Rassegna stampa 25 settembre

 

Giustizia: nuovo blitz del Pdl, arriva l'immunità per i ministri

di Liana Milella

 

La Repubblica, 25 settembre 2008

 

Un lodo Alfano per il premier Silvio Berlusconi. Per bloccare i suoi processi Mills e Medusa. Quello è già fatto. È alle spalle. Adesso serve un lodo Consolo per il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli, di cui Consolo è pure avvocato. Aennino il ministro, aennino il proponente. Tutto in famiglia. Com’è stato per il lodo Alfano. Uno scudo protettivo per fermare i processi alle alte cariche dello Stato fresco di pochi mesi. Un disegno di legge, pensato e scritto dal deputato Giuseppe Consolo, affidato alle cure del capogruppo di Forza Italia Enrico Costa, nelle prossime "priorità" della commissione Giustizia della Camera.

Una nuova porta aperta verso il definitivo ripristino dell’immunità parlamentare in stile 1948 per tutelare e mettere al riparo chi è già nei guai con la giustizia. In comune con il lodo Alfano la solita norma transitoria, quella che disciplina l’utilizzo di una legge, e che, anche in questo caso come per tutte le leggi ad personam, stabilisce che il lodo Consolo "si applica anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della presente legge".

Giustizia di casa nostra per tutto il governo Berlusconi. Stavolta per i suoi ministri. Per Matteoli in particolare, visto che a Livorno c’è un suo processo per favoreggiamento. Ma vediamo prima la proposta e poi la persona e il processo a cui si applica. Che si va a inventare Consolo per il suo cliente? Una leggina, due articoli in tutto, che rivoluziona le regole costituzionali per i reati ministeriali, quelli commessi da soggetti che sono, o sono stati, ministri. Un giochetto facile facile.

Rendere obbligatoria la richiesta di autorizzazione anche per i reati che, a parere del tribunale dei ministri, non meritano una copertura ministeriale e quindi, stando alle norme attuali, devono essere valutati e investigati dalla procura. Se, a parere dei pm e dei giudici, il delitto è stato commesso, il soggetto va a processo come un normale cittadino.

Eh no, questo a Consolo non sta affatto bene.

Anche perché c’è giusto il suo compagno di partito e legalmente assistito, il ministro Matteoli, ex capogruppo di An al Senato nella scorsa legislatura, e prima ancora ministro dell’Ambiente, che nel 2005 viene messo sotto inchiesta dalla procura di Livorno per aver informato l’allora prefetto della città Vincenzo Gallitto che c’erano delle indagini sul suo conto per l’inchiesta sul "mostro di Procchio", un complesso edilizio in costruzione a Marciana, nell’isola d’Elba.

Il tribunale dei ministri del capoluogo toscano decise che quel reato non aveva niente a che fare con la funzione di ministro ricoperta da Matteoli e rispedì le carte alla procura. Matteoli non si dette per vinto. Divenuto nel frattempo senatore convinse la Camera a sollevare un conflitto di attribuzione contro Livorno per la "ministerialità" del reato. La Consulta lo considera ammissibile e dovrà pronunciarsi. Nel frattempo il processo è congelato. Adesso Consolo lo vuole ibernare definitivamente.

Nel giorno in cui il Guardasigilli Angelino Alfano, alla Camera, strizza l’occhio all’opposizione, in particolare ad Antonio Di Pietro, e dice che si può "aprire un confronto su norme che vietino la candidabilità di persone che siano state condannate con sentenza passata in giudicato" e mentre il Senato, all’opposto, blocca la richiesta di arresti per il pidiellino Nicola Di Girolamo, ecco che si materializza il lodo Consolo, presentato per tempo l’8 maggio 2008, ma rimasto tra le proposte da valutare in commissione. All’improvviso esplode l’urgenza.

Con una legge che mette sullo stesso piano chi è ministro e ha commesso un reato nell’ambito delle sue funzioni, e quindi, in base all’articolo 96 della Costituzione, gode di una parziale tutela in quanto spetta alla Camera o al Senato dare il via libera all’indagine, con chi invece è pur sempre ministro, ma ha commesso un delitto nelle vesti di normale cittadino. Consolo pretende che il tribunale dei ministri trasmetta il fascicolo "con relazione motivata al procuratore della Repubblica per l’immediata rimessione al presidente della Camera competente".

Una surrettizia autorizzazione che verrebbe garantita a un comune cittadino giudicabile per un reato commesso in coincidenza con la funzione di ministro, ma al di fuori del suo lavoro di membro del governo. Un’indebita protezione ad personam, una sorta di invito a delinquere, perché tanto le Camere, come la storia cinquantennale dell’autorizzazione a procedere dimostra ampiamente, sono sempre pronte a negare ai giudici la possibilità di indagare.

Giustizia: Alfano; non toccare obbligatorietà dell'azione penale

 

Asca, 25 settembre 2008

 

Il ministro della Giustizia Angelino Alfano, intervistato da Bruno vespa nel suo libro "Un’Italia diversa. Viaggio nella rivoluzione silenziosa", in uscita ad ottobre, ribadisce che il governo nella sua riforma della Giustizia non intende "toccare l’obbligatorietà dell’azione penale che è un presidio dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma dobbiamo riflettere - spiega il ministro - su un meccanismo che ha consentito ai magistrati la più assoluta discrezionalità, al punto che tanti procuratori hanno dovuto e voluto dare un indirizzo specifico ai loro sostituti circa la priorità dei reati da perseguire".

"Non vedrei perciò male - continua - un indirizzo proposto dal ministro della Giustizia e dato dal Parlamento. D’altra parte, se la scelta deve farla un giudice che non può smaltire l’enorme lavoro piovutogli sul tavolo, meglio che decida un organo espressione del popolo sovrano".

Sulle priorità che il governo si trova oggi ad affrontare, Alfano dice: "In questo momento darei la precedenza ai grandi temi della criminalità e della sicurezza". Infine, a proposito delle indagini di polizia giudiziaria, il guardasigilli sottolinea che "la polizia giudiziaria ha una straordinaria capacità professionale per svolgere un lavoro che ha fatto egregiamente per quarant’anni, fino all’approvazione del nuovo codice penale dell’89.

Noi pensiamo che possa continuare a farlo in un rapporto di collaborazione con il pubblico ministero, ma non di sottomissione. Del resto il Pm ha fatto il concorso in magistratura e non in polizia e ha il compito di attivare e sviluppare l’azione penale. A chi eccepisce il rischio di uno stato di polizia obietto che nessuno può avere in questo campo la discrezionalità assoluta e meno che mai la Pg, che per quarant’anni non ha fatto correre rischi all’Italia". Ci sarà una differenza, secondo Alfano, rispetto ad oggi perché "oggi la polizia giudiziaria ha un rapporto di sostanziale sottomissione al Pm. Domani avrà una forte capacità autonoma per individuare la notitia criminis".

Giustizia: Pd; obiettivo governo è sottomissione magistratura

 

Asca, 25 settembre 2008

 

"Come dimostrano le azioni e le parole del ministro Alfano, è chiaro a tutti che l’obiettivo reale di governo e maggioranza è la sottomissione del potere giudiziario". Ad affermarlo è Lanfranco Tenaglia ministro di giustizia del governo ombra del Pd. "Sulle riforme costituzionali - aggiunge - continua la politica degli annunci che non specifica cosa e come si vuole riformare.

L’autonomia e l’indipendenza della magistratura e la soggezione del giudice alla legge sono principi irrinunciabili che si tengono insieme solo grazie al principio di responsabilità. Qualsiasi riforma, per essere conforme alla Costituzione, deve rafforzare questo impianto e non smantellarlo come pretende di fare il ministro Alfano con la separazione delle carriere e la riforma del Csm. Sulla giustizia civile, poi, Alfano spaccia per monete d’oro monete di latta".

"Ha fatto una marcia indietro indecorosa - afferma ancora Tenaglia - rispetto alla necessaria riduzione del periodo del sospensione feriale dei termini ed ha inserito, accanto a norme efficaci, altre che non solo non ridurranno i tempi dei processi ma li allungheranno. Se non vuole ascoltare l’opposizione e le sue proposte costruttive, ascolti almeno l’avvocatura e la magistratura italiane che stanno criticando i contenuti della sua riforma sul processo civile".

 

Riforma civile mina giusto processo

 

"Il Pd ha chiesto al Governo di ripensare i nodi fondamentali della riforma della Giustizia laddove intaccano il giusto processo, comprimono i diritti della difesa, consentono di acquisire testimonianze scritte di cui non è garantita l’autenticità e impediscono l’accesso al giudizio in Cassazione sulla base di valutazioni discrezionali e impugnabili di soli tre giudici della Cassazione". Lo rende noto la capogruppo del Pd nella commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti, che spiega: "Il Pd ha chiesto formalmente al relatore del provvedimento che queste valutazioni siano trasformate in prescrizioni nel parere che la commissione si appresta a dare al Governo".

"Il nostro giudizio - aggiunge Ferranti - è severo perché si tratta dell’ennesimo intervento del Governo privo di qualsiasi previsione adeguata di risorse economiche, di personale e di strutture organizzative. La giustizia civile - conclude - è lasciata ancora sola, senza uomini, senza mezzi, senza strutture. È ancora uno slogan che di certo non contribuirà all’accelerazione dei processi".

Giustizia: il Csm darà un parere su riforma di processo civile

 

Asca, 25 settembre 2008

 

Il Consiglio Superiore della Magistratura esprimerà un proprio parere sulle modifiche al Codice di Procedura Civile, con un voto del plenum che arriverà prima della votazione di uno dei rami del Parlamento. A proporre l’intervento è stato Gianfranco Anedda, laico in quota An: "Non mi fa velo affermare che su una riforma così importante il Csm non solo può, ma deve dare il proprio parere, in quanto trattasi di materia riguardante l’organizzazione della giustizia". Il Vice Presidente Mancino ha assicurato il cons. Anedda che sottoporrà la questione al Comitato di presidenza al fine di stabilire la convocazione di una seduta straordinaria del Consiglio

Giustizia: Eurispes; ogni giorno viene rinviato 70% di processi

 

Reuters, 25 settembre 2008

 

I processi che ogni giorni si concludono in Italia con una sentenza sono meno del 30%, mentre nei due terzi dei casi sono rinviati ad altra udienza, soprattutto per irregolarità procedurali, assenze e problemi organizzativi. È quanto emerge da un’inchiesta condotta dall’Eurispes con l’Unione delle Camere penali pubblicata oggi.

L’inchiesta, che punta soprattutto ad accertare le ragioni della grande lentezza del sistema giudiziario penale, ha rilevato, come dato generale, che i processi, quando arrivano a sentenza, sono brevi. Il fatto è che nel 69,3% dei casi si aggiornano ad altra udienza e allora il tempo passa: si devono aspettare mediamente 139 giorni per tornare davanti al giudice in aula monocratica e 117 per i processi dibattuti in aula collegiale.

Scorporando il dato su base geografica, Eurispes ha rilevato che al Sud la percentuale dei rinvii sfiora l’80%. Si scende, di poco, al Centro con il 70,5%, per arrivare al 62,9% del Nord-Ovest e il 60,5% del Nord Est. Ma sui tempi del rinvio la maglia nera spetta al Centro con 163 giorni, mentre al Sud si arriva a 152 e al Nord 146.

I riti alternativi - abbreviato, patteggiamento - non funzionano, in quanto coprono meno del 10% del totale dei processi, ha detto Eurispes. Alla base delle lungaggini prevalgono di gran lunga le ragioni "patologiche" su quelle "fisiologiche"; pesano in misura minima i rinvii causati dalla complessità del dibattimento, mentre problemi logistici, assenza del giudice, impedimenti vari, mancata citazione o comparizione dei testimoni fanno la parte del leone.

L’Eurispes e l’organo di rappresentanza degli avvocati, che hanno condotto l’inchiesta in 27 tribunali italiani puntano soprattutto il dito su errori e omissioni delle notifiche o delle citazioni. Il 9,4% dei processi vengono rinviati ad altra udienza per "omessa o irregolare notifica all’imputato", l’1,3% alla persona offesa" e lo 0,9% al difensore.

"In sintesi, già nella fase preliminare, prima ancora che si proceda alle richieste di ammissione delle prove da parte di accusa e difesa, il 47,4% dei processi fissati per l’inizio del dibattimento viene rinviato", si legge nel rapporto.

Tra i processi invece che devono entrare nel vivo, fissati per lo svolgimento del dibattimento, il 54% è rinviato senza alcuna attività "perché l’atto, in verità assai banale, della citazione del testimone o è stato del tutto omesso, o è stato effettuato in modo errato, o, pur effettuato regolarmente, non è stato ottemperato dal destinatario", dice l’inchiesta.

Un "falso problema", secondo Eurispes, è il cambiamento del giudice in corso di causa - dunque rinvio e azzeramento della trattazione del processo - in quanto il problema ha incidenza sul totale dei processi dell’1%.

Pesano ben di più i rinvii per assenza del giudice, il 12,4% del totale, a cui vanno sommate la "precarietà del collegio" (1,5%) e assenza del Pm titolare (0,2%). Il 6,8% dei rinvii è imputabile invece a problemi "tecnico-logistici", che vanno dall’indisponibilità dell’aula all’assenza dell’interprete alla mancanza del fascicolo del Pm o del dibattimento. Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha detto che una delle sue priorità per l’autunno è la riforma del processo penale e civile per sveltire i tempi della giustizia, puntando su un consenso bipartisan.

Giustizia: Eurispes; 18 minuti, la durata media di un processo

 

Asca, 25 settembre 2008

 

La durata media della trattazione di un processo in udienza è di 18 minuti per i processi celebrati dinanzi al Giudice monocratico (a Roma si arriva a 12,51 minuti) e di 52 minuti per quelli celebrati dinanzi al Collegio (32 nella Capitale). È quanto emerge dal Rapporto sul Processo Penale elaborato dall’Eurispes e l’Unione Camere Penali Italiane. L’indagine, realizzata sul campo con l’obiettivo di far emergere i veri problemi che attanagliano il sistema giudiziario italiano, si è sviluppata attraverso il monitoraggio dei processi che si sono svolti nei Tribunali di: Ancona, Bari, Bologna, Brescia, Cagliari, Catania, Catanzaro, Firenze, Lucca, Macerata, Melfi, Milano, Modena, Modica, Monza, Napoli, Padova, Palermo, Parma, Piacenza, Roma, Salerno, Sassari, Torino, Trani, Trieste, Varese e Venezia.

Giustizia: Radicali; in 6 anni 865.000 i reati "non perseguiti"

 

www.radiocarcere.com, 25 settembre 2008

 

"L’obbligatorietà dell’azione penale è morta da tempo". Lo sostengono i radicali che, sulla base delle cifre sui reati prescritti negli ultimi 6 anni, sostengono che sono "oltre 865.000" i "potenziali crimini" che i pm, "ciascuno nel chiuso della propria stanza, hanno scelto, volenti o nolenti di non perseguire"; "scelte di cui non si conoscono criteri, termini e motivazioni" e che avvengono nell’assenza di qualsiasi principio di responsabilità".

Secondo gli ultimi dati della Direzione generale statistica del ministero della Giustizia, anticipati da Radio Carcere, "nel 2007 su 144.047 declaratorie di prescrizioni ben 116.207 (di cui solo 3.437 per procedimenti pendenti contro ignoti) sono state definite in fase di indagini preliminari con una richiesta i archiviazione - sottolineano Rita Bernardini e Giuseppe Rossodivita, Presidente del Comitato Radicale per la Giustizia P. Calamandrei - e dunque senza alcun esercizio dell’azione penale da parte dei Pubblici Ministeri, pur in presenza di notizie di reato non infondate.

Solamente 27.840 le prescrizioni pronunziate nella fase dell’udienza preliminare e nel corso dei primi due gradi di giudizio di merito". I dati sui decreti di archiviazioni per prescrizione sono "costanti" negli ultimi sei anni e "tolgono qualsiasi argomentazione a coloro che sostengono che le prescrizioni maturano per le troppe garanzie difensive o per gli atteggiamenti dilatori ed ostruzionistici dei difensori. Si tratta, infatti, di prescrizioni maturate sui tavoli e gli scaffali degli Uffici dei pm".

Giustizia: la "scuola americana", più rigore e taglie sui pedofili

 

La Tribuna di Treviso, 25 settembre 2008

 

Da una parte e dall’altra dell’oceano, lo stesso problema: la sicurezza. Come stroncare la criminalità, micro e macro? E quella che viaggia in rete, fino all’orrore della pedofilia? Una delegazione della National Police Defense Foudation, ieri è sbarcata a Cà Sugana: parteciperà al summit "Sicurezza, due mondi a confronto", domani e sabato a palazzo Rinaldi.

È stata accolta dal sindaco Gobbo e dall’assessore alla sicurezza De Checchi: e spiccava l’assenza dello "sceriffo" Gentilini. La fondazione d’Oltreoceano - 120 mila membri in 12 paesi - ha organizzato a Treviso la 1ª conferenza internazionale sulla sicurezza per mettere a disposizione la propria esperienza. A capo della Npdf, fondata nel 1995, Joseph Occhipinti, pluridecorato agente federale degli States, uno dei maggiori esperti di crimine etnico organizzato e infiltrazione internazionale. "Siamo qui per preparare Treviso - spiega Occhipinti - ad affrontare i problemi del futuro. Non avete tanti criminali, ma i nostri programmi potrebbero esservi utili".

Nei due giorni offrirà alcune ricette: taglie per il ritrovamento di bambini scomparsi o rapiti, ricompense a chi aiuta a combattere la pedofilia, o ancora a chi assicura alla giustizia banditi pericolosi. Ma anche il rigore nella lotta all’evasione, piaga trevigiana e italiana. "Certo Treviso non è New York - afferma il sindaco Gobbo - ma nel nostro piccolo abbiamo problemi, e da loro possiamo imparare. Il 75% delle nostre carceri è straniero. In America la clandestinità è un reato: dovremmo fare così anche in Italia".

Giustizia: Cota (Lega): è prioritario rivedere la legge Gozzini

 

Ansa, 25 settembre 2008

 

La Lega Nord nei prossimi giorni presenterà una proposta di legge per riformare la legge Gozzini e le altre disposizioni relative alle misure alternative alla detenzione. È il capogruppo del Carroccio alla Camera, Roberto Cota, che annuncia l’imminente azione parlamentare del movimento bossiano.

L’obiettivo, ha spiegato il segretario del Piemonte, è semplice: "Restringere le possibilità di applicazione delle misure alternative al carcere ed escluderle per i reati gravi. Rivedere la legge Gozzini è diventata una priorità, anche alla luce del sentimento comune secondo cui è doverosa la certezza della pena e tutti i benefici che possono derivare dalla legislazione in vigore sembrano spesso delle beffe nei confronti dei cittadini, delle vittime e dei loro parenti". Continua Cota, che lancia un’accusa esplicita: "Dovrebbe bastare il buon senso per evitare che un condannato per omicidio o per mafia esca dal carcere: ma, visto che i magistrati questo buon senso non ce l’hanno, bisogna mettere un punto fermo".

Giustizia: Osapp; appello per riforma strutturale del carcere

 

Il Velino, 25 settembre 2008

 

"Annotiamo con forte rammarico come lo stato di torpore mediatico in cui si trova il dibattito sulle riforme della Giustizia, e del carcere, renda vana anche la più lieve delle speranze". Lo dichiara il segretario generale dell’Osapp Leo Beneduci.

"Come organizzazione sindacale autorevole - prosegue - abbiamo sempre offerto una lettura realistica dei fenomeni che avevamo di fronte, e non per ultimo la segnalata esigenza di un potenziamento degli organici in Campania a fronte del dispiegamento di Forze dell’ordine disposto dai ministeri dell’Interno e della Difesa. Ma parlare di riforme sembra adesso non avere più alcun senso, come vuoto è sembrato essere il nostro richiamo dopo i tragici fatti di Castel Volturno. È facile a questo punto - continua il segretario dell’Osapp - pensare che i richiami servano a ben poco, rispetto a chi prefigura ancora oggi la possibilità di un cambiamento attraverso singole iniziative, o attraverso politiche aleatorie come per il braccialetto elettronico o il rimpatrio degli stranieri nei loro paesi d’origine".

"Una scelta precisa quella del ministro della Giustizia - aggiunge Beneduci - che blocca ogni tentativo di confronto serio sul ruolo del poliziotto penitenziario e sull’incidenza che potrebbe avere per una gestione delle carceri migliore e più efficace. Lanciare gli allarmi sul fenomeno del sovraffollamento, e sulle difficoltà di un’amministrazione penitenziaria che deve oggi gestire una situazione sempre più orientata alla rovina sociale, è l’unico strumento che ci permette di riproporre quel refrain che speriamo arrivi al cuore della discussione politica. Perché - sottolinea - i problemi rimangono, soprattutto quando i detenuti sono oramai arrivati a quota 56.226 e quando non ci sono gli uomini, coloro che sono incaricati alla rieducazione. E perché rispetto ad un organico di 10.189 operatori amministrativi e tecnici, 3.606 sono le unità di personale mancanti, e le restanti non sempre sono applicate al carcere. Una situazione drammatica che configura, ad un completamento della dotazione prevista di 41.233 agenti di Polizia Penitenziaria, 5.180 poliziotti che non rispondono all’appello. Mancanti, quindi, anche se previsti nelle piante organiche dei penitenziari". (segue)

"Alla luce della realtà, quindi, che ancora una volta vogliamo rappresentare - conclude Beneduci -, esortiamo le forze politiche a un confronto sui mali del carcere e sulle potenzialità della nostra categoria, per una riforma condivisa che consenta uno scatto in avanti necessario a tutto il sistema. Un progetto, il nostro, che sia capace di contemplare un ruolo più indipendente del Poliziotto Penitenziario, unica figura in grado di assicurare ora quella continuità del servizio che manca in tutti gli altri casi. Il ministro della Giustizia si accorgerà presto, che senza una riforma strutturale le carceri giungeranno definitivamente al collasso, senza che vi sia possibilità alcuna di lanciare l’ennesimo allarme".

Giustizia: Sappe; 100.000 detenuti se clandestinità sarà reato

 

Comunicato Sappe, 25 settembre 2008

 

È necessario differenziare la detenzione dei soggetti arrestati per il reato di immigrazione clandestina, con la previsione di assegnazione in strutture ad hoc (quali, ad esempio, le carceri mandamentali e le caserme delle Forze Armate oggi dismesse), evitando, quindi, il loro inserimento nei circuiti penitenziari tradizionali. Altrimenti in poco tempo l’Italia raggiungerà la spaventosa cifra di 100mila detenuti. Ma soprattutto è necessario potenziare gli organici del Corpo di Polizia Penitenziaria e perseguire una politica di formazione e aggiornamento professionale dei Baschi Azzurri da destinare a questo nuovo gravoso compito istituzionale.

Sono la preoccupazione e l’auspicio della Segreteria Generale del Sindacato autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione di Categoria con oltre 12 mila iscritti, in relazione alle possibili ricadute del reato di immigrazione clandestina nel sistema penitenziario del Paese contenuto in un disegno di legge sulla sicurezza all’attenzione delle commissioni Giustizia ed Affari Costituzionali del Senato.

"Ci auguriamo che i Ministri dell’Interno e della Giustizia Maroni e Alfano e le Commissioni Giustizia ed Affari costituzionali del Senato tengano nel debito conto le ricadute che comporterà l’eventuale introduzione del reato di immigrazione clandestina sui nostri penitenziari, già abbondantemente sovraffollati con 56mila detenuti presenti a fronte di poco più di 42mila posti" aggiunge il segretario generale Sappe Donato Capece, che auspica - in analogia a quanto fatto con il Sindacato di Polizia - un’audizione informale del Sappe avanti le due Commissioni parlamentari.

"Le nostre strutture non sono in grado di sostenere un ulteriore aumento di detenuti e poiché il reato di immigrazione clandestina serve ad espellere più facilmente chi entra illegalmente nel nostro Paese - perché è previsto l’arresto immediato, il giudizio immediato ed un immediato provvedimento di espulsione - riteniamo si debba ricorrere non già ai circuiti penitenziari tradizionali (abbondantemente sovraffollati) ma ad altre strutture che dovranno essere rapidamente attrezzate come le carceri mandamentali e le caserme delle Forze Armate oggi dismesse. Altrimenti rischieremmo di avere presto ad avere una popolazione detenuta di 100mila persone e l’impatto di questo nuovo reato sui nostri penitenziari sarebbe devastante. Proprio per questo siamo disponibili ed auspichiamo di poter essere ascoltati dalle Commissioni Giustizia e Affari costituzionali del Senato".

Roma: assolta dopo tre anni di carcere; l'infarto alla sentenza

 

Comunicato stampa, 25 settembre 2008

 

Ha passato gli ultimi tre anni della sua vita in una cella del carcere di Rebibbia accusata di aver ucciso un parente. Ieri, in Tribunale, alla lettura della sentenza della Cassazione che la scagionava, ha avuto un infarto per la gioia della scarcerazione ed è finita in un letto dell’ospedale "Santo Spirito" di Roma. Protagonista della vicenda, segnalata dal Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti Angiolo Marroni, una donna di 50 anni originaria dello Sri Lanka e da tempo in Italia.

A quanto appreso dal Garante le sue condizioni di salute non sarebbero ora preoccupanti anzi, la donna, che non ha altri parenti in Italia, dovrebbe uscire dall’ospedale entro qualche giorno.

La donna era entrata in carcere 3 anni fa con l’accusa di aver ucciso un parente. In attesa che l’iter giudiziario facesse il suo lento corso la donna, che si è sempre proclamata innocente, in carcere aveva evitato di farsi travolgere dalla vicenda, iniziando anche a lavorare nella lavanderia di Rebibbia. Per assicurarle una sistemazione dignitosa la donna, una volta uscita dall’ospedale, sarà ospitata in una struttura di accoglienza privata di Roma gestita da delle religiose.

" Questo è un ennesimo caso di mala giustizia - ha commentato il Garante dei detenuti Angiolo Marroni - Non solo a questa donna sono stati tolti tre anni della sua vita ma, a quanto mi riferiscono, deve la sua libertà ad un avvocato che ha davvero preso a cuore la sua vicenda, accompagnandola per mano fino alla definitiva assoluzione. Un privilegio di cui non credo possano giovarsi tutti gli stranieri attualmente detenuti. La vicenda, inoltre, mette in evidenza i temi dell’eccessiva lentezza dei processi e dell’esagerato uso della carcerazione preventiva. Elementi, questi, che contribuiscono non poco al sovraffollamento delle carceri italiane".

 

Ufficio del Garante dei detenuti del Lazio

Caserta: Maroni: è guerra civile; La Russa: è lotta tra le bande

 

La Stampa, 25 settembre 2008

 

Siamo di fronte a una "guerra civile che la Camorra ha dichiarato allo Stato e questo deve rispondere con tutti i mezzi". Lo ha dichiarato nel corso della sua audizione nell’Aula di Palazzo Madama, il ministro dell’Interno Roberto Maroni, secondo cui l’eccidio di Castel Volturno "è stato un atto di autentico terrorismo con cui la Camorra ha voluto ribadire il controllo del territorio, lanciando un segnale allo stato".

Secondo il titolare del Viminale, sarebbe stato l’arresto di Domenico Bidognetti a scatenare una guerra, condotta unilateralmente da un gruppo di 10 affiliati al clan dei Casalesi contro immigrati clandestini che controllavano fino a quel momento, con il beneplacito del boss, il traffico di stupefacenti in alcuni comuni del Casertano. "Il clan dei Casalesi è fortemente radicato nell’arco domiziano, a Maddaloni, a San Felice al Cancello", ha detto aggiungendo che "in questi comuni i Casalesi hanno propri affiliati anche al’interno delle istituzioni locali". Maroni ha poi invitato "il parlamento a studiare, assieme al Governo, le iniziative necessarie per la riduzione dei benefici carcerari a tutti coloro che sono accusati di reati di mafia" ed ha infine sollecitato "a mettere da parte polemiche pretestuose su questo argomento", chiaro riferimento a quanto prodotto dalla notizia del fermo di Alfonso Cesarano, catturato in casa dei genitori dove scontava gli arresti domiciliari. Un passaggio, questo, che dai banchi della maggioranza è stato accolto con un lungo applauso.

Apprezzamenti positivi da parte di esponenti della maggioranza, di taglio ben diverso quelli dell’opposizione: "un governo che invia militari e nuovi uomini di polizia e carabinieri, da una parte, e che taglia per 3 miliardi di euro le risorse alle forze dell’ordine dall’altra. Una contraddizione" secondo il capogruppo dell’Italia dei valori al Senato, Felice Belisario, che declassa a "interventi spot" quelli del ministro dell’Interno Roberto Maroni "che sembra venga dalla luna...". "Il sostegno alle Forze dell’ordine non si rende a parole o, peggio, con i tagli, ma garantendo risorse e mezzi maggiori": lo afferma il capogruppo Udc-Svp del Senato, Gianpiero D’Alia che propone, "considerata la natura terroristica della strage di Castel Volturno, l’attribuzione alla Procura nazionale antimafia della competenza sul contrasto al terrorismo".

Il titolare della Difesa prende però le distanze dalla posizione di Roberto Maroni: "Pur condividendo nella sostanza il pensiero del ministro dell’Interno, non parlerei di guerra civile: mi sembrerebbe quasi di dare una patente, non dico di legittimità ma di importanza extracriminale, alla camorra". È quanto tiene a precisare Ignazio La Russa nel corso del suo intervento su i fatti di Caserta. "Capisco il senso delle dichiarazioni di Maroni, ma credo che si tratti di un’aggressione della criminalità organizzata alla legalità, più che di una guerra civile contro lo Stato". Per La Russa, "in questa fase, l’obiettivo di questo gruppo criminale è sì di violare le leggi dello Stato ma l’attacco è diretto ad altre forme di criminalità, per cercare di realizzare una sorta di monopolio del crimine in questo territorio: il vecchio termine di guerra fra bande si adatta anche a questa fase", osserva il ministro della Difesa.

Caserta: soldati per combattere contro camorra? sono inutili

di Lietta Tornabuoni

 

La Stampa, 25 settembre 2008

 

Cinquecento soldati inviati nel Sud a combattere la camorra: e cosa faranno? Se non conoscono il territorio né la criminalità organizzata, sarà piuttosto improbabile che possano svolgere con un profitto anche minimo un’attività di investigazione. Ma no, il ministro della Difesa dice che serviranno soprattutto a formare posti stradali di blocco e di controllo. Ora, a proposito dell’esercito usato in funzioni di ordine pubblico, ci sono un paio di cose su cui si può riflettere.

I soldati-poliziotti rappresentano, nel nostro sistema, una criticabile novità. Certo, si ricorda quando vennero impiegati brevemente dopo il rapimento di Aldo Moro: formarono posti di blocco per le strade, stettero a pencolare in piedi per un po’ senza sapere contro chi applicare i propri sospetti (non fermavano le auto con donne incinte o con persone dai capelli bianchi, ritenendoli terroristi impossibili), poi vennero ritirati. Utilità, quasi zero.

L’allora ministro dell’Interno Cossiga sosteneva che costituissero un deterrente, che la loro presenza potesse limitare la circolazione di terroristi come lo spaventapasseri intimorisce gli uccelli: e infatti i terroristi stavano dentro un appartamento con Moro interrogandolo, mentre alle commissioni fuori casa erano addetti altri ragazzi dall’aspetto innocente o almeno comune. Nella storia europea o latinoamericana, poi, l’esercito in piazza è sempre stato un segno di minaccia, di situazioni estreme di rivolta o d’invasione: e l’Italia non è in queste situazioni, almeno in queste situazioni non è.

Per istruzione e addestramento, i soldati sono inadatti alle indagini. Per di più, in passato si trattava di soldati di leva, mentre ora sono volontari: e non si possono usare i volontari come domestici, spedendoli qua e là a fare un lavoro diverso dal proprio. Anche se vengono all’occasione pagati più del solito, inviarli sul fronte della spazzatura, della sicurezza o della camorra è una decisione abusiva, che può soltanto suscitare malcontento, mortificazione, protesta. Lo spadroneggiare, in questo settore, del presidente del Consiglio e dei suoi ministri, esprime esclusivamente il desiderio di dare (a spese altrui) l’impressione di star facendo qualcosa, di decidere, di compiere gesti forti e drastici: ma non è così, e la gente non è tanto scema da non saperlo.

Gorgona: isola-carcere esperienza pilota agricoltura biologica

 

In Toscana, 25 settembre 2008

 

La Commissione del Consiglio regionale ha svolto una visita all’isola carcere di fronte a Livorno.

"Quella dell’isola di Gorgona è una delle esperienze di alto livello da valorizzare e questo è uno dei motivi per cui oggi siamo venuti qui, nella consapevolezza che ci sono delle problematiche da affrontare e superare. Alla politica, però, spetta la risoluzione di alcuni problemi, come ad esempio l’incremento dell’agricoltura, dell’allevamento o dell’acquacoltura, lo sviluppo della produzione di energia da biomasse o del fotovoltaico attraverso l’utilizzo della superficie dei tetti delle strutture carcerarie. Per il resto, purtroppo, noi come Consiglio regionale possiamo solo sollecitare livelli più alti".

Il presidente della commissione Agricoltura, Aldo Manetti del Prc, ha concluso così l’incontro che si è svolto al termine della visita che la sua commissione ha fatto oggi all’isola di Gorgona, la più piccola e settentrionale delle isole dell’arcipelago toscano, dove esiste una colonia penale ad indirizzo agro-zootecnico fin dal 1869 e che dal 1998 fa parte del Parco nazionale dell’arcipelago toscano.

"Nostra intenzione è anche quella di avviare un confronto con gli Enti locali del territorio perché siamo fra l’altro convinti che quello che viene fatto qui può esser fatto pure in altre isole dell’arcipelago", ha precisato Manetti. Che ha aggiunto: "Vogliamo inoltre capire cosa è possibile fare nei confronti dei detenuti in modo da dare piena attuazione all’articolo 27 della Costituzione che prevede il vero recupero dei carcerati e non la loro repressione. Di certo, dopo aver cominciato a lavorare fattivamente, torneremo a Gorgona per non abbassare il livello dell’attenzione e per agire da stimolo per quello che può essere un progetto pilota sotto molteplici punti di vista".

Assieme al presidente Manetti, hanno partecipato alla visita all’isola di Gorgona il vicepresidente della commissione, Virgilio Simonti del Pd, ed i consiglieri Nicola Danti e Mauro Ricci sempre del Pd ed Angela Notaro di An-Pdl.

"Avendo tanti anni fa partecipato, allora da amministratore locale, all’avvio del progetto Gorgona, oggi devo complimentarmi per i grandi passi in avanti che sono stati fatti", ha affermato il vicepresidente Simonti. Il quale ha sottolineato: "Credo che sia necessario, oggi, ridare impulso e gambe al laboratorio Gorgona, che è un’isola carcere del tutto eccezionale e particolare, dove le attività lavorative legate alla terra e alla cura degli animali servono al recupero delle persone".

L’isola di Gorgona si estende per poco più di 2 chilometri quadrati e il carcere che vi ha sede viene chiamato "la prigione buona" essendo una casa di reclusione agricola in cui i detenuti, in un regime di semilibertà controllata, lavorano i campi ed a progetti di acquacoltura o ricerca biologica. Attualmente nell’isola, oltre ha pochi residenti, vi sono una sessantina di detenuti e una cinquantina di guardie carcerarie, più educatori, personale sanitario e perfino un dipendente di Poste italiane che tiene aperto il piccolo ufficio postale dell’isola. Da un punto di vista amministrativo, l’isola fa parte del territorio comunale di Livorno.

Alla delegazione della commissione Agricoltura, dopo le strutture di riproduzione e di allevamento dei bovini, sono stati mostrati il frantoio, la cantina di produzione del vino e il caseificio. Ai consiglieri regionali è stato inoltre indicato il tratto di mare in cui esiste quella che può essere definita la prima struttura di acquacoltura al mondo nell’ambito di un carcere. In Gorgona, infatti, vengono allevate orate in apposite vasche, situate in mare aperto, che consentono a questi pesci di mantenere le medesime caratteristiche delle orate d’altura.

"Importante è far conoscere il nostro lavoro", ha detto il direttore del carcere, Carlo Mazzerbo, accompagnato dal veterinario omeopata Marco Verdone e dal biologo specialista in acquacoltura Nicola Borgoni. "Scopo dell’amministrazione carceraria è quello di rilanciare l’isola e per far questo occorre che vi sia la sinergia di tutti, dalla Regione alla Provincia al Comune, perché tutti questi Enti assieme, con le loro diverse competenze, possono contribuire a sviluppare attività che sono sì produttive, e magari servono all’autosufficienza dell’isola, ma anche e soprattutto di recupero di esseri umani che hanno sbagliato ma che hanno anche il diritto a trovare la giusta modalità di reinserimento nella vita civile del nostro Paese".

Roma: l’istruzione per i detenuti grazie al "Progetto Chance"

 

www.consorzioparsifal.it, 25 settembre 2008

 

Inaugurato nel carcere di Rebibbia il nuovo anno scolastico e formativo 2008/2009. Alla manifestazione erano presenti, l’Assessore all’Istruzione della Regione Lazio, Silvia Costa, l’Assessore alle Politiche della scuola della Provincia di Roma, Paola Rita Stella, la Presidente della Commissione istruzione del Consiglio regionale del Lazio, Anna Maria Massimi, il Garante dei diritti dei detenuti, Angiolo Marroni, che guidati dal Direttore del penitenziario Stefano Ricca, hanno in precedenza visitato le aule informatiche e i laboratori del carcere. La presenza di tali autorità ha sottolineato l’importanza del progetto che ha lo scopo di sostenere il diritto di tutti allo studio e il dovere del recupero umano e sociale dei detenuti, nonché il loro reinserimento lavorativo.

Grazie al "Progetto Chance", finanziato dall’Assessorato regionale all’Istruzione, che si concluderà a novembre, è stata data la possibilità ai detenuti del Lazio di partecipare ai corsi di formazione in collaborazione con la rete delle scuole del Lazio, in particolare i Ctp (Centri territoriali permanenti) e corsi di formazione professionale, che hanno coinvolto in totale, in tutta la Regione, circa 1.200 detenuti.

Lo scorso anno oltre 40 studenti universitari presenti nel nuovo edificio di Rebibbia, in collaborazione con Ufficio del Garante e con l’Università Tor Vergata, hanno effettuato importanti esperienze di teledidattica, altri 400 studenti hanno partecipato ad attività integrative dell’azione dei Centri territoriali permanenti del Lazio e della sezione scolastica presso Rebibbia, coordinata da Tils. Un’altra attività, guidata dall’ente Enaip in rete con soggetti formativi e cooperative già attive nelle carceri del Lazio, ha riguardato 721 allievi in corsi professionalizzanti ed ha attivato 58 tirocini presso le imprese. Sempre con i fondi di Progetto Chance sono stati attivati 14 laboratori informatici e attrezzato i laboratori di falegnameria e restauro.

Napoli: Poggioreale, affollamento oltre limite del pre-indulto

di Gennaro Scala

 

Il Mattino, 25 settembre 2008

 

I dati sul sovraffollamento nei penitenziari sono nuovamente allarmanti e il carcere di Poggioreale detiene un primato negativo. Secondo dati dell’associazione Antigone aggiornati all’agosto 2008, nel penitenziario di Poggioreale si è registrato il primo boom del dopo indulto.

Ovvero, i detenuti hanno toccato quota 2.221. L’incremento è indicativo, perché nel 2005 (prima del provvedimento di clemenza) i detenuti erano 2.174. Nel 2006, un anno dopo, a Poggioreale c’erano 1.520 reclusi. Allo stesso mese dell’anno successivo erano saliti di circa trecento unità (1.802). A tutt’oggi i detenuti sono 2.221, un numero che ha azzerato e oltrepassato la condizione del sovraffollamento del periodo precedente all’indulto.

"La mancata adozione di provvedimenti strutturali da parte di Governo e Parlamento per modificare il sistema penitenziario contestualmente all’approvazione dell’indulto ha riportato le carceri italiane a livelli di sovraffollamento insostenibili, arrivando oggi ad avere un numero di detenuti pressoché uguale a quello per il quale, un anno fa, l’80% dei parlamentari italiani decise di approvare il provvedimento di clemenza".

Lo ha affermato Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe), organizzazione con 12mila iscritti, analizzando i dati penitenziari riferiti al 31 agosto scorso. "Ma e ‘è di più - ha aggiunto Capece - se in tempi estremamente brevi non sì troveranno soluzioni alternative alla detenzione, le carceri italiane non saranno in grado di accogliere nuovi detenuti. Di fronte a tutto questo registriamo stupiti ì silenzi della politica". "I dati indicano - ha spiegato il Sappe - che a fronte di una presenza di quasi 56mila persone, di cui 2.500 circa le donne, gli istituti di pena nel nostro Paese potranno ospitare ancora circa 8mila detenuti, "limite tollerabile" rispetto alla capienza regolamentare degli istituti già "abbondantemente superata, pari a 42.992 posti".

"Dei 56mila detenuti - ha continuato il Sappe - ben il 53% sono gli imputati e quasi 21 mila gli stranieri e di questi ben 2.500 circa gli albanesi, 1.110 gli algerini, 4.550 i marocchini, 2.258 i tunisini e 2.787 i romeni. Si pensi che alla data del 31 luglio 2006, prima cioè dell’approvazione dell’indulto, avevamo nei 207 istituti penitenziari italiani 60.710 detenuti a fronte di una capienza regolamentare pari a 43.213 posti.

"Approvato l’indulto esattamente un mese dopo, e cioè il 31 agosto 2006, il numero dei detenuti presenti in carcere era drasticamente sceso a 38.847 unità. E si consideri - ha sottolineato il Sappe - che i detenuti che materialmente uscirono dal carcere per effetto dell’indulto sono stati circa 27mila e 500, cui bisogna aggiungere quelli che ne hanno beneficiato pur non essendo fisicamente in un penitenziario: circa 6.800 che fruivano di una misura alternativa alla detenzione, circa 200 già usciti dal carcere per l’indultino del 2003 e 250 minori".

"Il confronto tra queste cifre - ha sostenuto Capece - dimostra l’occasione persa dalla classe governativa e politica quando, approvato l’indulto, non ha raccolto l’auspicio del Sappe di ripensare, allora, il carcere e adottare con urgenza rimedi di fondo al sistema penitenziario, chiesti autorevolmente più volte anche dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano".

Lecce: la Uil denuncia; la situazione è "esplosiva e pericolosa"

 

Comunicato Stampa, 25 settembre 2008

 

"Abbiamo ragione di ritenere che la promiscuità criminale determinatasi presso la Casa Circondariale di Lecce possa ingenerare nuove alleanze tra clan di estrazione diversa". Questa la denuncia di Eugenio Sarno, Segretario Generale della Uil-Penitenziari, al termine di una partecipatissima assemblea con il personale di polizia penitenziaria in servizio alla Casa Circondariale di Lecce.

"Camorristi, ndranghedisti ed esponenti della Sacra Corona Unita ristretti presso l’istituto di Borgo San Nicola sono impegnati per definire nuove alleanze e la conquista di nuovi spazi territoriali per le attività criminali. È concreto il rischio che da ciò possa esplodere anche una sanguinosa resa dei conti tra e all’interno delle varie frange criminali, con inevitabili ripercussioni sull’ordine e la sicurezza interna".

Nel corso dell’assemblea tanti altri temi sono stati toccati con mano e de visu la demotivazione, frammista a paura, che alberga nel personale. La situazione di Lecce è ben nota al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e allo stesso Ministro Alfano. Purtroppo dobbiamo prendere atto di un incredibile stallo, mentre il personale continua ad essere oggetto di aggressioni e violenze".

"Implementare le attività trattamentali per impegnare i detenuti e sottrarli all’ozio mi trova pienamente concorde. Ma se a ciò corrisponde un aumento esponenziale di atteggiamenti violenti ed arroganti da parte della popolazione detenuta è legittimo affermare, come affermo, che gli obiettivi sono miseramente falliti e che il sistema è in corto circuito. Come fanno i dirigenti della struttura salentina ad essere orbi e sordi di fronte al baratro che si apre avanti loro è un mistero irrisolto. Ciò aumenta le responsabilità di chi potrebbe intervenire e non lo fa".

Il Segretario Generale della UIL Penitenziari ha raccolto diverse, numerose segnalazioni dal personale presente in ordine alle criticità della struttura. "Lecce sconta, indubbiamente, un grave sovraffollamento . Situazione che alimenta tensioni dovute alle malsane condizioni di detenzione. Ciò coniugato ad una organizzazione sanitaria non proprio efficiente crea una situazione davvero esplosiva che ha già determinato il ferimento di circa quaranta agenti in meno di quattro mesi. Ad oggi sono ristretti 1137 detenuti a fronte di una capienza ottimale di 550 e tollerabile di 940. Questa è la cruda realtà dei fatti. Nemmeno si può parlare di deficienze organiche della polizia penitenziaria perché il personale appare sufficiente (sono presenti 812 unità su 749 previste), il problema è che circa il 25% è impiegato in compiti non istituzionali e circa 120 sono impiegate in compiti di traduzione".

Per la Uil Penitenziari occorre recuperare una coscienza del problema e prevedere una nuova organizzazione del lavoro. "Bisogna stanare dal fortino gli insensibili dirigenti del carcere di Lecce che devono aprirsi al confronto su una nuova organizzazione del lavoro. Anche la politica deve recuperare un ruolo di proposta e vigilanza. È incredibile apprendere dal personale che eminenti parlamentari leccesi a Natale si sono recati in istituto per fare gli auguri ai detenuti ignorando completamente il personale".

Eugenio Sarno incontrerà il Capo del Dap, Ionta, mercoledì prossimo per un incontro già calendarizzato. "Al mio rientro a Roma non mancherò di informare dettagliatamente il Capo del Dipartimento sugli esiti di questa assemblea e delle notizie di cui sono venuto a conoscenza. Al termine della riunione ho assunto un preciso impegno : quello di ritornare a Lecce entro il prossimo Dicembre e fare una visita ispettiva per relazionare con dovizia di particolari le deficienze e le criticità strutturali e di sistema che investono la Casa Circondariale di Lecce".

Trento: ricostruita l'identità del detenuto morto il mese scorso

 

L’Adige, 25 settembre 2008

 

Non era algerino e non si chiamava Rakid Basiz il 29enne colto da malore e deceduto un mese fa, in una cella del carcere di Trento. Alla sua vera identità, gli agenti di polizia penitenziaria sono arrivati grazie a suoi conoscenti di Pescara. Il giovane, infatti, si trovava a Trento da pochi giorni, dopo il trasferimento dalla casa circondariale di Pescara dove era entrato con identità falsa. Di vero aveva solo il nome, Takid, e l’età, 29 anni. Arrivava dal Marocco e tramite contatti con l’ambasciata e la famiglia la salma è stata sepolta nel suo Paese d’origine. La sua improvvisa scomparsa aveva fatto scattare una furiosa protesta da parte dei carcerati nei confronti della direzione: nella notte erano state bruciate coperte e lenzuola e il giorno seguente, durante l’ora d’aria, alcuni stranieri avevano imbracciato pietre e bastoni. A seguito della protesta, 20 detenuti vennero spostati in altre strutture del nord Italia.

Favignana: il Progetto "Cornici", i detenuti cureranno il verde

 

La Sicilia, 25 settembre 2008

 

Saranno i detenuti della Casa di Reclusione dell’isola i protagonisti del progetto "Cornici", frutto di un protocollo d’intesa stipulato tra il direttore generale dell’Ausl 9 Gaetano D’Antoni e il direttore del carcere Paolo Malato.

Scopo dell’iniziativa, che prenderà il via all’inizio di ottobre, è quella di fare integrare nel tessuto sociale i soggetti in esecuzione penale sviluppando, allo stesso tempo, l’offerta lavorativa sul territorio. A loro spetterà, così, il compito di sistemare e mantenere a verde l’intera area, di circa mille metri quadrati, circostante il Presidio Sanitario, nonché tagliare l’erba, curare e potare le piante esistenti, eventualmente piantumarne di nuove, pulire le aiuole e i viali di accesso alla struttura sanitaria.

"Cornici", della durata di un anno rinnovabile, non è però il primo progetto avviato dalla Casa Circondariale di Favignana. Negli anni scorsi, infatti, al fine di consolidare l’integrazione fra l’Istituto Penitenziario e la comunità locale, proficue sono state le collaborazioni con la scuola, con "Oltre il giardino", per la cura degli spazi verdi, mentre insieme al Comune è stato avviato "Dove inizia il mare" per la pulizia nelle spiagge e "Sulle ali della farfalla" per la manutenzione dei margini delle strade e dei viottoli di accesso al mare.

Genova: "Sprigioniamo la cura", convegno su sanità carceraria

 

Secolo XIX, 25 settembre 2008

 

"Sprigioniamo la cura". È questo il titolo del convegno, organizzato dalla Regione Liguria e dal Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria, che si è svolto oggi dalle 14 alle 18 presso l’Aula Magna dell’Ospedale Galliera in via Mura delle Cappuccine 14, sul tema della salute in carcere, a seguito del trasferimento al servizio sanitario nazionale dell’intera organizzazione sanitaria degli istituti penitenziari. Al convegno partecipano tra gli altri l’assessore regionale alla Salute, Claudio Montaldo, il direttore generale della Asl 3 Genovese, Renata Canini, il direttore del carcere di Marassi, Salvatore Mazzeo oltre a medici infermieri, dirigenti e personale penitenziario che si incontreranno per elaborare strategie e percorsi in linea con quanto stabilito dal decreto del presidente del Consiglio dei Ministri sull’accesso alla salute da parte delle persone detenute. Il convegno ha avuto il patrocinio della Società italiana di Medicina e sanità penitenziaria e dalla Società italiana di psichiatria.

Immigrazione: Vaticano; il Governo lontano dai diritti umani

 

La Stampa, 25 settembre 2008

 

Monsignor Agostino Marchetto del Pontificio Consiglio per le migrazioni, critica le norme sui ricongiungimenti familiari e le richieste di asilo.

Un dicastero della Santa Sede attacca pesantemente il governo italiano in tema di immigrazione. Ieri monsignor Agostino Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio per la pastorale delle migrazioni, ha dichiarato, in un’intervista alla Radio Vaticana, che con le norme restrittive sui ricongiungimenti familiari e sui richiedenti asilo, l’Italia "si allontana sempre di più dallo spirito della lettera di quei diritti umani che trovarono possibilità di essere espressi perché si proveniva forse dagli orrori di una guerra mondiale".

L’arcivescovo ha poi rincarato la dose, affermando che "È in corso in Europa una riflessione al fine di conseguire una politica comune in relazione ai richiedenti asilo e ai rifugiati. Purtroppo la tendenza è al ribasso rispetto agli impegni internazionali a suo tempo assunti in favore della protezione di persone perseguitate, e i cui diritti umani non sono stati rispettati".

Marchetto ha poi spezzato una lancia, come già ha fatto in altre occasioni, a difesa dei Rom. In molti paesi del mondo "gli zingari sono vittime di discriminazione, disuguaglianza, e altresì di razzismo e xenofobia", ha detto, e in particolare, "in Europa, rom e sinti, pur se cittadini di Stati membri e muniti di documenti validi, non possono godere degli stessi diritti dei comuni cittadini". La denuncia fatta dai microfoni dell’emittente vaticana era il prologo a una richiesta: monsignor Marchetto ha voluto lanciare "un appello agli Stati, per adottare una normativa che veramente tuteli i diritti delle popolazioni zingare e le protegga dalla discriminazione, dal razzismo e dall’emarginazione". Secondo il presule, serve "un dialogo aperto e costruttivo con le rappresentanze zingare".

E ricorda in proposito "le polemiche suscitate negli ultimi mesi da alcuni provvedimenti legislativi sfavorevoli alle popolazioni zingare". Ha poi ricordato situazioni limite: "in alcuni Paesi i bambini zingari sono costretti a frequentare scuole speciali per disabili fisici o mentali, mentre non poche donne vengono sottoposte a sterilizzazione forzata", e ha detto che la Santa Sede è preoccupata per "la generale mancanza di fiducia" verso le popolazioni nomadi, a causa della quale "ai giovani, pur se ben preparati professionalmente, non è concesso l’ingresso al mondo del lavoro, come per gli altri".

Monsignor Marchetto ha rigettato l’accusa di "ingerenza" che potrebbe essere rivolta la Chiesa, che "fa il proprio dovere anche quando condanna l’operato o deplora le decisioni degli Stati che offendono od opprimono la dignità umana. Questa posizione viene intesa spesso come un"ingerenza politica", nonostante l’azione della Chiesa sia "al di sopra dei partiti. La Chiesa è "al di sopra dei partiti" in quanto essa si colloca "dalla parte dei più deboli, a difesa di coloro che soffrono e da" voce a quelli che non l’hanno, nel rispetto comunque della legalità e della sicurezza. Accoglienza e sicurezza vanno insieme come abbiamo detto molte volte".

"Ha ragione mons. Marchetto. Il governo sta facendo fare all'Italia una pessima figura, in Europa e nel mondo, ricacciando il nostro paese tra quelli meno credibili sul rispetto dei diritti umani", ha detto Rosy Bindi (Pd), vicepresidente della Camera. Anche Paolo Ferrero, segretario del Prc si dice "perfettamente d’accordo" con il Vaticano e sostiene che "Contro la politica sui migranti, i rom e i nomadi del governo italiano non si può che mettere in campo una seria e forte opposizione". Ferrero si dice "contento e sollevato all’idea che anche il Vaticano la pensi così e confermi quanto sia i preti di strada impegnati in prima linea sul fronte dell’accoglienza e della solidarietà sia organismi meritori come la Caritas e anche alti prelati vanno ripetendo da tempo".

Ha risposto alle critiche di Marchetto il sottosegretario Carlo Giovanardi: "le vittime di una migrazione fuori controllo non sono i governanti ma i cittadini italiani e gli extracomunitari che vivono e lavorano in Italia". E ha aggiunto: "Non siamo infatti nel regno dell’utopia di un paese che può aprire porte a tutti ma nella doverosa necessità di favorire i ricongiungimenti familiari veri e le richieste di asilo vere da chi abusa di questi strumenti e rischia di rendere la situazione dell’immigrazione in Italia ingovernabile".

Immigrazione: se cade il tabù del razzismo c'è rischio barbarie

di Nadia Urbinati

 

La Repubblica, 25 settembre 2008

 

Ancora una volta è la Chiesa a ricordarci dove sta il giusto e lo sbagliato e il giusto e lo sbagliato e ad ammonirci che l’Italia tradisce i diritti umani. La politica (quella del governo) è non soltanto insensibile al giusto ma è colpevole di non perseguirlo.

E colpevole di violare i diritti fondamentali promuovendo una legislazione e un’ideologia che sono razziste nei contenuti e nello spirito, perché escludono e criminalizzano chi ha come unica colpa quella di non essere "uno di noi". La parola razzismo spaventa, ma deve essere pronunciata, ha scritto molto giustamente Stefano Rodotà su Repubblica di qualche giorno fa.

Deve essere pronunciata anche perché questa, solo questa, è la parola che riesce a descrivere quello che sta succedendo con sempre più frequenza nelle nostre città. Ovviamente, non è razzista la città di Milano o la città di Roma - razzisti sono gli individui quando usano un linguaggio che offende gli altri, i diversi. Negli anni 60 erano razzisti molti italiani del Nord verso gli italiani del Sud - ancora oggi, tra il lessico razzista in uso presso i leghisti, è facile trovare la parola "terrone". Gli italiani del Sud erano allora l’equivalente dei neri di oggi: fatti oggetto di parole offensive e denigratorie.

Non è necessario che al linguaggio segua la violenza perché ci sia razzismo e perché ci sia comportamento violento. Il linguaggio può fare violenza oltre che istigare alla violenza. E il razzismo è un linguaggio violento. È una forma di violenza che è prima di tutto un modo di pensare che riceve energia dalla pigrizia mentale. Il pregiudizio (del quale il razzismo si alimenta), vive della nostra inettitudine mentale e della nostra faciloneria, perché è poco faticoso associare molte persone sotto un’unica idea: tutte insieme senza distinzioni individuali, solo perché nere o asiatiche o mussulmane.

Al razzista questi aggettivi dicono da soli tutto quello che egli vuole sapere senza fare alcuno sforzo ulteriore di conoscenza, osservazione, distinzione, analisi. "Sei nero, allora sei anche A, B, C". Questa faciloneria rende il razzismo un codice di riconoscimento: i razzisti vanno d’accordo, si riconoscono e si attraggono; rinforzano le loro credenze a vicenda e accorgendosi che non sono soli a pensare in quel modo concludono che hanno ragione, perché la maggioranza ha ragione.

Proprio perché genera emulazione il razzismo è facilmente portato a espandersi; l’atteggiamento razzista non è mai "un fenomeno isolato" perché se una persona ha il coraggio di rivelarsi razzista in pubblico è perché sa di poter contare sull’appoggio dell’opinione pubblica. Ecco perché quando si legge a commento di un fatto di razzismo che si tratta di "un fenomeno isolato" si resta allibiti (io resto allibita): perché il commento è sbagliato e figlio della stessa faciloneria di chi ha commesso il fatto.

Questa è una osservazione di grande importanza, un’osservazione che si può comprendere prestando attenzione a quello che con superficiale supponenza molti osservatori italiani criticano degli Stati Uniti: il "politically correct".

L’idea che ci si debba vergognare di usare un linguaggio razzista in pubblico (questo è il "politically correct") riposa sull’osservazione ben documentata che l’escalation di comportamenti riprovevoli è indotta dal consenso (anche implicito o tacito) da parte degli altri. Se so di essere in minoranza quando dico "sporco negro" mi guardo bene dal dirlo in pubblico. I moralisti tacciano questa strategia educativa di ipocrisia dimostrando così di non capire che molto spesso i vizi privati (e l’ipocrisia è un vizio) sono facitori di virtù pubbliche.

Ha scritto Jon Elster che una delle molle psicologiche che ha reso la deliberazione pubblica possibile (e con essa il radicamento della democrazia) è stata proprio l’ipocrisia, la quale ha per questo, quando esercitata nella sfera pubblica, una funzione civica. Qual è infatti quel deputato che in Parlamento ha il coraggio di dire apertamente di essere lì a rappresentare un interesse fazioso o l’interesse di qualcuno, che vuole fare leggi per se stesso e i suoi interessi?

Sappiamo che questi comportamenti sono tutt’altro che rari eppure è raro che vengano così pubblicamente confessati. Anche chi è lì a rappresentare solo se stesso giustificherà le proprie proposte di legge con l’argomento dell’interesse generale. Certo, è ipocrita; ma è un’ipocrisia che mentre mostra che quel deputato è inaffidabile denota anche un fatto di grande valore: che l’opinione generale ritiene ancora che sia l’interesse generale a dover essere perseguito dai rappresentanti non quello privato o della propria fazione. Insieme alla doppiezza del deputato, l’ipocrisia rivela, se così si può dire, una certa solidità della cultura etica democratica. Il problema sorge quando non c’è più ipocrisia, quando il deputato non ha alcun ritegno a dire apertamente la ragione vera della sua elezione.

L’autocensura del "politically correct" presuppone una società nella quale il razzismo non è un’abitudine mentale della maggioranza. Ma una società nella quale ciascuno sa di poter apertamente essere razzista senza venir mal giudicato o redarguito (punito cioè con la disapprovazione pubblica) è a rischio di barbarie. L’Italia ha di fronte a sé questo rischio. Sarebbe sbagliato mettere la testa sotto la sabbia o rifiutare di vedere.

E ancora più sbagliato scegliere la strada assolutoria. Prima che alla violenza, e proprio affinché questa venga scongiurata, è quindi al linguaggio che occorre prestare attenzione, perché esso è il veicolo primo e più potente del razzismo, proprio a causa della natura del linguaggio, un mezzo con il quale costruiamo l’oggetto di riferimento e il suo significato, una costruzione che è condivisa da altri e imitativa, non privata e personale.

Il linguaggio può essere usato per de-umanizzare o onorare, per spogliare della dignità o per dare dignità. Per stimolare comportamenti violenti o comportamenti civili. Per questa ragione tutti coloro che svolgono servizi di responsabilità collettiva - dai politici agli insegnanti, ai giornalisti, agli operatori dello spettacolo - devono sentire tutta la gravità del loro ruolo: perché le loro parole circolano più estesamente e velocemente di quelle di tutti gli altri cittadini e perché essi creano modelli di comportamento. Il fatto gravissimo è che in Italia, sui giornali, in televisione e perfino in Parlamento, si fa a gara per tirar fuori la parola più razzista o l’espressione più volgare e intollerante. E il pubblico ride, senza rendersi conto che ridicolizza se stesso per l’insipienza con la quale questa sua noncuranza trascina la società in una spirale di disunione e violenza, con prezzi altissimi per tutti, anche per i razzisti.

Immigrazione: false prove contro ucraina, condannati 4 vigili

di Luigi Ferrarella

 

Corriere della Sera, 25 settembre 2008

 

Prove fabbricate. Verbali falsati. Accuse inventate. Da agenti della polizia locale del Comune di Milano, autori di una calunnia ai danni di una ucraina fermata senza motivo, trattata male, insultata, multata per 5.000 euro e denunciata come commerciante abusiva nella piazza antistante la Stazione Centrale. Ma la cui storia, di donna venuta semplicemente ad accompagnare la zia in partenza, viene invece ora riscritta e risarcita (prima ancora che dai 34mila euro di danni morali che i vigili dovranno pagarle) dalle motivazioni della sentenza di Tribunale.

Ventitré pagine che documentano come le 32 latrine di birra, asseritamente sequestrate dalla polizia municipale nella borsa della signora straniera il 16 marzo 2004 in piazza Luigi di Savoia, nel corso di uno dei pattugliamenti in borghese anticommercio abusivo, in quella borsa non fossero mai state, ma vi fossero state solo fatte figurare nelle false relazioni di servizio dei vigili urbani. Che poco prima avevano sì sequestrato lattine di birra in Stazione, ma "a ignoto datosi alla fuga".

Dopo aver fermato senza motivo la donna, averla dileggiata, insultata, schiaffeggiata facendole saltare gli occhiali dal viso e portata via in ufficio, secondo la ricostruzione dei giudici di primo grado è allo scopo di dare a posteriori una tardiva giustificazione a questi comportamenti che i vigili urbani stesero i falsi verbali, vi attestarono false circostanze (l’inesistente commercio abusivo, l’altrettanto inesistente resistenza a pubblico ufficiale) e attivarono contro la donna una sanzione amministrativa da 5.000 euro e un procedimento penale per queste ingiuste accuse.

Denunce che soltanto ora, e soltanto grazie alla sentenza che recepisce l’indagine del pm Grazia Predella, sono state annullate dai giudici della quarta sezione penale del Tribunale (Oscar Magi, Elisabetta Canevini, Manuela Cannavale) con la sentenza che ha condannato i quattro vigili a pene comprese fra i 3 anni e gli 8 mesi per i reati (a vario titolo) di calunnia, falso in atto pubblica, abuso d’ufficio, violenza privata e ingiurie.

Le motivazioni, depositate dal giudice estensore Cannavale, rimarcano "la doppia ingiustizia" patita dalla donna ucraina, in Italia con regolare permesso di soggiorno e sposata con un ingegnere italiano: "Da un lato l’ingiustizia del comportamento illegittimo" dei vigili risarcita con 34 mila e "in difetto dei presupposti" e "con modalità scorrette e abusive"; e "dall’altro "l’ingiustizia dello "spavento" e della "sofferenza psichica" arrecati alla donna, trascinata ("senza ragione e con le modalità accertate") prima al Comando e poi nell’angoscia di un possibile processo.

n Comune di Milano nel dibattimento non si è costituito parte civile, nonostante quello che i giudici definiscono "il crollo del prestigio dell’Istituzione che queste condotte devianti possono comportare". Paradossalmente, peraltro, tra la signora ucraina e i vigili italiani, era lei l’incensurata: uno degli agenti era in servizio nonostante "un precedente per concussione", altri due erano già stati "sottoposti a una delicata indagine" poi archiviata ed erano stati "più volte segnalati da superiori e colleghi per comportamenti scorretti e/o illegittimi, sottoposti a procedimenti disciplinari, e trasferiti".

Droghe: Milano; è polemica su multe per chi si droga in strada 

 

La Repubblica, 25 settembre 2008

 

Il Pd: sono inutili. La Lega: più grave il problema alcol. Baruffi: "Già ora un pubblico ufficiale ha il dovere di intervenire di fronte al consumo di stupefacenti". Salvini: "Mi aspettavo qualcosa di meglio, non è una canna l’emergenza numero uno per la salute e la sicurezza in città". Moratti: "I provvedimenti sulla sicurezza saranno associati a politiche per chi accetta di seguire percorsi di recupero".

È l’ordinanza a cui lei, storica sostenitrice della comunità di San Patrignano, tiene di più: quella sulla droga. Ma è anche il testo più contestato fra i quattro che Letizia Moratti si prepara a firmare: una multa di 500 euro per chi sarà sorpreso a consumare sostanze stupefacenti in un luogo pubblico. Senza distinzioni fra uno spinello, una striscia di cocaina o dell’eroina. Perché, come spiega il vicesindaco Riccardo de Corato, "è il consumo soprattutto tra i giovani che vogliamo disincentivare punendo l’esempio negativo". L’accordo con il prefetto Gian Valerio Lombardi c’è: "Sulla lotta al consumo di droga si interviene sul decoro: non si potrà farlo in pubblico, davanti a tutti", dice.

L’ordinanza potrebbe entrare in vigore già a ottobre. Ma le critiche non mancano. È "inutile", per usare le parole del capogruppo del Pd, Pierfrancesco Majorino; "demagogica", come la definisce il verde Maurizio Baruffi o "ipocrita" per i Radicali. Anche il leghista Matteo Salvini si aspettava di più: "Bene l’ordinanza, ma sinceramente ci sembrava prioritario vietare il consumo di alcolici in tutte le strade e i parchi. Lo richiediamo con forza al sindaco. Più di una canna, è questo il problema più grave per la salute e l’ordine pubblico da affrontare a Milano".

Sanzioni da 500 euro: l’indicazione dell’amministrazione è di uniformare tutte le multe alla tariffa massima consentita dal decreto Maroni, che ha concesso ai sindaci poteri speciali in tema di sicurezza. Ed è proprio "per prevenire e contrastare le situazioni di degrado e isolamento come lo spaccio, lo sfruttamento della prostituzione, l’accattonaggio e l’abuso di alcol" che il Comune sta lavorando con la prefettura alle nuove ordinanze. La stretta arriverà per chi assumerà sostanze stupefacenti sotto gli occhi di tutti, in un parco, in strada, in un locale. Linea dura anche per clienti e prostitute, per chi imbratterà i muri con graffiti, contro l’accattonaggio molesto. Ma accanto alla repressione ci sarà anche l’aiuto sociale. Lo assicura la stessa Moratti, volata a New York per parlare di Expo all’Onu: "Le ordinanze saranno associate a politiche per coloro che intendono seguire percorsi di inserimento e recupero sociale".

In attesa del testo, come si accennava, sono già iniziate le polemiche. Il Pd con Majorino dice: "Non mi convince né questa ordinanza né il meccanismo. E comunque non mi sembra la priorità su cui concentrare gli sforzi della polizia locale, che dovrebbe occuparsi dei delinquenti e di presidiare i quartieri periferici. Su tutti i testi, poi, entro la fine dell’anno chiediamo un confronto trasparente sui risultati ottenuti". Baruffi lancia una provocazione: "Già oggi un pubblico ufficiale ha il dovere di intervenire di fronte al consumo di droga. Aggiungere il decoro non ha nessun senso né dal punto di vista della repressione né della prevenzione. Se è questo il problema meglio prendere in considerazione luoghi protetti e sotto controllo medico come avviene in Olanda o in Germania con le stanze del buco".

Favorevole, invece, l’opinione del capogruppo di An, Carlo Fidanza: "Basta con il buonismo antiproibizionista. È un provvedimento sacrosanto sacrosanto, un utile deterrente contro lo spaccio e il consumo nonché uno sprone al governo per rendere ancora più rigida la normativa nazionale. Resta l’allarme cocaina: su questo è necessario un lavoro comune con la polizia e i gestori dei locali". Durissimi i Radicali: "La Moratti sceglie, ipocritamente, di costringere alla clandestinità i consumatori, incrementando il suo atteggiamento proibizionista e repressivo. Occorre davvero una legge speciale o le esigenze di cassa del Comune superano le già criminalizzanti leggi in vigore?".

Droghe: consumo aumenta e la repressione da sola non serve

 

La Repubblica, 25 settembre 2008

 

Il farmacologo Garattini: "Bisogna mobilitare le parti sociali sane". La cannabis di oggi a lungo andare favorisce depressione e schizofrenia, giusto difendersi, ma senza una rete di controlli queste iniziative non servono a nulla.

 

Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, come valuta l’introduzione di una multa per chi consuma stupefacenti al parco o per strada?

"Le sanzioni sono basse: per essere validi deterrenti devono essere più alte. Chi si droga in pubblico è una persona a rischio, la stessa che poi prende l’auto e va in giro. Multarli è una forma di difesa, certo. Ma non basta. Bisogna fare qualcosa in più: siamo di fronte a un’epidemia, da combattere con le armi appropriate".

 

Per esempio?

"Non solo repressione, ma educazione e soprattutto prevenzione. Nessuno è felice di sapere che il pilota del suo aereo o il chirurgo che deve operarlo ha assunto stupefacenti per stare più sveglio o sentirsi in forma. Il problema della droga non è individuale: la società si deve difendere".

 

Idee?

"Vanno fatte riflessioni con persone competenti, chiamando a raccolta genitori, sacerdoti, sociologi, medici ma anche opinion leader: parti sociali "sane" che catalizzino un vasto movimento di opinione che aiuti a capire che stiamo andando in una direzione folle. Il consumo di droga aumenta a ritmi spaventosi".

 

L’ordinanza proibizionista potrebbe, quindi, servire.

"Apprezzo la buona volontà, ma non sono favorevole se il provvedimento arriva come un’entità separata. Sappiamo già che così non funziona. E poi dovrebbe avere un respiro nazionale: così si rischia che ai confini di Milano uno possa far quel che vuole. Queste iniziative finiscono nel nulla senza una rete efficace di controlli".

 

Questo è compito dei vigili urbani.

"Ma vede mai un ghisa in giro la sera nei parchi? Contro l’uso di droga servono punizioni severe ma anche garanzia della loro applicazione. E un ruolo decisamente più educativo delle istituzioni. A Milano specialmente, dove l’allarme è molto alto".

 

In che senso?

"Milano è la città con il consumo più alto di cocaina, specialmente nei weekend. Lo dicono le analisi recenti sugli scarichi fognari. E poi gli spinelli di oggi contengono sostanze ancor peggiori rispetto al passato".

 

Cioè?

"La canna la si considera sempre come un gesto leggero. Ma la cannabis di oggi contiene quantità massicce di tetraidrocannabinolo, che induce sedazione, dà l’euforia di poter far tutto quando invece non se ne hanno i riflessi. E nel lungo termine provoca apatia e, anche a distanza di dieci anni, favorisce l’insorgere di depressione e schizofrenia".

 

Qual è il suo suggerimento allora?

"A Milano manca una mentalità scientifica. I controlli, come i nostri sulle fogne, andrebbero fatti con continuità per tenere d’occhio la situazione. Specialmente prima di fare un’ordinanza: un indicatore del suo impatto sul consumo di droga, se cala o meno, almeno rivelerebbe se è la strada giusta o se, invece, non funziona".

Droghe: Letizia Moratti; ecco perché multo chi fuma "canne"

di Letizia Moratti (Sindaco di Milano)

 

La Stampa, 25 settembre 2008

 

Caro direttore, ci sta a cuore la nostra città, ci sta a cuore la serenità dei milanesi e di chi ogni giorno vive Milano per lavoro, studio, turismo. Le ordinanze che stiamo definendo in questi giorni sono uno strumento perché Milano diventi più vivibile, a misura di chi più è esposto ai pericoli - le donne, i bambini, gli anziani -, capace però anche di offrire un’alternativa concreta a chi imbocca la strada sbagliata, a chi è nell’illegalità. Stiamo ancora lavorando, in accordo con la Prefettura, per la messa a punto delle ordinanze. Sono provvedimenti previsti dai nuovi poteri ai Sindaci concessi dal decreto Maroni "per prevenire e contrastare le situazioni urbane di degrado o di isolamento".

Situazioni "che favoriscono l’insorgere di fenomeni criminosi, come lo spaccio, lo sfruttamento della prostituzione, l’accattonaggio e l’abuso di alcol". Queste misure per la sicurezza dovranno essere integrate da un rafforzamento delle politiche per il sociale. Questo è necessario per prevenire i fenomeni di disagio ed emarginazione, per dare sostegno a coloro che intendono seguire percorsi di recupero e reinserimento sociale. Le ordinanze saranno dunque emesse solo contestualmente a iniziative di sostegno e recupero.

Contrasto all’illegalità e sostegno per chi vuole reinserirsi nella società: è questa la via che seguiamo. Di fronte ad alcuni commenti che leggono solo la parte delle regole non si tratta di essere "trasgressivi".

I milanesi non vogliono una Milano da bere o, peggio, da fumare. Milano è una città di persone normali, che lavorano, che hanno la responsabilità di una famiglia, che desiderano poter vivere serenamente tutti gli spazi della Città, e che non desiderano vedere qualcuno che si droga sotto casa o ai giardinetti magari davanti ai bambini. Sono i milanesi che mi chiedono di intervenire concretamente e che, nello stesso tempo, si raccomandano di non abbandonare le famiglie che hanno un ragazzo drogato in casa, che devono vivere questa tragedia nella solitudine del loro privato. Ecco il significato più profondo delle nostre politiche, che si compongono anche di ordinanze pensate per riportare nella nostra Città condizioni di vita "normali". Condizioni tali per cui ciascuno si possa sentire "a casa".

Misure severe e iniziative di solidarietà concreta: è questa l’anima profonda di Milano, la città del fare e, insieme, la città che aiuta, che aggrega, che tende una mano. Se dimentichiamo quest’anima, se dimentichiamo questo amore, allora vuol dire che c’è stato un corto circuito, che siamo diventati superficiali ed egoisti. Ma non è così. La maggioranza dei milanesi sono persone abituate a confrontarsi con la realtà, una realtà anche dura, fatta di sacrifici, ma questo non li ha inariditi, sono persone aperte, positive. Chi sostiene il contrario non conosce né frequenta questa città, pensa che siamo rimasti a trent’anni fa, mentre il mondo cammina, cambia, si evolve. Qui non c’è una amministrazione più o meno rigida, solo un sindaco che ha un mandato a governare, che deve amministrare la città 365 giorni l’anno per i propri cittadini. Ascoltando tutti i bisogni veri e dando risposte vere.

Israele: Ue; risoluzione sulla situazione dei detenuti palestinesi

 

www.infopal.it, 25 settembre 2008

 

Risoluzione del Parlamento europeo del 4 settembre 2008 sulla situazione dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane.

Il Parlamento europeo, viste le sue precedenti risoluzioni sul Medio Oriente; vista la dichiarazione resa al Parlamento europeo dal Commissario Benita Ferrero Waldner il 9 luglio 2008 sulle condizioni dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane; visti l’accordo di associazione UE-Israele e i risultati dell’ottava riunione del Consiglio di associazione UE-Israele, tenutasi il 16 giugno 2008; viste la relazione elaborata dalla sua delegazione ad hoc in visita in Israele e nei Territori palestinesi (30 maggio-2 giugno 2008) e le relative conclusioni; viste le Convenzioni di Ginevra, in particolare la Convenzione IV relativa alla protezione delle persone civili in tempo di guerra, del 12 agosto 1949, e segnatamente i suoi articoli da 1 a 12, 27, da 29 a 34, 47, 49, 51, 52, 53, 59, da 61 a 77 e 143; vista la Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici del 1966; vista la relazione annuale 2007 del Comitato internazionale della Croce Rossa, e più in particolare la sezione relativa ai Territori palestinesi occupati; viste le relazioni pubblicate nel 2006, 2007 e 2008 dalla commissione pubblica contro la tortura in Israele, con il contributo finanziario della Commissione europea e di vari Stati membri; viste le pertinenti risoluzioni delle Nazioni Unite sul conflitto in Medio Oriente; visto l’articolo 108, paragrafo 5, del suo regolamento.

A. considerando che negli ultimi anni Israele si sta trovando di fronte a molti attacchi terroristici mortali contro la propria popolazione civile e considerando che le autorità israeliane hanno adottato una serie di misure per prevenire tali azioni terroristiche, compreso l’arresto di sospetti militanti palestinesi, ma considerando altresì che la lotta contro il terrorismo non giustifica le violazioni del diritto umanitario.

B. considerando che attualmente più di 11 000 palestinesi, tra cui centinaia di donne e bambini, sono rinchiusi nelle carceri e nei centri di detenzione israeliani e che la maggior parte di tali detenuti sono stati arrestati nei Territori palestinesi occupati.

C. considerando che, secondo la Convenzione sui diritti del fanciullo, di cui Israele è parte firmataria, per minori si intendono gli esseri umani di età inferiore ai 18 anni; considerando tuttavia che i minori palestinesi, in base ai regolamenti militari israeliani applicati nei Territori palestinesi, sono considerati adulti a partire dall’età di 16 anni e sono spesso detenuti in condizioni inadeguate.

D. considerando che 198 palestinesi sono stati liberati dal governo israeliano il 25 agosto 2008 quale gesto di buona volontà e al fine di consolidare la fiducia reciproca e considerando che fra le due parti sono in corso ulteriori trattative per conseguire un accordo più completo sul rilascio di altri prigionieri.

E. considerando i recenti passi concreti compiuti dal governo di Israele e da quello del Libano per lo scambio di prigionieri con le salme di soldati israeliani.

F. considerando che circa 1 000 prigionieri sono detenuti in Israele in base a "ordini di detenzione amministrativa", con la possibilità di fare ricorso, ma senza capi d’accusa, senza processo e senza godere del diritto alla difesa e considerando altresì che tali "ordini di detenzione amministrativa" possono essere prolungati per anni, e in taluni casi lo sono.

G. considerando che le relazioni sui diritti umani indicano che i prigionieri palestinesi sono vittime di abusi e torture.

H. considerando che per la stragrande maggioranza dei prigionieri palestinesi detenuti in carceri situate nel territorio israeliano, è spesso impossibile o molto difficile esercitare il diritto di ricevere visite da parte delle loro famiglie, nonostante le richieste in tal senso rivolte a Israele dal Comitato internazionale della Croce Rossa.

I. considerando che la questione dei detenuti ha importanti implicazioni politiche, sociali e umanitarie e che l’arresto di 48 membri eletti del Consiglio legislativo palestinese e di altri consiglieri locali ha gravi conseguenze sull’evoluzione politica nel territorio palestinese occupato, considerando che il "Documento del detenuto", adottato nel maggio 2006 da leader politici palestinesi detenuti di varie fazioni è servito da base per la riconciliazione nazionale ed ha aperto la strada alla costituzione di un governo di unità nazionale.

J. considerando che le relazioni tra le Comunità europee e Israele, ai sensi dell’articolo 2 dell’Accordo di associazione UE-Israele, sono basate sul rispetto dei diritti umani e dei principi democratici, che costituiscono un elemento essenziale di detto accordo; considerando che il piano d’azione UE-Israele sottolinea il rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario fra i valori condivisi dalle due parti.

1. plaude alla recente decisione del governo israeliano di liberare alcuni prigionieri palestinesi, poiché si tratta di un gesto positivo per rafforzare l’Autorità palestinese e per instaurare un clima di fiducia reciproca.

2. chiede che Hamas e Israele si attivino ai fini dell’immediata liberazione del caporale israeliano Gilad Shalit.

3. sottolinea che la questione dei detenuti politici palestinesi ha un notevole impatto tanto sulla società palestinese quanto sul conflitto israelo-palestinese e ritiene che, in tale contesto, il rilascio di un numero considerevole di prigionieri palestinesi nonché il rilascio immediato dei membri del Consiglio legislativo palestinese detenuti tra cui Marwan Barghouti potrebbe rappresentare un passo concreto verso la creazione di un clima di fiducia reciproca al fine di conseguire progressi sostanziali nel quadro dei negoziati di pace.

4. sostiene le legittime preoccupazioni di Israele in materia di sicurezza; reputa che tutti i prigionieri debbano essere trattati nel pieno rispetto dello Stato di diritto, il quale rappresenta un aspetto cruciale per un paese democratico.

5. invita Israele a garantire il rispetto degli standard minimi in materia di detenzione, a istituire dei processi per tutti i detenuti, a porre fine al ricorso alla "detenzione amministrativa" e ad adottare misure adeguate per i minori e per le visite in carcere ai detenuti, in conformità delle norme internazionali, inclusa la Convenzione sui diritti dell’infanzia e la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti.

6. esprime preoccupazione per la situazione delle prigioniere palestinesi e dei detenuti vulnerabili che, secondo quanto riportato, sono vittime di maltrattamenti e non hanno accesso alle cure sanitarie.

7. invita l’Autorità palestinese a fare tutto il possibile per evitare atti violenti o terroristici, specialmente ad opera di ex detenuti e, in particolare, ad opera di bambini.

8. è convinto che il rafforzamento delle relazioni UE-Israele debba essere coerente e collegato al rispetto, da parte israeliana, degli obblighi internazionali di tale paese ai sensi del diritto internazionale.

9. plaude alla decisione adottata in occasione dell’ottava riunione del Consiglio di associazione UE-Israele di istituire una sottocommissione per i diritti dell’uomo a pieno titolo, in sostituzione dell’attuale gruppo di lavoro sui diritti dell’uomo; chiede di consultare ampiamente e coinvolgere pienamente le organizzazioni per i diritti dell’uomo e le Organizzazioni non governative in Israele e nei Territori palestinesi occupati per quanto attiene al monitoraggio dei progressi compiuti da Israele ai fini del rispetto dei suoi obblighi ai sensi del diritto internazionale.

10. incarica il suo Presidente di trasmettere la presente risoluzione al Consiglio, alla Commissione, al governo israeliano, alla Knesset, al Presidente dell’Autorità palestinese, al Consiglio legislativo palestinese, all’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune, ai governi e ai parlamenti degli Stati membri, al Segretario generale delle Nazioni Unite, all’inviato del Quartetto per il Medio Oriente, al Presidente dell’Assemblea parlamentare euro-mediterranea, all’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti dell’uomo e al Comitato internazionale della Croce Rossa.

Myanmar: attivista arrestato dopo 24 ore dalla scarcerazione

 

Asia News, 25 settembre 2008

 

È durata meno di 24 ore la libertà per un attivista birmano, scarcerato il 23 settembre dalla prigione di Katha: secondo quanto riferito ieri dal sito dissidente Democratic Voice of Burma U Win Htein, membro della Lega Nazionale per la Democrazia (Nld, il partito di Aung San Suu Kyi), è stato nuovamente arrestato.

U Win Htein era stato rilasciato due giorni fa nel quadro di una amnistia generale voluta dalla giunta al potere in Myanmar. Il regime militare ha rilasciato 9002 detenuti, ma solo una minima parte era agli arresti per reati di opinione; fra i sette attivisti liberati vi sono uno scrittore birmano - Aung Soe Myint - e quattro esponenti della Nld: Khin Maung Swe, May Win Myint, Than Nyein e lo stesso Win Htein. A questi si aggiunge il più famoso prigioniero politico birmano, Win Tin, giornalista dissidente di 79 anni gli ultimi 20 dei quali trascorsi in carcere.

La notizia del nuovo ordine di arresto voluta dalla giunta è stata riferita da ambienti vicini alla famiglia dell’esponente della Nld: nella mattina di ieri una pattuglia ha prelevato U Win Htein dalla sua abitazione e lo ha riportato nella prigione di Katha. I familiari sono stati informati del nuovo provvedimento di fermo e si sono messi in viaggio da Mandalay alla volta della capitale e sperano di poterlo incontrare in carcere nei prossimi giorni.

La notizia dell’arresto è stata confermata da una fonte anonima interna alla prigione di Katha, senza peraltro fornire le ragioni alla base del fermo. L’attivista, 67 anni, in passato è stato ufficiale dell’esercito raggiungendo il grado di capitano; il 21 maggio 1996 è stato condannato a 14 anni di prigione, dodici dei quali sono stati scontati. Egli era stato arrestato una prima volta nel 1989 ed era rimasto in carcere fino al 1995. Durante il periodo di detenzione, Win Htein è stato rinchiuso nel carcere di Khata, poi ha trascorso un anno a Mandalay e 9 nella prigione di Myingyan.

Nessuna concessione, dunque, dalla giunta militare ai dissidenti birmani; il rilascio di 9002 persone dalle carceri, solo sette fra queste detenute per motivi politici, aveva fatto sperare in un miglioramento delle libertà individuali. Con il nuovo ordine di arresto a carico di Win Htein, la giunta ha chiarito una volta di più che la questione delle libertà individuali e dei diritti civili non rientra nell’agenda politica del Paese.

 

 

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