Rassegna stampa 24 settembre

 

Giustizia: tra otto mesi nelle carceri ci sarà il "tutto esaurito"

 

Il Velino, 24 settembre 2008

 

Se entro otto mesi non si troveranno soluzioni alternative, le carceri italiane non potranno accogliere nuovi detenuti. I dati, al 31 agosto scorso, indicano che a fronte di una presenza di circa 55.800 persone (di cui 24.70 donne) gli istituti di pena nel nostro Paese potranno ospitare ancora circa 8.000 detenuti, "limite tollerabile" rispetto ad una capienza regolamentare di 42.992 posti. Dei 55.800 detenuti quasi 21 mila sono stranieri e di questi ben 2.500 circa albanesi, 1.110 algerini, 4.550 marocchini, 2.258 tunisini e 2.787 romeni.

Il ministro della Giustizia Angelino Alfano cerca di correre ai ripari e rilancia l’ipotesi di trovare accordi con alcuni paesi con la proposta di far scontare le pene dei loro cittadini nelle carceri locali. Il pressing maggiore si sta esercitando sulla Romania e sull’Albania, dove fra l’altro l’Italia ha costruito qualche anno fa anche un penitenziario, paesi con i quali esistono già accordi in tal senso che, però, hanno trovato rara applicazione.

Sarà necessario superare anche le norme che vietano il trasferimento dei detenuti da un paese all’altro senza il consenso dello stesso, ma il rifiuto potrebbe essere aggirato con l’espulsione condizionata a scontare la pena nel paese d’origine, ma è necessario il nulla osta di quest’ultimo. I tempi comunque sono molto stretti e soltanto il trasferimento di 3 o 4 mila detenuti stranieri potrà consentire al ministro della Giustizia di trovare legislativamente soluzioni alternative al carcere e attendere i test che si stanno facendo sul braccialetto elettronico

Giustizia: Bocchino (Pdl); forte giro di vite alla Legge Gozzini

 

Apcom, 24 settembre 2008

 

"Le polemiche dopo gli ultimi fatti criminali in Campania fanno emergere la necessità di una riforma della giustizia che preveda pene più severe e un forte giro di vite alla legge Gozzini". Lo sostiene Italo Bocchino, vice capogruppo del Pdl alla Camera. "L’invio dell’esercito è un segnale straordinario di presenza dello Stato - aggiunge - a cui dovrebbe seguire anche un esame di coscienza da parte di una magistratura troppo lassista".

 

Cota (Lega) presenta Pdl per riforma Legge Gozzini

 

La Lega Nord presenterà una proposta di legge per restringere le applicazioni di misure alternative al carcere, soprattutto per i reati più gravi, come le imputazioni per mafia o omicidio. "Dovrebbe bastare il buon senso - spiega il capogruppo del Carroccio alla Camera Roberto Cota - e visto che i magistrati hanno la discrezionalità dovrebbero applicarla e non concedere determinate misure. Chiediamo quindi - conclude - una modifica della Gozzini e di quelle leggi che disciplinano le misure alternative al carcere".

 

Gasparri: Problema è generosità giudici su domiciliari

 

Il decreto approvato dal Consiglio dei ministri che contiene nuove misure urgenti per il contrasto alla criminalità organizzata e all’immigrazione clandestina avrà il "pieno sostegno" del gruppo del Pdl al Senato. Lo assicura il capogruppo Maurizio Gasparri criticando, nel corso del suo intervento in Aula al termine dell’informativa del ministro dell’Interno Maroni sui fatti di Castel Volturno, l’eccessiva "generosità" dei magistrati sulla concessione degli arresti domiciliari.

"Il ministro Maroni - osserva Gasparri - ha ricordato che nella zona di Castel Volturno ci sono oltre 100 persone agli arresti domiciliari. Ciò dimostra che il problema non è tanto la vigilanza delle forze dell’ordine sugli scarcerati, ma la generosità dei magistrati nei confronti di questi criminali. C’è una responsabilità dei magistrati che hanno concesso a 113 persone i domiciliari e su questo non abbiamo letto dichiarazioni indignate dell’Anm.

Resto convinto - continua il presidente del Pdl al senato - che le forze di polizia non vadano offese, come alcuni esponenti del Pd hanno fatto, ma sostenute perché esercitano un’importante azione di vigilanza in un territorio dove si assommano le emergenze legate ai clandestini ed alla camorra. L’annuncio dei ministri La Russa e Maroni dell’impiego di ulteriori 500 militari non può quindi che avere il nostro ampio consenso".

"Sosterremo il decreto del governo e assicuriamo inoltre - prosegue Gasparri - che procederemo rapidamente con l’approvazione del disegno di legge sulla sicurezza, presentato parallelamente al decreto già approvato dal governo, unitamente all’approvazione della proposta di legge che rafforza in senso restrittivo il 41-bis. Nessuno considera vinta la battaglia contro la criminalità. Ma rispondiamo con determinazione. Anche per questo è molto apprezzabile la prudenza del ministro dell’Interno rispetto a strumenti alternativi al carcere. L’impegno deve essere l’attuazione di un piano per la moltiplicazione delle strutture. Allo stato abbiamo bisogno di più carceri e non di più scarcerazioni".

Giustizia: emergenza carceri; sconcerta il silenzio della politica

 

Comunicato Sappe, 24 settembre 2008

 

"La mancata adozione di provvedimenti strutturali da parte di Governo e Parlamento per modificare il sistema penitenziario contestualmente all’approvazione dell’indulto ha riportato le carceri italiane a livelli di sovraffollamento insostenibili, arrivando oggi ad avere un numero di detenuti pressoché uguale a quello per il quale, un anno fa, l’80% dei parlamentari italiani decise di approvare il provvedimento di clemenza. Ma c’è di più: se in tempi estremamente brevi non si troveranno soluzioni alternative alla detenzione, le carceri italiane non saranno in grado di accogliere nuovi detenuti. Di fronte a tutto questo registriamo stupiti i silenzi della politica"

Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, organizzazione più rappresentativa della Categoria con 12mila iscritti, analizzando i dati penitenziari riferiti al 31 agosto scorso.

I dati indicano che a fronte di una presenza di quasi 56mila persone (di cui 2.500 circa le donne) gli istituti di pena nel nostro Paese potranno ospitare ancora circa 8mila detenuti, "limite tollerabile" rispetto alla capienza regolamentare degli istituti già abbondantemente superata pari a 42.992 posti. Dei 56mila detenuti, ben il 53% sono gli imputati e quasi 21 mila gli stranieri (e di questi ben 2.500 circa gli albanesi, 1.110 gli algerini, 4.550 i marocchini, 2.258 i tunisini e 2.787 i romeni. Si pensi che alla data del 31 luglio 2006, prima cioè dell’approvazione dell’indulto, avevamo nei 207 istituti penitenziari italiani 60.710 detenuti a fronte di una capienza regolamentare pari a 43.213 posti.

Approvato l’indulto (Legge n. 241 del 31 luglio 2006), esattamente un mese, e cioè il 31 agosto 2006, il numero dei detenuti presenti in carcere era drasticamente sceso a 38.847 unità. E si consideri che i detenuti che materialmente uscirono dal carcere per effetto dell’indulto sono stati circa 27mila e 500, a cui bisogna aggiungere quelli che ne hanno beneficiato pur non essendo fisicamente in un penitenziario: circa 6.800 che fruivano di una misura alternativa alla detenzione, circa 200 già usciti dal carcere per l’indultino del 2003 e 250 minori.

"Il confronto tra queste cifre" spiega Capece "dimostra l’occasione persa dalla classe governativa e politica quando, approvato l’indulto, non ha raccolto l’auspicio del Sappe di ripensare, allora, il carcere e adottare con urgenza rimedi di fondo al sistema penitenziario, chiesti autorevolmente più volte anche dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano. Parlammo di provvedimenti concreti di potenziamento dell’area penale esterna, che tengano in carcere chi veramente deve starci, e di incremento degli organici di Polizia Penitenziaria (cui mancano più di 4mila unita rispetto all’organico previsto) cui affidare i compiti di controllo sull’esecuzione penale.

Ed è proprio il silenzio della politica su questa grave criticità del Paese a sconcertarci, al di là delle dichiarazioni di intenti che però non si concretizzano in provvedimenti concreti. Governo e Parlamento non posso tralasciare ulteriormente la grave situazione penitenziaria che si registra oggi nei nostri penitenziari e devono porre l’emergenza carceraria tra le priorità di intervento, anche riservando fondi ad hoc nella Finanziaria. Il Sappe, l’Organizzazione sindacale più rappresentativa della Polizia Penitenziaria, auspica che vengano al più presto adottate dal Parlamento delle modifiche del sistema penale - sostanziale e processuale - che rendano stabili le detenzioni dei soggetti pericolosi affidando a misure alternative al carcere la punibilità dei fatti che non manifestano pericolosità sociale, anche avvalendosi di procedure di controllo mediante strumenti elettronici o altri dispositivi tecnici (come il braccialetto elettronico).

L’utilizzo di queste tecnologie conclude Capece potrà evitare di rendere evanescente e meramente teorica la verifica del rispetto delle prescrizioni imposte dall’autorità giudiziaria al momento dell’adozione delle misure alternative alla detenzione. E affidare il controllo delle misure alternative alla detenzione alla Polizia Penitenziaria, accelerandone quindi l’inserimento negli Uffici per l’esecuzione penale esterna, vuole dire andare a svolgere le stesse funzioni di controllo oggi demandate a Polizia di Stato e Carabinieri, che in questo modo possono essere restituiti ai loro compiti istituzionali, in particolare il controllo del territorio, la prevenzione e la repressione dei reati, a tutto vantaggio dell’intera popolazione. Proprio perché quella della sicurezza è una priorità per chi ha incarichi di governo e parlamentari, auspichiamo una larga intesa politica per una urgente nuova politica della pena, necessaria e non più differibile stante l’attuale grave criticità del sistema penitenziario del Paese."

Giustizia: Cassazione; per riabilitarsi serve la buona condotta

 

Diritto & Giustizia, 24 settembre 2008

 

Il non delinquere più non è un passaporto per essere riabilitati. Le porte della riabilitazione per il sorvegliato speciale si apriranno solo in presenza di elementi positivi che diano effettivamente atto della buona condotta del soggetto istante. Insomma, per l’accoglimento della domanda del soggetto sottoposto a misura di prevenzione personale sarà necessaria la dimostrazione di fatti o di comportamenti sintomatici in chiave positiva atti a costituire prova idonea di una "condotta improntata, con effettività e costanza, al rispetto delle regole della convivenza sociale".

Così la Cassazione nella sentenza 35545/08 ha annullato con rinvio un’ordinanza che aveva concesso la riabilitazione sulla base della semplice considerazione che l’interessato, dopo l’espiazione della misura di prevenzione, non risultava essersi evidenziato negativamente con la sua condotta. In pratica, il giudizio prognostico sulla non pericolosità sociale dell’istante veniva ancorato dalla Corte d’appello all’assenza di elementi negativi senza alcuna verifica sull’effettiva e concreta sussistenza, in positivo, di prove di buona condotta. Una motivazione che la Suprema corte ha considerato apodittica, perché non ha consentito la ricostruzione dell’iter logico che ha portato alla decisione adottata.

Ecco dunque per la seconda sezione penale di Piazza Cavour la regola da seguire: ai fini della riabilitazione da misura di prevenzione, la valutazione della personalità dell’istante va effettuata sulla base non già della mera astensione dal compimento di fatti costituenti reato, ma dell’instaurazione e del mantenimento di uno stile di vita improntato al rispetto delle norme di comportamento comunemente osservate dalla generalità dei consociati.

Giustizia: Maroni; i soldati contro la camorra, è guerra civile

di Francesco Grignetti

 

La Stampa, 24 settembre 2008

 

"Nel Casertano è in atto una vera guerra civile di camorra e quindi lo Stato deve tornare padrone di quel territorio". Parola di Roberto Maroni, che ieri ha strappato al Consiglio dei ministri un decreto per l’uso di ulteriori 500 soldati da affiancare alla polizia. Finiranno tutti a Caserta a organizzare posti di blocco.

D’accordo il suo collega Ignazio La Russa, che pure nei giorni scorsi aveva frenato sull’ipotesi. "Da parte mia - racconta La Russa - nessun contrasto, solo alcune puntualizzazioni. Il testo del decreto prevedeva che fossero gli stessi tremila uomini già presenti sul territorio italiano a essere impiegati diversamente, per poter dare man forte alle forze dell’ordine, segnatamente nel Casertano. Questa tesi non mi ha trovato consenziente, ho esposto le mie ragioni e abbiamo concordato la modifica che poi è stata approvata".

Dopo i 400 agenti e carabinieri e finanzieri inviati di rinforzo due giorni fa, con l’arrivo dei soldati è impressionante il dispositivo di controlli che verrà messo in piedi. Ma la spiegazione viene dallo stesso Maroni. "Temiamo che ci possano essere altri episodi di violenza; per questo abbiamo aumentato la pressione in quell’area in

modo da neutralizzare il gruppo di fuoco". Non c’è solo il controllo del territorio, però, nelle strategie del Viminale. Ha fatto impressione la notizia che il presunto killer fosse agli arresti domiciliari nonostante imputazioni gravissime. E allora, dice il ministro, prefigurando nuove modifiche di legge al codice di procedura penale, "dobbiamo intervenire perché la magistratura non conceda più gli arresti domiciliari a chi è macchiato di reati mafiosi".

Ma su questo tema, centrodestra e centrosinistra si stanno bersagliando senza pietà. "Sono rimasto sconcertato dalle polemiche di Veltroni. Chiede conto al governo dei motivi per cui sono stati concessi gli arresti domiciliari all’uomo, ma è evidente a tutti che gli arresti domiciliari non li concede il governo, ma la magistratura", dice Maroni al mattino.

A sera, ammorbidisce i toni: "Spero che maggioranza e opposizione non si scontrino perché è interesse di tutti debellare questo fenomeno". Da sinistra non intendono affatto mollare la polemica. Dice Marco Minniti, ministro-ombra dell’Interno: "Maroni non ha capito o finge di non capire. La riflessione che Veltroni richiedeva riguardava esplicitamente sia la magistratura, sia il governo, sia il Parlamento, con l’obiettivo dichiarato che episodi sconcertanti come quello di Castel Volturno non avessero più a ripetersi".

Giustizia: Napoli (Pdl); assumere i 397 educatori penitenziari

 

Ansa, 24 settembre 2008

 

La parlamentare del Pdl Angela Napoli, in un’interrogazione ai ministri di Giustizia ed Economia, sollecita l’assunzione di 397 educatori penitenziari. In particolare, Napoli chiede di conoscere "i motivi che hanno portato ad un così lungo periodo per l’espletamento del concorso pubblico per la copertura dei 397 posti", visto che, bandito nel 2003 e pubblicato sulla gazzetta ufficiale nel 2004, si è concluso nel giugno scorso.

"Nonostante - scrive - i lunghi tempi intercorsi tra la data del bando e l’espletamento del concorso, a tutt’oggi, non è stata ancora pubblicata la relativa graduatoria ufficiale". Napoli, ritenendo "estremamente importante il ruolo dell’educatore penitenziario", chiede di sapere, non solo tempi e finanziamenti per l’assunzione dei 397 vincitori, ma anche quali iniziative saranno adottate "per coniugare gli obiettivi di sicurezza e rieducazione negli Istituti di pena". Questo, a fronte dei dati pubblicati sul sito del ministero della Giustizia da cui "si evince - conclude Napoli - la carenza di personale educativo negli istituti penitenziari, con un vuoto di organico di ben 826 unità".

 

Interrogazione a risposta scritta ai Ministri della Giustizia e dell’Economia e Finanze

 

Per sapere - Premesso che: nello scorso mese di giugno 2008 si è concluso il concorso per n. 397 posti nell’area C, profilo professionale di Educatore nel Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, bandito nel 2003, pubblicato sulla G. U. n. 30 del 16.04.2004;

nonostante i lunghi tempi intercorsi tra la data del bando e l’espletamento del concorso, a tutt’oggi, non è stata ancora pubblicata la relativa graduatoria ufficiale;

dai dati pubblicati sul sito ufficiale del Ministero della Giustizia si evince la carenza di personale educativo negli istituti penitenziari, con un vuoto di organico di ben 826 unità;

è estremamente importante il ruolo dell’educatore penitenziario sia per il singolo detenuto sia per ottenere una valutazione corretta da parte della Magistratura di Sorveglianza nella concessione dei benefici penitenziari;

la stessa sicurezza ed il mantenimento della disciplina all’interno degli Istituti penitenziari passa proprio attraverso la figura e la presenza dell’Educatore;

notizie diffuse paventano la possibile prossima assunzione degli Educatori penitenziari, vincitori del concorso, soltanto a blocchi il che porterebbe ad una maggiore spesa per i corsi di formazione previsti dalla normativa e che dovrebbero, quindi, essere effettuati a blocchi;

l’interrogante comprende anche che l’assunzione degli educatori vincitori comporterebbe un onere per lo Stato, ma ritiene di dover richiamare l’attenzione sulla gestione della Cassa delle ammende, così come segnalata nella relazione della Corte dei Conti del giugno 2008;

la citata relazione infatti, nel paragrafo 1, cita testualmente; "Rimane evidente il dato del rilevante accumulo di risorse, in controtendenza rispetto alla complessiva situazione di carenza di risorse del "comparto giustizia", che ha fatto avanzare anche nell’ambito degli organismi del Ministero dell’economia e delle finanze la proposta di un utilizzo alternativo delle somme a disposizione";

l’assunzione degli Educatori, con conseguente impinguamento degli organici, è legata proprio agli istituti penitenziari:

quali sono stati i motivi che hanno portato ad un così lungo periodo per l’espletamento del concorso pubblico per la copertura di 397 posti di Educatore Penitenziario nell’area C;

quali i tempi ed i finanziamenti per l’assunzione dei 397 vincitori;

quali iniziative intendano adottare per coniugare gli obiettivi della sicurezza e della rieducazione negli Istituti penitenziari.

Giustizia: norme anti-fannulloni; i poliziotti evitano la stretta

di Laura Squillaci

 

Il Sole 24 Ore, 24 settembre 2008

 

I militari saranno esentati dai tagli sugli stipendi previsti per i dipendenti pubblici in caso di malattia A ribadirlo è stato ieri il ministro della Difesa, Ignazio La Russa che, al termine del Consiglio dei Ministri, ha ricordato: "Abbiamo inserito una modifica che sottrae i militari dai tagli alla paga in caso di malattia. È una valutazione giusta perché non si può considerare con lo stesso metro chi fa il militare e chi, sempre impiegato nello Stato, lavora in un altro contesto".

La modifica cui fa riferimento il ministro La Russa risale a venerdì scorso. Quando, insieme al collega della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, e di comune accordo con il titolare del Viminale, Roberto Maroni, ha proposto un emendamento a uno dei tre testi scaturiti dallo stralcio del Ddl collegato alla manovra estiva. Attualmente il provvedimento è all’esame della Commissione Lavoro alla Camera e sostanzialmente

prevede un’esenzione per i militari, le forze armate e i vigili del fuoco dai tagli sugli stipendi in caso di malattia. Decurtazioni che, invece, come previsto nel decreto 112, colpiscono i dipendenti del pubblico impiego. Proprio questa misura, infatti, ha costituito uno dei cardini della "stretta brunettiana" per contrastare l’assenteismo nella pubblica amministrazione. E che, come ha ricordato giorni fa lo stesso titolare di Palazzo Vidoni, ha comportato ad agosto una riduzione delle assenze per malattia "del 40-50% rispetto allo stesso periodo del 2007".

Aldilà dei numeri il piano formulato da Palazzo Vidoni (che, come visto, non si applicherà più ai militari), tra le misure per contrastare gli statali "fannulloni", prevede una decurtazione della retribuzione applicata a ogni giorno di malattia a prescindere dalla durata nei primi dieci giorni di assenza. Oltre a contemplare la possibilità per l’amministrazione di disporre una visita medica anche nel caso di assenza per un solo giorno lavorativo.

Giustizia: bambini in carcere; parte settimana d’informazione

 

Redattore Sociale - Dire, 24 settembre 2008

 

Al via dal 29 settembre "Il sorriso di domani", iniziativa di sensibilizzazione delle associazioni in collaborazione con l’università La Sapienza. Mancano strutture adeguate.

Una settimana dedicata all’informazione sulle carceri presso la Città universitaria della Sapienza di Roma. Con lo specifico obiettivo di sostenere la realizzazione di un Icam (Istituto custodia attenuata madri) per la madri recluse al carcere romano di Rebibbia con i loro bambini.

L’iniziativa di sensibilizzazione "Il sorriso di domani" comincia nella capitale il 29 settembre e va avanti fino al 4 ottobre ed è promossa dall’università La Sapienza, dalle associazioni culturali "Il viandante" e "Il Pavone" e dalle cooperative sociali "Edera" e "Alba". Bambini e carcere sono due parole e due realtà che non dovrebbero mai incontrarsi. Ma non è così. È del 1975 - e la norma è stata un passo in avanti di civiltà - la legge che consente alle madri detenute di tenere con sé i bambini fino ai 3 anni di età; per salvaguardare il rapporto madre-figlio in questo periodo fondamentale della costruzione della personalità del bambino. Al giungo 2008 (dati ministero della Giustizia, Dipartimento amministrazione penitenziaria) sono 58 i piccoli che vivono con la mamma nelle carceri italiane.

Nel 2001, la legge n. 40 dell’8 marzo, nota anche come Legge Finocchiaro, prevede la possibilità di espiare in luoghi alternativi al carcere la pena per le condannate madri di prole sotto ai dieci anni. Ma, secondo il cartello di organizzazioni che con il rettorato della Sapienza promuove la settimana d’informazione su questo argomento, "l’applicazione dei tale legge è fortemente limitata da fatti concreti, tra questi la mancanza di strutture adeguate".

Da qui l’impegno per realizzare un edificio, già individuato e da ristrutturare, da adibire a casa famiglia, dotato di tutti i requisiti indicati dall’amministrazione penitenziaria. La speranza è che la manifestazione di sensibilizzazione contribuisca a far sì che qualcuno finanzi il progetto. L’unico esempio di Icam fino ad oggi realizzato in Italia è quello di Milano, per le detenute di San Vittore, anche se si sta aprendo, ci dice l’associazione "Il pavone", una casa famiglia anche a Firenze.

Si tratta di case che, secondo altre organizzazione che vedono in prima fila "A Roma, insieme", avrebbero però il limite di essere "dependance" del carcere (l’Icam di Milano è gestita dalla stessa amministrazione di San Vittore), mentre l’obiettivo da perseguire dovrebbe essere, sostiene "A Roma, insieme", "l’Icam sono per i reati che non possono usufruire di pene alternative e escluse da indulto, come ad esempio lo spaccio internazionale e i reati per cui si pone il 41 bis; per gli altri casi, arresti domiciliari in case sul territorio gestite non dal Dap ma dagli enti locali".

Intanto oggi, 24 settembre, la campagna "Il sorriso di domani" si apre con un concerto, alle ore 16, presso il teatro del nuovo complesso di Rebibbia, al quale interverrà il rettore della Sapienza Renato Guarini. Da lunedì 19 settembre al 4 ottobre, in varie sedi dell’ateneo si terranno mostre di pittura e di fotografia, seminari e tavole rotonde sul ruolo del carcere e il reinserimento sociale, proiezioni di documentari, allestimento di una cella "allo scopo - spiegano i promotori - di far conoscere la realtà e ritmi della vita all’interno del carcere". "Il sorriso di domani" è il proseguimento della campagna informativa e di raccolta fondi "Belli come il sole" del 2007 e ha il patrocinio della Nazioni Unite, della Presidenza del Consiglio dei Ministri, di Provincia e Comune di Roma e XI Municipio.

 

Anche per bambini in carcere è "sovraffollamento"

 

 

Sono 58 in Italia, il maggior numero in Lazio e Lombardia. A Rebibbia, dove sono entrate in 2 mesi e mezzo 10 donne con figli, superata la capienza massima: 29 le detenute con 30 minori. In cella anche 36 donne in gravidanza.

Negli ultimi due mesi e mezzo, dieci donne con bambini piccoli sono entrate nel carcere romano di Rebibbia. Il "nido" della sezione femminile del penitenziario, che secondo i dati del Dipartimento di amministrazione penitenziaria contava, a giugno 2008, 19 madri detenute con altrettanti figli di età inferiore ai tre anni, in questo momento conta 29 madri detenute e 30 bambini, due dei quali gemelli. Una situazione che è già oltre, e di gran lunga, la capienza massima prevista per i bambini in questa sezione dedicata del carcere, che è di 15 posti letto. Lettini spostati, assembrati l’uno accanto all’altro (nessuna delle stanze è singola) e alcuni bambini messi a dormire direttamente in infermeria: non perché soffrano di qualche malattia, ma perché il posto non c’è.

Secondo i dati del Dipartimento di amministrazione penitenziaria riferiti al 30 giugno 2008, gli asili nido funzionanti nelle strutture carcerarie italiane sono 16. Sono 58 le detenute madri con figli che vivono con loro in istituto, quindi sono 58 i bambini minori di tre anni che trascorrono la loro vita in istituto. Questo è secondo la legge 354 del 26 luglio 1975, pensata per salvaguardare il rapporto madre-figlio, che consente alle detenute di tenere con sé i bambini per i primi tre anni di vita.

Guardando alle singole regioni, Lazio e Lombardia hanno la maggior parte di bimbi minori di tre anni dietro le sbarre, 19 il Lazio e 14 la Lombardia. Due sono le sezioni nido funzionanti in Lombardia, una nel Lazio (a Rebibbia, dove accanto alle celle c’è un ‘asilo nido’ per far giocare i bambini e una stanza per le attività delle puericultrici). In Veneto 6 bambini sono in carcere, 5 in Calabria, 4 in Campania e Piemonte; 2 in Abruzzo, 1 in Liguria, Puglia, Sardegna e Toscana. La Sardegna, che al giugno 2008 conta un bambino in istituto, è la regione con il più alto numero di asili nido carcerari funzionanti, pari a 3. A scontare la pena nelle carceri italiane ci sono anche donne in gravidanza: sono 36 in tutto, 13 nel Lazio, 11 in Lombardia, 4 in Puglia, 2 in Calabria e in Toscana, 1 nelle regioni Emilia Romagna, Liguria, Sicilia e Veneto.

L’associazione Antigone, che da vent’anni opera per i diritti e le garanzie nel sistema penale, nel quinto rapporto sulla condizione di detenzione pubblicato quest’anno così si esprime a proposito di madri detenute: "Gli esigui numeri che la detenzione femminile coinvolge (il 4,5 % dell’intera popolazione carceraria), la loro dispersione in tante piccole sezioni femminili ospitate all’interno di carceri maschili (62) e in pochi istituti esclusivamente femminili (solo 7) comportano una disattenzione generale verso le detenzione femminile e le sue specificità. Le poche risorse esistenti vengono infatti convogliate verso le masse più numerose di detenuti maschi, e quindi l’offerta di operatori, corsi professionali, attività di trattamento e lavoro per le donne, specialmente per quelle ristrette in piccole sezioni femminili, diventa scarsissima".

 

Cambiare la legge Finocchiaro? Associazioni divise

 

In cella con i figli soprattutto rom e immigrate, escluse dalle misure alternative. E se alcune organizzazioni chiedono di estendere i benefici di legge, altre dicono no "al buonismo" per "affrontare il problema carcere nel suo complesso".

Cambiare la legge Finocchiaro del 2001 per permettere la carcerazione alternativa anche alle immigrate e alle rom che hanno figli in carcere? È questa la battaglia che alcune associazioni di volontariato conducono da anni. In prima fila abbiamo l’associazione "A Roma insieme", che da 15 anni si occupa di carcere e in particolare di carcere femminile: ogni sabato i volontari portano fuori dalle mura di Rebibbia i bambini che sono dietro le sbarre con le mamme detenute.

"A Roma insieme", guidata da Leda Colombini, propone di modificare la legge Finocchiaro per poterla estendere appunto anche alle rom e alle immigrate che pur essendo la stragrande maggioranza delle donne con figli da zero a tre anni, non possono godere dei benefici della detenzione alternativa. Leda Colombini ha ricominciato a tessere la sua tela di rapporti con i parlamentari, a partire dai radicali che sono particolarmente sensibili al tema. Nella scorsa legislatura la proposta di legge aveva già superato le commissioni e stava per arrivare in aula quando è cominciata la crisi di governo e quindi poi il cambio politico. Ora si deve ricominciare daccapo.

Non tutte le altre associazioni che si occupano di carcere la pensano però come "A Roma insieme". Le associazioni che hanno promosso per esempio le iniziative che prenderanno il via oggi a Roma con l’Università la Sapienza, pensano che sia necessario prima di tutto applicare la legge Finocchiaro in tutte le sue sfaccettature. Non si tratta tanto - dicono i rappresentanti dell’associazione "Il Pavone" - di migliorare la legge, ma applicarla anche nelle parti che sono rimaste solo sulla carta".

Una terza posizione sulla questione delle donne con bambini e dello scandalo di minori che devono cominciare la loro vita dietro le sbarre (fenomeno stigmatizzato di recente anche dal ministro Alfano) è quella dell’associazione Antigone che si occupa di carcere da anni e che ogni anno stila un rapporto dettagliatissimo sugli istituti penitenziari (il rapporto di Antigone è diventato un punto di riferimento per tutti coloro che si occupano di carcere).

"Quello che temo - ci spiega il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella - è che prevalga un certo buonismo che vede solo una piccola parte del problema. Anche noi pensiamo che sia uno scandalo la permanenza di bambini dietro le sbarre. Ma nello stesso tempo pensiamo che ogni nuova proposta deve essere inserita in un contesto più ampio che cominci ad affrontare il problema carcere nel suo complesso.

Detto in modo brutale: non è possibile che ci commoviamo (giustamente) per 60 donne che sono in carcere con i figli e poi degli altri 55 mila detenuti ce ne infischiamo". Per Gonnella la soluzione è comunque abbastanza chiara: anche per le donne che ora sono escluse della misure alternative si deve pensare a soluzioni come quelle dell’Icam di Milano, ovvero una palazzina distaccata dal carcere da cui i figli delle detenute possano uscire spesso, non solo per andare all’asilo. "È anche chiaro che il governo Berlusconi - specifica Gonnella - non può pensare di risolvere solo un problema specifico e poi considerare l’immigrazione un reato. Se dovesse passare quella legge, altro che 60 donne con figli in carcere. I nostri istituti penitenziari scoppierebbero, cosa che per altro già sta per avvenire".

Infine c’è da registrare anche una differenza di vedute tra le associazioni sul modello Icam. Per alcuni è un modello da seguire, mentre per l’associazione "A Roma insieme" la casa-prigione è ancora troppo prigione. In realtà a Milano, dicono, è solo un distaccamento di S. Vittore. È sempre il direttore del carcere che decide, ci sono le sbarre e ci sono i poliziotti, invece degli educatori per i bambini.

 

Legge auspicabile. Sulla fattibilità i dubbi della politica

 

Sicurezza e disponibilità di fondi: questi gli ostacoli che dovrà affrontare proposta di legge sui bambini in carcere secondo Luisa Capitanio Santolini, della Commissione per l’infanzia e Cinzia Capano, della Commissione giustizia.

L’obiettivo è auspicabile, ma la fattibilità bisognerà misurarla sui grandi temi dibattuti dal Parlamento in questi giorni e futuri: sicurezza e finanziaria. Pur riguardando un fenomeno dai numeri esigui - 70 bambini in tutti i penitenziari italiani e 68 madri detenute - la proposta di legge sulla possibilità di far crescere i bambini fuori dal carcere suscita i dubbi del mondo politico. Perplessità non trascurabili, ma, sicuramente risolvibili secondo quanto assicurano i deputati Luisa Capitanio Santolini, Udc, della Commissione per l’infanzia e Cinzia Capano, del Pd, per la Commissione giustizia. La proposta ha suscitato interesse e la promessa di lavorarci a settembre nelle proprie commissioni è stata lanciata con una novità rispetto ai tentativi passati: le commissioni potrebbero prevedere le audizioni delle associazioni e degli enti che hanno lavorato insieme alle madri detenute e con i bambini. Sull’obiettivo finale, tutti d’accordo: i bambini devono crescere lontani dal carcere.

Uno dei problemi affrontati dalla proposta di legge che ha creato maggiore scalpore è quello dell’impossibilità delle madri detenute di seguire i propri bambini in ospedale o in pronto soccorso. La proposta, infatti, prevede l’accompagnamento del bambino e la possibilità per la madre di stargli affianco durante tutta la permanenza in ospedale per ricovero. "Il problema del pronto soccorso è giusto e doveroso risolverlo - spiega Luisa Capitanio Santolini -.

Questa questione va assolutamente affrontata di petto, perché un bambino già è in difficoltà se si trova in un luogo che non è gradevole per di più senza la mamma. Immagino se ciò accadesse ai nostri bambini, è una condizione assolutamente disumana e va risolta". Dubbi sono stati espressi in merito alla detenzione nel proprio domicilio. "C’è una forte presenza di donne straniere e soprattutto di rom - continua Capitanio Santolini -.

Queste donne vivono in campi nomadi dove ci sono situazioni di povertà estrema. Credo che sia opportuno che queste persone vadano in case famiglia e non in un ambiente che non le aiuta ad uscire da una situazione di difficoltà". L’opzione della casa famiglia, secondo il deputato, è utile anche per ribadire il concetto di sanzione e certezza della pera. "Bisognerà anche lanciare il messaggio che esiste una forma di pena. Certo bisognerà aiutare il bambino, per questo credo che la soluzione di una casa famiglia sia una soluzione a misura d’uomo".

"L’interesse per questa proposta di legge è ovviamente del tutto condivisibile - afferma Cinzia Capano -. Io ritengo però che dobbiamo fare uno sforzo di approfondimento maggiore su alcune questioni". La possibilità di evadere dagli stretti controlli del carcere resta sempre un problema da affrontare. "Temo che quando interveniamo su questi temi - continua Cinzia Capano - abbiamo bisogno di tutelare il bambino ed evitare la permanenza in carcere, ma allo stesso tempo trovare il modo per non far diventare questa situazione un espediente gestito poi dai soggetti criminali.

È giusto per un detenuto assistere il bimbo lungo un ricovero, quando si prevede però che la madre non ci sia, o perché deceduta o impossibilitata, ed estende questo beneficio al padre, questo potrebbe diventare un espediente". Altro spinoso problema quello dei fondi e della gestione delle case famiglia che riceveranno le detenute e i bambini.

Secondo l’On. Capano non è da trascurare la questione delle spese. "Se noi vogliamo che queste case famiglia protette ci siano, dobbiamo sapere che gli enti locali sono in una condizione difficile dal punto di vista delle spese. Se noi miriamo ad un investimento degli enti locali molto probabilmente questi non avranno risorse. Questo perché non solo dal 2003 il problema del rispetto del patto di stabilità degli enti locali costringe ad una riduzione di spese, ma anche perché siamo alle porte di una nuova finanziaria che riduce ulteriormente questi ambiti. Se consideriamo questa tematica un diritto costituzionalmente garantito dei bambini, dovremmo chiedere una competenza esclusiva dello Stato, altrimenti potremmo avere una situazione a macchia di leopardo".

Per quel che riguarda la possibilità di estendere il diritto di permanenza in Italia per le detenute madri a fine pena, la proposta ha raccolto pareri positivi. "Eliminare l’espulsione automatica è condivisibile - spiega Luisa Capitanio Santolini -, il minore va sempre tutelato", ma in un periodo in cui il tema della sicurezza e dell’immigrazione irregolare ha percorso sensi unici dobbiamo attenderci, afferma Capano, un iter articolato.

 

Gemellini rom compiono 3 anni, la madre ha ancora 2 anni di pena

 

La storia di una rom bosniaca, madre di altri tre figli che vivono nel campo con il padre. Non esistono deroghe alla norma; l’ultima parola spetta al giudice, che dovrà decidere se dividere la famiglia o concedere i domiciliari al campo.

I suoi due figli (gemelli) hanno compiuto tre anni da pochi giorni. Devono quindi lasciare il carcere perché secondo una legge del 1975 le mamme detenute possono tenere con sé i figli dietro le sbarre, dalla nascita fino ai tre anni. Per i gemellini rom, nati in Italia e "residenti" a Rebibbia femminile è dunque scaduto il tempo. La madre (1977) è una rom bosniaca; anche lei è nata in Italia, due anni dopo il varo della legge sui bimbi dietro le sbarre e in Italia risiede - tra un campo e l’altro - da circa 31 anni. La donna ha cinque figli, gli altri tre stanno al campo con il padre, che però è terrorizzato dalla prospettiva di dover "gestire" tutta la prole, ovvero cinque bambini. "Non c’è da preoccuparsi, i due gemelli staranno sempre con me", dice sicura la rom.

Ma non sarà lei a decidere. L’ultima parola spetta infatti al giudice del Tribunale che dovrà formulare la delicata sentenza in base alla legislazione vigente. La rom deve infatti scontare altri due anni di carcere, ma i bambini non possono rimanere più con lei perché non esistono deroghe alla norma dei tre anni. Ci sono dunque solo due possibilità, almeno sulla carta: i bambini rimangono con la madre alla quale viene concessa la carcerazione domiciliare e quindi in pratica le viene concesso di tornare al suo campo rom, con tutti i suoi cinque figli, rispettando le regole della detenzione alternativa. In questo caso il domicilio diventerebbe il campo rom, una situazione al limite del paradosso, ma comunque non nuova, visto che ci sono stati già altri casi. E" determinante la fiducia del giudice nella donna e nella sua capacità di resistere alla tentazione della recidiva. L’altra soluzione - più drammatica - è la decisione del giudice di separare la madre dai figli. In questo caso non verrebbe concessa la misura alternativa al carcere e per i due gemelli rom non ci sarebbe altro destino che quello di tornare - senza la mamma - al campo, con gli altri fratelli e il padre. E magari con i ragazzi e le ragazze volontari che in questi ultimi due anni hanno dato un’assistenza da fuori alla rom bosniaca.

Quello che abbiamo appena raccontato è solo uno dei tanti casi che si verificano nelle nostre carceri e che coinvolgono decine di donne che hanno commesso reati e che hanno figli piccoli. Si tratta di numeri relativamente modesti, ma nello stesso tempo di una questione di una grandissima rilevanza sociale. Dagli ultimi dati a nostra disposizione, risulta che attualmente negli istituti penitenziari italiani che hanno degli spazi "asilo nido" ci siano 58 donne in carcere con bambini (giugno 2008, dati del Dap, Dipartimento amministrazione penitenziaria).

Da giugno a oggi, in poco meno di tre mesi c’è stato però un nuovo boom degli arresti di donne immigrate e in special modo di rom. E questo sta determinando problemi seri a tutti gli istituti. Solo a Roma, nel carcere di Rebibbia femminile dove è richiusa la nostra rom, ci sono 29 madri con bambini e 30 figli (perché due sono i gemelli). A giugno erano solo 19 le donne detenute con figli. E guarda caso, anche a Rebibbia femminile, la stragrande maggioranza delle detenute è straniera, solo due sono italiane. Le altre italiane con figli che hanno commesso reati lievi hanno avuto la concessione degli arresti domiciliari.

Lettere: nessun ergastolano deve, mai più, morire qui dentro!

 

Lettera alla Redazione, 24 settembre 2008

 

Ecco un elenco di "buoni" motivi che possono rappresentare una giustificazione per non aderire alla protesta degli ergastolani: ritenere che la colpevolezza di un individuo sia eterna; ritenere giusto passare tutta la vita e morirvi per quello che si ha (o non si ha) fatto; ritenere giusto condurre un’esistenza che non può essere chiamata vita; ritenere giusto dover rinunciare persino a sognare futuri; ritenere giusto smettere di pensare possibile amare; ritenere giusto che non venga concessa alcuna seconda possibilità agli individui; ritenere che la vita non abbia valore alcuno.

Se ritenete che dopo aver scontato 20, 30 anni di carcere, siete rimasti quelli che eravate prima, allora la vostra non partecipazione potrebbe essere "nobile"; ma se non partecipate invece per il fatto che avete perso speranza, vi sentite impotenti, o peggio ancora vi siete convinti che prima o poi l’ergastolo verrà tolto anche senza che vi impegnate a protestare e che non sia necessario il vostro sacrificio a questo fine, beh, allora sbagliate!

La speranza non si può perdere. La si può smarrire, ma ciò che è smarrito si può ritrovare! Anche quando si rinuncia a cercare ciò che si ha smarrito si finisce spesso per ritrovare quello che si aveva smarrito! È lecito sentirsi impotenti di fronte alle tendenze politiche e ad una opinione pubblica che sembra solo reclamare vendetta ad alta voce, ma è anche lecito difendersi da chi vuole a tutti i costi rinchiudere alcuni fino alla morte per poi proclamarsi persona più civile di tutti!

Nessuno ti regala niente! Nessuno ha mai dato un diritto - i diritti sono sempre stati conquistati. Che l’abbiano fatto interi popoli o singole persone, per i diritti la lotta è sempre stata necessaria! Il diritto alla libertà non fa eccezione. Gli ergastolani dovranno conquistarlo con sacrificio, perseveranza, forza di discussione e tramite l’adesione di tutti, la convinzione di tutti. Insieme si può e si deve vincere!

Non stiamo combattendo per avere la lista della spesa più ampia o per avere in cella un paio di scarpe in più - sapete di cosa parlo -. Stiamo combattendo per la nostra stessa vita, per il diritto all’esistenza. Per qualcosa che molti di noi hanno dimenticato che esiste: la libertà!

Vorrei che gli ergastolani non si limitassero a partecipare alla settimana di sciopero della fame previsto. Vorrei che siano più attivi e facciano propria questa protesta perché a loro appartiene!

Muovetevi! Coinvolgete amici, parenti, conoscenti, fate in modo che le vostre donne aderiscano al neonato comitato femminile! Fate sentire la vostra voce alzarsi da questo inferno! Uniamo le forze! Bisogna credere nelle cose se si vuole che funzionino!

Una cosa che invece non si deve assolutamente fare è rassegnarsi. La rassegnazione è l’anticamera della morte. Nessuno di noi deve mai più morire qui dentro! Troppi si sono tolti la vita perché si erano convinti che davvero non ci fosse più speranza. So bene che a volte, quella di "chiudere il sipario" può sembrare la soluzione più facile e giusta! Forse per alcuni lo è davvero. Ma c’è anche una componente di egoismo in questo gesto perché si toglie forza e vigore ad un vero e proprio esercito che lotta per la libertà e poi - è anche fare un favore a chi ci vuole morti, no?

Mostriamo a tutti invece che siamo vivi, che in noi c’è tanta forza ed energia che se diventasse elettricità potremmo tenere le luci di un’intera città accese per vent’anni! Cosa potrà mai accaderci se ci proviamo? ci danno l’ergastolo? Ci chiudono in una cella e buttano via le chiavi? Ma questo ci è già stato fatto! È così compagni, non abbiamo niente da perdere! Nulla può esserci tolto perché nulla ora abbiamo!

 

Alfredo Sole, per gli Ergastolani in lotta di Livorno

Vigevano: industrie portino più lavoro all’interno del carcere

 

La Provincia Pavese, 24 settembre 2008

 

"Il problema del sovraffollamento alla Casa Circondariale della frazione Piccolini esiste ancora, anche se non tocca livelli drammatici". Dopo l’indulto, spiega Franco Vanzati, dell’Ufficio politiche sociali e immigrazione della Cgil di Pavia, i detenuti sono circa 400, di cui 100 donne e 300 uomini. "Quando siamo entrati con l’associazione Antigone, che a livello nazionale verifica la situazione delle carceri - spiega Vanzati - su Vigevano il giudizio è stato relativamente buono".

Ma le condizioni possono migliorare e Vanzati lancia un appello agli imprenditori del settore tessile. "Chiedo che portino una parte della lavorazione all’interno del carcere - sottolinea Vanzati - perché nella sezione femminile ci sono donne che hanno seguito un corso di taglio e cucito, e ci sono dieci macchine per cucire.

Al momento, c’è lavoro solamente per cinque donne. È un problema serio, perché lavorare in carcere facilita il reinserimento nella società una volta terminato il periodo di detenzione". Le detenute, in sostanza, hanno creato una cooperativa: "È allo stato embrionale - spiega Vanzati - però dà lavoro a detenute che si fanno un’esperienza nel comparto tessile. È una goccia in mezzo all’oceano, ma è importante".

Ma perché non arrivano molte commesse dall’esterno? Il primo problema è dato dalla situazione di difficoltà che sta attraversando il settore tessile in Lomellina. "Il secondo problema - spiega Vanzati - dipende dal fatto che, da parte di alcune imprese, esistono pregiudizi rispetto a chi sta in carcere e non si fidano a portare dentro una parte della lavorazione".

La cooperativa di detenute, comunque, è nata con una sovvenzione della Regione Lombardia e con la partecipazione del Comitato carcere e territorio, di Cgil, Cisl e Uil, della Caritas, della direzione della casa circondariale, degli educatori, del cappellano del carcere. "Quella di Vigevano è una casa circondariale viva - sottolinea Vanzati - grazie alla scuola Bramante si tengono corsi di alfabetizzazione, grazie all’istituto Casale si tengono corsi di ragioneria.

Esiste una rivista, intitolata "Il Sestante", che porta fuori dal carcere le informazioni, le emozioni, le opinioni dei detenuti, per collegare il territorio alla realtà della casa circondariale". Sono molti i tossicodipendenti? "Sono compresi in una percentuale del 20-30%, in linea con la media nazionale - spiega Vanzati - e sono seguiti dal Sert territoriale. La stragrande maggioranza di chi ha avuto o ha problemi con la droga è rappresentata dai detenuti stranieri".

Sono molti gli stranieri in carcere a Vigevano? "Circa il 50% - sottolinea il sindacalista della Cgil - forse qualcosa in più della media nazionale. Ma va detto che nel carcere della frazione Piccolini, sono pochi i detenuti residenti sul territorio. Molti arrivano dalle carceri milanesi e da Brescia. La casa circondariale di Vigevano riesce ancora a dare ossigeno ad altre realtà carcerarie".

Favignana (Tp): i detenuti lavorano come giardinieri per l’Asl

 

Vita, 24 settembre 2008

 

Nel carcere dell’isola in provincia di Trapani da inizio ottobre parte un nuovo progetto di reinserimento lavorativo.

Entrerà nella fase attuativa a inizio ottobre nell’isola di Favignana (Trapani) il progetto "Cornici", frutto di un protocollo di intesa sottoscritto dal direttore generale dell’Azienda Asl 9 di Trapani, Gaetano D’Antoni, e il direttore della Casa Circondariale di Favignana, Paolo Malato.

L’iniziativa prevede l’impiego di detenuti per la manutenzione dell’area verde del presidio sanitario. L’obiettivo del progetto è sviluppare l’offerta lavorativa sul territorio isolano e favorire l’integrazione sociale di soggetti in esecuzione penale della casa di reclusione di Favignana e dei soggetti ammessi a misure alternative. I detenuti dovranno occuparsi della manutenzione dell’area verde di circa mille metri quadrati adiacente il presidio sanitario di Favignana dell’Asl 9. La durata complessiva del progetto è di un anno, con la possibilità di essere rinnovato.

Roma: Rebibbia inaugura il nuovo anno scolastico e formativo

 

Asca, 24 settembre 2008

 

Una inedita inaugurazione dell’anno scolastico e formativo 2008/09 a Rebibbia, per sottolineare il diritto di tutti all’istruzione e il dovere di sostenere il recupero umano e sociale, ma anche il reinserimento lavorativo della popolazione carceraria del Lazio, pari a 54 mila detenuti.

Questo è il senso dell’iniziativa che si è tenuta questa mattina nella casa di reclusione di Rebibbia, dove sono attualmente in stato di detenzione 270 persone, per le quali, grazie al progetto Chance, sono stati realizzati corsi di istruzione in collaborazione con la rete delle scuole del Lazio, in particolare i Ctp (Centri territoriali permanenti) e corsi di formazione professionale, che hanno coinvolto in totale, in tutta la Regione, circa 1.200 detenuti.

All’inaugurazione, preceduta da una visita delle aule informatiche ed ai laboratori, hanno partecipato - guidati dal Direttore del penitenziario, Stefano Ricca - l’Assessore all’Istruzione della Regione Lazio, Silvia Costa, l’Assessore alle Politiche della scuola della Provincia di Roma, Paola Rita Stella, la Presidente della Commissione istruzione del Consiglio regionale del Lazio, Anna Maria Massimi, il Garante dei diritti dei detenuti, Angiolo Marroni.

Le linee di azione del progetto Chance, che è stato finanziato dall’Assessorato regionale all’Istruzione e che si conclude a novembre, erano indirizzate in tre direzioni: in primo luogo oltre 40 studenti universitari presenti nel nuovo edificio di Rebibbia, in collaborazione con Ufficio del Garante e con l’Università Tor Vergata, hanno potuto effettuare importanti esperienze di teledidattica.

La seconda attività ha riguardato oltre 400 "studenti", con attività integrative dell’azione dei Centri territoriali permanenti del Lazio e della sezione scolastica presso Rebibbia, coordinata da Tils, capofila del partenariato che ha vinto questa parte del bando.

La terza attività, guidata dall’ente Enaip in rete con soggetti formativi e cooperative già attive nelle carceri del Lazio, ha coinvolto 721 allievi in corsi professionalizzanti ed ha attivato 58 tirocini presso le imprese. Sempre con i fondi di Chance sono stati attivati 14 laboratori informatici e attrezzato i laboratori di falegnameria e restauro.

"È la prima volta - ha detto l’Assessore Silvia Costa - che la Regione effettua una ricognizione dei fabbisogni formativi e che promuove un’azione strategica in tutti i 14 istituti penitenziari del Lazio. Nella nuova programmazione del Fondo sociale europeo prevediamo ulteriori attività di formazione e di laboratorio. Con l’Assessorato regionale alla sicurezza intendiamo destinare anche fondi regionali di supporto soprattutto alle attività integrative della scuola, per i corsi di italiano per stranieri e per le attività artistiche ed espressive. Sulla base della verifica del progetto e di un confronto con tutti gli attori coinvolti, intendiamo dar vita a una programmazione pluriennale che dia seguito al concreto impegno fin qui realizzato dal nostro Assessorato. Desidero anche garantire ordinativi da parte dell’Amministrazione regionale dei prodotti realizzati nei laboratori (ad esempio infissi nelle residenze universitarie e nelle scuole, nonché impegnare l’Agenzia regionale Filas per un efficace raccordo per il reinserimento lavorativo dei detenuti con il sistema delle imprese regionale."

"L’istruzione è un diritto inalienabile - ha detto l’Assessore provinciale Paola Rita Stella - che va garantito a tutti i cittadini e si coniuga con la finalità principale della pena, di rieducare chi ha commesso reati. Istruzione e attività formative possono permettere di acquisire le necessarie competenze e di guardare con fiducia ad un futuro diverso."

Lecce: Carcere e Costituzione; domani il convegno di Antigone

 

Asca, 24 settembre 2008

 

Presentato il convegno giuridico dal titolo "Le pene secondo la Costituzione: i principi sanciti dall’art. 27". A Lecce il 25 settembre, alle ore 16.00 nella sala del museo Sigismondo Castromediano.

Antigone è un’associazione politico - culturale a cui aderiscono prevalentemente magistrati, operatori penitenziari, studiosi, parlamentari, insegnanti e cittadini che in maniera diversa si occupano di giustizia penale e di diritti. La sede principale dell’associazione è a Roma, ma essa è presente attraverso le sue sedi locali, in ogni regione e organizza solitamente incontri, convegni nelle sedi istituzionali e nelle Università, per realizzare importanti progetti di studio.

Proprio a Lecce, un convegno è stato organizzato presso la sala del museo Sigismondo Castromediano, alle ore 16.00 del 25 settembre. In particolare Antigone promuove come attività ordinaria: elaborazioni e dibattiti sul modello di legalità penale e processuale del nostro Paese e sulla evoluzione; o anche la predisposizione di proposte di legge; campagne di informazione e sensibilizzazione su temi attinenti all’innalzamento del modello di civiltà giuridica del nostro Paese.

L’associazione è l’unico riferimento nazionale per il Comitato europeo per la prevenzione della tortura o delle pene o trattamenti inumani o degradanti. E sviluppa la propria elaborazione in un continuo confronto con la realtà degli altri Paesi europei. Infatti, attraverso l’Istituto dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione in Italia, la società civile può interessarsi al "pianeta carcere", grazie proprio ai cosiddetti osservatori, soggetti professionalmente qualificati che monitorano attraverso delle visite negli istituti penitenziari le condizioni di detenzione dei detenuti.

Libri: "Governo della paura", Jonathan Simon (Ed. Cortina)

di Benedetto Vecchi

 

Il Manifesto, 24 settembre 2008

 

La politica della sicurezza è una miscela di razzismo e esaltazione dello stile di vita della middle-class che punta a colpire gruppi della popolazione ritenuti "nemici della società".

La produzione teorica di Jonathan Simon ruota attorno a quella secolare "guerra al crimine" che i vari governi statunitense stanno combattendo. Docente all’Università della California, ne ha ricostruito la storia in alcuni libri, purtroppo non tradotti in Italia, eccetto questo "Governo della paura" (Raffaello Cortina, pp. 403, euro 29), nel quale Simon concentra la sua attenzione sulle politiche della sicurezza statunitensi in quanto politiche di controllo sociale contro gruppi specifici della popolazione, dagli afro-americani ai latinos, dai poveri a uomini e donni di origine araba.

E di come la privatizzazione del sistema penitenziario assieme alle politiche di "tolleranza zero" costituiscano appunto aspetti della trasformazione del "penale" in un dispositivo di uno stato di sicurezza nazionale. Così, mentre la tolleranza zero ha solo relegato ai margini delle metropoli gli "scarti umani" prodotti dal neoliberismo, le campagne mediatiche sulla diffusione delle droghe pesanti, della pornografia, della piccola criminalità alimentano una vera e propria settore economico, che combina tecnologie della sorveglianza, vigilantes, sviluppo di quartieri blindati (le cosiddette gated communities ) e costruzione di penitenziari "privati". Nell’intervista che segue Jonathan Simon ha mostrato interesse anche su ciò che sta accadendo in Europa sulle politica della sicurezza e la militarizzazione della repressione contro i migranti. Per Simon, in Europa come negli Stati Uniti, la retorica sulla assenza di sicurezza non ha nessun riscontro empirico.

 

Negli Stati Uniti le politiche sulla sicurezza e contro la criminalità sono spesso motivate dalla convinzione che il criminale ha sempre un volto colorato: gli afro-americani, i latinos, gli asiatici. Si potrebbe dire che tutte le politiche contro la criminalità sono anche politiche di controllo sociale contro le minoranze etniche. Una sorta di riedizione razziale delle "classi pericolose" ottocentesche. Lei che ne pensa?

Sì, negli Stati Uniti le politiche contro la criminalità sono sempre state parte integrante delle politiche di controllo sociale delle minoranze. Questo emerge con più forza da quando esistono le cosiddette "prigioni in affitto", cioè quella privatizzazione del sistema penitenziario che ha caratterizzato spesso gli stati del sud, dove la popolazione carceraria è in stragrande maggioranza di origine afro-americana. Lo stesso si può dire di molte norme sulla sicurezza interna, laddove hanno ripristinato forme di segregazione razziale, in maniera esplicita sempre nel Sud, informalmente negli stati del Nord. Ciò che nei miei studi ho però voluto sottolineare è la continuità della politica statunitense nella "guerra al crimine" che ha sempre combinato repressione e retorica sui diritti civili dei detenuti. Una combinazione che non è venuta meno nemmeno durante la cosiddetta la "rivoluzione dei diritti civili".

Negli anni Quaranta del Novecento, la componente "liberal" del Congresso, chiedeva repressione e al tempo stesso sosteneva anche che il "crimine dei negri" era il sintomo di un diffuso malessere sociale che richiedeva un massiccio intervento federale contro la povertà. Eppure furono emanate leggi molto repressive che colpirono duramente gli afro-americani. Negli anni Ottanta, il partito democratico aveva la maggioranza nel congresso. Eppure, con l’appoggio di molti leader della comunità afro-americana, ha proposto e fatto approvare leggi che prevedevano pene durissime sulla produzione e vendita di droga. L’obiettivo era contrastare la diffusione del crack e della cocaina, ma si tradussero in un aumento indiscriminato delle pene inflitte agli afro-americani. Sono questi gli anni in cui la retorica dei diritti delle vittime del crimine cerca e trova legittimazione negli anni Sessanta, quando le associazioni per le libertà civili sostenevano che le vittime di una qualche ingiustizia erano titolari di particolari diritti e che lo stato doveva intervenire per tutelarli.

Non sostengo che il movimento sociale degli anni Sessanta sia responsabile di questa combinazione infernale di discriminazione razziale e politica dei diritti civili. Ciò che ho constatato nelle mie ricerche è che molti americani hanno appoggiato repressive politiche contro la criminalità utilizzando, cambiandogli di senso, l’ordine del discorso sui diritti inalienabili delle vittime di un’ingiustizia. E che erano esponenti politici e della società civile che facevano riferimento si al partito democratico che a quello repubblicano. L’obiettivo di imporre una supremazia bianca nel paese è largamente screditato, sebbene quella fosse l’aspirazione di molti elettori di entrambi i partiti almeno fino alla fine degli anni Sessanta. Tuttavia, l’obiettivo di garantire la sicurezza delle comunità - obiettivo che ha una lunga e contraddittoria storia negli Stati Uniti - è diventato egemone come obiettivo politico di entrambi i partiti, nutrendosi anche di contenuti razziali, visto che i nemici venivano individuati in questa o quella minoranza a seconda di chi parlava.

 

Alcuni studiosi sostengono che il governo della paura è in realtà una politica contro i poveri. Cosa ne pensa di questo punto di vista?

Una volta con Michel Foucault discutemmo a lungo della tendenza in atto tra gli studiosi di porre l’attenzione sulla repressione esercitata dal potere, dimenticando però il modo di produzione del del potere. In quell’occasione concordavamo sul fatto che se uno si concentra sulle politiche repressive è ovvio che giunge alla conclusione che la guerra al crimine è in realtà una guerra ai poveri. Ma questo, allora come oggi, è solo un aspetto di quelle che lei chiama governo della paura. Se infatti concentriamo l’attenzione anche sui dispositivi del potere come formalizzazione di determinati stili di vita, possiamo affermare senza essere smentiti che le politiche sulla sicurezza hanno al centro la difesa dello stile di vita della middle-class. D’altronde, è il ceto medio che, in nome della sicurezza, alimenta la costruzione delle comunità recintate negli Stati Uniti. Ed è il ceto medio che domanda alle imprese high-tech la produzione di programmi informatici e microprocessori che filtrano l’accesso a Internet, inibendo la connessione ad alcuni siti considerati "rischiosi". Ed è sempre il ceto medio che manda i propri figli a scuole dove la sicurezza è il marchio d’origine della vita scolastica.

 

La politica della sicurezza contribuisce allo sviluppo delle tecnologie della sorveglianza, dalle videocamere disseminate nelle metropoli al software per il "controllo" della rete o per il morphing, cioè il riconoscimento facciale. Per gli attivisti dei diritti civili o alcuni studiosi sono tecnologie che limitano la democrazia e rappresentano un attacco alla privacy. Cosa ne pensa?

Non ci sono dubbi che il "panopticon" della modernità che lei descrive è pagato dalla middle-class in nome della sicurezza. È stato chiesto che ci fosse un "Grande fratello" e chiunque mette in discussione la sua autorità è guardato con sospetto. Il segreto del successo dell’iniziale successo della presidenza di George W. Bush è stato proprio l’insistenza sulla sicurezza e sulla necessità di uno stato forte che la salvaguardasse con ogni mezzo necessario. Le prigioni che dovrebbero tenere segregati i "nemici della società" sono però un luogo oscuro dove il potere non riesce a esercitare il controllo su chi ci vive.

 

Tanto negli Stati Uniti che in Europa la politica sulla sicurezza ha come obiettivo anche i migranti e altri gruppi della popolazione come i giovani, prendendo a pretesto il fenomeno delle bande giovanili. Negli Stati Uniti alcuni giornalisti e studiosi parlano di una strisciante guerra culturale contro le controculture perché considerate devianti. Perché, secondo lei, la polizia o il potere politico considerano i giovani dei nemici della società?

Da una parte i comportamenti giovanili sono definiti devianti come atto preventivo e sono colpiti per evitare che si trasformino in comportamenti criminali. Anche questa è una vecchia storia. Molti criminologi, da Cesare Lombroso in poi, hanno sostenuto che i giovani sono potenzialmente disponibili a intraprendere attività criminali. Sono quindi i bersagli potenziali nella guerra alla droga, perché la consumano o la spacciano; inoltre sono dei potenziali criminali economici economiche, perché scaricano illegalmente musica, film e software dalla rete. La legislazione anti immigrazione è invece motivata dal fatto che i migranti sono anch’essi potenzialmente dei criminali, perché è la loro condizione sociale che li predispone al crimine. Inoltre, i migranti, in quanto stranieri, mettono in discussione la "sovranità" di un governo di esercitare il potere all’interno della propria nazione. In tutto il ventesimo secolo, i vari governi americani hanno guardato all’immigrazione come un problema di gestione del mercato del lavoro. C’era una domanda di forza-lavoro che veniva soddisfatta regolando l’accesso sorvegliato alla cittadinanza.

Più recentemente, invece, i migranti sono diventati un problema di sicurezza nazionale. Non c’è dubbio che l’attuale regime di governo della paura abbia le sue radici negli anni Sessanta, quando appunto i migranti sono stati affrontati come un problema di criminalità, perché vivevano, in quanto clandestini, nell’illegalità. È stato un cambiamento di toni, di dettaglio se vediamo che le leggi che regolano l’immigrazione non hanno avuto grandi riscritture. Da allora, piano piano, l’equazione tra migrante e criminale è entrata nel senso comune. Tanto negli Stati Uniti che anche da voi in Italia c’è stata ed è tutt’ora vigente una politica repressiva contro i migranti. Ma è importante sottolineare che sono politiche che oltre a configurarsi come repressione della criminalità legittimano l’uso della discrezionalità da parte del governo e dell’amministrazione nel governare la popolazione. E la discrezionalità nega qualsiasi possibilità di controllo sull’operato del governo, perché la discrezionalità non prevede nessuna pubblicità sull’azione dei pubblici poteri. Il governo della paura deve essere quindi al riparo da sguardi indiscreti. Il contrario cioè dello stato di diritto.

Immigrazione: il ricongiungimento familiare sarà più difficile

di Giacomo Galeazzi

 

La Stampa, 24 settembre 2008

 

Il piano-immigrazione del governo è "inefficace e fatto sulla pelle degli extracomunitari". Nel giorno in cui da Palazzo Chigi esce il giro di vite contro i clandestini e "Famiglia Cristiana" fa infuriare la maggioranza lanciando in copertina l’allarme razzismo ("Noi, i nuovi barbari. L’Italia è diventata il Paese dell’intolleranza e il razzismo cova nell’intolleranza"), scendono in campo i Gesuiti per attaccare "il trattato di amicizia e partenariato" firmato tre settimane fa a Bengasi da Berlusconi e Gheddafi. Ieri il Consiglio dei ministri ha dato il via libera alla costruzione di dieci nuovi Cpt e alla stretta sul riconoscimento dello "status" di rifugiato (per evitare le finte richieste d’asilo) e sui requisiti per il diritto al ricongiungimento familiare.

"I clandestini arrivati in Italia nel 2008 sono aumentati del 60% rispetto al 2007 -spiega il ministro dell’Interno, Roberto Maroni -. Servono 10 nuovi centri di identificazione e permanenza e vanno ridotti gli abusi visto che l’aumento degli sbarchi di immigrati riguarda soprattutto i richiedenti asilo: 14mila domande di cui la metà accolta.

Il clandestino che arriva viene messo in un centro di identificazione chiuso e controllato, mentre un richiedente asilo viene messo in una struttura senza obbligo di permanenza". Ora è stato posto un freno: il prefetto potrà stabilire un luogo di residenza nell’attesa che la domanda venga valutata. E per gli immigrati regolari sono stati messi paletti alla possibilità di essere raggiunto dai famigliari: sarà la prova del Dna a confermare i vincoli di parentela.

Intanto "Popoli", il mensile dei Gesuiti, punta l’indice contro l’accordo Italia-Libia che chiude i contenziosi sull’avventura coloniale: 5 miliardi di dollari in vent’anni in cambio di "meno clandestini, più gas e più petrolio" secondo la formula del premier. "È una brillante intesa commerciale che costerà cara a chi fugge da guerre e carestie" tuonano i Gesuiti. E dopo il varo del Cdm anche le Acli insorgono: "Il governo è insensibile ai richiami della Chiesa sui ricongiungimenti familiari".

Immigrazione: 10 Cpt nuovi di zecca; costano 78 milioni di euro

 

www.peacereporter.net, 24 settembre 2008

 

Un aumento dei clandestini del 60 percento. Quindi, via libera alla costruzioni di dieci nuovi Cpt, centri di permanenza temporanea (quelli con sbarre e filo spinato). Che, nel frattempo, si sono sottoposti a una cosmesi e ora si chiamano Cie, Centri di identificazione ed espulsione. Poi, giro di vite sui ricongiungimenti familiari e sui richiedenti asilo.

Roberto Maroni ha avuto l’approvazione dal Consiglio dei ministri. "Sui richiedenti asilo c’è una normativa più stringente - ha sottolineato il titolare del Viminale - visto che l’aumento degli sbarchi di immigrati riguarda soprattutto i richiedenti asilo, con oltre 14.000 domande di cui la metà accolta. C’è la necessità di provvedere a definire meglio le procedure, per evitare un abuso delle domande d’asilo come scorciatoia per rimanere in Italia". Infatti, testuale del ministro, "il clandestino che arriva viene messo in un centro di identificazione chiuso e controllato da cui non può uscire, mentre un richiedente asilo viene messo in una struttura senza obbligo di permanenza e senza possibilità di essere controllato".

La ricetta del ministro delle impronte digitali costerà settantotto milioni di euro in tre anni per la costruzione di nuovi Cpt per gli immigrati e per l’ampliamento di quelli già esistenti. L’obiettivo è aggiungere mille posti, raddoppiando quasi l’attuale ricettività che è di 1.160.

Gli sbarchi lungo le coste nazionali, si legge nella relazione illustrativa del Viminale, "rendono urgente adeguare le strutture di trattenimento degli stranieri da espellere alle dimensioni e all’entità del fenomeno in atto. Per quanto concerne gli sbarchi, infatti, rispetto l’anno precedente si è verificato un aumento di oltre il 60 percento del numero degli stranieri clandestini arrivati sulle coste nazionali. Alla data dell’11 settembre scorso, gli stranieri sbarcati sono stati 23.604.

Nel corrispondente periodo del 2007 e del 2006 erano stati rispettivamente 14.236 e 15.999". Di qui la necessità di "un piano straordinario di ampliamento della ricettività dei centri di identificazione ed espulsione per garantire la migliore funzionalità delle procedure di espulsione attraverso la costruzione di nuove strutture di trattenimento".

L’italiano dalla sintassi contorta del ministero è tutto qui: dieci nuovi centri di detenzione, e le restrizioni di cui sopra. L’opposizione è tiepida, a dir poco ( d’altronde le responsabilità in materia iniziarono proprio dalla cosiddetta Turco-Napolitano). Immediato il comunicato dell’Arci: la costruzione di nuovi dieci Cie non ha alcuna giustificazione. È solo "propaganda", utile solo ad "orientare l’opinione pubblica verso la criminalizzazione degli immigrati", creando solo humus per forme di razzismo, dice Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci.

"Non si capisce - dice - la motivazione di Maroni. Non è che con altri Cie ci saranno più espulsioni. Gli sbarchi sono aumentati ma i Cie non sono fatti per chi sbarca ma per chi deve essere espulso ed in attesa di identificazione. La maggior parte delle persone presenti nei Cie sono ex detenuti e in molti ci sono posti liberi". Inoltre, "la percentuale delle persone espulse tramite i centri, rintracciate irregolarmente non supera il 4 percento".

Immigrazione: Verona; pestati, denunciati, ancora in carcere

di Paola Bonatelli

 

Il Manifesto, 24 settembre 2008

 

Potrebbe essere Garage Olimpo o il Cile di Pinochet ma anche Guantanamo o Bolzaneto. Invece, più prosaicamente, si tratta di Bussolengo, un paesotto sulla strada che da Verona conduce al lago di Garda. È lì, nella piazza delle giostre, che il 5 settembre scorso tre famiglie italiane con un sacco di ragazzini e roulotte al seguito si incontrano per pranzare in compagnia. Particolare essenziale: sono rom. Fanno parte di una famiglia allargata, genitori, figli minori e figli grandi già con famiglia, fratelli con mogli e bambini, amici.

Prima arrivano i vigili municipali che li invitano ad andarsene. Non è forse Bussolengo la patria di quei consiglieri comunali che considerano un obiettivo delle istituzioni locali (dall’allegato alla deliberazione n. 24 del 29 aprile 2008) "l’eliminazione della sosta degli zingari sul nostro territorio"? Ma i vigili se ne vanno rassicurati, le famiglie si fermano solo il tempo di mangiare insieme.

Poi arrivano i carabinieri e lo scenario cambia. Le testimonianze dei rom, trasformatesi in regolare denuncia e attualmente oggetto di due inchieste, una della Procura di Verona, l’altra interna ai carabinieri, sono agghiaccianti.

Un crescendo di inaudita violenza li-sica e verbale, botte, insulti e minacce prima nella piazza, dove i carabinieri avrebbero distrutto anche l’interno delle roulotte, poi, in caserma, vere e proprie torture, ancora botte e due ragazzi minorenni della famiglia Campos sottoposti alla tristemente famosa "tortura dell’acqua" (i testi delle denunce, impressionanti quelle dei tre fratelli Campos, e le foto dei corpi seviziati sul sito del settimanale Carta).

Il tutto termina con l’arresto di tre componenti del gruppo, Angelo Campos e la moglie Sonia, e Denis Rossetto. Sono accusati di resistenza, la donna anche di tentato furto dell’arma di un militare. Secondo il rapporto dei carabinieri (il testo sempre sul sito citato), i rom li avrebbero prima derisi rifiutandosi di consegnare i documenti, poi aggrediti, e ci sarebbe stata anche una fuga con tanto di inseguimento fino ad un paese vicino.

Ma il calvario dei rom è appena cominciato, alleviato soltanto dalle molte manifestazioni di solidarietà, che hanno a loro volta suscitato l’interesse dei media e di alcuni esponenti politici. Ieri si è tenuta la seconda udienza del processo ai tre arrestati - alla prima udienza, celebrata a porte chiuse il 16 settembre scorso, le associazioni che lavorano con i rom e parecchie decine di attivisti erano tenuti a bada dalle forze dell’ordine - conclusasi con l’ordine di scarcerazione per la signora Sonia, mentre i due uomini restano in carcere. Il processo è stato rinviato al 30 settembre.

Fuori dal tribunale c’è una piccola folla, i parenti degli imputati, le associazioni che tutelano le popolazioni rom e sinte - Neve Gipe, Sucard Rom, il gruppo ecclesiale veronese fra i sinti e i rom - gli attivisti antirazzisti cittadini, il consigliere comunale di Mantova Iuri Del Bar, sinto, eletto per il Prc, il consigliere del Pdci Graziano Perini, Piero Pettenò, consigliere regionale di Rifondazione e Renato Cardazzo, dirigente nazionale Prc.

Sono tutti visibilmente sconvolti, in parte sconcertati per il prolungarsi del processo e della detenzione dei due rom. Gli avvocati difensori hanno scelto la linea del patteggiamento e si discute della scelta: "Il rischio che si sta correndo - sostiene Carlo Berini di Sucard Rom - è lo stesso che abbiamo già visto a Lecco (il caso del presunto rapimento di una bambina da parte di una donna rom, ndr). Le persone patteggiano per uscire dal carcere. La Procura generale di Lecco ha invalidato il primo processo perché ha capito che il patteggiamento era forzato, l’ammissione di colpa non giustificata da fatti chiari e certi. Confidiamo che la Procura di Verona, che sta affrontando in maniera decisa l’accusa formulata dai carabinieri, affronti con altrettanta forza le accuse presentate dai rom".

Piero Pettenó pone l’accento sul clima generale: "È una vicenda inaudita - dice - ma simbolica rispetto a ciò che si vive nel Paese, Veneto e Verona in prima fila. Chi è vittima diventa responsabile, io sono stato in carcere a trovare i rom e raccontano tutti gli stessi gravissimi fatti, su cui chiediamo sia fatta piena luce. Bisogna rompere il muro di omertà". "E dire chiaramente - interviene Cardazzo - come del resto ha già scritto il Times, che ci sono infiltrazioni di stampo neonazista nelle forze dell’ordine del nostro Paese". Nel comunicato di Prc, Comunisti italiani, Circolo Pink e La Chimica, diffuso ieri in serata, la domanda è: se i rom incarcerati non avessero denunciato i carabinieri di Bussolengo sarebbero adesso in libertà?

Droghe: da Barcellona a Genova, per raccontare le narco-sale

 

Notiziario Aduc, 24 settembre 2008

 

Gli operatori dell’Asociación Bienestar y Desarrollo (Abd), Ong spagnola impegnata nei campi delle dipendenze e dell’Aids, sabato saranno nel capoluogo ligure per raccontare l’esperienza della sala del consumo Baluard di Barcellona

Esther Henar e Alejandra Pineva lavorano a Barcellona per Abd, un’organizzazione non governativa spagnola che si occupa di progetti di protezione, promozione e autonomia delle persone in difficoltà. Abd: A sta per associazione, B per benessere, D per desarollo ovvero sviluppo. Esther è la fondatrice della sala Baluard, un servizio socio-sanitario pubblico che è anche la più grande narco-sala della capitale catalana, mentre Alejandra è un’operatrice sociale impegnata nello stesso centro. Entrambe sono ancora a Barcellona quando le raggiungo telefonicamente per una lunga chiacchierata sull’esperienza di Abd e della sala Baluard.

Esperienza che sabato 27 settembre racconteranno a Genova nell’ambito del convegno "Dal Baluardo di Barcellona alla città vecchia di De Andrè. Luoghi igienici del consumo e politiche di riduzione del danno sulle droghe in Europa: una proposta alla città di Genova". L’ appuntamento - si terrà al Teatro Modena dalle 10 del mattino - è organizzato dalla Comunità di San Benedetto al Porto: una realtà, fondata da Don Andrea Gallo, che gestisce sei comunità residenziali, un centro diurno e alcuni appartamenti di Genova e Alessandria.

Esther Henar, fondatrice della sala e direttrice dell’area povertà e inclusione di Abd, inizia raccontando il contesto nel quale è nata la loro organizzazione "durante gli anni ‘80 anche in Spagna fece irruzione l’uso delle droghe, e specialmente dell’eroina, tra i giovani. Poco dopo iniziò la diffusione dell’Aids tra i tossicodipendenti. In questo contesto che investiva non solo la vita degli individui ma anche le relazioni famigliari e le comunità di quartiere, un gruppo di persone, professionisti e volontari, ha cercato di dare ascolto e risposte al fenomeno. Così è nata Abd, un gruppo di persone senza connotazioni politiche o religiose che cercavano, e cercano ancora oggi, di porre attenzione al fenomeno distruttivo della droga". L’intervento di Abd si connota sin dal principio per interessare tutte le sfere toccate dalla dipendenza: individuale, famigliare, sociale.

Negli anni l’associazione ha ampliato il proprio spettro d’azione e oggi si occupa non solo di dipendenza e salute ma anche di infanzia, famiglia, adulti in difficoltà, migranti, politiche di genere, contrasto al disagio e inclusione sociale. Gli interventi di Abd vengono realizzati in concorso con enti pubblici e grazie a fondi sia pubblici che privati.

La sala Baluard, ad esempio, è un servizio socio-sanitario pubblico della municipalità di Barcellona nel quale in accordo con il sistema sanitario e con le forze di polizia locale vengono accolti consumatori abituali o occasionali di sostanze stupefacenti. "Ogni giorno al Baluard - spiega Alejandra Pineva - si fanno in media 350/400 interventi, che vuol dire circa 200 persone, ma certi giorni le cifre raddoppiano".

Il servizio è in funzione dal 2004 ma nasce da un’esperienza precedente, già attiva da una decina d’anni. Esther Henar spiega infatti che "fin dagli anni ‘90 ci eravamo attrezzati con unità mobili nelle quali i tossicodipendenti trovavano assistenza. Dalle unità di strada, e dopo una rilettura dei bisogni per cogliere quelli emergenti, si è passati a diversi centri stabili di attenzione al problema senza lasciare però gli interventi mobili sul territorio. La realtà che ha anticipato, fin dagli inizi di questa decade, la sala Baluard è stata una sala mobile del consumo, una tenda. Quando si è approfondito il rapporto di collaborazione con l’amministrazione della città di Barcellona abbiamo individuato nel Raval, un quartiere centrale e degradato, il luogo idoneo per sperimentare una sala stabile del consumo, così è nato il Baluard".

"In città - continua ancora Henar - ci sono altri spazi dove è possibile consumare stupefacenti in contesti protetti. Lì, come da noi, i consumatori arrivano con la propria dose, nella sala invece trovano materiale igienico, assistenza medica in caso di bisogno e soprattutto la possibilità di incontrare operatori con i quali intraprendere percorsi di recupero". Ma nelle attività svolte da Abd a Barcellona non ci sono solo le stanze del consumo, "qualche anno fa - racconta ancora la fondatrice del Baluard - abbiamo attivato un progetto per donne tossicodipendenti in gravidanza; è stata un’esperienza importante, spesso si sottovalutano alcuni aspetti della vita di chi ha problemi con le sostanze. Le donne incinte che usano droghe arrivano sovente al sesto/settimo mese di gravidanza in stato di grave prostrazione fisica e psicologica, offrire ascolto e intervento, accompagnare al metadone, garantisce salute e dignità a loro e ai nascituri".

Prima di salutarci torniamo al Baluard, alla sua organizzazione pratica. Alejandra Pineva racconta del grande impegno di ore e di professionalità, la sala infatti è aperta 24 ore su 24 e l’accesso è libero. Chi va al Baluard non deve necessariamente presentare un documento d’identità ma per ogni persona che passa si compila una scheda individuale tenuta poi costantemente aggiornata. Esther Henar entra nel dettaglio dell’organizzazione del lavoro: "oltre ai volontari ci sono circa 50 professionisti: medici, infermieri, ausiliari, operatori sociali. Tre turni da otto ore coprono l’intera giornata garantendo un presidio costante, apprezzato non solo dai consumatori di sostanze ma anche dalla gente del quartiere che ha visto migliorare la vivibilità del Raval, c’è meno degrado in strada".

Droghe: disturbi mentali, più diffusi tra teenager consumatori

 

Redattore Sociale - Dire, 24 settembre 2008

 

Tra gli adolescenti che fanno abuso di droghe c’è una più alta frequenza di sintomi psicotici, depressivi e ansiosi. Lo stabilisce una ricerca del Dipartimento di psichiatria dell’Università di San Paolo in Brasile presentata al XIV Congresso mondiale di psichiatria in corso a Praga. Per appurarlo i ricercatori hanno messo a confronto 41 adolescenti che richiedevano assistenza per problemi correlati all’alcol con 43 adolescenti senza problemi clinici. Il 38.5% di loro ha dimostrato di avere un rischio più alto di presentare una diagnosi psichiatrica. Inoltre il 74.2% di colore che abusano di droghe presentava un punteggio positivo rispetto ai sintomi di depressione. Mentre il 37.8% degli adolescenti sotto trattamento per abuso di sostanze potevano essere considerati a più alto rischio di presentare disordini legati all’ansia.

"Abbiamo stabilito - spiega lo psichiatra Thiago Fidalgo - che esiste una frequenza più alta di disordini mentali, psicotici, depressivi, e sintomi di ansia tra gli adolescenti che sono sotto trattamento per abuso di droghe. Questi dati- conclude il ricercatore brasiliano- rinforzano l’importanza di una dettagliata investigazione diagnostica tra i pazienti con disordini da uso di sostanze".

Droghe: perché ora cittadini di Torino chiedono le narco-sale

 

La Stampa, 24 settembre 2008

 

Fascisti. Reazionari. Razzisti. La gente dei comitati spontanei di Porta Palazzo, Sal Salvario, Parco Stura, di etichette (e veri insulti) ha fatto collezione. Ma oggi - a sorpresa - i Comitati si trovano sulla stessa sponda di Radicali, Rifondazione e la sinistra più estrema, a proposito dell’istituzione delle narco-sale, promosse a suo tempo anche dal sindaco Chiamparino.

Le vogliono anche loro, adesso. Possibile? "Possibile sì, perché dopo lo smantellamento di Tossic Park, e siamo tutti ben contenti che sia finita così, ci mancherebbe, i pusher africani e le loro migliaia di clienti si sono polverizzati in tutta la città, soprattutto a Porta Palazzo. In piazza della Repubblica, quando il mercato chiude, inizia quello dei pusher. Alla mattina, siringhe insanguinate, fantasmi che si aggirano tra i rifiuti.

Per non parlare del Ponte Mosca, il terminale più importante dello spaccio. E adesso basta", spiegano i dirigenti, dopo anni passati a combattere la criminalità, specie straniera, con l’aiuto di pochi. Recentemente, la procura (pm Andrea Padalino) ha deciso di varare una linea dura contro gli spacciatori: decine gli arresti e condanne molto più pesanti.

I comitati si sono rivolti a uno psicologo, Giancarlo Ballisai, che ha elaborato un ponderoso documento. Prima di addentrarci nella parte filosofica, c’è l’aspetto pratico. Dove, come, quando, realizzarle? I responsabili hanno già le idee chiare. In luoghi, come ex caserme di vigili ed esercito, lontano però dai settori abitati, una per ogni quartiere. Dentro un medico, infermieri e persone addette alla sicurezza. Il tossico entra, gli viene consegnata la dose (una proposta: utilizzare lo stupefacente sequestrato ai racket), i sanitari controllano che non ci siano problemi e poi via. Stop agli spettacoli orribili di ogni giorno, in mezzo alla strada, nei giardini pubblici, ovunque.

Scrive il dottor Ballisai: "Riconoscendo che tra coloro che fanno uso di eroina vi sono vari livelli di disagio e degrado personale, umano e sociale, si ritiene importante concentrarsi sui comportamenti del tossicodipendente... Porta Palazzo, San Salvario, Tossic Park sono il triste esempio di un degrado sempre più grave. Il tossicodipendente occupa il territorio, trasformandolo a propria immagine. Il bisogno di "farsi" porta il tossico a non curarsi minimamente di chi lo circonda e lo induce a comportamenti pubblici senza più inibizioni, rendendo normale il proprio comportamento e stile di vita". Queste le premesse.

Poi: "Riteniamo che istituire le "stanze del buco" possa aiutare i tossicodipendenti. Obiettivo, eliminare il fenomeno dello spaccio. Possono debellare quel sottobosco che vive delle attività criminali. Inoltre, riducono il rischio di overdose e aiutano i genitori nel mettere in guardia i propri figli".

Infine: "Alle narco-sale va affiancata l’introduzione di norme severe per proibire il "buco in strada". Per chi viene sorpreso, si applichi la Legge 180, che disciplina il trattamento del paziente psichiatrico e in particolare il Tso, cioè il trattamento sanitario obbligatorio. Il carcere non serve, i tossicodipendenti vanno curati. Ma via per sempre dalle strade".

Droghe: e a Milano il sindaco Moratti multa i tossicodipendenti

 

Notiziario Aduc, 24 settembre 2008

 

Una sanzione di 500 euro e l’obbligo di avviare un percorso psicoterapeutico con comunità o associazioni di recupero per tossicodipendenti: dovrà presto mettere in conto questa punizione, chi deciderà di consumare a Milano sostanze stupefacenti in un luogo pubblico. Su indicazione del sindaco Letizia Moratti e in conformità con i nuovi poteri previsti nel decreto Maroni, la segreteria generale ha messo a punto il testo di una nuova ordinanza che punirà severamente, in nome del decoro urbano, il consumo di droga nei parchi e nelle strade.

"L’ordinanza - ha spiegato il vicesindaco Riccardo De Corato - ricalca le precise richieste, rimaste inascoltate, che il Comune di Milano avanzò al governo Prodi sulla revisione normativa in tema di droga, che chiedevano misure coercitive ma anche interventi di recupero per chi consuma droga in pubblico". L’ordinanza, già concordata con la Prefettura, potrebbe entrare in vigore nella prima metà di ottobre, assieme ad altri quattro provvedimenti legati al contrasto della prostituzione, degli imbrattatori di muri, dell’accattonaggio e della guida in stato di ebbrezza.

L’indicazione dell’amministrazione è di uniformare tutte le sanzioni alla tariffa massima consentita dal decreto Maroni: 500 euro. La volontà di varare contemporaneamente tutte le ordinanze ha spinto il sindaco a rimandare l’immediata entrata in vigore del provvedimento contro la droga in attesa che, assieme al Prefetto, si risolvano le criticità formali emerse nel testo contro la guida in stato di ebbrezza, contro la quale la legislazione nazionale già prevede punizioni esemplari.

Dichiarazione di Virginia Fiume, tesoriera dell’Associazione Enzo Tortora- Radicali Milano. Con solerzia Letizia Moratti ha trovato il modo di esercitare i poteri speciali concessi ai sindaci dal decreto Maroni sulla sicurezza. Si legge oggi su tutti i giornali locali che tra le ordinanze in materia sarà prevista una sanzione amministrativa, fino a 500 euro, per chi verrà sorpreso a fare uso di droghe nei luoghi pubblici. Motivazione: la tutela del "decoro".

Come al solito a Milano prevale l’ipocrisia. Il Sindaco ritiene davvero che multando chi consuma sostanze si possa prevenire il consumo? Il Sindaco crede davvero che siano, per esempio, i fumatori di cannabis, ad attentare alla sicurezza della città? E soprattutto, potrebbe Letizia Moratti spiegarci il collegamento tra "decoro" e "sicurezza", attraverso il quale ha deciso di esercitare i poteri speciali del Decreto Maroni?

Ancora una volta, come nel caso della chiusura delle macchine scambia siringhe, la Moratti sceglie, ipocritamente, di costringere alla clandestinità i consumatori, incrementando di volta in volta il suo atteggiamento proibizionista e repressivo. Crediamo di non dover ricordare proprio a Letizia Moratti che in Italia è già in vigore una pesante legge in materia di droga, che prevede la segnalazione dei consumatori alle Prefetture e sanzioni sia penali che amministrative che variano a seconda dei quantitativi posseduti. Occorre davvero una legge speciale o le esigenze di cassa del Comune di Milano superano le già criminalizzanti leggi in vigore?

Usa: Corte Suprema blocca l'esecuzione 2 ore prima iniezione

 

Adnkronos, 24 settembre 2008

 

La Corte Suprema degli Stati Uniti ha deciso di bloccare l’esecuzione di un detenuto condannato a morte in Georgia appena due ore prima che iniziassero le procedure dell’iniezione letale. I sommi giudici americani hanno accolto il ricorso in extremis di Troy Davis, 39enne condannato per aver ucciso nel 1989 un poliziotto di Savannah, ed ora dovranno decidere entro lunedì prossimo se il condannato ha diritto ad un nuovo processo.

È la seconda volta che Davis ottiene un rinvio all’ultimo minuto della sua esecuzione: nel luglio del 2007 la decisione del rinvio era stata presa dalla Corte d’appello della Georgia 24 ore prima della data fissata per l’iniezione letale. Il caso di Davis ha suscitato interesse e scalpore a livello internazionale, anche perché sette dei nove testimoni a suo carico hanno finora ritrattato la deposizione. Al processo non furono presentate prove oggettive contro l’imputato e l’arma del delitto non è stata mai trovata. Se la Corte Suprema dovesse non accogliere la richiesta di un nuovo processo, scrive oggi il giornale Atlanta Journal-Costitution, l’ordine di stop dell’esecuzione cesserebbe di avere effetto.

Myanmar: Usa; tutti prigionieri politici devono essere liberati

 

Adnkronos, 24 settembre 2008

 

Gli Stati Uniti hanno chiesto a Myanmar di rilasciare tutti i prigionieri politici, ma hanno accolto positivamente la liberazione del noto dissidente U Win Tin. Per il vice portavoce del Dipartimento di Stato americano, Robert Wood, la liberazione del giornalista "era dovuta da lungo tempo, ma è uno sviluppo molto positivo". Wood è tornato a chiedere il rilascio del leader dell’opposizione Aung San Suu Kyi, agli arresti domiciliari da anni: "Continuiamo a chiedere al regime birmano di liberare tutti i prigionieri politici, tra cui Aung San Suu Kyi e di portare il paese sulla via della democrazia".

Gran Bretagna: sotto inchiesta costo di telefonate dei detenuti

 

Ansa, 24 settembre 2008

 

C’è prigione e prigione, in particolare nel Regno Unito, dove i detenuti di certe carceri pagano per le proprie telefonate all’esterno ben più dei propri colleghi di altri istituti di pena. Una situazione di squilibrio sulla quale è voluta intervenire Ofcom, la locale Autorità TLC.

In risposta ad una lamentela giunta all’Authority da una associazione di consumatori aderente ad un trust per la riforma delle carceri, Ofcom ha accertato che alcune prigioni, quelle gestite dall’Hmps (Her Majesty’s Prison Service) e quelle SPS, ossia quelle scozzesi, fanno pagare mediamente 60 centesimi a telefonata, contro i 48-51 delle altre carceri. L’intervento di un’Autorità in un settore telefonico di nicchia come quello delle chiamate dalle carceri è inconsueto ma, a detta dei commissari Ofcom, è necessario un intervento viste le conseguenze che queste disparità tariffarie possono avere sui detenuti.

Gran Bretagna: lotta al suicidio; estesa al web legge del 1961

 

Ansa, 24 settembre 2008

 

La Gran Bretagna continua la sua lotta al suicidio. La legge "Suicide Act" introdotta nel 1961 che proibisce l’aiuto al suicidio o l’omicidio di un consenziente, ha subito infatti una variazione connessa al mondo del web, che prima non poteva essere inserita nella legge data l’inesistenza di internet. Con questa riforma, il governo britannico dichiara illegali i siti in cui viene incoraggiato in modo esplicito il suicidio agli utenti della rete, che oggi sta diventando sempre più frequente. In questo modo i dipartimenti della polizia informatica possono monitorare e mettere al bando i siti che incitano la gente ad uccidersi.

Tra questi sicuramente ci sono quelli in cui vengono elencati e descritti i migliori modi per uccidersi (dal modo più veloce al meno doloroso, fino al più sicuro) o forum in cui si discutono le cause e conseguenze del gesto. Il sottosegretario alla Giustizia, Maria Eagle, ha detto in merito, che non esistono soluzioni "magiche" che riescano a proteggere gli utenti instabili da internet, aggiungendo che "Aggiornare il testo del Suicide Act, ad ogni modo, segnalerà che la Rete non rappresenta una dimensione fuori legge e che è possibile affrontare anche queste sfide del mondo digitale". Una presa di posizione contro il suicidio per cercare di arginare completamente, o quantomeno ridurre la portata di questo fenomeno, che sempre in misura maggiore contribuisce alla mortalità del paese.

 

 

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