Rassegna stampa 22 settembre

 

Giustizia: Anm contrattacca; riforme, governo inadempiente

di Dino Martirano

 

Corriere della Sera, 22 settembre 2008

 

L’Associazione Nazionale Magistrati allestisce una vera Linea Maginot a difesa della Costituzione. E sfida il "governo del tutto inadempiente" sul terreno dell’efficienza del processo: per questo, già da fine mese, i tribunali verranno tappezzati con un manifesto ("La giustizia ha bisogno urgente di riforme") in vista delle assemblee delle toghe di Roma, Palermo, Milano e Torino. Secondo Nello Rossi, ex segretario dell’Anm, "se il tentativo è quello di realizzare le proposte prospettate da Berlusconi siamo di fronte a un autunno con conflitti molti alti".

Dal "parlamentino" dell’Anm, Claudio Viazzi (anche lui di Md, la corrente di sinistra delle toghe) manda un doppio messaggio. Non solo al premier, "che fa la vittima al processo Mills quando il tribunale sta solo tutelando un suo diritto...", ma anche al Pd: "Sulla Costituzione non dobbiamo mollare, nulla. Non si tratta neanche con Violante e con i suoi sofismi Io non ci sto alla riduzione del danno perché il nostro Dna è la Costituzione".

A giudicare dagli applausi, questa potrebbe essere la linea dei magistrati che presto indosseranno l’elmetto perché, recita il documento votato da 18 dei 25 presenti, "la riforma dell’assetto costituzionale della magistratura non è funzionale all’efficacia del sistema giudiziario": quindi, "contrarietà alla separazione delle carriere, alla riforma della composizione del Csm per attribuire più spazio alla politica ed alla revisione del sistema disciplinare".

Invece l’Anm guidata da Luca Palamara (Unicost) chiede interventi per la velocizzazione del processo ("Per smontare questo mostro di garanzie formali", dice il segretario Giuseppe Cascini, Md) e per la revisione delle circoscrizioni giudiziarie ma, poi, annuncia le barricate sul progetto di affidare la direzione delle indagini principalmente alla polizia. E su questo Rossi lancia la sfida agli avvocati penalisti che venerdì terranno il congresso a Parma: "Non hanno nulla da dire?".

Gioacchino Natoli (Movimento) osserva che "il ministro Alfano è abilissimo nei giochi di specchi" ma "non parla sulle proposte a costo zero presentate dall’Anm". Nel Cdc (comitato direttivo centrale), a frenare c’è solo Magistratura indipendente (centro destra) che fa dire al giudice Virga: "Vediamo prima i testi, laddove si mette in discussione la nostra autonomia saliremo anche noi sulle barricate...".

Giustizia: Mannheimer; 2 italiani su 3 chiedono "più carcere"

di Renato Mannheimer

 

Corriere della Sera, 22 settembre 2008

 

Il rapporto tra gli italiani e il sistema giudiziario è sempre più controverso e caratterizzato da un esplosivo mix tra fiducia residua e insoddisfazione in aumento. Ma è quest’ultima a caratterizzare in misura crescente l’atteggiamento dei cittadini: gli italiani sono sempre meno contenti dell’attuale ordinamento giudiziario e, spesso, anche dell’azione dei magistrati. E chiedono soprattutto un maggiore rigore - talvolta addirittura durezza e inflessibilità - nel giudicare e combattere la criminalità. È quanto emerge da un recente studio su "italiani e giustizia", che verrà presentato la prossima settimana ad Orvieto.

Si nota in primo luogo una informazione molto (troppo) contenuta del funzionamento del sistema giudiziario: solo il 40% dichiara di conoscerlo, almeno a grandi linee. Il giudizio, poi, è assai critico: il 68% lo valuta in modo nettamente sfavorevole. E l’accentuazione di questo atteggiamento negativo, rilevabile tra gli strati meno centrali socialmente come le persone con più basso titolo di studio, le casalinghe, ecc., mostra come proprio costoro - i più deboli - si sentano meno protetti.

È significativo osservare come ci sia meno fiducia dichiarata nel sistema giudiziario complessivamente inteso, anche rispetto a quella espressa nei confronti dei suoi attori principali, i magistrati, che raccolgono comunque il consenso del 51% della popolazione. Proprio il "sistema" appare farraginoso, troppo complicato, obsoleto, ostile al cittadino. Per questo se ne vuole la riforma: secondo il 59% degli elettori (specie i giovanissimi) è da fare al più presto e, a parere di un altro 33%, è comunque opportuna anche se non costituisce una priorità.

Ma quali sono i principi di giustizia cui occorre ispirarsi? Gli italiani appaiono per molti versi "giustizialisti" (così potrebbe essere definito almeno i due terzi dei nostri concittadini), fautori sempre più di una linea dura nei confronti della criminalità.

Tanto che, ad esempio, la maggioranza (66%, con un’accentuazione, ancora una volta, tra i più giovani) si dichiara decisamente in disaccordo con il vecchio (e condiviso da tanti giuristi) principio "meglio un colpevole libero che un innocente in galera", preferendo al contrario rinchiudere in prigione quanti più criminali - veri o potenziali - possibile.

Ancora, non a caso, quasi un terzo (31%) dei nostri concittadini arriva addirittura a proporre l’introduzione della pena di morte in occasione di delitti particolarmente gravi. Un netto aumento rispetto al 26 per cento di soli tre anni fa (sondaggio Euro Rscg dell’aprile 2005). Queste risposte riflettono evidentemente lo stato di paura e di insicurezza che caratterizza sempre più gran parte della popolazione, specie di fronte a fenomeni nuovi ed epocali quali, in primo luogo, le ondate migratorie.

Giustizia: un Paese che non sa più distinguere il bene dal male

di Mario Vargas Llosa

 

La Stampa, 22 settembre 2008

 

I grandi capi della camorra napoletana, i loro killer e i loro contabili abbandonano i vecchi comportamenti e i vecchi codici per adottare quelli che vengono loro attribuiti dai film di Hollywood. Un esempio: a Casal di Principe il capo della "famiglia", Walter Schiavone, ha voluto che gli architetti gli costruissero una sontuosa dimora che riproduce al millimetro quella abitata da Tony Montana (Al Pacino) in Scarface. Le mogli dei camorristi si vestono come Uma Thurman in Kill Bill, con parrucche bionde e abiti giallo fosforescente.

E un vecchio poliziotto ha raccontato, in tribunale, che da quando hanno visto i film di Tarantino i killer delle varie "famiglie" uccidono proprio come quei personaggi di celluloide: sparando al basso ventre, all’inguine, alle gambe, ferendo in modo grave per far sì che la morte non arrivi subito e "giustiziando", poi, le vittime con un colpo alla nuca.

La camorra non è una sola organizzazione, ma un nome generico per indicare le innumerevoli "famiglie" che, a volte, si alleano per compiere particolari affari o impongono la propria sovranità su un territorio o gestiscono attività diverse - immigrazione clandestina, prostituzione, falsi di prodotti di lusso, droga, case da gioco, scorie tossiche ecc. - e che, di tanto in tanto, entrano in conflitto tra loro tentando di annientarsi in guerre d’indescrivibile ferocia. Si tratta di un Sistema alla cui base stanno i killer, quelli che spacciano in strada ogni genere di stupefacenti, e al cui vertice operano finanzieri, investitori e industriali dal potere enorme, pari al loro talento imprenditoriale.

Nessuno meglio della camorra ha saputo utilizzare gli orizzonti spalancati dalla globalizzazione nel campo dell’economia e approfittare così bene delle nuove tecnologie. Un solo esempio per spiegare con quanta efficacia la camorra ha saputo stendere reti che abbracciano il mondo intero.

Gomorra, lo straordinario libro-reportage di Roberto Saviano, si apre con la descrizione del porto di Napoli dove la mafia sistema i cinesi portati clandestinamente in Italia per lavorare nei vari settori in cui si articolano le società realizzate con il gigante asiatico. Un consistente numero di questi immigrati arriva a Napoli per imparare, da "maestri" locali, le tecniche per falsificare alla perfezione scarpe, vestiti, cappelli e altri capi della moda italiana: le stesse tecniche verranno poi utilizzate nei laboratori di sartoria cinesi dove si fabbricano i prodotti di Gucci, di Armani e di altri grandi stilisti che, in seguito, l’organizzazione venderà in tutto il pianeta.

Le lezioni si tengono in locali della mafia, con l’aiuto di traduzioni simultanee. In un indimenticabile episodio raccontato da Gomorra incontriamo un capo mafioso emozionato sino alle lacrime mentre vede in tv, durante la notte degli Oscar, Angelina Jolie infilata in un magnifico abito bianco di grande griffe che lui stesso ha provveduto a far falsificare.

Non tutte le imprese della camorra lavorano nell’illegalità; molte si muovono su un piano intermedio, alternando attività legali con altre, diciamo, informali. Il che si può affermare anche per un consistente numero di aziende legali che, indotte dalla pressione ambientale, dall’avidità o dal ricatto, hanno via via subìto il contagio dell’illegalità e, dietro una facciata rispettabile, nascondono attività che si servono del Sistema o servono a esso.

Il libro di Saviano trasmette l’impressione che questo Sistema, invece di contrarsi sotto i colpi della polizia e della magistratura, avanzi in modo organizzato infettando tutto quanto gli sta attorno. Anche solo contando le imprese legate al turismo e al divertimento realizzate dalla camorra sulla Costa del Sol - la Spagna è stata per parecchi anni la terra promessa per i capi camorristi, che lì possedevano ville in cui nascondevano i loro uomini più ricercati e in cui tenevano le riunioni di lavoro - si ha la sconcertante sensazione che, se le cose continueranno così, tra non molto sarà l’economia che si muove nel rispetto della legge a essere in minoranza, e il dominio del mondo apparterrà alla camorra, a Cosa Nostra, alla ‘ndrangheta calabrese e simili.

A che cosa è dovuta la capacità di proliferazione della mafia napoletana? Non certo al fatto che non sia perseguita. Quest’ipotesi è un mito che Roberto Saviano sgretola nel suo libro. Anche se la camorra conta sulla complicità di politici, uomini delle forze dell’ordine e giudici, lo Stato la colpisce senza sosta, incarcerando i suoi quadri dirigenti, sequestrando i suoi beni, spedendo in galera per lunghi anni i suoi killer e i suoi contabili.

Determinante è il ruolo dei pentiti: grazie alle loro confessioni si sono scoperti anche i particolari di certe operazioni, confiscate astronomiche quantità di droga, smantellate fabbriche di merce falsificata, smontati i circuiti utilizzati per il riciclaggio del denaro sporco. Eppure, anche così, il Sistema ha raggiunto tali livelli di potere economico, tali capacità di adattarsi alle mutate circostanze e di rinnovare i propri quadri che i colpi ricevuti non bastano a metterne in forse l’esistenza.

Per quanto sembri paradossale, spesso, in certi paesi e in certi quartieri, può contare sull’appoggio d’un vasto settore sociale, quello più povero ed emarginato, che, identificando nella camorra l’unico mezzo di sussistenza, la difende, nasconde i suoi ricercati, depista le indagini, addirittura lincia o emargina chi osi denunciarla.

Una delle storie più commoventi raccontate da Saviano è la via crucis d’una maestra di Mondragone che, per aver osato denunciare l’autore d’un omicidio di cui era stata testimone, divenne un’appestata a cui nessuno più rivolgeva la parola, fu retrocessa nella sua carriera e trasferita in un miserabile paesino dove molte volte, certo, si sarà domandata se agire da persona per bene non sia, nel mondo in cui viviamo, un comportamento da martiri o da stupidi.

E, leggendo Gomorra, viene meno un altro mito. Quello per cui la camorra, nata dal popolo, manterrebbe legami di profonda solidarietà con le proprie radici. Il capitolo finale del libro è così atroce da far rizzare i capelli quando racconta nei particolari una delle operazioni più redditizie per la criminalità e dalle conseguenze più nocive per i napoletani: il traffico clandestino per portare dal Nord Italia i residui tossici industriali e seppellirli nelle campagne. È un’attività che consente alla camorra guadagni immensi e comporta danni smisurati per i contadini e gli abitanti di quelle terre avvelenate dagli acidi.

Nell’eccellente libro di Saviano c’è, però, un’analisi che non condivido: non credo, come lui, che il fenomeno-camorra sia una realtà connaturata al sistema capitalista: secondo me ne è un bubbone, una deformazione. Qualcosa che tutti i grandi studiosi della libera economia, da Adam Smith a Friedrich von Hayek, hanno indicato come possibile quando l’impresa privata operi in un mondo senza leggi o con leggi disattese, privo d’una cultura e di una morale in grado di separare con chiarezza il giusto dall’ingiusto o, per utilizzare termini religiosi, il bene dal male. Non è il capitalismo, ma l’Italia a essere corrotta.

Giustizia: On. Carofiglio; e l’Italia rischia di diventare razzista

di Antonella Rampino

 

La Stampa, 22 settembre 2008

 

Magistrato sul fronte delle mafie. Scrittore per vocazione di romanzi catalogati nel genere "legal-thriller", ambientati al Sud e popolati di immigrati e creature della notte. E anche Senatore del Partito democratico.

Gianrico Carofiglio, classe 1961, dice anzitutto che in materia di razzismo bisogna evitare le affermazioni categoriche. "Questo o quell’episodio non possono essere etichettati come razzismo oltre la realtà dei fatti: sbaglia chi garantisce che l’assassinio del giovane italiano nero originario del Burkina-Faso non ha nulla a che fare con il razzismo. E sbaglia chi trae conseguenze generali dal fatto che, durante il pestaggio, gli omicidi gridavano, come riferiscono i giornali, "sporco negro". Quella potrebbe essere non la causa, ma un’amplificazione degli effetti. Sono cose diverse".

 

Di fronte a quale scenario ci troviamo? Cittadini italiani di pelle nera che a Milano per la prima volta protestano per diritti di cittadinanza negati, e neri che al Sud, da immigrati clandestini, sembrano invece integrati nell’anti-stato, nella criminalità organizzata.

"Tra la manifestazione di Milano è quello che è accaduto nel Casertano non vedo alcun nesso, se non la coincidenza temporale. A Castel Volturno ci sono stati sei neri ammazzati, sembra, da un gruppo di fuoco di latitanti, da una scheggia impazzita, residua del clan dei Casalesi che cerca col terrore di riprendersi il territorio. L’ipotesi investigativa è insomma che la strage sia stata realizzata perché quei neri - o alcuni di loro, perché non è escluso che qualcuna delle vittime sia morta solo perché si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato - non si assoggettavano al pizzo che in quelle zone la camorra chiede a chi smercia droga. Stragi di potenza quasi militare come quella non si compiono per nessun motivo diverso da un durissimo conflitto criminale".

 

Però a Milano per la prima volta c’è stata ribellione contro i bianchi, se stiamo agli slogan gridati. Crede che nella società italiana possa non accadere quello che è già accaduto in Francia o in Inghilterra, dove gli immigrati di seconda e terza generazione, che godono dei diritti di cittadinanza, si sentono però esclusi dagli aspetti migliori della società?

"Non possiamo parlare di "società italiana" in generale. Da questo punto di vista ci sono grandissime differenze fra le diverse zone del Paese".

 

Lei è di Bari. Pensa che il Mezzogiorno sia più pronto del Settentrione ad accogliere gli immigrati e le loro diversità?

"Non mi sento di fare un’affermazione così categorica. In generale però a Sud comportamenti razzisti sono molto meno diffusi. A Bari, per esempio, il razzismo semplicemente non esiste, e anzi il motto della città è "a Bari nessuno è straniero". Ciò dipende, oltre che da ragioni storiche, in primo luogo dalla minore incidenza numerica degli immigrati e soprattutto dalla minore incidenza statistica dei delitti commessi dagli immigrati, che in certe zone del nord est raggiungono percentuali del 60 per cento. Questo genera un grande senso di insicurezza, una percezione (in parte fondata) di minaccia, l’idea che arrivi qualcuno da fuori a rubarti la tua roba".

 

Il razzismo, come l’insicurezza, è anzitutto una percezione?

"Sì. E come tutte le percezioni può essere modificata. Se per esempio il razzismo è qualcosa di cui vergognarsi, inevitabilmente chi lo prova avrà difficoltà ad esibirlo, poiché è qualcosa di riprovevole. Se invece, e dispiace doverlo dire, il messaggio politico di certe forze è orientato e caratterizzato da affermazioni come "vogliamo essere padroni a casa nostra", "tornatevene da dove siete venuti" e così via, questo non genera certo la vergogna del razzismo. Anzi, alla lunga finirà inevitabilmente per alimentarlo se non per generarlo anche dove non avrebbe motivo di allignare".

Giustizia: sindaci con poteri speciali, ma la "creatività" manca

 

Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2008

 

Le ordinanze dei sindaci sono arrivate, ma la "creatività" invocata dal ministro Maroni un po’ meno. I primi cittadini delle principali città italiane hanno firmato numerosi provvedimenti in tema di sicurezza e decoro urbano, attenendosi però sempre scrupolosamente a quanto stabilito dalle linee guida dettate dal ministro dell’Interno.

Fanno eccezione Padova, dove il sindaco ha vietato il gioco delle tre carte, e Novara, dove si rischia la multa se si sta seduti su una panchina in più di tre persone. Il tema più caro ai sindaci resta quello della prostituzione: quasi in tutte le città sono state innalzate le sanzioni previste per "lucciole" e clienti.

La penna come una spada per difendere i cittadini. Basta una firma, ai sindaci, per esercitare il potere speciale conferito loro dal ministro dell’Interno Roberto Maroni, che con il decreto del 5 agosto ha attribuito ai primi cittadini d’Italia la possibilità di intervenire (o prevenire) nel caso in cui qualcuno metta a rischio la sicurezza e il decoro delle città

 

Gli ambiti di intervento

 

Il provvedimento, che ha ottenuto parere favorevole da parte della Conferenza Stato-Città, permette ai sindaci di firmare ordinanze ad hoc per contrastare le situazioni di degrado urbano, la prostituzione in strada, l’accattonaggio, ì fenomeni di violenza, il danneggiamento del patrimonio pubblico e di quello privato, l’incuria, l’occupazione abusiva di immobili, l’abusivismo commerciale e qualsiasi altra attività che possa mettere a rischio la sicurezza urbana e l’incolumità pubblica. Entro questi limiti, i sindaci hanno pieni poteri. E a loro il ministro ha chiesto "creatività" nelle ordinanze. Ordinanze che possono essere scritte e firmate ogni qualvolta il primo cittadino lo ritenga opportuno.

Il "pacchetto sicurezza" (da cui il Dm prende vita), inoltre, assegna ai sindaci un ulteriore potere: quello di segnalare all’autorità giudiziaria o di pubblica sicurezza la condizione irregolare di uno straniero per l’eventuale adozione di provvedimenti di espulsione o di allontanamento dal territorio italiano.

 

La comunicazione al prefetto

 

Tornando alle ordinanze, l’unico vincolo da rispettare, per i sindaci, è la comunicazione in via preventiva del contenuto al prefetto. Tale provvedimento è immediatamente esecutivo e viene reso pubblico attraverso l’affissione all’albo pretorio e il sito Internet del Comune. Mano libera anche sulle sanzioni da applicare, anche se generalmente l’importo (almeno per il momento) oscilla quasi sempre tra i 25 e i 500 euro.

 

Il ricorso

 

Il cittadino che ritenga ingiusto o illegittimo il contenuto di una ordinanza sindacale può fare ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale entro sessanta giorni dalla pubblicazione all’albo pretorio. In alternativa, il ricorso straordinario può essere presentato al presidente della Repubblica entro 120 giorni dalla sua pubblicazione. Quello dei ricorsi è un rischio scongiurato grazie alla definizione esplicita dei concetti di "incolumità pubblica" e "sicurezza urbana" contenuta nel decreto ministeriale, così come previsto dal Dl 92 (il "pacchetto sicurezza", convertito nella legge n. 125 del 24 luglio).

Fino a questo momento, infatti, i poteri dei sindaci erano definiti in modo vago e il giudice amministrativo poteva facilmente definire illegittime le ordinanze dei singoli sindaci. Adesso, con le definizioni contenute nel Dm, sarà più difficile contestare la legittimità dei provvedimenti. Nel decreto ministeriale del 5 agosto si spiega, infatti, che per incolumità pubblica s’intende "l’integrità fisica della popolazione", mentre con l’espressione "sicurezza urbana" si fa riferimento a "un bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell’ambito delle comunità locali, del rispetto delle norme che regolano la vita civile per migliorare le condizioni di vivibilità dei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale".

Giustizia: rimpatrio detenuti stranieri? difficile, senza accordi

di Andrea Maria Candidi e Giovanni Parente

 

Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2008

 

Pianeta diviso a metà sull’assistenza penale. Con l’eccezione di uno striminzito pugno di Stati, Africa e Asia alzano uno steccato quasi invalicabile alla cooperazione, non solo con l’Italia. È un responso senza appello quello che si ricava dalla cartina geografica dell’integrazione giudiziaria, costruita in base al censimento degli accordi bilaterali o multilaterali siglati dai vari Paesi. A partire dai casi più eclatanti, vale a dire India e Cina, in pratica mezzo mondo che non scende a patti con nessuno, quanto meno in tema di collaborazione tra organi giudiziari per indagini contro la criminalità internazionale.

Quello degli strumenti di cooperazione in materia penale è un tema tornato alla ribalta di recente, quando il ministro della Giustizia, alle prese con il riproporsi prepotente del problema dell’affollamento delle carceri, ha indicato nel trasferimento dei detenuti stranieri verso i Paesi di origine una strada da battere.

Come previsto, se il trend di ingressi degli ultimi mesi verrà confermato da qui alla fine dell’anno, all’inizio del 2009 gli istituti penitenziari italiani si troveranno, quanto a presenze, nelle stesse condizioni che hanno costretto il Parlamento nel 2006 ad approvare in tutta fretta la legge sull’indulto. E la ricetta Alfano (che comunque ha sottolineato l’imprescindibilità di investire nell’apertura di nuove carceri), alla luce del quadro non certo esaltante degli accordi internazionali, muove una goccia nell’oceano.

Basti dire che tra i primi dieci Paesi di provenienza dei detenuti stranieri nelle carceri nostrane, solo in tre casi è ipotizzabile il trasferimento. Negli altri sette, tra cui Marocco, Tunisia e Algeria (da cui provengono quasi 8mila reclusi, il 40% del totale degli stranieri che al 31 agosto sfiorano le 21mila unità su un totale complessivo di circa 56mila detenuti), l’operazione è resa impossibile dall’assenza di uno strumento legislativo ad hoc. Le diplomazie sono dunque avvertite.

Allo stato le materie su cui si sono costruiti i rapporti di collaborazione con le autorità giudiziarie dei Paesi stranieri, cui l’Italia aderisce, sono sostanzialmente quattro: estradizione (e mandato d’arresto europeo), trasferimento di persone condannate, assistenza giudiziaria (che consente a un’autorità di chiedere agli organismi stranieri di procedere a indagini al posto suo), lotta al riciclaggio.

Istituti regolati innanzitutto da quattro convenzioni europee - ma aperte alla firma anche oltre i confini del Vecchio continente - siglate a Parigi nel 1957 (estradizione) e a Strasburgo nel 1959 (assistenza giudiziaria), nel 1983 (trasferimento condannati, con protocollo addizionale del 1997) e nel 1990 (lotta al riciclaggio).

Questi i quattro capo saldi che, affiancati da una serie di accordi bilaterali, costituiscono l’ossatura normativa della complessa disciplina della cooperazione internazionale in materia penale. Alla fine, restano sulla carta 82 Paesi che stringono rapporti con l’Italia, compresi quelli europei, con i quali la rete di collaborazione è a 360 gradi dopo l’ultimo tassello del mandato d’arresto europeo.

Dunque, oltre i confini del mondo occidentale (anche le intere Americhe sono praticamente dotate di strumenti di cooperazione) e l’Oceania, rimane ben poco. Perché tra Africa e Asia si individuano solo tredici ordinamenti che hanno deciso di sottoscrivere perlomeno una forma di cooperazione. Tra questi appaiono anche Algeria, Marocco e Tunisia che aderiscono però solo alla Convenzione europea in materia di estradizione.

In cui parte attiva, che chiede cioè il trasferimento, non è lo Stato in cui è detenuto il cittadino straniero, ma lo Stato che sta ricercando la persona in questione perché ad esempio lì è stata inflitta la condanna. Questo vuol dire che verso l’Algeria, il Marocco o la Tunisia, l’Italia può trasferire solo cittadini ricercati o condannati da quegli ordini giudiziari, e non cittadini originari di quei Paesi ma condannati dai tribunali italiani.

 

Estradizione

 

È la consegna, allo Stato richiedente, di una persona ricercata o perché oggetto di una condanna definitiva a pena detentiva o a misura privativa della libertà personale o perché oggetto di una ordinanza di custodia cautelare in carcere

 

Trasferimento condannati

 

Consente ai cittadini di uno Stato, detenuti i n espiazione di pena in un altro Stato, di essere trasferiti in quello d’origine per continuare a espiare la pena. Presso il Consiglio Ue è in discussione una proposta di decisione quadro in base alla quale il trasferimento delle persone condannate può prescindere, a determinate condizioni, dal consenso della persona da trasferire e dall’accordo tra gli Stati.

 

Mandato d’arresto europeo

 

Sostituisce, nella Ue, l’estradizione con una procedura di cattura e consegna delle persone ricercate. La consegna avviene non più attraverso le procedure estradizionali, gestite dalle autorità centrali degli Stati, ma con provvedimento emesso dall’autorità giudiziaria

 

Assistenza giudiziaria

 

Attraverso tali strumenti, gli Stati possono prestarsi assistenza nella lotta contro la criminalità internazionale. Ad esempio, il giudice che deve svolgere indagini all’estero può chiedere alle Autorità di quello Stato di eseguirle in sua vece trasmettendone i risultati al Paese richiedente, ai fini del loro utilizzo nel processo. Anche le rogatorie sono atti di tale tipo.

Giustizia: per il rimpatrio è necessario il consenso del detenuto

di Marina Castellaneta

 

Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2008

 

L’Europa cerca nuove strade per assicurare il trasferimento di condannati stranieri nel Paese d’origine. Ma il percorso è tutto in salita perché gli Stati si mostrano più favorevoli alla stipulazione di accordi bilaterali.

Un dato è certo. La Convenzione adottata a Strasburgo il 21 marzo 1983 dal Consiglio d’Europa sul trasferimento delle persone condannate ha fatto il suo tempo e non fornisce risposte adeguate agli Stati che subiscono un forte incremento di detenuti provenienti da altri Paesi. È da aprile 2005 che i Paesi membri dell’Unione europea discutono sul rafforzamento degli strumenti per facilitare il trasferimento di detenuti condannati nello Stato di appartenenza. Da un lato, per far fronte al problema del sovraffollamento carcerario - in parte dovuto all’incremento della popolazione straniera nei penitenziari soprattutto per reati legati allo spaccio di droga e al traffico di esseri umani - e, dall’altro lato, per consentire in modo effettivo la riabilitazione sociale dei detenuti.

La proposta di decisione quadro presentata da Austria, Finlandia e Svezia nel 2005 prevedeva che lo Stato del quale il condannato aveva la cittadinanza fosse obbligato ad accogliere in carcere il detenuto, senza la necessità del consenso del trasferito e senza applicare il principio della doppia incriminazione.

Con un pieno riconoscimento dell’attività processuale compiuta nei vari Stati membri. Questo perché la proposta di decisione quadro era incentrata sull’emissione dell’ordine di esecuzione europeo da parte delle autorità dello Stato che aveva pronunciato la condanna, poi eseguito dal Paese nel quale il condannato aveva la residenza legale permanente o altri stretti collegamenti. Esclusi ulteriori controlli e limitati all’osso i motivi di rifiuto.

Una sorta di trasferimento forzoso che non è stato accolto dal Regno Unito, contrario a smantellare il sistema della Convenzione di Strasburgo che passa attraverso il consenso dei due Stati interessati e, quasi sempre, attraverso l’assenso del detenuto. Un meccanismo, quello di Strasburgo, che rischia di essere bloccato se il detenuto non aderisce volontariamente o se uno dei due Stati interessati pone un veto. È stato così, ad esempio, nel caso Baraldini, che per lungo tempo non ha potuto scontare la pena in Italia per il no delle autorità statunitensi.

Un passo avanti si è avuto con il Protocollo del 18 dicembre 1997 che, a certe condizioni, ammette il trasferimento senza consenso dell’interessato, ma sono ancora pochi gli Stati ad aver detto sì a questo sistema. Intanto, la Grecia, alle prese con una popolazione carceraria al 40% straniera, nel 2007 ha presentato una proposta per l’adozione di un secondo protocollo addizionale con l’obiettivo di evitare una proliferazione di accordi bilaterali.

Sia la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, sia quella contro la criminalità organizzata transnazionale prevedono - per questo tipo di reati e nei rapporti reciproci tra Stati che hanno ratificato i due trattati - il trasferimento delle persone condannate nel Paese della nazionalità, ma dietro stipulazione di accordi bilaterali.

In ogni caso, le autorità nazionali degli Stati che hanno ratificato la Convenzione dei diritti dell’uomo dovranno bloccare il trasferimento se nel Paese di destinazione il detenuto corre il rischio di essere sottoposto a tortura o a trattamenti disumani.

Giustizia: il giudice; strumenti articolati, ma assai poco efficaci

di Carlo Renoldi (Magistrato di Sorveglianza di Cagliari)

 

Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2008

 

Gli strumenti della cooperazione giudiziaria sul trasferimento dei detenuti, nonostante la presenza di una normativa assai articolata, in vigore da circa vent’anni, ricevono un’applicazione piuttosto contenuta. Le ragioni sono molteplici e vanno ricondotte, oltre che a un’obiettiva lentezza delle procedure, soprattutto al fatto che gli Stati di destinazione sono in genere assai poco propensi a collaborare alla definizione delle procedure di trasferimento.

E ciò pur in presenza di convenzioni multilaterali o di accordi bilaterali che in teoria imporrebbero loro di ricevere i propri cittadini detenuti nelle carceri di altri paesi. Emblematico è il caso dell’accordo con l’Albania, stipulato nel 2002, che consente all’Italia di pretendere il trasferimento dei detenuti albanesi e che in teoria obbliga il Paese balcanico a ricevere i propri cittadini detenuti nelle nostre carceri. Ebbene, nel corso degli ultimi due anni, su circa cinquecento procedure formalmente concluse si è riusciti a trasferire solo quattro o cinque detenuti di nazionalità albanese.

A differenza del mandato di arresto europeo, che costituisce uno strumento esclusivamente giurisdizionale, peraltro sempre più diffuso e destinato a soppiantare in ambito europeo gli istituti tradizionali, l’estradizione e il trasferimento dei detenuti condividono la natura di strumenti compositi, in cui una procedura garantita davanti a un giudice terzo e imparziale si salda con una procedura di carattere politico-amministrativo, di competenza dell’autorità governativa.

L’estradizione rappresenta una sorta di "favore" che gli Stati si fanno vicendevolmente. Essa valorizza l’interesse statuale a ricevere in consegna la persona accusata di un reato o condannata con sentenza definitiva per poterla, rispettivamente, processare o sottoporre a esecuzione penale; ed è per questo che di regola viene richiesta proprio dallo Stato che ha interesse alla consegna.

Il trasferimento, almeno nella sua configurazione originaria, pone invece l’accento sul prioritario interesse della persona, condannata con sentenza passata in giudicato, a espiare la pena detentiva nel Paese di provenienza e risponde, per così dire, a finalità "umanitarie".

Mentre, quindi, l’estradizione può essere accordata da parte dello Stato richiesto anche quando il detenuto vi si opponga, il trasferimento può essere in genere disposto a condizione che condannato vi acconsenta. Ed è per questo che, di regola, la procedura di trasferimento è attivata su richiesta del detenuto, anche se per la verità, già oggi è possibile, sia pure in casi limitati, fare a meno del suo preventivo assenso.

L’espulsione, invece, rappresenta, quantomeno nel caso in cui sia prevista come alternativa alla detenzione in carcere, una sorta di patto tra lo Stato e il condannato: il primo rinuncia all’esecuzione della pena, ottenendo in cambio un alleggerimento del sovraffollamento penitenziario.

Giustizia: Vizzini; approvare norme per inasprimento di 41-bis

 

Apcom, 22 settembre 2008

 

Occorre "al più presto" approvare nuove norme per inasprire il carcere duro (41-bis) e "rompere i legami tra boss detenuti e mondo esterno". Lo dichiara Carlo Vizzini, presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, rappresentante speciale Osce per la lotta alle mafie transnazionali e primo firmatario del disegno di legge sull’inasprimento del carcere duro, secondo cui è possibile intervenire "con una larga convergenza politica".

"La ripresa di atti intimidatori a scopo estorsivo è certamente il segno di un tentativo di riorganizzazione di Cosa nostra. È verosimile - aggiunge Vizzini - che la regia venga dai mafiosi detenuti e che la mafia degli affari non intende rinunciare ai propri sporchi profitti. Ma è anche pensabile che vi sia la ricerca di un nuovo assetto nei mandamenti ed al vertice".

"Non escluderei - conclude il presidente della commissione Affari costituzionali - che al centro di tutto questo ci possa essere un nuovo ruolo di capo del super latitante Matteo Messina Denaro che sembra essere oggi, in modo indiscusso, il più titolato, per rango e legami a prendere il posto dei capi detenuti e questo potrebbe accadere con il consenso di tutti".

Giustizia: presto sperimentazione delle "stanze dell’affettività"

 

La Repubblica, 22 settembre 2008

 

Sarà soltanto una stanza, ma per i detenuti, quasi un pezzo di cielo. Il carcere di Pianosa in Toscana, sarà la prima struttura detentiva italiana destinata a sperimentare quelle che nei documenti ufficiali vengono chiamate "stanze dell’affettività", ovvero i posti dove i detenuti "potranno avere momenti di intimità con i propri partner".

Lo ha annunciato a Pisa il dirigente regionale del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (Dap) Maria Pia Giuffrida, nel corso della presentazione del libro "Lisistrata incatenata. Dalle Mantellate ai giorni nostri. Mezzo secolo di sopravvivenza carceraria al femminile".

Il problema della sessualità in carcere, già affrontato in molti paesi occidentali, vede l’Italia in forte ritardo dopo che, circa dieci anni or sono, l’allora Direttore Generale del Dap Michele Coiro, dette disposizione a tutti i direttori dei penitenziari, di predisporre spazi destinati a questa funzione.

Il carcere di Pianosa ospita, attualmente, soltanto alcuni detenuti in regime di semilibertà, ma già nei mesi scorsi era stato annunciato, con l’esponenziale crescita della popolazione detenuta, il suo totale recupero.

Maria Pia Giuffrida, ha auspicato anche la realizzazione, non in diverse parti del Paese, Toscana compresa, di strutture Icam (Istituto di custodia attenuata per detenute madri) la cui prima, positiva esperienza, è stata fatta dalle detenute madri di San Vittore, trasferite, da oltre un anno in una sorta di Casa famiglia alle porte di Milano.

Il volume "Lisistrata incatenata" raccoglie le testimonianze di diverse donne passate dagli istituti di pena, le loro paure, i sentimenti, le necessità. Con una prefazione di Adriano Sofri è firmato dal giornalista Doady Giugliano e dal professor Francesco Ceraudo, nominato dall’assessore alla sanità Enrico Rossi direttore del dipartimento regionale al diritto alla salute in carcere.

 

Da "Il Tirreno"

 

La sessualità in carcere non deve più essere in tabù e anzi in Toscana, per la precisione a Pianosa (e in subordine pure a Gorgona), vi sono le condizioni per avviare la sperimentazione delle cosiddette "stanze dell’affettività", sul modello di quanto avviene in larga parte dei paesi europei, Albania compresa. L’argomento è stato rilanciato a Pisa durante la presentazione del libro "Lisistrata incatenata", sulla condizione delle donne detenute, curato da Doady Giuliano e Francesco Ceraudo.

Ed è proprio Francesco Ceraudo, presidente nazionale dei medici penitenziari e direttore del centro sanitario del carcere Don Bosco di Pisa, a sollevare il problema: "È estremamente positivo cominciare a parlare in termini concreti di sessualità in carcere, tema di cui si discute da anni, ma che da noi non ha mai trovato una giusta applicazione - ha detto -. È significativo che una prima sperimentazione di "stanze dell’affettività" avvenga proprio in Toscana, la regione in cui nasce il primo dipartimento regionale per la salute in carcere".

Un’idea che Carlo Mazzerbo, direttore del carcere di Porto Azzurro e, quindi, di Pianosa, dimostra di condividere, anche se con un distinguo: anziché di "stanze per l’affettività", all’amministrazione carceraria piace parlare di "luoghi dell’affettività".

Proprio come al suo superiore Maria Pia Giuffrida, provveditore regionale del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che vuol rilanciare Pianosa "come luogo dell’affettività e mi riferisco soprattutto alla possibilità di accogliere donne detenute con bambini, sulla scia di quanto avviene in altri paesi".

Secondo Giuffrida, le detenute sull’isola potrebbero provvedere direttamente alla cura dei loro figli fino a tre anni. Dai tre ai 14 anni, i ragazzi raggiungerebbero le loro mamme solo nei periodi festivi. Ma l’esperimento, nel caso desse buoni frutti, potrebbe essere allargato ai nuclei familiari interi.

Giustizia: in carcere 2.536 donne, con 70 bambini sotto i 3 anni

 

Ansa, 22 settembre 2008

 

Le donne in carcere in Italia sono 2.536: oltre un terzo in Lazio (435) e Lombardia (570). I bambini al di sotto di 3 anni che vivono negli istituti di pena oscillano invece tra i 70 e gli 80. La maggior parte sono figli di immigrate. Il quadro sulla popolazione carceraria femminile è stato illustrato a Viterbo, durante un convegno sull’assistenza sanitaria ai reclusi. Proprio oggi il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha annunciato che sarà approvata una riforma dell’ordinamento carcerario per "far scontare la pena alle mamme in strutture dove non possano scappare, ma che non facciano stare in carcere il bambino". "Un bambino - ha aggiunto - non può stare in cella. Non importa di chi sia figlio, ciò che importa è che è un bimbo".

Giustizia: killer confessa, un innocente in carcere al suo posto

 

Gazzetta del Mezzogiorno, 22 settembre 2008

 

Negli anni ‘90 in Puglia vennero uccise 15 anziane violentate e sgozzate e per questi omicidi vennero arrestate 7 persone, tutte innocenti, tra cui Vincenzo Faiuolo, l’unico ancora in carcere. Per tutti quegli omicidi confessò Mohamed Ezzedine Sebai un tunisino di 44 anni. Ora la procura di Taranto ha riaperto il caso ma il processo al vero serial killer che aveva già confessato nel 2006, non inizierà se non nel 2009.

"Sono in carcere da 11 anni e 4 mesi, me ne rimangono da fare altri undici ma io sono innocente". Ai microfoni di Studio Aperto, che lo ha intervistato nel carcere di Volterra, grida la sua innocenza Vincenzo Faiuolo, uno degli otto imputati finiti in carcere (sei in relazione a quattro omicidi, due per reati collegati) per omicidi di donne anziane avvenute in Puglia negli anni Novanta e poi confessati dal presunto autore, Ben Mohamed Ezzedine Sebai, tunisino di 44 anni.

Faiuolo, 46 anni, è l’unico imputato ancora detenuto; sono invece liberi dopo anni di carcere Davide Nardelli, Francesco Orlandi, Giuseppe Tinelli e Cosimo Montemurro. Si è invece suicidato in carcere dopo essere stato condannato Vincenzo Donvito. Dopo questo suicidio Sebai ha deciso di collaborare con la giustizia confessando i delitti contestati ai sei.

"La giustizia forse funziona lenta, male, io sono innocente - afferma ancora il detenuto -, la legge non è uguale per tutti anche loro sono umani e possono sbagliare ma a me mi hanno perseverato. Prima di arrestare una persona bisognerebbe vedere bene i fatti ma se no, è un peccato perché si perde solo una vita. Sono entrato in carcere che avevo 35 anni ora ne ho 46 e ho perso tanto, penso che se fossi fuori, una vita me la sarei fatta.

Mi manca tanto mia madre, mia nonna che mi hanno cresciuto, ho dei nipotini che non ho conosciuto per niente, vorrei riabbracciare tutti, soprattutto mia mamma che ha molto patologie e sono cinque anni che non riesco a vederla. Mi domando come mai sono ancora in carcere? Sono un ragazzo calmo, ho tanta pazienza, ho sempre sperato che uscisse la verità a galla e che mi scarceravano e io non vedo l’ora che arriva la mia scarcerazione". Ora la procura di Taranto ha riaperto il caso ma il processo al vero serial killer che aveva già confessato nel 2006, non inizierà se non nel 2009.

Toscana: nasce dipartimento regionale per la salute in carcere

 

Ansa, 22 settembre 2008

 

Nasce in Toscana il primo "Dipartimento Regionale per la Salute in Carcere" dando corso alla legge emanata dal precedente Governo che stabilisce il passaggio della Medicina Penitenziaria dalla giurisdizione del Ministero di Grazia e Giustizia al Ministero della Sanità. Lo ha annunciato questa mattina dall’assessore regionale per il diritto alla Salute Enrico Rossi durante la presentazione del libro sulle condizione delle donne detenute "Lisistrata Incatenata".

"Come sancito dalla nostra Costituzione - ha detto Rossi - i detenuti al pari dei cittadini in stato di libertà, hanno diritto all’ erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione previste nei livelli essenziali e uniformi di assistenza. In carcere, salute e sicurezza dovrebbero avere la stessa attenzione; per questo, consapevoli della specificità del settore, abbiamo dato vita a questo dipartimento che, di fatto, accoglierà al suo interno coloro che da anni esercitano la medicina penitenziaria, consapevoli che dovremmo comunque migliorare da subito le prestazioni ed i servizi". Nell’occasione, Rossi ha anticipato la nomina di Francesco Ceraudo, quale dirigente coordinatore del nuovo Dipartimento.

"Siamo convinti - ha detto Ceraudo che da oltre 25 anni guida la Medicina Penitenziaria Italiana - che sulla stregua del modello Toscana della Sanità Pubblica sapremo sviluppare un programma di tutela della salute in carcere che consentirà al nostro Paese di fare un importante salto di qualità in un settore estremamente delicato e sofferente, in conformità delle stesse direttive della Unione Europea. Ringraziando l’assessore Rossi per la fiducia accordatami, vorrei ricordare che lui è stato il primo in Italia a mettere a disposizione della popolazione detenuta l’approvvigionamento dei farmaci e di tutto il materiale sanitario, in momenti di estrema ristrettezza finanziaria".

Campania: Osapp; lotta a camorra, carceri a rischio sicurezza

 

Asca, 22 settembre 2008

 

"L’intensa attività di contrasto alla camorra messa in atto dopo i tragici fatti di Castel Volturno sicuramente si rifletterà sui servizi demandati al personale del Corpo di Polizia penitenziaria che dovrà far fronte al presunto ingresso in carcere di un congruo numero di persone pericolose".

A lanciare l’allarme è il segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci, critico sulla gestione della sicurezza "alla luce di una tangibile impossibilità degli istituti campani di assorbire i nuovi ingressi". "La capienza degli istituti in tutta la Campania - prosegue Beneduci - è arrivata a 6.761 detenuti contro una tollerabilità di 6.966 unità.

È agevole ipotizzare che mentre il ministro dell’Interno si premura di inviare quattrocento agenti in Campania, per la tutela dell’ordine e della sicurezza, il Dap che coordina le forze della Polizia Penitenziaria si preoccupa di promuovere, in altre parti del Paese, politiche detentive senza alcun dubbio di facciata, come per il rilancio di Pianosa quale luogo dell’affettività e alla possibilità, secondo noi impraticabile, di accogliere lì donne detenute anche con bambini sopra i quattro anni ".

"È chiaro a tutti - aggiunge Beneduci - come su questi fatti ci sia la totale mancanza di un minimo di coordinamento tra Giustizia e Interno quando la presenza di quattrocento agenti della polizia di Stato nella zona del massacro determinerà necessariamente un’incisiva lotta al crimine rispetto la quale questa Amministrazione non può assolutamente trovarsi impreparata.

Ciò posto chiediamo un rinforzo d’organico nelle strutture maggiormente esposte (Santa Maria Capua Vetere, Poggioreale, Secondigliano) e una maggiore partecipazione ai comitati per l’ordine e la sicurezza pubblica, a tutti i livelli, in modo da predisporsi con le altre forze di Polizia. A questo riguardo chiediamo al Presidente Ionta, Capo dell’Amministrazione Penitenziaria, di accogliere le istanze di quanti per gravi motivi aspirano ad un distacco provvisorio in Campania, in modo da contemperare le sopravvenute esigenze di servizio con quelle dei dipendenti".

Monza: "ludoteca" chiusa, stop ad incontri detenuti con i figli

 

Ansa, 22 settembre 2008

 

Senza libertà: neppure quella di abbracciare i propri figli. Da quattro mesi gli 800 detenuti del Carcere di Monza non hanno più la possibilità di incontrare i loro bambini. Colpa dell’endemica carenza di personale che da tempo affligge la Casa Circondariale di via San Quirico. Gli agenti della Polizia penitenziaria sono appena 370. Troppo pochi per garantire gli incontri tra i detenuti e i loro figli, che avvengono nella "ludoteca".

Fino a quattro mesi fa a garantire l’apertura e il funzionamento di questo spazio protetto ci pensavano i volontari. Ma ora a causa del numero sempre più numeroso dei detenuti - il limite massimo di carcerati dovrebbe essere di 650 unità ma il numero è salito fino a 800 - questo servizio non è più possibile. A denunciare il problema è stato lo stesso direttore del Carcere circondariale di Monza, Massimo Parisi.

"Servirebbero almeno 70 agenti in più - spiega Parisi -. Ma almeno per il momento avere questo numero di uomini è impossibile. Dunque, almeno per il momento, a malincuore siamo stati costretti a sospendere l’apertura della ludoteca e la visita dei figli dei carcerati". Una scelta dolorosa, che ha suscitato le proteste dei carcerati, privati di uno dei diritti fondamentali dell’essere genitore: la possibilità di incontrare e di parlare con i propri figli.

E il guaio è che una soluzione dietro l’angolo non c’è ancora. "A partire da metà ottobre - aggiunge Parisi - l’arrivo di nuovi volontari potrebbe rendere possibile una riorganizzazione dei turni di lavoro e il ripristino di questo importante servizio". Ma per il momento il condizionale è d’obbligo e i papà e le mamme carcerati aspettano con il fiato sospeso e il cuore in gola.

Genova: Pontedecimo un carcere modello, doccia in ogni cella

 

Secolo XIX, 22 settembre 2008

 

Quando si cominciò a parlarne, più di una ventina di anni fa, la gente della delegazione polceverasca insorse, scese in strada, protestò con veemenza. Mai un carcere a Pontedecimo! Il carcere invece si fece lo stesso, in tempi relativamente brevi per gli standard italiani. L’11 novembre 1990 l’inaugurazione, in pompa magna, sulla collina di Via Coni Zugna, tra il verde dove un tempo sorgeva la famosa e famigerata Garaventa, scuola correzionale minorile. Cose ormai antiche e perdute nella memoria.

"L’atteggiamento della gente cambiò molto rapidamente - commenta Giuseppe Comparone, direttore della casa di pena - Il carcere fece aumentare i clienti dei pubblici esercizi del quartiere. Detenuti, famigliari, agenti di custodia si trasformarono in clienti di bar, negozi, ristoranti. E la presenza della struttura carceraria finì per diventare anche un deterrente verso la criminalità. Chi andrebbe a rubare nei paraggi di un carcere sorvegliato giorno e notte?".

La Liguria aggiunse un anello alla breve catena delle sue Case Circondariali. Due a Genova, il vetusto carcere di Marassi, che resiste impavido - tormentato da cronici problemi di sovraffollamento - dal lontano 1865, e appunto il carcere di Pontedecimo, l’unico reclusorio femminile della Liguria. Altre strutture carcerarie sorgono a Chiavari, La Spezia, Savona, Imperia e Sanremo. Sette in tutto.

"Al 31 agosto i detenuti nelle carceri liguri erano esattamente 1.409. Sa quante sono le celle e i posti letto disponibili? Rispettivamente 542 e 1.141", osserva Michele Lorenzo, segretario ligure del Sappe, il sindacato che riunisce un terzo degli agenti di custodia. Emergenza continua, dunque.

Il deputato del Pdl, Roberto Cassinelli ha proseguito a Pontedecimo il viaggio iniziato a Savona. Due realtà agli antipodi. "Pontedecimo mi è apparso un carcere moderno, ben strutturato e gestito in maniera corretta. Il direttore, Comparone, ha instaurato un’atmosfera di collaborazione, coinvolgendo i detenuti in una serie di attività, ludiche e lavorative, che non escludono neppure la partecipazione a interventi di piccola manutenzione all’interno del carcere. Esiste probabilmente qualche criticità, anche lì la capienza è quasi sempre esaurita ma complessivamente mi pare di poter dire che Pontedecimo può servire come punto di riferimento di un trattamento carcerario che punta alla riabilitazione del detenuto. Anche in questa realtà il grande impegno degli agenti penitenziaria sopperisce alla cronica carenza degli organici".

"La pianta organica di Pontedecimo prevede 167 unità - spiega il comandante del reparto di polizia penitenziaria, Stefano Bruzzone - In servizio normalmente ce ne sono 102/3, perché 32 agenti sono distaccati altrove, al Gom (Gruppo operativo mobile, che si occupa dell’applicazione del regime del 41 bis (il cosiddetto carcere duro per mafiosi et similia, ndr) e in altri uffici dell’amministrazione". Poi ci sono i distacchi amministrativi e insomma è raro che l’organico pieno sia effettivamente disponibile. Altro problema endemico, le richieste di trasferimento del personale, dal Nord al Sud.

A modo suo Pontedecimo è un carcere modello. Celle singole su tre piani, che normalmente ospitano due detenuti ciascuna, dotate di tv a colori, attrezzate con i servizi igienici e, prossimamente, anche con la doccia. Corridoi ampi, locali relativamente confortevoli, soleggiati quasi come abitazioni. Un senso di pulizia e di ordine dovunque, corroborato dalla sobrietà delle guardie carcerarie, uomini e donne, perché a Pontedecimo uomini e donne detenuti convivono, naturalmente in sezioni separate tra loro.

Riferisce l’onorevole Cassinelli: "Una sezione è in restauro, purtroppo la ditta appaltatrice è fallita e i lavori quindi sono fermi. Nella sezione femminile esiste un asilo nido nel quale le detenute posso accudire i figli fino ai tre anni. Quando i bambini hanno compiuto i tre anni, intervengono le strutture esterne e i piccoli frequentano l’asilo e la scuola come gli altri coetanei". La scuola funziona anche dentro le mura carcerarie: primaria secondaria e superiore, con gli insegnanti dell’Istituto Ruffini e dell’Istituto Gaslini.

La situazione attuale in fatto di affollamento sta fra la situazione regolamentare (97 detenuti/e) e la situazione tollerabile (191) Al 18 settembre i detenuti erano 140, dei quali 66 maschi e 74 femmine. Di queste ultime 39 sono italiane, 29 extracomunitarie e 6 straniere comunitarie. Tra i maschi gli italiani sono in numero inferiore agli extracomunitari (27 a 37), gli stranieri comunitari appena 2.

Il direttore Comparone teorizza una regola semplice e, evidentemente, efficace. I detenuti devono essere tenuti impegnati, con la testa e con le mani, per la maggior parte del giorno. Non si contano quindi le iniziative di lavoro e di ricreazione organizzate per far guadagnare qualche soldo (chi lavora ha diritto di ricevere una paga) o sviluppare il concetto di socialità. La bella saletta teatrale con palcoscenico ha visto i detenuti cimentarsi in testi di Shakespeare e Beckett, esibirsi in concerti di chitarra, perfomance, eventi. Nei vari laboratori si lavora pasta di marmo trasformandola in maschere del carnevale veneziano, si produce ceramica alla maniera di Albisola, si cuciono bambole di stracci. Un inizio promettente per chi dovrà ricominciare una nuova vita, quando avrà saldato il conto con la giustizia.

Pordenone: Candido Cannavò in visita… è un carcere incivile

 

Messaggero Veneto, 22 settembre 2008

 

Valica i cancelli della Casa Circondariale cittadina poco prima dell’una. E la sua prima impressione è di stupore: "Pensavo di trovare un carcere nuovo. Ce ne sarebbe stato bisogno". Invece ad accogliere Candidò Cannavò, storico ex direttore della Gazzetta dello sport, ora scrittore di successo e ieri ospite di pordenonelegge.it per presentare la sua ultima fatica letteraria ("Pretacci - Storie di uomini che portano il Vangelo sul marciapiede" - Rizzoli editore), è il vecchio Castello. Prima della vetrina "ufficiale" in Largo San Giorgio, Cannavò, nell’ambito del progetto pilota in tema di disadattamento, devianza e criminalità del Css, Teatro stabile d’innovazione del Friuli Venezia Giulia, e grazie alla collaborazione dell’associazione La Voce, ha voluto regalare in anteprima stralci del suo libro a una delegazione di detenuti nel carcere cittadino.

Una ventina i suoi attenti uditori, che oltre all’autore del libro hanno potuto ascoltare dal vivo anche la testimonianza di uno dei protagonisti dell’opera: don Albino Bizzotto. Ai più conosciuto per la marcia pacifista organizzata a Sarajevo nel pieno del conflitto che ha interessato l’ex Jugoslavia e per aver fondato a Padova l’associazione "Beati i costruttori di pace". Un prete che dedica la sua vita a persone emarginate, un "pretaccio", nel senso lodevole del termine attribuitogli da Cannavò.

La prima precisione dell’autore, dopo il saluto del direttore del carcere Alberto Quagliotto, è proprio al riguardo: "È un’espressione di affetto per i preti veri, che vivono nella strada, che vanno incontro alla gente che ha bisogno di sostegno e che spesso non sono ben visti dai loro superiori". I protagonisti del libro di Cannavò sono venti. Ad ognuno è dedicato un capitolo. Diversi di essi hanno quotidianamente a che fare con la difficile situazione della popolazione carceraria.

Cannavò li ha seguiti, ha a sua volta promosso incontri con campioni dello sport all’interno di istituti penitenziari: "Perché chi vi si trova dentro non può perdere il legame con la vita". Un breve sguardo attorno. C’è un detenuto di mezza età che ricorda a Cannavò la foto scattata cinque anni fa, durante una sua visita nella città del Noncello, in un ristorante del centro. La conserva ancora: lui assieme all’ex direttore della Gazzetta e a un grande campione del passato juventino.

Cannavò sorride, prova a ricordare, ma il suo sorriso è presto spento da un’amara considerazione: "Se un carcere esprime il livello di civiltà di una città, mi stupisco che Pordenone, che considero un posto meraviglioso, possa averne uno così. Io amo questa città, ci torno spesso e volentieri anche perché vi trovo dei cari amici, ma non mi capacito di come possa essere ancora mantenuto un istituto così poco degno rispetto al suo contesto".

Un monito perentorio, prima di tornare ai protagonisti del suo libro, da Don Benzi, scomparso proprio pochi mesi prima dell’uscita del volume, all’ex Vescovo di Locri monsignor Bregantini, alle loro encomiabili missioni di solidarietà. Qualcuno tuttavia gli ricorda che prima ancora di essere uno scrittore sensibile alle tematiche sociali è stato ed è un grande uomo di sport. Un ragazzo allora prende la parola: "Sa, ci piacerebbe poter giocare a pallone in un campo vero, ma qui non c’è lo spazio".

Cagliari: Buoncammino va chiuso... serve una nuova struttura

 

La Nuova Sardegna, 22 settembre 2008

 

"I problemi del carcere di Buoncammino sono principalmente due: le carenze dell’edificio e quelle dell’organico di polizia penitenziaria". Lo ha detto il consigliere regionale di An Antonello Liori, in una conferenza stampa sui risultati della visita effettuata nel carcere pochi giorni fa. "Mi aspettavo una situazione peggiore - ha esordito Liori -, ciò nonostante, non possiamo far finta che non ci siano problemi gravi, che però possono essere risolti con l’apertura di un nuovo carcere, ad esempio quella ventilata a Uta, e l’inaugurazione del presidio di sanità penitenziaria costruito nel nosocomio di Is Mirrionis e mai entrato in funzione".

I mali di Buoncammino sono il sovraffollamento, la mancanza di personale di sorveglianza, le precarie condizioni igienico-sanitarie. "L’organico dovrebbe essere composto da 297 unità - ha detto il segretario del sindacato Ugl Salvatore Argiolas - e invece le guardie penitenziarie sono circa una cinquantina in meno, a fronte di 450 detenuti. La situazione è sotto controllo anche grazie al fatto che molti poliziotti rinunciano a ferie e riposi. Il provveditore regionale del dipartimento penitenziario, Francesco Massidda, deve sbattere i pugni e rivendicare più personale".

Secondo Liori, un primo passo per portare la situazione alla normalità sarebbe quello di aprire il reparto di sanità penitenziaria di Is Mirrionis: "Pensiamo ai detenuti ospedalizzati - ha detto Liori - sparsi nei nosocomi e a tutte le guardie impegnate nei piantonamenti. Se vi fosse un solo presidio, servirebbero molti meno agenti. In ogni caso - ha concluso Liori - se il carcere di Uta diventasse realtà, la prima cosa da fare sarebbe abbattere le mura di cinta di Buoncammino: quella struttura non può continuare ad ospitare i reclusi".

Velletri: "l’evasione del gusto", con i vini prodotti dai detenuti

di Angelo Pagliaro

 

www.rivistaonline.com, 22 settembre 2008

 

Una cooperativa di "ospiti" del carcere di Velletri, alle porte di Roma, in collaborazione con l’enologo Marcello Bizzoni produce tre etichette dai nomi "evocativi": lo Chardonnay, "Quarto di luna", ad immaginare un cielo notturno visto a riquadri, dall’interno di una cella; il Sangiovese "Le sette mandate", tante quante sono le girate del mazzo di chiavi del secondino e ad essi si aggiunge, nel mese di novembre, il "Fuggiasco" un rosso novello la cui offerta non soddisfa neanche la metà delle richieste. Sono vini dal retrogusto particolare, un retrogusto che sa di libertà agognata e non ancora raggiunta.

Le tre etichette prodotte, dopo una bella presentazione nel carcere di Velletri, sono state distribuite nei punti vendita Coop di Toscana, Lazio e Campania. Acquistare queste etichette - ha spiegato Carlo Barbieri, responsabile Canale Supermercati Coop Italia - significa non solo degustare ottimi vini, ma contribuire a ridare dignità di cittadini liberi a queste persone, offrendo loro, solidalmente, una nuova opportunità. Attraverso questi vini i consumatori Coop investono su un valore sociale altissimo, racchiuso in una semplice bottiglia. Oggi nel carcere di Velletri si producono 25.000 bottiglie all’anno - ma il potenziale potrebbe superare le 50.000.

Persino il "maestro" dell’enologia italiana Luigi Veronelli, da sempre sensibile promotore di grandi battaglie libertarie aveva espresso, su questi vini, giudizi entusiastici. I locali della cantina sono siti all’interno del carcere, davanti ad un piccolo appezzamento di terreno investito ad uliveto.

Il progetto di recupero sociale di Velletri non si ferma alla sola produzione di vino: oltre alla Piccola Società Cooperativa Lazzaria, i cui soci e lavoratori sono detenuti o ex detenuti, all’interno del carcere si produce anche un ottimo olio extravergine, ed esiste una grande serra di oltre 3.500 metri quadrati per la produzione di ortaggi e frutta. Questo modello aziendale, frutto di un matrimonio d’amore tra intelligenza e sensibilità sta riscontrando un tale successo che comincia ad essere applicato anche in altre carceri italiane.

Roma: intervista ai "Presi Per Caso", complesso di ex detenuti

di Roberto Benevento

 

www.rivistaonline.com, 22 settembre 2008

 

Per concludere il nostro approfondimento sulla situazione delle carceri italiane abbiamo intervistato la "compagnia di detenuti, ex-detenuti e non-detenuti" dei Presi Per Caso. Abbiamo parlato dei diversi aspetti della vita in prigione e della loro attività, ormai decennale, che li vede calcare i palchi musicali e teatrali per raccontare le dure storie che hanno vissuto con un approccio ironico e divertente. Il loro ultimo progetto è un minicd dedicato al ricordo di Gino Girolimoni, cittadino romano ingiustamente accusato di pedofilia, assolto dalla magistratura, a cui è sempre rimasta appiccicata l’etichetta di mostro.

 

Facciamo prima un piccolo riassunto: chi sono i presi per caso e come si è evoluto il progetto del gruppo?

Siamo una "banda" di musicisti molto "ricercati"… scherzi a parte… in verità siamo una realtà nata nel 1997 dentro il reparto g8 del carcere di Rebibbia. Il tentativo di "evadere" dall’inerzia carceraria, dal degrado, ci ha portato a esigere dall’amministrazione un’attività creativa per molti di noi che sapevano già strimpellare uno strumento. Si è cominciato facendo covers di canzoni famose. Il progetto si è poi evoluto, dopo la scarcerazione di buona parte di noi, grazie a Salvatore (Ferraro, membro della band dal 1998 n.d.r.) che ha scritto delle commedie e un sacco di canzoni ironiche sulla condizione carceraria. Era giunto il momento che comunicassimo la nostra esperienza da detenuti alla società libera. Da quel momento abbiamo cominciato a fare dischi, concerti e un sacco di spettacoli.

 

Come avete già detto altrove, ci sono tanti aspetti che ancora non si conoscono riguardo il mondo delle carceri. Circa un terzo delle morti avvenute in prigione negli ultimi 8 anni sono suicidi. Ma anche il tasso di suicidi tra i componenti della Polizia Penitenziaria è alto (67 in dieci anni)... avete vissuto da vicino delle situazioni del genere? E quali sono le cause principali che spingono a questi atti (sia per i detenuti che per chi ci lavora)

Sì. Tutti noi, direttamente o indirettamente, hanno vissuto simili tragedie. Qualche amico lo abbiamo perso proprio in questo modo assurdo. Le ragioni sono chiare: il carcere azzera la possibilità di rapporti affettivi veri. Cancella i sentimenti. Logora i contatti con la tua famiglia, con la tua fidanzata. Spoglia il detenuto di qualsiasi risorsa. In carcere il senso di abbandono è ultra amplificato. Non tutti resistono. Per gli agenti è la stessa cosa: spesso condividono le nostre stesse ore negli stessi squallidi ambienti con in più il dovere di fare da guardiano, psicologo, educatore, tutto assieme: in simili situazioni farsi catturare dallo sconforto è molto facile.

 

Nella vostra formazione (che subisce spesso avvicendamenti) sono passate donne detenute o ex-detenute? Conoscete la situazione carceraria dei reparti femminili e degli asili all’interno delle carceri in cui vengono allevati, dalle loro madri, i bambini fino a 3 anni?

Per un periodo molto breve abbiamo avuto una cantante transessuale. Il reparto G8 ospita un piccolo numero di detenute transessuali. Anche lì la situazione meriterebbe più attenzione: le transessuali sono persone molto fragili e la loro condizione è tra quelle meno tutelate dal diritto. Come band abbiamo suonato in istituti penitenziari femminili ricevendo davvero calorosissime reazioni. Per quanto concerne la situazione delle detenute madri sappiamo che c’è una buona legge già dal 2001 (Legge Finocchiaro) ma mancano i fondi per allestire le case-famiglia per l’accoglienza: pensiamo che questa situazione debba essere risolta prima possibile per evitare in futuro costi sociali davvero pesanti.

 

Conoscete, direttamente o indirettamente, l’attività legata al "Garante dei diritti e delle opportunità delle persone private della libertà" (a Roma attivo dal 2003)? Cosa pensate dei suoi margini di azione e della proposta di istituirne uno nazionale?

Conosciamo l’attività del garante dei detenuto e la giudichiamo positivamente. Certo, i diritti dei detenuti, a livello di tutela giurisdizionale, sono ancora praticamente a zero. Nessuna tutela, solo la possibilità di fare reclamo al direttore contro gli abusi: il che equivale praticamente a carta straccia. Ci sarebbe piaciuta di più una figura di garanzia più vicina all’Ombudsman carcerario come nei paesi del Nord Europa che ha più poteri di vigilanza.

 

Come si passa il tempo in carcere? Ci descrivete una giornata del detenuto, e le attività lavorative e di svago offerte?

Il testo di una nostra canzone dice che "Il tempo in prigione è come un mare fermo". Tutto è fermo. Tutto è inerzia. Tutto è un lento e inesorabile scivolare verso il degrado. Nessuno stimolo. Pochi segnali di vita. Pensiamo che anche un bravissimo pittore possa avere serie difficoltà a descrivere il carcere.

 

Allo stato dell’arte attuale il carcere ha una funzione riabilitativa?

Da trecento anni il carcere ha dimostrato e continua a dimostrare di essere, sul piano della riabilitazione e del reinserimento sociale del detenuto, un’istituzione completamente fallimentare.

 

Certo è che avete eletto Gino Girolimoni a simbolo di chi non si riesce a scrollare un "marchio delle vergogna"...

Quella di Girolimoni è una storia assurda, ingiusta, paradossale. Certo, di errori giudiziari, negli anni, ce ne sono stati e ce ne saranno tanti. Ma nel caso Girolimoni tutto assume una connotazione unica: accusato del peggiore dei delitti viene scagionato dalla stessa magistratura e polizia che aveva fatto l’indagine, resisi conto dell’errore. Ma il suo nome, ormai acquisito come quello di un colpevole, viene ancora utilizzato in almeno 12 regioni italiane come sinonimo di Pedofilo. Come ex-detenuti, in assenza di una posizione da parte della società civile e della carta stampata, abbiamo sentito il dovere di tirare fuori di nuovo questa storia, farla ristudiare. Girolimoni e la sua innocenza meritano giustizia.

 

Quando e come avete capito che la componente ironica era la chiave per portare in giro le vostre storie e come è entrata la leggerezza nel vostro modo di raccontarle.

L’ironia, innanzitutto, è uno strumento di sopravvivenza. Lo è, soprattutto, quando stai in luoghi come il carcere. Il carcere, poi, a nostro avviso, è stato sempre raccontato male. Noi abbiamo avuto il merito di trasformare situazioni tragiche, squallide, di miseria, situazioni ordinarie dentro un carcere, in un’esplosione di gag e di ilarità che, però, fanno davvero passare il messaggio. Canzoni come "Cristo Gospel", "Tottì", "Se fossi ‘n guirty", "la macchina del capo", i nostri spettacoli come "Radiobugliolo" e "Recidivo Recital" hanno un contenuto tragicissimo, esibiscono problemi terribili della condizione carceraria, eppure fanno sbellicare dalle risate. Si fanno accogliere benevolmente. Piacciono. Lo spettatore tende a rimuovere ogni problema dell’altro. Pensa che non gli appartengano. Che ne sia distante. Se lo fai ridere, ne viene sicuramente più coinvolto.

 

Quali sono i vostri piani futuri? Un nuovo disco o un nuovo spettacolo teatrale?

A ottobre entreremo in sala di registrare la nostra quarta uscita discografica. Sarà, come al solito, un disco completamente autoprodotto a cui, pero, "magicamente", come in passato, si avvicineranno tanti artisti e gente comune che vorrà dare il proprio contributo. Sì, alla fine, le nostre produzioni artistiche sono un magico incontro tra la società di "dentro" e quella di "fuori".

Libri: "Figli della società, carcere, devianza e conflitto sociale"

 

La Nuova Sardegna, 22 settembre 2008

 

Verrà presentato oggi al Centro Culturale di Oristano un libro di Paolo Pisu dal titolo: "Figli della Società, carcere, devianza e conflitto sociale". Il tema della condizione detentiva, la funzione rieducativa della pena, il reinserimento sociale sono solo alcuni degli aspetti presi in analisi. L’opera, edita dalla Cuec, è frutto dell’interesse maturato negli anni dal Consigliere regionale di Rifondazione Comunista per la condizione delle carceri italiane e in particolar modo quelle isolane e per l’attuale sistema penale. Dopo il saluto del primo cittadino Fausto Fulghesu, seguiranno, coordinati dal giornalista-scrittore Giuseppe Corongiu, gli interventi di padre Salvatore Morittu, Graziano Mesina e del direttore della colonia penale di Isili, Marco Porcu.

Immigrazione: più diritti e sicurezza… non siamo delinquenti

 

La Repubblica, 22 settembre 2008

 

"Siamo vittime, non delinquenti e non facciamo affari con la camorra. Anzi, siamo sfruttati e nessuno ci difende". Dopo la strage di giovedì sera nella quale hanno perso la vita sei stranieri e un italiano, i rappresentanti degli immigrati di Castel Volturno - 7.000, quasi tutti africani - hanno convocato una conferenza stampa per chiedere di non essere criminalizzati. Escludono fermamente che alcuni dei sei uccisi siano stati implicati in affari illeciti. Secondo gli investigatori, però, ad armare la mano dei killer sarebbe stato il clan dei Casalesi, forse per un regolamento di conti nel fiorente affare dello spaccio della droga.

La conferenza stampa. Gli immigrati ora chiedono maggiore sicurezza. Dopo la clamorosa protesta di venerdì, rovesciati cassonetti e capovolte auto, questa mattina hanno denunciato condizioni di vita durissime: in molti lavorano nei campi o nei cantieri per 25 euro al giorno e sono costretti a vivere in appartamenti super affollati, anche in nove o dieci in una sola abitazione, pagando 50 euro ciascuno di affitto.

"Non erano delinquenti". "Qui ci ammazzano come animali solo per il colore della nostra pelle", ha detto Isacc, nipote di una delle vittime della strage. "I sei morti dell’altro giorno - ha aggiunto in un italiano stentato - non erano dei delinquenti". E un giovane immigrato ha aggiunto: "Chi guadagna facile con la malavita - prova a spiegare in dialetto napoletano - non vive affatto in queste condizioni disagiate". E ora gli immigrati della zona temono che con l’arrivo dei 400 uomini delle forze dell’ordine annunciato del ministro dell’Interno, siano solo rafforzati i controlli contro i clandestini, rispedendo al di là dei confini quanti non hanno i documenti in regola.

L’arcivescovo di Capua. "I problemi di questa zona che si trascinano avanti da anni - ha spiegato l’arcivescovo di Capua, monsignor Bruno Schettino - non si risolvono cacciando gli immigrati che vivono onestamente, facendo lavori umili che altri non intendono fare. Qui serve un piano organico di intervento". La diocesi di Capua gestisce lungo la Domiziana una struttura, la fondazione Fernandez, che accoglie stabilmente girono e notte 60 stranieri e apre le porte della sua mensa a circa 100 persone. Anche Schettino crede che le sei vittime della strage non erano coinvolte in affari loschi: "Non ho elementi certi in tal senso ma ho una sensazione molto forte".

I funerali delle vittime. Gli immigrati pensano ai funerali. Nel pomeriggio di oggi si sono riuniti dinanzi alla sartoria dove è avvenuta la strage ed hanno discusso a lungo su come svolgere il rito funebre, che si potrebbe tenere proprio a Castel Volturno. Si attende che la magistratura dia il via libera.

Le indagini vanno avanti. In zona saranno inviati altri 400 agenti delle forze dell’ordine ma già da giovedì i controlli sono assai serrati con numerosi posti di blocco. "La maggior parte degli stranieri lavora onestamente - ha detto Fabio Basile, del centro sociale ex Canapificio di Caserta a nome delle comunità immigrate di Castel Volturno -. Delle sei vittime me conosco personalmente tre e sul conto di altre tre ho raccolto almeno cento testimonianze che riferiscono che erano onesti lavoratori".

Manifestazioni contro il razzismo. Le associazioni del territorio che difendono gli immigrati hanno annunciato tre giorni di manifestazioni, a Caserta, i prossimi 4, 5 e 6 ottobre "contro il razzismo, per i diritti di cittadinanza, contro la prevaricazione della camorra e di tutti quelli che sfruttano la condizione di subalternità giuridica e sociale in cui vivono gli immigrati".

"Per ora niente esercito". Per quanto riguarda la possibilità di inviare l’esercito nella zona, come ha ventilato il ministro dell’Interno Roberto Maroni, "l’orientamento prevalente è che oggi l’esercito a Caserta non serva e che bastino le forze di polizia", ha chiarito lo stesso titolare del Viminale al Mattino di Napoli. "Ma sto valutando - ha aggiunto - se portare al prossimo consiglio dei ministri, martedì, la proposta che ce lo possa consentire in futuro".

Immigrazione: rivolta al Cpt di Cagliari, bucare muro del silenzio

 

Liberazione, 22 settembre 2008

 

La rivolta scoppiata giovedì scorso nel Cpt di Elmas era nell’aria. La struttura è sovraffollata e i migranti rinchiusi vivono in condizioni non certo ottimali. Senza troppi giri di parole si tratta di una prigione con qualche servizio più dignitoso. In più molti di loro sono in attesa di capire se avranno diritto all’asilo politico o se saranno costretti al rimpatrio. I disordini sono scoppiati al secondo piano. Ottantasette algerini, rinchiusi da settimane, hanno devastato gli ultimi due piani dell’edificio rendendolo inagibile.

Sono volate le porte, le finestre, sono stati divelti i sanitari, distrutte le telecamere del controllo a circuito chiuso. Gli scontri sono durati tutta la notte e nessun osservatore esterno ha potuto verificare come siano andate realmente le cose. Pare che la scintilla sia scoppiata quando un gruppo di algerini ha incontrato fuori dalla mensa dei somali in attesa di asilo politico. Qualche parola di troppo e quindi la rissa. I poliziotti in servizio non sono stati in grado di tenere sotto controllo la situazione e hanno chiesto rinforzi. Il problema vero è l’aumento dei tempi di permanenza nei centri di identificazione dovuto alla nuova normativa per gli accoglimenti delle richieste d’asilo. Nel centro di Elmas, 234 persone, trasferite da Lampedusa, sono in attesa di beneficiare del provvedimento.

Ieri un gruppo di antirazzisti è riuscito a raggiungere il cancello d’ingresso del centro, in territorio militare, srotolando striscioni sui reticolati e scandendo slogan al megafono in inglese, francese e italiano, in solidarietà con gli insorti. Il gruppo dei manifestanti si è poi spostato, scortato da numerose auto di polizia e carabinieri, sino al vicino aeroporto civile, dove è avvenuto un volantinaggio.

"Lo chiamano Centro di accoglienza ma è peggio di una prigione", scrivono i manifestanti. "È accanto a noi ma risulta invisibile, chiuso com’è nella zona militare dell’aeroporto di Elmas, circondato da filo spinato e sorvegliato dai soldati in armi della brigata Sassari. All’interno dell’edificio sbarre alle finestre e telecamere ovunque, nessuno sguardo indiscreto può superare queste barriere per stabilire cosa succede al suo interno". In un intero piano di una ex caserma trasformata in prigione, un centinaio di esseri umani vive rinchiuso da settimane, ammassato in grandi cameroni stipati di letti a castello, sani e malati a strettissimo contatto, denuncia il comitato antirazzista. Una settimana fa si sono verificati alcuni casi di tubercolosi.

Sono 1.200 i migranti sbarcati in Sardegna dall’inizio dell’anno. Il fenomeno si mostra però più contenuto rispetto al 2007 quando, soprattutto sulle coste sud-occidentali dell’isola, arrivarono 1.547 immigrati, provenienti in gran maggioranza dall’Algeria e, solo in parte, dalla Tunisia. Il calo degli arrivi, evidente già ad agosto con 509 sbarcati a fronte dei 619 dell’anno precedente, si registra, in particolare, in quest’ultimo mese: 41 contro i 356 del settembre di un anno fa. In crescita, invece, la presenza femminile e quella dei bambini. Se nel 2007 raggiunsero l’isola solo 2 donne, quest’anno ne sono arrivate già 20 con altrettanti minori.

 

Riflessioni dopo la rivolta dei migranti nel Cpa di Elmas

 

Dopo la rivolta dei migranti nel Cpa di Elmas, dopo i quattro casi di tubercolosi che aprono la strada ad un rischioso pericolo di malattie infettive, dopo la protesta dei sindacati di polizia Coisp e Siulp, che denunciano costanti violazioni delle norme sulla sicurezza, mi chiedo quale sia la reale natura del Cpa di Elmas, siamo sicuri che questo centro rispetti gli standard richiesti e previsti negli ordinari Cpa? Siamo sicuri che non sia solo una galera speciale per migranti?

A detta dei sindacati, il Cpa di Elmas, è un ambiente fatiscente e privo delle più elementari norme igieniche, di conseguenza, ne dovremmo dedurre che anche le condizioni di vivibilità della struttura da parte dei migranti siano precarie e difficili. I parlamentari del Pd, Pes, Melis, Schirru e Calvisi, che hanno visitato il centro nei primi giorni di Settembre, non hanno fatto un analisi seria e corretta delle condizioni dei diritti umani e civili dei migranti del centro. Di fatto hanno promosso la funzionalità di questo centro dichiarando che "le condizioni della struttura "sembrano" all’altezza degli standard previsti da altre strutture nazionali".

Questo centro rappresenta solo una galera. Perché non possiamo legare la dimensione dell’accoglienza e della solidarietà, con la dimensione della restrizione della libertà personale e la limitazione dei diritti dei migranti. Ritengo che i movimenti, le associazioni e i singoli cittadini sensibili alla questione dei diritti dei migranti, su questo centro, dovrebbero cominciare un percorso di discussione e analisi critica.

 

Roberto Loddo

Associazione 5 Novembre "Per i Diritti Civili"

Immigrazione: la Libia non ferma i clandestini? sospesi gli aiuti

 

La Nazione, 22 settembre 2008

 

È sempre l’immigrazione uno dei temi in primo piano. E domani il ministro dell’Interno, Roberto Maroni presenterà al consiglio dei ministri un decreto legge per la costruzione immediata di 10 nuovi centri di identificazione e espulsione (Cie) e di due o tre centri per ospitare in strutture chiuse i clandestini che richiedono asilo e che attualmente, in attesa che la loro pratica venga esaminata, sono liberi di muoversi.

Maroni annuncia anche uno stop degli aiuti alla Libia perché, riferisce, continuano a essere troppi gli sbarchi di clandestini provenienti da quel Paese, nonostante il trattato di Amicizia. Maroni parla di immigrazione in una lunga intervista a Bruno Vespa e che verrà pubblicata nel nuovo libro del giornalista, "Un’Italia diversa. Viaggio nella rivoluzione silenziosa", in libreria dal 3 ottobre.

Maroni ricorda che "la costruzione dei nuovi centri, uno per regione, era prevista nel ddl approvato a maggio e in esame ora al Senato, ma l’aggravarsi dell’emergenza nazionale impone di accelerare la scelta". Ed è per questo che verrà presentato il decreto di domani per reperire i fondi necessari: si parla di 30-40 milioni per 4.640 posti in più: metà da ricavare nell’ampliamento delle strutture esistenti, metà dai nuovi Cie.

Il titolare del Viminale parla poi del problema di chi chiede asilo al nostro Paese. E precisa: "L’anno scorso, su quattordicimila domande, ne sono state accolte ottomila". Maroni riferisce ancora che, l’accordo firmato il 30 agosto a Bengasi tra Berlusconi e Gheddafi, non ha finora dato gli esiti sperati. Nella prima metà di settembre, infatti, gli sbarchi di clandestini provenienti dalla Libia sono aumentati rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

Attualmente i richiedenti, in attesa che la loro domanda sia esaminata, vengono ospitati in centri speciali e possono muoversi liberamente. "Noi prevediamo che, invece, vi restino chiusi in attesa del provvedimento della commissione. Se il provvedimento è negativo - spiega Maroni - attualmente i clandestini presentano ricorso al Tar e restano liberi. Noi, invece, prevediamo che si proceda alla loro immediata espulsione, a meno che il prefetto non ritenga il ricorso fondato". Per questo Maroni ha deciso di condizionare alcuni finanziamenti previsti dal trattato, alla effettiva attuazione degli accordi. "Per ora ho bloccato a La Spezia una nave - riferisce il ministro - che avrebbe dovuto portare in Libia trenta piccole imbarcazioni destinate alla polizia libica".

Droghe: l’Ue ha stilato un "listino prezzi" delle sostanze illegali

 

Notiziario Aduc, 22 settembre 2008

 

L’Ue ha stilato una tabella dei prezzi di tutte le sostanze stupefacenti e il dato più preoccupante è il prezzo contenuto e accessibile a tutti delle pericolosissime e dannosissime droghe sintetiche. In Italia, secondo i dati del Viminale, è possibile assicurarsi una pasticca di ecstasy con poco meno di 20 euro. Così anche in Spagna, mentre in altri Paesi europei si può spendere molto meno: 3 euro in Olanda, 5 in Grecia, 7 in Francia e in Gran Bretagna.

I dati sono stati forniti dalle forze dell’ordine e dai ministeri dell’Interno dei vari Paesi europei ed elaborati dall’Agenzia di controllo per le droghe e la dipendenza. Un grammo di marijuana in Italia può costare in media da 5 a 9 euro, meno che in Polonia, dove si arriva a spendere anche 13 euro. Fumare qualche spinello è molto caro a Cipro, dove per un grammo non si spende meno di 10 euro e si può arrivare a spenderne anche 31, e piuttosto costoso (da 13 a 18 euro) in Norvegia.

I Paesi in cui "l’erba" è meno cara sono la Grecia (da 1,5 a 5 euro) e la Romania (da 2 a 6 euro). Nella tollerante Olanda la cosiddetta droga leggera è legalizzata ma non per questo economica: un grammo costa 13 euro. In Italia per acquistare un grammo di cocaina servono in media dai 73 ai 93 euro. Nel regno Unito la polvere bianca può essere molto economica (30 euro) ma anche, molto costosa, quasi 120 euro.

Un grammo può arrivare a costare fino a 150 euro in Romania e più di 100 nella Repubblica Ceca mentre in Austria non arriva a 70, in Ungheria non supera i 90 e in Polonia i 65. Prezzi sensibilmente inferiori per l’eroina, sulla quale mancano i dati italiani. In Paesi come Lituania, Ungheria, Croazia, Slovenia e Inghilterra il costo di un grammo non supera i 35 euro.

Droghe: riparte da Genova proposta della "sala di consumo"

 

Redattore Sociale - Dire, 22 settembre 2008

 

Sull’esempio della sala Baluard di Barcellona, gli operatori della comunità di San Benedetto al Porto fondata da don Andrea Gallo rilanciano l’idea in un convegno che si terrà sabato 27 settembre.

Narco-sale, stanze del consumo, luoghi igienici di consumo: nomi diversi per indicare la stessa cosa ovvero spazi pubblici per il consumo di sostanze stupefacenti. Questa è la proposta che la Comunità di San Benedetto al Porto fa alla città di Genova. Una proposta che, se realizzata, secondo gli operatori della comunità sarà capace di incidere in modo significativo sulle politiche di riduzione del danno.

Altre esperienze europee sono lì a testimoniarlo, a partire da quella presa ad esempio dagli operatori della Comunità di San Benedetto al Porto: la sala Baluard di Barcellona. Se ne parlerà diffusamente sabato 27 settembre a Genova in un convegno dal titolo "Dal Baluardo di Barcellona alla città vecchia di De Andrè".

L’attività di quella che è oggi la sala Baluard è iniziata con un’unità mobile, poi è arrivata una tenda stabile infine la sala vera e propria, una grande struttura pubblica per il consumo igienico di sostanze stupefacenti. Un servizio socio-sanitario - presidiato da medici, infermieri, operatori sociali e volontari - sempre aperto e capace di accogliere 400 persone al giorno. Nei mesi scorsi Domenico Chionetti e Fabio Scaltriti, operatori della Comunità di San Benedetto al Porto fondata da don Andrea Gallo, sono andati a Barcellona per approfondire la conoscenza dell’esperienza della sala Baluard. Hanno incontrato gli operatori e verificato i livelli di collaborazione con il sistema sanitario, la municipalità e la polizia locale.

Secondo loro, "la sala di consumo rappresenta una chance concreta di riduzione del danno, perché contrasta i comportamenti a rischio e l’illegalità associata alla tossicodipendenza. Tra i dati positivi c’è, infatti, la riduzione di morti da overdose, di contagi virali ma anche una riacquisita vivibilità delle zone e dei quartieri prima utilizzati dai tossicodipendenti con decremento dei reati e assenza di siringhe abbandonate". Gli operatori che hanno visitato il Raval, il quartiere di Barcellona dove ha sede la sala di consumo, raccontano di una "situazione ambientale molto differente rispetto a quella delle zone del centro storico di Genova dove tossicodipendenza e degrado urbano si incontrano in modo deprimente per la dignità delle persone, tanto di chi usa le sostanze quanto di chi vive il quartiere. Nel Raval, raccontano gli operatori, non esiste più l’uso di sostanze per strada, sulle panchine, negli androni o nelle piazzette".

Le stanze del consumo sono luoghi circoscritti - così come immaginata dagli operatori - sotto la giurisdizione e il controllo del servizio sanitario nazionale. Uno spazio gestito da personale sanitario e sociale in cui è consentito l’accesso, in accordo con la magistratura e le forze dell’ordine, di consumatori occasionali di sostanze e di tossicodipendenti. L’accesso dovrà essere libero, senza bisogno di documento d’identità, ma per ogni persona sarà creata una cartella clinica. Sul controverso punto della somministrazione delle sostanze le idee sono chiare: le persone devono arrivare già munite di sostanza stupefacente e autosomministrarsela, nessuna sostanza viene ceduta o somministrata dal personale della sala. Insomma, viene soltanto offerto l’uso di un ambiente clinicamente protetto, un luogo capace di ostacolare il contagio da malattie infettive e di garantire il pronto intervento medico. "In sostanza - ribadisce infine Domenico Chionetti - la stanza del consumo è un servizio socio-sanitario, dove si cerca di risolvere problemi socio-sanitari, dove non si promuove l’uso della droga ma si tutela la salute". Anche don Andrea Gallo, fondatore della Comunità, lo ha sottolineato in diverse occasioni: "Vogliamo creare un centro di ascolto e di contenimento, non certo un ghetto o un luogo di isolamento e di illegalità". Sono ancora gli operatori a evidenziare come iniziative di questo tipo rappresentino un primo contatto possibile con ragazzi in difficoltà, un primo passo per avviare percorsi di recupero.

Al convegno di sabato 27 settembre presso il Teatro Modena di Sampierdarena interverranno, oltre agli operatori della Comunità, Esther Henar e Alejandra Pineva, rispettivamente fondatrice e operatrice della sala Baluard di Barcellona; un rappresentante della guardia municipale di Barcellona; l’economista Matteo Ferrari; il sociologo Peter Coehn; Maria Gabriella Zanone, educatrice e coordinatrice del progetto riduzione del danno area genovese Asl 3; Giuseppe di Pino del progetto Tips&Tricks di Venezia; Susanna Ronconi del Forum Droghe; Leopoldo Grosso del Gruppo Abele di Torino; e Ingo Stockel, referente area tossicodipendenze della cooperativa sociale Parsec di Roma.

Droghe: nei locali pubblici poster per calcolare il tasso di alcool

di Flavia Amabile

 

La Stampa, 22 settembre 2008

 

Mentre sulle strade si continua a morire a causa dell’alcol, da domani i locali pubblici dove si vendono alcolici dovranno esporre dei poster con le tabelle per il calcolo del tasso alcolemico secondo quanto prevede il decreto del 30 luglio 2008 del ministero del Welfare.

Le tabelle sono state rese pubbliche già da una settimana dal ministero e forniscono informazioni a ragazze, ragazzi, donne e uomini che, dopo aver bevuto qualcosa in un locale stiano per mettersi alla guida.

Del tutto inutili, le giudica il Silb, l’associazione che riunisce i locali da ballo. Sono confuse e contraddittorie, sostiene, e spiega che è molto più utile aumentare i controlli sulle strade. Ma il ministero è andato avanti. E da domani chi è stato nei pub, nelle discoteche, nei bar con musica, ai concerti o agli spettacoli dal vivo troverà i sintomi collegati ai vari stadi di ubriachezza: cambiamenti dell’umore, nausea, sonnolenza, stati di eccitazione emotiva che vengono provocati da 0,5 a 0,8 grammi per litro di alcol, fino a difficoltà di respiro, sensazione di soffocamento, sensazione di morire oltre i 4 grammi per litro. Il tasso cambia a seconda del peso, del sesso, e di quello che si è mangiato (o non si è mangiato) prima di bere. Se le tabelle informative non saranno esposte si rischia la chiusura del locale da 7 a 30 giorni.

Il limite legale del tasso alcolemico per la guida - ricorda il ministero - è 0,5 grammi per litro. L’iniziale sensazione di ebbrezza e riduzione delle inibizioni di controllo si manifesta già con 0,1-0,2 g/L; si passa poi a sensazione di ebbrezza e riduzione delle inibizioni, del controllo e della percezione del rischio verso i 0,3-0,4 g/L. Sopra 0,9-1,5 g/L c’è alterazione dell’umore, rabbia, tristezza, confusione mentale, disorientamento, poi (1,6-3 g/L) stordimento, aggressività, stato depressivo, apatia letargia, fino allo stato di incoscienza (3,1-4 g/L). Infine, oltre 4 g/L, difficoltà di respiro, sensazione di soffocamento, sensazione di morire.

Ma le tabelle spiegano anche come si arriva a questi valori alcolemici: una donna che pesa 45 kg, ad esempio che ha assunto a stomaco vuoto una birra leggera (0,39% di gradazione alcolica) ed un aperitivo alcolico (0,49%) ha un’alcolemia attesa di 0,88; una donna di peso 60 kg che ha assunto a stomaco pieno 2 superalcolici (0,35% per 2) ha un’alcolemia attesa di 0,70 g/L. Anche per gli uomini qualche esempio dalle tabelle: peso corporeo 75 kg, ha assunto a stomaco vuoto due birre speciali (0,41%), ha un’alcolemia attesa di 0,82 g/L mentre un uomo che pesa 55 kg ed ha assunto a stomaco vuoto una birra doppio malto (0,71%) ed un superalcolico di media gradazione (45 gradi-0,36%) ha un’alcolemia attesa di 1,07 grammi/litro.

Le unità alcoliche di riferimento si riferiscono a bicchiere, lattina o bottiglia serviti usualmente nei locali: birra 330 cc, vino 125 cc, digestivi 40 cc, superalcolici 40 cc, champagne/spumante 100 cc, ready to drink 150 cc. Sulle tabelle verrà chiarito anche che una birra normale bevuta da una donna di 45 chili a stomaco vuoto può far superare già il limite legale del tasso alcolemico per la guida, fissato a 0,5 grammi per litro. Limite superato, solo per fare alcuni esempi, da un uomo di 70 chili che beve una birra doppio malto senza avere mangiato nulla.

I gestori dovranno mettere in modo ben visibile le indicazioni per permetterne la perfetta leggibilità: riportano rispettivamente le stime per il calcolo del tasso alcolemico nel sangue in base al peso, al sesso e al cibo e all’alcol ingeriti, senza tralasciare una descrizione degli effetti dell’alcol a seconda del tasso alcolemico ingerito. Le tabelle vanno esposte all’entrata, all’interno e all’uscita dei locali.

Iraq: soldato Usa a processo per omicidio di detenuto iracheno

 

Associated Press, 22 settembre 2008

 

L’audizione del tenente Michael Behenna, un soldato statunitense accusato dell’omicidio di un civile iracheno, si è aperta questa mattina vicino a Tikrit, a nord di Bahgdad. Lo ha indicato il comandante Margaret Kageleiry, un portavoce dell’esercito statunitense.

L’udienza dovrebbe terminare domani, secondo la stessa fonte. I testimoni hanno iniziato a essere ascoltati soltanto questo pomeriggio, visto che la seduta si è interrotta al mattino su richiesta della difesa. Quest’ultima, che chiedeva la sostituzione dell’ufficiale inquirente che esercita il ruolo di giudice nell’ambito di questa corte militare, non ha alla fine vinto il procedimento e l’audizione è potuta riprendere.

Il tenente Behenna, 25 anni, è accusato di avere ucciso Ali Mansour, un prigioniero iracheno, con uno dei suoi subordinati, il sergente Hal Warner, 34 anni, ascoltato per gli stessi motivi due giorni la settimana scorsa. Al termine di questa seconda udienza, e in base alle prove che saranno presentate, il comando militare statunitense dovrà decidere nelle prossime settimane se i due ufficiali dovranno essere o meno sottoposti a corte marziale per essere processati ed eventualmente condannati.

L’udienza odierna si è svolta di fronte a una corte militare statunitense alla base di Camp Speicher che si trova a Tikrit, 180 chilometri a nord di Baghdad. I due soldati, la cui compagnia era di stanza vicino alla città di Beiji, 200 chilometri a nord di Baghdad, sono accusati di "omicidio premeditato, aggressione, falsa testimonianza e intralcio alla giustizia". Sospettato di appartenere a una rete di ribelli, Ali Mansour era stato catturato il 5 maggio 2006 dal gruppo del tenente Behenna, che è stato in seguito incaricato di liberarlo il 16 maggio, in mancanza di prove per mantenerlo in detenzione. Il corpo nudo, crivellato con due pallottole e in parte bruciato del prigioniero iracheno fu trovato il giorno dopo sotto un ponte isolato dei dintorni di Beiji.

In occasione dell’audizione del sergente Warner, le testimonianze degli altri soldati del plotone del tenente Behenna erano state tutte sconfortanti per quest’ultimo e il sergente Warner, dei quali si suppone l’innocenza fino alla loro traduzione e la loro condanna eventuale in corte marziale. Questi soldati hanno descritto Behenna come l’organizzatore dell’omicidio di Ali Mansour, convinto che quest’ultimo avesse organizzato un attacco con una bomba costato la vita a due uomini del reparto il 21 aprile. Il traduttore iracheno del gruppo ha dichiarato che si trovava con Behenna e Warner quando hanno portato Ali Mansour sotto il ponte dove il corpo sarebbe stato trovato il giorno dopo e che aveva visto il tenente uccidere il detenuto.

I membri del gruppo hanno aggiunto che i due ufficiali avevano chiesto loro di fare una dichiarazione falsa che attestasse che Ali Mansour fosse stato rilasciato come previsto. Al termine dell’audizione del sergente Warner, l’accusa ha ritenuto che esistano "basi ragionevoli per pensare" che "ha commesso i crimini di cui è accusato" e che debba "essere processato di fronte a una corte marziale".

Kenia: italiano 75enne accusato di pedofilia, è una montatura

di Massimo A. Alberizzi

 

Corriere della Sera, 22 settembre 2008

 

Magrissimo, tremante, il volto emaciato, il respiro ansimante e gli occhi persi nel vuoto. Il polso è incatenato al letto con una manetta che gli blocca i movimenti. Così un architetto di Alba, 75 anni, Medardo Caretta, gravemente malato di cuore e con un forte enfisema polmonare, giace in un letto dell’infermeria dalla prigione Shimo La Tewa di Mombasa.

È stato condannato a 5 anni di reclusione per adescamento e molestie ai danni di due ragazzini. Assolto invece dall’imputazione più grave: sodomia dopo che il medico ha accertato che l’accusa era infondata. Lui si è sempre proclamato innocente. Da un paio di giorni dall’ospedale di Malindi è stato trasferito alle carceri di Mombasa, dove ha potuto vedere brevemente la figlia Daniela. Per ora è in infermeria, ma non si sa fino a quando potrà restarci. Lo attende una cella assieme ad altri detenuti comuni.

I fatti nel 2004 - I fatti per cui Caretta è stato condannato risalgono al 2004. Il 23 luglio due ragazzini, John e Brian, si presentano davanti alla sua casa di Malindi. Chiedono l’elemosina. E qui le versioni divergono. Lui dice di averli fatti aspettare fuori dal cancello e di avergli portato 200 scellini (un paio di euro). Loro sostengono di essere stati trascinati in casa e fatti oggetto di attenzioni a scopo sessuale. Un mese dopo al cancello della villa dell’architetto si presenta la polizia: lo portano al comando e gli notificano che è stata presentata una denuncia contro di lui per sodomia. Caretta scoppia in una risata: "Tutto era così inverosimile", racconta. "In quel momento nella stanza arriva una signora, la madre di John. Davanti ai poliziotti mi spiega che è disposta a ritirare la denuncia se le pago un risarcimento di 5 mila euro. Naturalmente rispondo che non ci penso neanche, non accetto ricatti. Andiamo in corte e la verità salterà fuori. Resto una notte nella stanzetta della polizia e due in carcere. Soffro molto ma sono deciso a resistere all’estorsione. Esco su cauzione".

Girone infernale - La prigione di Malindi è un girone dantesco: un’ottantina di detenuti (assassini, stupratori, rapinatori) tutti nella stessa cella. Pochi giorni dopo scatta un’altra denuncia. La madre di Brian accusa l’architetto di adescamento e molestie. Stessa trafila e seconda cauzione. Comincia la causa di merito. È difficile leggere le 144 pagine di verbali: ci sono continue contraddizioni dei testimoni.

Occorre andare avanti e indietro nelle pagine per rendersi conto, per esempio, che non sono certe neppure le date della presunta sodomizzazione o della visita in ospedale dei ragazzini. Sette testimoni, sette date diverse. Sorprende che l’avvocato della difesa, Ole Kina, un uomo che si è arricchito nelle cause tra italiani a Malindi, non faccia rilevare al giudice le incongruenze. I bambini, la cui capacità di intendere e di volere viene testata chiedendo loro se conoscono i 10 comandamenti, raccontano di colluttazioni con l’architetto che li trattiene, li insegue quando scappano, li spoglia, li obbliga a rapporti sessuali. "Peccato che a Medardo venga il fiatone appena muove pochi passi", racconta Giancarlo Cecchetti, un vicino di casa. Rincara la dose il dottor Arnold Wambejo, un medico chiamato dall’accusa a testimoniare se c’è stata sodomia: "Un uomo che da trent’anni ha un enfisema polmonare e problemi cardiaci come Caretta", conferma, "rischia la vita persino quando cammina".

Testimonianze - "Siamo stati portati in casa", spiega John durante l’interrogatorio. "Era vuota, non ho visto mobili, ad eccezione di un letto senza materasso". Eppure casa Caretta è un mezzo museo. "C’erano parcheggiate tre macchine, due a sinistra e una a destra. Nessuna piscina", aggiunge il ragazzino. Ma in quella villa c’entra a mala pena solo un’auto, proprio perché il giardino è occupato da una grande vasca. Al referto medico presentato in aula vengono aggiunte alcune righe con penna e calligrafia diversa apposta per fare in modo che le condizioni dei ragazzini dopo la presunta violenza appaiano più gravi. L’infermiera che ha firmato il certificato, chiamata alla sbarra dei testimoni, dopo aver esaminato il documento, dichiara: "Quelle note in più non sono mie. I ragazzini tutto sommato stavano bene".

Processo - Il processo viene rimandato ben 40 volte. Già all’inizio i genitori di Brian si ritirano. Nel 2005 il procuratore Kisio, il primo incaricato a seguire il caso, rinuncia al mandato "senza una ragione" e, nel maggio 2006, stessa scelta la fa il procuratore C.I. Munene che l’ha sostituito: "Con questo caso mi sto giocando la reputazione. Arrivederci", dichiara in aula. Anche il faldone della polizia sul caso sparisce.

Nell’aprile 2007 l’architetto torna in Italia per un’operazione di ernia. "Confidavo nella giustizia e così sono tornato in Kenya", racconta. Per almeno nove volte Caretta viene sollecitato dalla madre di John a pagare 5 mila euro per ritirare la denuncia. A una delle richieste assiste anche il console onorario italiano a Malindi, Roberto Macrì che racconta l’episodio al giudice e affigge nella bacheca del consolato una lettera di spiegazioni di quanto sta accadendo. Neanche la sua testimonianza serve a stabilire l’innocenza di Caretta. Kenga Ngonyo è un amico kenyota del professionista piemontese e ha assistito a quasi tutte le udienze: "Una volta fuori dal tribunale sono stato avvicinato dalla madre di John.

Mi ha chiesto di convincere Medardo a pagare i 5 mila euro". Salta fuori un giardiniere licenziato da Caretta meno di un anno prima perché trovato ubriaco: Anthony Nyala. Frequenta la madre di John. I loro figli vanno nella stessa scuola e sono amici. Racconta un kenyota di Malindi che conosce Nyala da anni: "Era tornato più volte per farsi riassumere, ma Medardo non l’aveva più voluto. Alla fine aveva giurato che gliela avrebbe fatta pagare. Per carità non metta il mio nome altrimenti fanno fare la stessa fine di Caretta anche a me".

 

La figlia: "Le condizioni fisiche di mio padre sono disperate

 

L’ispettore Masila, capo delle guardie del carcere Shimo La Tewa a Mombasa, è gentile ma irremovibile: i giornalisti non possono entrare. Ma il tono con cui ribadisce il divieto non è arrogante, bensì dispiaciuto. Solo la figlia Daniela può far visita all’architetto Medardo Caretta. Il colloquio però deve avvenire in inglese e quindi occorre un interprete che faccia da tramite tra il padre e la ragazza. Non c’è nessuno e così, come interprete, viene scelto lo stringer del Corriere che, ovviamente, non si presenta come giornalista.

L’incontro avviene in infermeria, un locale che Daniela descrive come pulito e il colloquio, alla presenza di Masila, una donna poliziotto e un’infermiera, dura una ventina di minuti. All’inizio l’ispettore ordina: "State lontani e non vi toccate", ma alla fine rinuncia all’atteggiamento intransigente e severo e, quando la ragazza lo guarda con gli occhi lucidi quasi per dire "posso baciarlo", autorizza un forte e lungo abbraccio. "Le condizioni fisiche di mio padre sono disperate. Se non viene fuori rischia di morire là dentro". Il cibo in prigione è terribile: solo ugali, l’insipida polenta di manioca (troppo pesante per lo stomaco di un occidentale) e una patata bollita. Daniela si raccomanda a Masila. "Per favore dategli qualcosa d’altro. Un frutto, un uovo".

La ragazza ha dovuto lasciare alla porta il cibo che aveva portato per il padre: è vietato farlo entrare in carcere. Martedì scorso Caretta è stato trasportato dall’ospedale di Malindi, dove viveva incatenato al letto, all’infermeria del carcere di Mombasa. È stato un momento terribile. Daniela in lacrime, affranta, ha visto il padre portato via sul cellulare in maglietta e mutande dai poliziotti. Non sapeva cosa fare e a chi chiedere aiuto. Ha tentato invano per ben quattro volte di chiamare l’ambasciata italiana a Nairobi. Senza aiuto era disperata e si è sentita persa. Durante il viaggio sul cellulare da Malindi a Mombasa, l’architetto italiano è stato derubato dagli altri detenuti che gli hanno portato via dal suo misero sacchetto di plastica gialla tutto: anche un piccolo cartone con il latte.

Mombasa è una città umida e bollente. È il covo delle zanzare. "Se mio padre prende la malaria o una bronchite, in quel carcere muore", mormora Daniela disperata. La conforta il console onorario a Mombasa, Tommaso Castellano, un uomo sempre disponibile che ha già salvato diversi italiani durante le sommosse politiche di inizio gennaio. Castellano si precipita, le parla, cerca di tranquillizzarla: "Vedrà signora che lo tireremo fuori. E nei prossimi giorni l’aiuterò io a entrare nel carcere".

 

 

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