi giorni sarò primo firmatario di una proposta di legge costituzionale.

Le chiedo fin d’ora, con questa mia lettera, di adoperarsi per consentire la sua più ampia discussione da parte della Camera dei deputati e di accelerarne quanto più possibile l’iter. Non è più tempo, quando si tratta del tema immigrazione, di discussioni astratte, di pregiudizi dettati da ideologie o da semplificazioni prodotte da un’attenzione, anche mediatica, che invece di rappresentare la realtà la distorce e la esaspera. Troppo frequenti e preoccupanti sono gli episodi che segnalano il diffondersi di un virus pericoloso, nocivo socialmente, fatto di intolleranza, di pulsioni xenofobe, di chiusura, di ostilità, fino alla tentazione aberrante del farsi giustizia da sé.

La politica, l’intera nostra classe politica, ha una grande responsabilità, e deve fare estrema attenzione, respingendo il rischio dell’egoismo sociale e rispondendo a domande non più rinviabili: come garantire, insieme, accoglienza e legalità, integrazione sociale e sicurezza; come costruire comunità inclusive, dove ogni individuo che qui è nato o che qui vive e lavora da anni sia un soggetto riconosciuto in quanto possiede dei diritti e dei doveri; come evitare che nelle nostre città si creino, nel segno della paura, dei luoghi separati e non accessibili.

Noi italiani, che siamo stati un popolo di emigranti, dovremmo sapere meglio di altri cosa significa lasciare la propria terra, abbandonare la propria casa e affrontare un viaggio che troppo spesso significa la vita, in cerca di speranza e di un futuro migliore per sé e per i propri figli; dovremmo riconoscere l’intima verità contenuta in quel "volevamo braccia, sono arrivati uomini" del grande scrittore Max Frisch; dovremmo sentire in modo particolarmente intenso, noi italiani, i richiami più alti che proprio in questi giorni sono stati fatti in nome dell’accoglienza e dell’integrazione.

Il diritto di voto agli immigrati nelle elezioni amministrative e quello ad essere eletti nelle istituzioni locali sono per noi un passo lungo questa strada. Al rigore con cui contrastare l’immigrazione clandestina e perseguire chi compie reati che privano i cittadini del loro fondamentale diritto alla sicurezza e alla serenità, si deve accompagnare, sempre, la ricerca e la promozione dell’integrazione.

Legalità e integrazione sono i due grandi pilastri su cui possono poggiare le possibilità reali di una civile convivenza. È ad un vero e proprio patto reciproco tra italiani e immigrati, che si deve giungere. Un patto basato sul riconoscimento e sul rispetto di diritti e doveri.

Chi da tempo risiede in una delle città o dei tanti piccoli comuni italiani e con il suo lavoro contribuisce alla vita della comunità di cui fa parte, chi ha i propri figli che studiano qui e che saranno gli artigiani, gli operai, i commercianti e i dirigenti di domani, come ha il dovere di pagare le tasse e di rispettare sempre e comunque la legge, deve aver riconosciuto tra gli altri diritti quello di contribuire a scegliere gli amministratori che prenderanno le decisioni anche per lui e per la sua famiglia.

Il diritto di voto, la partecipazione, sono questo: un vincolo, una ulteriore assunzione di responsabilità verso la comunità in cui si vive, e insieme uno strumento di integrazione e di condivisione di un comune patrimonio di valori civili, un modo per sconfiggere ogni odiosa forma di discriminazione e per promuovere, al contrario, una più ampia e salda coesione sociale, una democrazia inclusiva.

È questo il significato, questo il senso, della proposta di legge costituzionale del Partito Democratico, con l’auspicio che attorno ad essa si possa svolgere un confronto concreto, aperto e approfondito, come è doveroso accada quando ad essere in gioco sono il bene del Paese e il futuro di tutti gli italiani.

Immigrazione: voto stranieri; reazioni a proposta di Veltroni

 

Asca, 2 settembre 2008

 

Contro la proposta di Veltroni subito parte dalla Pdl il fuoco di sbarramento. "Veltroni -osserva Cicchitto - rilancia un vecchio disegno da sempre coltivato dalla sinistra come ultima conseguenza della sua politica delle frontiere a maglie larghe, quello di cercare di modificare il corpo elettorale del Paese in suo favore, dando il voto agli immigrati, anche dopo un tempo breve di permanenza e senza cittadinanza. Ciò risponde ad una logica strumentale dell’immigrazione che noi respingiamo perché l’interesse primario della società deve essere quello di una reale integrazione dei lavoratori stranieri. Questa, anche sulla base alla nostra Costituzione è l’unica via praticabile".

Parole che fanno il paio con le considerazioni di Gasparri. "La solidarietà agli immigrati in Italia - ricorda il capogruppo del Pdl al Senato - è forte. Per quanto riguarda il diritto di voto è ovvio che non ci sono in Parlamento numeri e condizioni per un cambiamento della Costituzione, al quale sono peraltro sempre stato contrario ogni qual volta il tema è stato affrontato. Votano i cittadini italiani sia alle politiche che alle amministrative. La Costituzione - ricorda infine Gasparri - è chiara e non va modificata. Chi resta più di dieci anni in Italia può fare domanda e se diventa cittadino ha pienezza di diritti. La solidarietà non ha nulla a che vedere con il voto".

"Aspetto quello che dice Fini...", dichiara ironica la capogruppo del Pd a Palazzo Madama Anna Finocchiaro commentando il semaforo rosso di Gasparri e ricordando che in passato, proprio l’attuale presidente della Camera, si era espresso a favore del riconoscimento di questo diritto, provocando non poche polemiche sia all’interno di An che tra i partiti dell’allora Casa della Liberta". "Osservo solo che - aggiunge - tutte le volte che c’è da discutere un provvedimento che aiuta l’integrazione, da destra arrivano strepiti e urla".

"La nostra posizione - interviene Roberto Cota - è chiara. Il diritto di voto a qualunque livello deve essere collegato alla cittadinanza. Sarebbe molto pericoloso su un tema così delicato aprire dei varchi perché si sa da dove si parte ma non dove si arriva. Per quanto riguarda la maggioranza il tema non si pone perché non è previsto dal programma elettorale. In un momento come questo fa specie sentir parlare di diritto di voto agli immigrati non cittadini quando ci sono riforme urgenti come il federalismo fiscale, il problema del contrasto all’immigrazione clandestina e ancora - conclude il capogruppo della Lega Nord - come ridare potere d’acquisto ai salari dei nostri cittadini".

L’ex ministro della Giustizia Roberto Castelli rafforza la bocciatura: "Quella del voto agli immigrati era una delle promesse elettorali del Pd. Una proposta sonoramente bocciata dagli italiani con il loro voto. Veltroni aspetti di vincere le elezioni per riproporla. Ma se proprio vuole fare il maitre a penser delle cause perse provi a parlarne con Obama".

Più disponibile, invece, è la posizione del ministro e segretario della Dc per le Autonomie, Gianfranco Rotondi. "Solo una politica responsabile, che non fa polemiche speciose, può trovare dei punti di confronto seri e non strumentali su temi delicati come quello del voto agli immigrati. Temi che non abbisognano di urla e di estremismi, ma di dialogo sereno tra le forze politiche per approdare - conclude Rotondi - a una mediazione possibile".

"Veltroni - afferma il segretario del Prc, Paolo Ferrero - ha ragione nel sollecitare con forza alle Camere e in particolare al presidente della Camera dei Deputati Gianfranco Fini, che sul punto si era espresso in modo abbastanza chiaro diversi anni fa, l’adozione del provvedimento. Sono totalmente d’accordo", poiché il riconoscimento del diritto di voto agli immigrati "sarebbe il primo gesto e atto civile di una legislatura e di un governo che, per tanti versi, ha mosso i suoi primi passi, in questi mesi, in modo incivile".

Livia Turco, già ministro della Solidarietà Sociale nei governi di centro sinistra e autrice insieme al ministro dell’Interno dell’epoca Giorgio Napolitano della Pdl sull’immigrazione, spiega in conclusione le finalità dell’annunciata proposta di legge. "Il diritto di voto significa chiedere agli immigrati di diventare protagonisti nella vita politica del nostro Paese e agli italiani di rispettare gli immigrati", dice Turco, spiegando il testo del Pd modifica l’articolo 48 della Costituzione.

Delle nuove norme potrebbero usufruire gli "immigrati residenti regolarmente in Italia da almeno 5 anni, che rispettano la legge, pagano le tasse... Mi aspetto - prosegue Turco - un’attenzione particolare da parte di Fini proprio per quelle sue riflessioni, di quando propose il diritto di voto agli immigrati, che non mi parvero delle cose campate in aria, ma piuttosto delle riflessioni molto ponderate".

"Mi auguro che non ci sia un precipitare nel fare delle affermazioni affrettate, già secondo copione. Ma che invece questa proposta venga valutata concretamente, che ci sia un dibattito, che abbia come punto di riferimento il nostro Paese in cui si sta affermando anche una seconda generazione di immigrati e si capisca che il diritto di voto - conclude Turco - è una misura di cittadinanza ma anche di sicurezza".

Droghe: il risultato del "test" agli automobilisti è una "bufala"

 

Ristretti Orizzonti, 2 settembre 2008

 

I dati relativi ai "test" anti-droga e anti-alcool effettuati su alcune centinaia di automobilisti di Verona e Milano - diffusi in questi giorni - sono stati comunicati ai media in maniera scorretta, in quanto non si è sottolineato che gli automobilisti risultati "positivi" in realtà sono una minima parte di quelli fermati (a loro volta minima parte di tutti quelli transitanti).

Dunque: gli agenti fermano alcuni (forse il 10%?) dei veicoli che passano (forse in base a qualche sospetto, per un comportamento anomalo nella guida?).

Tra le persone fermate alcune (il 13%, a Verona) destano ulteriori dubbi e per loro è disposto il "test": circa la metà risulta "positivo" (quindi ha assunto alcool oltre il limite consentito, o droghe).

Rispetto al totale degli automobilisti transitati, la percentuale dei "positivi", alla fine è inferiore all’1%... non è certamente del 30, 40 o 50%, come hanno titolato diversi giornali. Fa eccezione questo articoletto del Corriere della Sera, che "almeno" stima nel 6% circa il numero dei "trasgressori".

 

Uno su due o uno su dieci? (Corriere della Sera)

 

Ma vuoi che laggiù, in coda al semaforo, un automobilista su due sia fatto di coca o sbronzo? Davvero viviamo in un mondo così? È quello che avranno pensato tutti leggendo i giornali o guardando i tiggì. La risposta è no, non viviamo (ancora) in un mondo così. Mille di queste nottate al servizio della sicurezza sulle strade, ma poi bisognerebbe preoccuparsi anche di far arrivare alla gente messaggi corretti e non allarmistici.

Spieghiamo: 576 fermati, 80 controllati. Scelti come? Questo non è chiaro, possiamo immaginare sulla base del "sospetto", ovvero della scrematura visiva: quello con l’orecchino che barcolla piuttosto della donna incinta, tanto per fare un esempio. E siccome hanno ritirato 37 patenti su 576 veicoli fermati (e non su 80, quelli sono i "predestinati" ai controlli), siccome è obbligatorio ritirarle a ubriachi e drogati, in coda al semaforo la stragrande maggioranza è probabilmente sana e idonea alla guida. Per fortuna.

 

I primi dati dei "test" stradali: il 45% fuori regola (Notiziario Aduc)

 

Il 45% delle 31 persone controllate fino alle 2.00 nel centro del Dipartimento delle Dipendenze di Verona e in quello mobile di Peschiera del Garda è risultato positivo ai controlli anti alcol e droga estesi per la prima volta a livello nazionale dopo un anno di sperimentazione nel Veronese. Il 70% aveva assunto alcol prima di mettersi alla guida, un 30% droga o droga e alcol insieme.

Le sostanze stupefacenti più rappresentate sono risultate cocaina e derivati della cannabis. I primi risultati dei controlli sono in linea con il trend riscontrato l’anno precedente nel Veronese, quando un 47,5% delle persone fermate risultò positivo. Nel centro di Verona, il caso più eclatante nel corso della notte è stato quello di un automobilista fermato con 3,15 microgrammi per millilitro, quando il tasso consentito non può superare lo 0,5.

"Ai tre microgrammi si è praticamente in coma etilico - ha spiegato Giovanni Serpelloni, direttore del Centro politiche antidroga che dipende dal sottosegretario Carlo Giovanardi, presente durante le operazioni -. È un caso limite". Tra le persone che si sono viste la patente sospesa ed il mezzo sequestrato prevale la rassegnazione, ma qualcuno protesta vibratamente: "Ho bevuto solo una birra e un limoncello - spiega per esempio Mirko, fermato dopo una cena con la moglie in un ristorante - ed ora mi ritrovo qui".

C’è anche chi, però, come Fabio, 21 anni, esce soddisfatto, con libretto e patente in mano, dal tendone sotto il quale si attendono i responsi dei test: "Ero tranquillo, non avevo bevuto o fumato nulla".

 

A Milano un guidatore su quattro positivo a test dell’alcol (Dire)

 

Un guidatore su quattro positivo al test dell’alcol e uno su due a quello della droga. È la verità scioccante riscontrata dalla polizia municipale di Milano che, dall’inizio dell’anno, come racconta il vice sindaco Riccardo De Corato, ha effettuato per l’alcol 2.970 accertamenti, di cui 741 sono risultati positivi, praticamente uno su quattro. E da quando è entrato in vigore il decreto sicurezza del governo Berlusconi, i vigili hanno già sequestrato 42 veicoli dopo aver accertato che i proprietari-conducenti del mezzo avevano un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro. Dal 2005 i vigili di Milano effettuano per le strade anche controlli antidroga, con una media di circa 150 test annui. Nei primi sette mesi del 2008, dopo circa un centinaio di accertamenti, sono risultati positivi una cinquantina di guidatori fermati dalle pattuglie nell’arco della settimana e con intensificazione nei weekend.

Droghe: e usare sostanze serve soprattutto per sopravvivere

 

Il Manifesto, 2 settembre 2008

 

Il fatto che il nord sia diventato - e non da ora - una sorta di centrale di smistamento e riciclaggio a cielo aperto per soldi sporchi, ex funzionari socialisti, droghe vecchie o nuove e rifiuti tossici, non è un mistero per nessuno. Salvo poi accorgersi, quando davvero si prova a guardare dentro la fantomatica "parte produttiva" del paese, che le cose non sono né così semplici come la vulgata bipartisan vorrebbe far credere, né così felici come ci si potrebbe aspettare da un contesto sociale ed economico dove Pil, consumi e reddito pro capite - dati alla mano - sono quasi il doppio rispetto a quelli del resto d’Italia.

Che al nord le cose "funzionino" sarebbe invece comprovato - stando alle parole della chiassosa minoranza di "giovani imprenditori" che, dal loft del Pd ai consigli di amministrazione delle aziende municipalizzate, si levano all’unisono - dall’efficienza dei protocolli ospedalieri, da vecchie strade e nuove autostrade intasate ma esistenti, dai cartelli delle "Grandi Opere" che da anni fanno bella mostra di sé noncuranti degli scempi e delle devastazioni che si apprestano a provocare, dalle file di capannoni vuoti finanziati dalla Tremonti bis, e soprattutto dalla piccola e media impresa che prospera, paga le tasse, sfrutta ma in fin dei conti "produce". Sono in molti a ripeterlo, incuranti della retorica e della malafede: è a questa parte del paese che ci si deve uniformare per qualità del lavoro, trasparenza della pubblica amministrazione e, soprattutto, efficienza dei servizi, poco importa se malgestiti da cooperative bianche o peggio ancora da privati.

Eppure basterebbe guardare di tanto in tanto in basso o viverci, in questo nord tanto etereo e indistinto che rischia di essere confinato alla vuota geografia mentale dei nuovi Metternich di Pdl e Pd gioiosamente uniti, per comprendere che le cose non funzionano per nulla. Basterebbe osservarlo da vicino per capire che in queste, come in altre regioni "produttive" d’Europa, non sempre la disperazione si colora di nero, ma assume le tinte caleidoscopiche e sgargianti dell’indebitamento al consumo, dell’edonismo spicciolo e di una tossicomania dilagante che ha trasformato il fenomeno "droga" in un vero e proprio rischio sociale, non solo e non tanto per il "consumatore", ma soprattutto per chi anche casualmente gli si trova accanto, per strada o sul posto di lavoro.

Statistiche, in questo campo, è difficile e forse anche inutile farne ma stando a neppure troppo recenti proiezioni delle polizie locali, nel bresciano su dieci persone che si apprestano a mettersi al volante, almeno sette sono o sono state nelle precedenti ventiquattro ore sotto effetto di sostanze psicotrope, cocaina in testa. Il dato è interessante, ma ancora una volta si corre il rischio di considerare il fenomeno come una patologia in seno al sistema e non come una deriva patologica del sistema stesso. La tendenza delle autorità, in casi simili, è quella di incrementare oggi i controlli sulle strade con il Rapiscan o altri strumenti, provando domani a introdurli nelle scuole e, se non troppo controproducente per le alte dirigenze, anche negli uffici pubblici e in quelli di selezione del personale.

Senza bisogno di dati, affidandosi a un più sicuro livello empirico, sono però in molti e non solo nel bresciano, a chiedersi tutte le mattine mentre escono di casa per recarsi al lavoro, da chi e come dovranno guardarsi le spalle e se riusciranno a riportare a casa la pelle (non è ancora chiaro, ad esempio, quanti fra i numerosissimi infortuni sul lavoro specie nell’edilizia lombarda abbiano come concausa le disattenzioni di colleghi, disattenzioni frutto di alterazione da alcool o altre sostanze).

L’uso di "dopanti" è diventato un fenomeno endemico e strutturale, un adattamento artificiale agli altrettanto artificiali ritmi produttivi e di vita imposti dalla flessibilità dei nuovi modelli imprenditoriali e dalla conseguente riorganizzazione sul piano del lavoro. Resta quanto meno da chiedersi - al di là della oramai invecchiata contrapposizione tra repressione e "riduzione del danno" - che ne sarebbe di città come Brescia, Treviso o Milano, dei loro uffici, delle loro piccole imprese e dei loro tanto decantati modelli se all’improvviso si bloccassero il traffico o il consumo di droghe di ogni sorta. In un suo libro ingiustamente passato sotto silenzio, No drugs, no future. Le droghe nell’età dell’ansia sociale, pubblicato da Feltrinelli nel 2004, il sociologo Günter Amendt offriva una prima, per nulla paradossale, risposta al problema.

Il sistema socioeconomico nel suo insieme, sosteneva Amendt, semplicemente si bloccherebbe. Schiere di lavoratori indefessi e di manager inflessibili, chirurghi insonni e manovali stakanovisti, autisti e direttori di banca si ritroverebbero alle prese con una congerie di problemi esistenziali e, probabilmente, aumenterebbero drasticamente le prescrizioni mediche di ansiolitici e antidepressivi e si arriverebbe al collasso della spesa sanitaria. Per quanto drammatica, la previsione di Amendt non fa una piega.

Da un lato, lo Stato non può, per naturale vocazione altrimenti imploderebbe, aprire troppo le magli dei divieti e autorizzare deliberatamente il consumo, dall’altro senza questa forma di automedicazione e di auto prescrizione che alimenta il mercato informale quasi nessuno nel paradiso del nord saprebbe più reggere l’urto di un sistema di lavoro che, non solo nei ritmi diretti ma anche in quelli indiretti imposti alla vita familiare e coniugale, si presenterebbe col suo vero volto. Non guardare quel volto, almeno per ora, sembra convenire un po’ a tutti.

 

 

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