Rassegna stampa 4 novembre

 

Giustizia: giovani perduti in un labirinto, tra i soldi e la droga

di Maurizio Braucci

 

Il Mattino, 4 novembre 2008

 

Rione Berlingieri, un’altra difficile realtà della periferia nord di Napoli: da queste parti esisteva la roccaforte della famiglia Di Lauro, prima che la cruenta guerra con gli scissionisti del 2005 cambiasse la geografia criminale della zona. Chi comanda adesso? È una domanda da cui si ottiene una scrollata di spalle e un "non si sa". Il vortice dei tradimenti, dei doppi giochi, si trascina fino ad oggi e quelle che sembravano zone rimaste nelle mani dei vecchi reggenti, continuano a subire fasi di violenti assestamenti, ritorni, incertezze.

I protagonisti sono alcuni dei clan camorristici del narcotraffico che hanno portato su Napoli e Salerno le grandi rotte internazionali dal Sudamerica, accordi presi in Spagna, Messico, Colombia, spesso insieme alle ‘ndrine della ‘ndrangheta. È una rete fitta di affari internazionali, non una fatalità, quella che fa della periferia nord napoletana un grande centro di spaccio; la miseria di molte famiglie, la carenza di ogni inclusione sociale, la stessa struttura urbanistica fanno sì che vendere droga risulti molto possibile.

Il governo attuale ha pensato che l’uso dei militari potesse essere un deterrente, in città come in provincia, contro una stratificazione criminale ampia e potente: aumentano sì i fermi e i controlli, ma è chiaro che non può fermarsi qui una reale lotta alla camorra. Un esempio per tutti è come è stato recepito dalle istituzioni il caso Saviano: con grande chiarezza, questo scrittore ha detto che lo sviluppo economico neoliberista è il ganglio su cui si innesta l’attuale proliferazione camorristica. La risposta finora è stata quella della spedizione militare: facile fare una foto della presenza armata statale, meno rendere l’effetto di una ripulitura dell’economia, degli appalti pubblici, di una ridiscussione delle sue regole.

Al Rione Berlingieri, in prossimità di Scampia, sono stati feriti cinque ragazzini da un commando camorristico; l’obiettivo era una sala giochi da loro frequentata. Come a Castel Volturno il 18 settembre scorso, l’azione ha voluto punire il luogo e i suoi frequentatori ma per fortuna non ha ucciso, come è stato nel caso della sartoria ghanese. Sconvolge il fatto che dei minori tra i 12 e 16 anni siano finiti nel mirino dei killer. Bisogna partire dalla condizione giovanile napoletana per farsi un’idea dello sfondo in cui questo è accaduto, condizione che, ovviamente, negli strati sociali più bassi trova estrema complessità.

La periferia nord è la zona con la maggiore presenza giovanile della città, un alto tasso di evasione scolastica, un altissimo tasso di disoccupazione giovanile, in una sequenza di statistiche negative che inonda da qui l’intera provincia napoletana. A bordo di una bicicletta, o piantati in un’improvvisata garitta, molti minori sono da tempo utilizzati come sentinelle per le piazze di spaccio, se non gli vengono affidati compiti di breve trasporto della droga e piccole faccende del malaffare.

Lo sanno bene quelle madri che devono lottare contro l’effetto calamita di una paga assicurata, di frequentazioni inebrianti e di entusiasmanti regali che i pusher e i capi zona utilizzano per "crescersi" i loro ragazzini. Lo sanno bene le forze dell’ordine che, quando decidono di intervenire, non si lasciano più sfuggire come una volta la perquisizione di un minore, alla cerca di pistole o di droga.

Ne vedi tanti, dietro scooter guidati da adulti, riempirsi di illusioni e rispetto, di una carta da 50 euro che poi esibiscono con soddisfazione davanti ai loro coetanei, mentre saltano la loro adolescenza per una precocità dove essere già uomini. Del resto, sono questi gli adulti che esercitano l’autorità in zone dove l’intervento dello Stato spesso è solo formale, dove le famiglie vivono depresse o incarognite dalle frustrazioni economiche e sociali: queste le condizioni in cui ti allevano la strada e i circoletti ricreativi che prolificano come soli luoghi di aggregazione e di ingaggio malevolo.

Ma a tutta questa, prevedibile, realtà, si aggiunga anche la diffusione tra i più giovani del consumo di cocaina - e di crack - la droga del nostro tempo che rende attivi e splendenti, proprio come i calciatori e i divi della tv. Napoli rispetta il trend nazionale della diffusione di questa droga ricreativa, ma con qualche marcia in

più rispetto ad altre città: la grande quantità messa sul mercato dalla criminalità organizzata, l’estrema vacuità della condizione giovanile che in molti casi fatica ad accedere ai più elementari diritti. Sono tanti i gruppetti di minorenni che risolvono le loro serate con una "pallina" - l’involucro che contiene la dose - imitando i più grandi e finendo spesso nel vortice della tossicomania che caratterizza i più poveri: reato-carcere-reato-carcere.

Magari passando per il crack, residui di coca da fumare che i ragazzi hanno imparato a "cucinare" (preparare) sul fuoco prima che la camorra mettesse in vendita le dosi già pronte da consumare per poco più di 10 euro. Di questa emergenza, l’ennesima, si parla poco e, come altrove, anche qui i servizi sanitari stentano a starle dietro, ritrovandosi con assetti e terapie ancora tarati sulla vecchia tossicodipendenza da eroina, con disfunzioni strutturali che hanno responsabilità politiche e scetticismi operativi.

Dove sono le politiche sociali ed economiche intese ad affrontare le problematiche di un tale presente? Chi se ne fa portavoce? Il nostro sguardo viaggia assai più indietro dell’attualità e, paradossalmente, il fenomeno camorristico solleva dinanzi ai nostri occhi le contraddizioni che ci si siamo affrancati dal vedere, eppure l’opinione pubblica continua a guardare il dito e non la luna. Non si può tutto spiegare con l’esistenza della criminalità organizzata: negli ultimi anni abbiamo fatto dei passi avanti ma "fino all’alba e al tepore" - come recita un verso di Boris Pasternak - "manca ancora un millennio".

Giustizia: alla Corte di Strasburgo i ricorsi di 750 ergastolani

di Susanna Marietti

 

www.linkontro.it, 4 novembre 2008

 

Domani a Strasburgo verranno consegnati i 750 ricorsi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di altrettanti ergastolani italiani. Non era mai successo niente di paragonabile nella storia delle nostre patrie galere. Mai successo che un numero così alto di detenuti mettesse in piedi un’organizzazione tanto complessa in una direzione come questa.

A prescindere dalla stretta lettera dei ricorsi - che in particolare imputano all’Italia di violare gli articoli 3, 6 e 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo - è al senso politico di questa operazione che va garantito un ascolto.

Primo: organizzarsi in carcere è molto più difficile che farlo fuori. È difficile parlarsi, comunicare, convincersi, creare una posizione e una strategia comuni. Che 750 detenuti si siano uniti pacificamente in lotta, e resistano ormai da tempo - ricordiamo lo sciopero della fame dello scorso anno e la lettera al presidente Napolitano - è una notizia che dovrebbe fare il giro di tutti i giornali. Secondo: che questa organizzazione provenga da un’area tanto marginalizzata della detenzione quale quella dell’ergastolo è motivo ancor più di nota.

Chi in questi anni non ha voluto fare i conti con la follia insita nel concetto di pena perpetua ha sostenuto che tanto gli ergastolani in Italia, di fatto, non esistono. Ecco la prova della falsità di questa affermazione. E oggi finalmente alle strategie personali di sopravvivenza e fuoriuscita da una situazione tanto insopportabile si è sostituita una strategia collettiva. Terzo: questa strategia collettiva non ha più utilizzato solamente gli strumenti classici della protesta carceraria - lo sciopero della fame, appunto - ma si è spinta alla ricerca della giusta chiave che le permettesse di percorrere vie legali. Quarto: tali vie legali non si fermano ai confini dell’Italia ma guardano a quella cornice più complessa che è la normativa sovranazionale dei diritti umani.

Ci sembrano davvero quattro buone notizie. A loro - che in realtà si fondono in una sola - è dedicata la conferenza stampa organizzata per domani a Bruxelles dall’europarlamentare della Sinistra Europea Giusto Catania e che precederà la consegna dei ricorsi a Strasburgo da parte di una delegazione dell’associazione Liberarsi, cui va il merito di aver coordinato il lavoro dall’esterno del carcere. Liberarsi è stata appoggiata in questa attività da altre associazioni europee che ne condividono la finalità.

Varie volte in passato si è tentato di abolire la pena del carcere a vita dal codice penale italiano. Non ci si è riusciti, non ci si riuscirà certo adesso. Ma verranno altri tempi. L’ergastolo è una pena che la Corte Costituzionale ha potuto salvare solo grazie a tortuose sentenze. Dalle nostre carceri, dagli altri luoghi di privazione della libertà, perfino dalle piazze romane arrivano notizie di soprusi e maltrattamenti. I nostri auguri agli ergastolani, che hanno dimostrato di credere nei diritti dell’uomo e nella giurisdizione, al punto di servirsene, ben più di quanto non facciano molti funzionari dello Stato.

Giustizia: detenuti, ma anche studenti universitari; 69 in Italia

 

Redattore Sociale - Dire, 4 novembre 2008

 

Quindici i Poli Universitari coinvolti nei progetti d’inserimento. Tra i più gettonati anche lettere, filosofia e scienze politiche. I meno scelti: ingegneria, agraria e farmacia. I dati del Dipartimento amministrazione penitenziaria.

In tutto sono 69 i detenuti iscritti all’università per il conseguimento di una laurea. Tra questi la stragrande maggioranza è composta di uomini (65 detenuti) e una minima quota da donne (4). I poli universitari coinvolti nei progetti di inserimento universitario dei detenuti sono in tutto una quindicina e quelli di più vecchi data risalgono al 1998, anche se la maggioranza dei progetti e degli accordi tra i vari istituti penitenziari e le università sono stati siglati dopo il 2000. I tre corsi più "gettonati" dai detenuti sono quelli di giurisprudenza, lettere e filosofia e scienze politiche. I meno scelti tra i corsi: ingegneria, agraria e farmacia. Questi sono in sintesi i dati ufficiali forniti dal Dap, il Dipartimento amministrazione penitenziaria, per descrivere un fenomeno in crescita negli ultimi anni: quello appunto degli studenti-detenuti, o meglio dei detenuti che decidono di iscriversi o reiscriversi all’università per ottenere un diploma di laurea o semplicemente per riprendere studi abbandonati da anni.

Nei giorni scorsi, nel carcere di Rebibbia a Roma si è laureato il primo detenuto. Si chiama Augusto Guerrieri, e ha ricevuto la laurea in Giurisprudenza, con una tesi su "Il carcere nella Roma imperiale". Guerrieri è appunto il primo detenuto che si laurea a Roma con un percorso di studi fatto interamente all’interno dell’Istituto. Ed è stato proprio lui, Guerrieri, a lanciare nel 2005 il "gruppo universitario" della Casa di Reclusione. L’intento è quello di favorire lo studio all’interno dell’istituto. Oggi ci sono otto detenuti nel complesso Casa di reclusione, uno dei quattro istituti di Rebibbia, che risultano iscritti a regolare corsi universitari. Una decina di studenti universitari della Sapienza collabora volontariamente con i detenuti-studenti per aiutarli a svolgere le pratiche burocratiche e per tenere i rapporti con i docenti. Il gruppo di "universitari" si è sviluppato non a caso all’interno della Casa di Reclusione di Rebibbia perché è l’istituto più contenuto: 180 detenuti al momento attuale. Nel Nuovo Complesso le presenze sono ben più numerose.

Le esperienze di studio universitario si stanno diffondendo in molte città. Secondo i dati ufficiali del Dap, risulta che ad Ancona ci sono attualmente cinque detenuti iscritti in università diverse: Roma, Urbino, Milano e Siena. A Bologna, importante città universitaria italiana, ci sono otto iscritti alle diverse facoltà. Sono 12 gli studenti-detenuti a Firenze, 12 anche a Milano, mentre altri 5 sono a Padova e gli altri sparsi in vari atenei minori. Le quattro uniche donne detenute e universitarie sono recluse nei carceri di Bologna e Milano.

 

Detenuti universitari: è del 1999 il primo protocollo

 

L’ufficio Osservazione e trattamento intramurale del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, fornisce i dati sui progetti siglati tra i Poli Universitari e gli Istituti penitenziari per lo studio dei detenuti. Uno tra i protocolli d’avanguardia è quello del Polo universitario di Torino, che è stato firmato nel luglio del 1998.

Si tratta di un Protocollo d"intesa tra il Provveditorato regionale del Piemonte, il Tribunale di sorveglianza di Torino e la facoltà di Scienze Politiche e di Giurisprudenza dell’Università agli studi di Torino per la realizzazione di un Polo universitario. Si è individuato nella casa circondariale di Torino "Le Vallette" il luogo ove attuare il progetto. L’ammissione al Polo Universitario avviene con una selezione, basata sulla motivazione allo studio dei detenuti di qualsiasi istituto penitenziario che ne facciano richiesta, che siano in possesso del diploma richiesto e sul comportamento tenuto dagli stessi.

Le condizioni di permanenza sono legate al superamento di almeno tre esami di profitto entro l’inizio dell’anno accademico successivo, dalla buona condotta e partecipazione all’opera di rieducazione. Le spese per cancelleria, libri e computer sono coperte da un finanziamento annuale della Banca di San Paolo e della Cariplo, mentre agli studenti viene richiesto un contributo annuo di circa 50 euro.

Molti i progetti stanno fiorendo anche in città più piccole o all’interno di siti universitari minori. Uno dei poli più consistenti è comunque quello di Bologna, dove il 24 marzo del 2000 è stata siglata una convenzione tra l’Università degli Studi di Bologna ed il Capo del Dipartimento per l’agevolazione del compimento degli studi universitari sia da parte del personale dell’Amministrazione penitenziaria che dei ristretti presso la casa circondariale di Bologna. Progetto analogo, quello di Reggio Emilia, mentre in Toscana il primo protocollo d’intesa è stato sottoscritto in data 31.10.2000 dall’Università agli studi di Firenze, dalla regione Toscana (Vicepresidente) e dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Capo del Dipartimento) per la promozione degli studi universitari per i detenuti ristretti presso i penitenziari della Toscana.

Inizialmente è stata scelta come sede delle attività didattiche la Casa Circondariale di Prato. I criteri per l’ammissione dei detenuti al polo universitario sono: il possesso del diploma di scuola media superiore, essere nella posizione giuridica di "definitivo" (sebbene, qualora vi siano posti disponibili, vengano accolte anche istanze di appellanti e ricorrenti), relazione positiva del gruppo di osservazione e trattamento. Nel febbraio del 2006 stato poi siglato un accordo per l’apertura presso il nuovo complesso penitenziario di Sollicciano di una sezione Universitaria nell’ambito del Polo Universitario penitenziario dell’Università di Firenze.

Per quanto riguarda il Lazio ci sono in ballo tre protocolli. Il primo (2003) è quello del Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria del Lazio. L’accordo è stato firmato dal provveditore regionale del Lazio ed il rettore dell’Università della Tuscia di Viterbo al fine di promuovere l’attivazione di corsi universitari negli Istituti penitenziari del Lazio Sono coinvolte nel progetto tutte le facoltà dell’Università della Tuscia e tutti gli istituti penitenziari del Lazio; le singole facoltà ed i singoli Istituti concorderanno protocolli operativi da sottoporre all’approvazione del Provveditorato regionale e dell’Università della Tuscia. È prevista l’elargizione di borse di studio ed eventualmente l’esenzione da tasse e contributi.

Per quanto riguarda nello specifico Roma, abbiamo il Polo universitario casa circondariale nuovo complesso Rebibbia. La direzione ha stipulato nel settembre del 2006 un protocollo d’intesa con l’Università di Roma "Tor Vergata", Laziodisu, il Garante per i diritti dei detenuti della regione Lazio e la società Fastweb spa per l’Istituzione di un Polo Universitario con modalità Fad (formazione a distanza). Facoltà attivate: lettere, giurisprudenza ed economia C’è anche un altro progetto, con il Polo universitario casa reclusione Rebibbia. La Direzione di Rebibbia ha stipulato in data 25.02.2008 un protocollo d’intesa con l’Università "La Sapienza" di Roma, l’Ufficio per il Garante dei diritti dei detenuti del comune di Roma, il dipartimento XVIII del comune di Roma per l’attuazione di un Polo Universitario in sede.

Altre esperienze sono nate e stanno nascendo in vari poli più o meno decentrati. Ricordiamo qui solo alcune di queste esperienze: Polo provveditorato regionale amministrazione penitenziaria del triveneto Padova, Polo provveditorato regionale amministrazione penitenziaria Sardegna, Polo provveditorato regionale amministrazione penitenziaria Catanzaro, Polo universitario presso casa circondariale nuovo complesso Lecce, Polo universitario provveditorato regionale amministrazione penitenziaria Pescara, Polo Sulmona e il polo universitario Brescia Verziano.

Giustizia: Rapporto Istat; in Italia ci sono 7,5 milioni di poveri

 

www.rassegna.it, 4 novembre 2008

 

Sono 7 milioni e mezzo i poveri in Italia. A dirlo è l’Istat, precisando che sono 2.653.000 le famiglie che si trovano in condizioni di povertà relativa (11,1 per cento del totale dei nuclei) e 7.542.000 gli individui considerati poveri (12,8 dell’intera popolazione). Tra il 2006 e il 2007 segnali di miglioramento si osservano solo in Toscana (dove l’incidenza del fenomeno è scesa dal 6,8 per cento al 4). In generale, la povertà resta diffusa principalmente nel Mezzogiorno (in particolare in Sicilia), dove è quattro volte superiore al resto del paese. A soffrire maggiormente sono le famiglie con tre o più figli, soprattutto se minorenni. L’indigenza, poi, è fortemente associata a bassi livelli di istruzione, bassi profili professionali e all’esclusione del mercato del lavoro.

Si definisce povero in senso relativo quell’individuo il cui reddito è inferiore rispetto al 50 per cento del reddito individuale medio della comunità di riferimento. Su questa considerazione, la soglia di povertà per una famiglia di due componenti è rappresentata dalla spesa media mensile per persona che nel 2007 è risultata pari a 986,35 euro (+1,6 per cento rispetto al 2006). La novità a livello nazionale, spiegano i ricercatori, è un peggioramento tra le tipologie che tradizionalmente presentano una bassa diffusione del fenomeno e tra le quali i livelli di povertà restano al di sotto o in prossimità della media nazionale: nuclei di tre componenti (l’incidenza è passata dal 10 per cento all’11,5 per cento), coppie con un figlio (dall’8,6 per cento al 10,6 per cento), famiglie con persona di riferimento di età compresa fra i 55 e i 64 anni (dal 7,5 per cento all’8,9 per cento). Un incremento dell’incidenza di povertà è stato osservato anche tra le famiglie con due o più anziani (da 15,3 per cento a 16,9 per cento) in coppia o membri aggregati.

Secondo l’Istituto di statistica, le famiglie "sicuramente non povere" costituiscono l’81 per cento del totale (si passa da valori prossimi al 90 per cento nel Nord e nel centro al 64,7 del Mezzogiorno): quelli "sicuramente poveri" il 3,7 per cento, mentre i nuclei a rischio arrivano al 4,1 per cento (quota che nel Mezzogiorno sale al 6,4 per cento).

In particolare, la regione con la più bassa incidenza di povertà è il Veneto (3,3 per cento); seguono la Toscana, la Lombardia e il Trentino Alto Adige, con valori inferiori al 6. Nelle resto del Nord e del Centro i valori oscillano dal 6,2 per cento dell’Emilia Romagna, al 6,3 delle Marche, al 9,5 della Liguria. Diverso il discorso nel Mezzogiorno, dove la povertà è molto più diffusa rispetto al resto del Paese, eccetto Abruzzo e Molise. A stare peggio sono Basilicata e la Sicilia, dove quasi una famiglia su tre, conclude l’Istat, vive in condizioni d’indigenza.

Veneto: nelle carceri della regione ci sono 1.000 detenuti in più

di Marco De Rossi

 

Il Padova, 4 novembre 2008

 

Oltre 2.800 gli ospiti dei 9 istituti di reclusione: la capienza è di 1.841 posti. Numeri in crescita da 32 mesi: record nelle Case Circondariali di Padova,Venezia e Vicenza.

Carceri venete stracolme. Mai così piene da due anni e mezzo a questa parte. La fotografia della situazione è impietosa. Da gennaio 2006 all’ultima rilevazione dello scorso mese di settembre, il numero complessivo di detenuti è salito. Si è passati dai 2.767 di due anni e mezzo fa, ai 2.854 dello scorso settembre contro una capienza di 1841 posti. Un salto in avanti di quasi 100 reclusi e che in termini assoluti è in costante salita un mese dopo l’altro.

Dopo l’indulto il numero di ospiti delle celle venete è naturalmente andato crescendo. Il dato rilevante è che la cifra è in continuo aumento e ormai costantemente sopra la media registrata tra gennaio e luglio 2006.

Solo a magio di 2 anni fa si era arrivati a una popolazione carceraria più fitta (2.860), con i carceri di Verona e Vicenza che hanno fatto segnare il balzo in avanti più marcato passando rispettivamente il primo dai 688 del gennaio 2006 agli 804 di settembre scorso e il secondo dai 277 di due anni e mezzo fa, agli attuali 313.

A parte la Casa di Reclusione Femminile di Venezia (81 detenute a fronte di 111 posti a disposizione), tutte le altre prigioni della Regione ospitano un numero di detenuti ben al di sopra della loro capienza massima.

Le situazioni peggiori nella casa circondariale di Padova dove il numero di detenuti (189) è praticamente doppio rispetto ai posti disponibili (98); in quella di Venezia a fronte di una capienza di 111 reclusi, gli ospiti delle celle sono addirittura 287.

A Vicenza i posti sarebbero 136 in tutto, ma a settembre scorso le rilevazioni raccolte dall’Osservatorio carceri dell’assessorato ai Servizi sociali della Regione, parlano di 313 ospiti. Scorrendo invece il report semestrale dell’Osservatorio, aggiornato allo scorso mese di giugno, emerge che l’unica prigione veneta dove la popolazione italiana supera quella straniera è la casa di reclusione "Due Palazzi" di Padova con 337 italiani e 212 stranieri.

Le carceri dove invece la proporzione è più sbilanciata verso detenuti di altra nazionalità sono quelle di Treviso (159 stranieri e 89 italiani) e quella di Verona (88 italiani e 525 stranieri). Un altro numero per fotografare la situazione della popolazione carceraria in Veneto, è quello relativo ai detenuti tossicodipendenti che su scala regionale sono 992, circa un terzo del totale.

Gli alcol-dipendenti sono complessivamente 77. La percentuale invece di quelli affetti da Hiv è del 2 per cento. L’Osservatorio ha tenuto conto anche del numero di detenuti che hanno usufruito della detenzione ai domiciliari o dell’affidamento in prova: in tutto il Veneto nei primi sei mesi del 2008 sono stati 256.

Lazio: approvato bando per fondi a sostegno diritti di detenuti

 

Adnkronos, 4 novembre 2008

 

Approvato in secondo esame il bando contenente "Criteri e modalità per la concessione di finanziamenti per iniziative a sostegno diritti dei detenuti del Lazio". I progetti, che verranno finanziati dalla Regione, dovranno essere finalizzati al reinserimento sociale o all’accesso al lavoro di adulti e minori sottoposti a misura penale; al miglioramento delle condizioni di lavoro degli operatori penitenziari; al miglioramento della qualità del trattamento intramurario sia degli adulti che dei minori, oltre che dei bambini figli di madri detenute.

Questi obiettivi saranno perseguiti attraverso l’attuazione di iniziative volte a favorire l’attività lavorativa dei soggetti sottoposti a misure restrittive della libertà personale e a facilitare lo svolgimento dell’attività degli operatori penitenziari nel trattare con la popolazione detenuta soprattutto straniera. Il limite massimo del finanziamento assegnato dalla Regione a ciascun progetto è di 50.000 euro. A parità di punteggio, la graduatoria delle proposte sarà ordinata secondo l’ordine crescente dell’importo del finanziamento richiesto.

Massa: 200 detenuti, carcere affollato come prima dell’indulto

 

Il Tirreno, 4 novembre 2008

 

Celle con il tutto esaurito nel carcere di Massa. In poco più di due anni l’effetto indulto è già svanito, anche perché spacciatori, tossicodipendenti e ladruncoli del regalo del governo non hanno saputo cosa farsene e una volta fuori sono tornati a delinquere. Risultato? Come nulla fosse successo: duecento detenuti erano, duecento detenuti sono.

Ritorna a scoppiare il carcere di Massa. L’effetto indulto, cominciato nell’estate del 2006, con il decreto dell’allora ministro Mastella, è svanito e le celle sono nuovamente a tappo. Adesso la popolazione della casa circondariale di via Pellegrini è di quasi duecento persone e gli agenti devono farsi in quattro per controllare che tutto vada per il meglio. La maggioranza dei detenuti poi è straniera, tanti rumeni e molti africani. I reati sono quasi sempre legati allo spaccio di stupefacenti oppure a furti e scippi.

Era la fine di luglio di due anni fa quando arrivò la notizia del sì all’indulto. Con il via libera del Senato dalle celle si è levato un lungo applauso. Una settantina i detenuti che grazie allo sconto sulla pena uscirono dal penitenziario. Il 30% della popolazione della Casa Circondariale, che scendeva dalle duecento alle 130 unità. A riassaporare la libertà soprattutto tossicodipendenti, piccoli spacciatori e ladri. Praticamente quelli che nel giro di due anni sono ritornati nelle patrie galere. I tre anni di sconto sono stati applicati anche a chi, in attesa della sentenza di appello, aveva già scontato parte della pena.

Con l’indulto avevano rinunciato al secondo grado di giudizio ma ottenendo uno sconto hanno incassato altri benefici. Per chi aveva un residuo inferiore o pari ai tre anni la libertà fu cosa fatta, per gli altri la condanna con 36 mesi in meno comportò un accesso ai benefici previsti dalla legge come la semilibertà o la libertà vigilata.

Un calcolo complicato che costrinse la procura a spulciare tutti i fascicoli. Dei settanta detenuti che nell’estate 2006 lasciarono la casa circondariale di Massa una cinquantina erano extracomunitari. Avevano alle spalle reati di microcriminalità: i più erano scippatori o ladri, altri avevano violato le norme sull’immigrazione.

Un’altra ventina aveva a che fare con la detenzione e lo spaccio di droga. Li hanno rimpiazzati altri ma alla fine il conto fa sempre duecento e le celle ricominciano a virare verso il tutto esaurito, anche perché i detenuti una volta fuori non hanno trovato alternative a delinquere. E l’emergenza sovraffollamento ritorna puntuale.

Pordenone: il carcere ha bisogno di spazi per cultura e lavoro

 

Il Gazzettino, 4 novembre 2008

 

I problemi della struttura e le difficoltà per riuscire a portare al Castello progetti nella direzione del recupero sociale del condannato. I detenuti protetti sono 46. Ottanta reclusi a fronte di una capienza di 53. Il direttore: non riusciamo a organizzare corsi professionali.

Una soluzione per il carcere di Pordenone "non può più essere differita". Lo aveva espresso con forza in occasione della festa del Corpo di Polizia penitenziaria Alberto Quagliotto, da circa un anno è direttore della Casa circondariale. Con lui abbiamo cercato di radiografare la situazione del Castello eretto attorno al 1270, adibito a carcere dal 1833 e alle prese con problemi di sovraffollamento a fronte di un organico ridotto e con spazi inadeguati.

 

Partiamo da quest’ultima questione. Quali sono gli spazi disponibili?

"La struttura ha praticamente solo aree detentive, oltre a una biblioteca, una sala socialità poco più grande di una sala riunioni, una cappella ricavata da una stanza e un cortile. Impossibile ricavare spazi per avviare attività come un corso professionale o installare un’officina per qualificare al meglio il nostro intervento nella direzione del recupero sociale del condannato".

 

Quali attività si riescono a svolgere?

"In questi giorni si sta per concludere un corso di mosaico. Presto ne partirà uno di legatoria. C’è poi il contributo degli Alcolisti Anonimi, funzionano la psicoterapia, le attività didattiche in biblioteca e i laboratori di scrittura creativa, ma sarebbe utile accentuare gli aspetti legati all’avviamento al lavoro, come un corso di idraulica o di assemblaggio. I detenuti comunque partecipano ai lavori domestici e alle manutenzioni".

 

Parliamo di numeri. Quanti sono mediamente i reclusi nel Castello?

"Tra i 70 e gli 80, contro una capienza regolamentare di 53. In passato si sono raggiunti picchi di 90, ma in genere appena si tocca il livello di guardia si provvede a redistribuirli in altre strutture. Al momento nessuno è in stato di semilibertà. Le celle sono di diversa grandezza e ospitano dai 2 ai 7-8 detenuti, con una media di 5".

 

Qual è l’incidenza degli stranieri?

"Circa il 65 per cento. Meno che in altri istituti dove si supera il 70 per cento. Non va dimenticato che da alcuni anni ospitiamo una sezione speciale di detenuti "protetti". Mi riferisco ai "sex offenders", tra i quali spiccano i pedofili, che ovviamente non possono condividere gli spazi con quelli comuni".

 

Quanti sono i detenuti "protetti"?

"Al momento 46, provenienti da varie parti del Triveneto. La particolare attenzione che questi richiedono si traduce per molti aspetti in una duplicazione dei compiti svolti dal personale che è inferiore alle 50 unità con un turnazione sulle 24 ore. Oltre ai compiti tradizionali è chiamato a svolgerne altri di nuovi (per esempio trasferimento, piantonamento) con la conseguente necessità di far ricorso al lavoro straordinario".

 

Torniamo agli stranieri. Ci sono problemi di lingua o di cultura?

"Talvolta. A tale proposito, partirà nel 2009 un progetto sperimentale della Regione che prevede l’introduzione dei mediatori culturali per 600 ore l’ anno in totale attraverso apposite convenzioni con strutture del territorio. All’occorrenza vi potremo far ricorso".

 

Ultimamente è stata promossa con successo la manifestazione di musica aromatica, primo esperimento di concerto dal vivo in collegamento interattivo esterno-interno con la città. Pensa di proseguire su questa strada?

"Spero di bissare l’esperienza a Natale e sono aperto a progetti che possano contribuire a dare a queste persone dei valori, dei modelli di vita, avere spessore trattamentale. Ritengo fondamentale agire nella direzione della bellezza e della cultura, far capire che esiste un altro modo di vivere".

 

Progetto per reinserire i detenuti

 

I soldi fanno parte di un pacchetto stanziato da Stato e Regione anche se una parta la metterà il Comune capoluogo. L’obiettivo è quello di istituire un percorso per rendere più agevole il reinserimento in società degli ex detenuti e di quanti possono usufruire del permesso di semilibertà o dell’affidamento ai servizi sociali. Sino ad ora l’Ente locale svolgeva questo servizio in particolare per i minorenni. Ora il progetto si amplia. "Sino ad oggi quello che riuscivamo a fare - spiega l’assessore alle Politiche sociali, Gianni Zanolin che ieri ha portato in giunta la delibera approvata all’unanimità - era al massimo la possibilità di offrire una borsa lavoro. Ora, invece, grazie al progetto che abbiamo licenziato, fermi restano i tempi tecnici, gli ex detenuti potranno usufruire di un percorso integrato che si baserà su più opportunità. Oltre alla formazione, necessaria per trovare posti di lavoro, il piano prevede progetti per trovare una casa, servizi ai quali rivolgersi per le necessità più immediate e tutta una serie di cose legate al reinserimento o alla necessità di integrazione per chi è affidato ai servizi sociali o in regime di semilibertà. C’è da aggiungere - conclude Zanolin - che in questi due settori ci sono sempre più persone perchè il carcere di Pordenone è sovraffollato".

Torino: con Premio Casalini premiati i detenuti scrittori e poeti

 

Il Tirreno, 4 novembre 2008

 

Si è svolta nella casa circondariale "Lorusso & Cotugno" a Torino la cerimonia ufficiale del "Premio letterario nazionale Emanuele Casalini" settima edizione. Nata nel 2002 su iniziativa della San Vincenzo de Paoli e dell’Università della Terza età fondata all’interno del carcere di Porto Azzurro dal professor Emanuele Casalini (insegnante per molti anni di letteratura italiana e poi preside nei licei di Piombino) l’iniziativa, riservata ai detenuti e cresciuta negli anni, è oggi promossa dalle Università delle Tre Età-Unitré di Porto Azzurro e Volterra, Fiera internazionale del libro di Torino (presidente della giuria è il suo direttore Ernesto Ferrero, segretaria la professoressa Lucia Paperetti Casalini) con il patrocinio delle Regioni Piemonte e Toscana, Province di Livorno e Torino, Comuni di Porto Azzurro, Piombino e Torino. Sono nella giuria anche il professore Pablo Gorini, presidente Unitré di Piombino e Paolo Pesciatini, direttore Confcommercio isola d’Elba.

Nel corso della cerimonia la presidente del consiglio comunale di Piombino Simonetta Polverini ha consegnato la targa "Città di Piombino" a Sebastiano Bontempo (Volterra). Da sottolineare il contributo al premio della Fondazione Cassa di risparmio di Volterra, Comune di Piombino e Autorità Portuale.

Primi classificati ex aequo nella "Sezione poesia" le opere di Carmelo Musumeci e Gabriele Aral, secondo Antonio Faulisi, terzo Marcello Dell’Anna. Segnalati Barbara Attanasio, Ciro D., Alessandro Crisafulli, Luigi D’Avino, Gabriel, Flavio Grunetti, Houmine Kamal, Abdoulaye Konarè, Marina S. Sebastiano Milazzio, Mille Madri, Maurizio Peruzzi, Salvatore D.

Il Primo premio nella "Sezione prosa" è stato assegnato a Marco Purita, secondo Domenico Strangio, terzo Sebastiano Bontempo. Sono state segnalate le opere di Francesco Annoscia, Lorenzo Bozano, Girolamo Di Gregorio, Francesco Di Pasquale, Corrado Fertilli, Marlene, Santi Pullarà, Bruno Rapone, Carmelo Rollo, Giovanni Tripodi.

"Ogni premio letterario è una ricchezza che deve essere perseguita e valorizzata. Il "Premio letterario Emanuele Casalini" ha una valenza sociale e umana che lo rende particolarmente importante". È una frase che ha scritto Anna Maria Rimoaldi scomparsa proprio all’Elba un anno fa, più volte componente della giuria, direttore della Fondazione Bellonci che promuove il "Premio Strega".

Venezia: manette bloccate sui polsi… intervengono i pompieri

 

La Nuova Venezia, 4 novembre 2008

 

Le hanno provate tutte: con la chiavetta, con una pinza e anche con l’olio, ma niente da fare, la serratura non ha voluto liberare i polsi del prigioniero. E allora sono intervenuti i vigili del fuoco che con cesoie e divaricatore hanno tagliato le manette. Il singolare episodio è accaduto l’altra sera poco dopo le 22, all’ingresso principale del carcere di Santa Maria Maggiore. In quel momento gli agenti del commissariato di San Marco in servizio al Lido stavano portando in carcere un extracomunitario da poco arrestato sull’isola: uno straniero che, ricevuti più fogli di espulsione, non ha lasciato il nostro Paese.

Al nuovo controllo, è scattato l’arresto per non aver rispettato il provvedimento. Come prevede la legge per il trasferimento degli arrestati, l’uomo è stato ammanettato al Lido e quindi trasportato in carcere, dove all’ingresso è stato preso in consegna dagli agenti della polizia penitenziaria. È in quel momento che al prigioniero - in procinto a diventar "detenuto" - vengono usualmente tolte le manette usate per bloccargli i polsi.

Sabato notte, l’agente del commissariato ha preso dalla tasca la chiave e cercato di liberare i polsi dello straniero. Ci ha provato una, due, tre, quattro volte. Ma non c’è riuscito. Ha riprovato più volte anche dopo aver utilizzato dell’olio per sbloccare l’ingranaggio e usato anche una pinza. Ma ogni tentativo è stato inutile. A quel punto gli agenti sono stati cosretti a chiamare i vigili del fuoco. I pompieri sono intervenuti con una squadra: in pochi minuti con le cesoie hanno liberato il prigioniero. Almeno dalle manette.

Aversa: il convegno "Pericolosità Sociale & Società Pericolosa"

 

Comunicato stampa, 4 novembre 2008

 

Il XII Convegno di Studi dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario (Opg) di Aversa - che si terrà nei giorni 6.7.8 novembre - tratterà con il contributo di studiosi di tutta Italia sull’individuazione e sull’accertamento dell’elemento che consente la reclusione ai malati di mente - cioè il concetto giuridico e psichiatrico di pericolosità sociale - ed avrà per titolo appunto "Pericolosità Sociale & Società Pericolosa" . Il senso del Convegno oltre quello di studio è di richiamare ancora una volta l’attenzione sugli Opg in un momento di rischiosissima trasformazione come quello attuale.

Infatti un Dpcm del precedente governo ha delegato dal 1 ottobre 2008 la sanità penitenziaria alla sanità pubblica , e questo significa che tutta la struttura medica - pazienti compresi - sono transitati nel Sistema Sanitario Nazionale , e quindi alle Asl di competenza su cui insiste la struttura. È quindi - nelle intenzioni - una possibilità concreta di superare l’Opg trasformando un luogo carcerario in una struttura sanitaria che possa svolgere la sua funzione di dismissione e reintegro dei pazienti, realizzando un progetto su cui si lavora da tempo.

L’impreparazione con cui questo passaggio è stato accolto sia dalla amministrazione penitenziaria che dalle Asl campane su cui insistono le due strutture di Aversa e Napoli sta però producendo un arretramento piuttosto che un superamento: l’aspetto carcerario è stato rafforzato con la presenza di un dirigente penitenziario nella struttura , che poco può sapere di soggetti affetti da patologia mentale e che imprime - per sua formazione e ruolo - un viraggio preoccupante verso l’aspetto carcerario.

Mentre la Regione Campania e le Asl si trovano a gestire circa quattrocento pazienti - tanti ce ne sono in regione anche se solo una piccola parte sono di competenza campana - di cui non conoscono la storia e le dinamiche giudiziarie che hanno prodotto il loro internamento, tanto che a tutt’oggi nessun Direttore Generale delle Asl in Campania ha deliberato in merito al significato e al ruolo della struttura Opg e sul destino dei pazienti contenuti in esso.

Si verifica quindi la paradossale condizione che - nel lungo tragitto di sanitarizzazzione di questi luoghi - questi si vengano a trasformare (esattamente nel momento in cui gli si da la possibilità del superamento) in quello che da dieci anni cercano di non essere più, ovverosia delle carceri con dei malati mentali rinchiusi.

Se a ciò si aggiunge che quasi il sessanta per cento delle persone recluse ci rimane in quanto considerato socialmente pericoloso non per le condizioni psichiatriche che sono buone e lo renderebbero dimissibile, ma per l’assenza di strutture territoriali in cui accoglierli, diventa evidente che il gioco di parole su cui si basa il titolo del convegno "Pericolosità Sociale & Società Pericolosa" rappresenta non solo uno stimolo, ma anche una preoccupazione.

 

Adolfo Ferraro

Direttore Sanitario dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa

Volterra: le "cene galeotte"… il 28 novembre e il 19 dicembre

 

In Toscana, 4 novembre 2008

 

Venerdì 28 novembre 2008, Cena in favore di: Arci - Filippine. Chef: Giuseppe della Rosa del Ristorante Orvm Hotel Westin Excelsior – Firenze. Carcere di Volterra (Pisa), ingresso ore 19.30 - inizio cena ore 20.00.

Continuano le cene solidali a cura dei detenuti del carcere di Volterra: nel mese di novembre il sesto appuntamento con lo chef Giuseppe della Rosa del Ristorante Orvm Hotel Westin Excelsior di Firenze che aiuterà i carcerati, per l’occasione cuochi, nella preparazione di un menu d’autore.

I partecipanti avranno l’unica quanto emozionante possibilità di entrare all’interno del carcere. Dopo uno sfizioso aperitivo, degustato sotto le mura dell’antica fortezza medicea, sarà possibile assaporare i piatti preparati dai detenuti e i vini serviti dai sommelier Fisar nella suggestiva cappella sconsacrata sempre all’interno della casa di reclusione. Le tavole saranno impeccabilmente imbandite, solo le posate, per ovvie ragioni di sicurezza, saranno di plastica. L’incasso della cena sarà donato all’Arci per opere in favore delle Filippine. Il prezzo della cena è di 35 euro a persona, 100 i posti a serata e prenotazione obbligatoria.

19 dicembre, Cena in favore di: Arci - Perù. Chef: Gaetano Trovato del Ristorante Arnolfo - Colle Val D’Elsa (Pi).

L’evento, promosso da Unicoop Firenze, che per l’occasione oltre a fornire le materie prime assume i detenuti retribuendoli regolarmente, in collaborazione con il Ministero di Grazia e Giustizia, Fisar, Slow Food e la direzione della Casa di reclusione di Volterra, vede aumentare per questa terza edizione sia gli appuntamenti che la qualità dei menu. Otto sono infatti quest’anno le cene interamente preparate e servite dai carcerati, aiutati in cucina da un noto chef individuato dall’enogastronomo Leonardo Romanelli, che ha messo la sua esperienza a disposizione dell’originale iniziativa. Il ricavato è integralmente devoluto alla campagna internazionale "Il Cuore si scioglie" (www.ilcuoresiscioglie.it), che dal 2000 vede impegnata Unicoop Firenze, insieme al mondo del volontariato laico e cattolico, in progetti di solidarietà per realizzare scuole e centri di accoglienza, per garantire cure mediche, per creare opportunità di lavoro e per promuovere l’adozione e l’affidamento a distanza dei bambini in otto paesi del Sud del mondo: Brasile, Burkina Faso, Camerun, Filippine, India, Libano, Palestina e Perù.

Le prenotazioni vanno effettuate almeno 10 giorni prima, su presentazione di fotocopia della carta di identità, per consentire i controlli indispensabili per permettere l’accesso al carcere. È necessario presentarsi alle cene con un certo anticipo e tenere presente che borse, cellulari e macchine fotografiche saranno inderogabilmente depositate all’ingresso.

 

Per informazioni e prenotazioni:

Agenzie Toscana Turismo (Argonauta Viaggi)

Tel. 055.2342777

Immigrazione: insulti razziali, processo anche senza la querela

 

Il Sole 24 Ore, 4 novembre 2008

 

Non ferma il processo per ingiuria a sfondo razziale la remissione della querela da parte di chi ha subito parole oltraggiose intrise di odio etnico. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione che ha rinviato a giudizio un uomo (Marcello C.) che durante un litigio aveva detto "sporca marocchina" a una ragazza nordafricana.

Il Giudice di pace di Sant’Elpidio a Mare (Ancona) aveva archiviato il fascicolo dichiarando il "non doversi procedere per essere estinto il reato per remissione di querela": la ragazza, infatti, aveva in un primo tempo presentato querela per ingiurie e, successivamente, l’aveva ritirata Da qui la decisione del giudice di archiviare.

Invece la Suprema Corte - sentenza 41011 - ha accolto il ricorso con il quale la Procura della Corte di Appello di Ancona ha fatto presente che in una frase del genere si ravvisa l’aggravante dell’odio razziale che "rende il reato procedibile d’ufficio". In pratica, non occorre la querela di chi è stato offeso.

La Cassazione ha, quindi, condiviso questo punto di vista sottolineando che "è manifesta l’ostilità a sfondo razziale insita nella pronuncia dell’ingiurioso, termine "sporca marocchina", frase che rivela un odio etnico e razziale sufficiente ad integrare l’aggravante in questione". "Proprio questi sentimenti di disprezzo razziale, ostilità, desiderio di nuocere a una persona di diversa, di convinzione di avere a che fare con persona inferiore e non titolare degli stessi diritti - spiega ancora la Suprema Corte - alimentano quel conflitto tra le persone che testimonia la presenza dell’odio razziale". Adesso Marcello C. sarà processato dal Tribunale di Ancona al quale gli atti sono stati trasmessi per competenza.

Immigrazione: sulla Bossi-Fini; ecco perché Epifani ha ragione

di Giuliano Cazzola

 

Liberal, 4 novembre 2008

 

Così dice il Signore: "Non molesterai il forestiero né lo opprimerai perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto" (dal Libro dell’Esodo). Ma non sono motivazioni etico-religiose quelle che mi inducono a condividere la proposta di Gugliemo Epifani (si veda l’intervista a Sergio Rizzo sul Corriere della Sera di domenica scorsa).

Il segretario della Cgil ha suggerito una sospensione temporanea della legge Bossi-Fini per i lavoratori stranieri che dovessero perdere il lavoro a causa della recessione in atto. Le dichiarazioni di Epifani sono state accolte negativamente da autorevoli esponenti della maggioranza, i quali - se non ho male interpretato le loro opinioni - hanno sottolineato in particolare i rischi che una maggiore tolleranza potrebbero determinare sulla sicurezza.

Alcune osservazioni sono dunque necessarie. La legge Bossi-Fini è un provvedimento complesso, i cui contenuti non sono riconducibili soltanto all’idea centrale (rivelatasi giusta) di condizionare il rilascio del permesso di soggiorno (in base alle quote ammesse) all’esistenza di un rapporto di lavoro regolare.

Nessuno - tanto meno chi scrive - propone di "sospendere" l’applicazione delle norme (recentemente rese più severe) rivolte a reprimere comportamenti scorretti ed illegali. Il problema è quello di salvaguardare, con un minimo di flessibilità, proprio quel principio dell’integrazione attraverso il lavoro che è il cuore della legge in parola. Che senso avrebbe rimandare al suo paese un immigrato (inserito da anni con la sua famiglia in una delle nostre comunità) che perde il lavoro a causa della recessione, quando la componente dei lavoratori stranieri, soprattutto nelle regioni del Centro-Nord, sono ormai una componente strutturale del mercato del lavoro?

In quelle realtà, infatti, gli stranieri sfiorano ormai - mediamente - il 20 per cento della manodopera occupata, mentre sono disoccupati soltanto gli italiani che scelgono di non lavorare o non hanno voglia di farlo. Nelle regioni della Padania vi è da anni uno scarto di almeno 100 mila unità tra chi esce dal mercato del lavoro per andare in pensione e chi entra. Gli immigrati non rubano il lavoro a nessuno persino nel Mezzogiorno, poiché sono occupati in prevalenza in occasioni di lavoro che gli italiani - anche i più diseredati - rifiutano.

Interi settori dell’economia (l’agricoltura, il turismo, le costruzioni, i servizi alla persona, alcuni comparti manifatturieri) fanno fronte alle loro esigenze soltanto grazie al lavoro degli stranieri. Chi lavora da anni nelle nostre fabbriche, parla la nostra lingua, vive nelle nostre città e manda i suoi figli nelle nostre scuole ha acquistato un know-how professionale e sociale che sarebbe un delitto contro l’economia e il corretto vivere civile disperdere, a causa di una congiuntura sfavorevole destinata - ce lo auguriamo - a cambiare di segno entro breve.

Ovviamente non sarebbe il caso di sottilizzare sugli strumenti normativi da adottare per risolvere il problema. L’importante è consentire ad un lavoratore straniero, regolarmente impiegato, di avere a disposizione il tempo e l’opportunità di cercare un nuovo lavoro o di aspettare che l’economia riparta, avvalendosi, se ne ha diritto, della tutela fornita dagli ammortizzatori sociali.

Immigrazione: allarme tubercolosi al Campo rom Casilino 900

di Giovanna Vitale

 

La Repubblica, 4 novembre 2008

 

Non c’è tempo da perdere, il Casilino 900 ha bisogno di "interventi migliorativi in tempi brevi" o esploderà. Nell’agglomerato di baracche tra la Casilina e Via Togliatti "si riscontrano" infatti "episodi di Tbc, epatopatie severe, malattie dermatologiche trasmissibili, affezioni gastro-intestinali ed ustioni, in misura rilevante, specie nei bambini".

A lanciare l’allarme rosso, stavolta, non è la politica. O almeno non solo. A denunciare l’estrema "precarietà della situazione ambientale e sanitaria" del Casilino 900 è il dottor Maurizio Di Marzio, responsabile del camper socio-sanitario che dal 1999 assiste i rom residenti nel territorio della Asl RmB.

Una relazione inquietante perché, oltre a descrivere una situazione di degrado fin troppo nota, denuncia l’insorgere di malattie come la tubercolosi, che si credevano ormai estinte. "Condizioni allarmanti", mette nero su bianco il medico della Asl, scatenate da diversi fattori: "L’immondizia", recita il rapporto appena inviato in Campidoglio, "deborda dagli insufficienti cassonetti e si accumula nelle aree circostanti, rendendo difficoltosi gli spostamenti.

La pioggia forma degli acquitrini permanenti, con conseguente proliferazione di insetti". Ancora: la fornitura d’acqua "è insufficiente" e "mal strutturata"; "il taglio dell’energia elettrica, a seguito della persistente morosità di alcune famiglie e della presenza di allacciamenti abusivi, ha compromesso ulteriormente gli standard minimi di vita, con difficoltà nella conservazione degli alimenti, nonché di alcuni farmaci"; "i servizi igienici sono garantiti esclusivamente da bagni chimici sempre sporchi"; "il randagismo" è "veicolo di affezioni".

Roba che "nemmeno nei campi profughi palestinesi - disse sei mesi fa il sindaco Alemanno durante un sopralluogo - ho trovato una situazione di questo genere". Ma non è tutto: "Un ulteriore aggravamento ambientale", insiste il dottor Di Marzio, "è costituito dai fumi tossici determinati dalla combustione di materiale plastico" che "si ripercuotono sui quartieri circostanti".

Fotografia confermata nella contemporanea relazione chiesta al comandante dell’VIII Gruppo dei vigili urbani Antonio Di Maggio. Il quale per sovrappiù scrive che "i nomadi hanno reso inagibile anche l’attiguo parco di Centocelle, che è stato chiuso al pubblico per motivi di sicurezza. Attualmente è una discarica a cielo aperto", sottolinea Di Maggio, "sono stati asportati cavi elettrici con conseguente distacco dell’illuminazione, rotte le fontanelle pubbliche, divelle le panchine".

Troppo per il delegato del sindaco alla Sicurezza Samuele Piccolo. Che già oggi chiederà "l’immediato abbattimento del campo e la bonifica dell’intera area con lo spostamento dei nomadi in un centro di accoglienza, in attesa di essere ricollocati o nella stessa area o in un’altra zona del territorio". Le ragioni dell’urgenza stanno tutte nei "risultati devastanti ottenuti dalle indagini dei vigili e della Asl, promosse in seguito alle proteste dei cittadini di Centocelle" incalza Piccolo. "C’è il rischio, altissimo, di diffusione di malattie che pensavamo sparite dalla nostra città". Senza considerare "il pericolo di contaminazione anche da diossina, determinato dalla frequente combustione di materiali nocivi e plastici come pneumatici e residui chimici".

Onu: esperti sulla "detenzione arbitraria" fanno visita in Italia

 

Apcom, 4 novembre 2008

 

Un gruppo indipendente di esperti sulla detenzione arbitraria (Working Group on Arbitrary Detention), facenti capo al Consiglio sui Diritti Umani delle Nazioni Unite, inizia oggi una visita ufficiale in Italia. La visita si svolge su invito del governo italiano e durerà due settimane, dal 3 al 14 novembre 2008. La delegazione visiterà Roma, Napoli, Milano e la Sicilia (Caltanissetta, Cassibile, Pozzallo). Lo riferisce un comunicato.

Lo scopo della visita del gruppo di esperti è di stabilire un dialogo con le autorità competenti dell’esecutivo e della magistratura, sia a livello nazionale che a livello locale, con la società civile e con gli stessi detenuti. Il Gruppo di esperti visiterà prigioni, istituti penali minorili, ospedali psichiatrici, celle di sicurezza di polizia e carabinieri, e centri in cui sono trattenuti stranieri. Verranno esaminate la legislazione e la prassi in materia di privazione della libertà, in particolare sia leggi e pratiche che possano essere all’origine di situazioni di detenzione arbitraria, che aspetti da segnalare al Consiglio sui diritti umani come leggi o prassi modello.

In conclusione della visita, il pomeriggio del 14 novembre 2008, il gruppo di esperti incontrerà la stampa nei locali della Sioi a Piazzetta San Marco a Roma. Gli esperti redigeranno il rapporto sulla visita in Italia nella seconda metà di novembre quando saranno in sessione a Ginevra. La delegazione è composta dagli esperti indipendenti Roberto Garretón (cileno) e Aslan Abashidze (russo), nonché da due membri del segretariato del Gruppo di lavoro. Ogni anno gli esperti sulla detenzione arbitraria visitano due o tre Stati membri delle Nazioni Unite. Visite recenti sono state condotte in Angola, Colombia, Mauritania e Norvegia.

Messico: scandalo sui "boss" detenuti che vivono come principi

 

Ansa, 4 novembre 2008

 

Celle speciali per detenuti "Vip", in grado di pagare migliaia di dollari ogni mese per poter godere di un trattamento da hotel di medio livello e una serie di servizi "extra". È quanto accade nelle carceri messicane secondo un rapporto della Commissione nazionale dei diritti umani anticipata dal quotidiano "Universal".

Secondo i report della Commissione il "trattamento speciale" esiste con certezza in alcune carceri di Città del Messico, ma sarebbe applicato su tutto il territorio nazionale. Le "suite penitenziarie" sarebbero "affittate" per feste private a base di droga e ragazze disponibili, ma anche a lungo termine.

Secondo quanto riporta il quotidiano, che mostra anche alcune foto del dossier, la vita in carcere dipende interamente dalla possibilità di spesa di un carcerato: chi ha a disposizione un budget abbastanza elevato può arrivare ad avere due televisori, una cucina completa con microonde, telefono cellulare.

Ogni cosa, nei tre istituti di pena visitati lo scorso anno dalla Commissione, ha un prezzo e non sono molte le distinzioni tra carceri maschili e femminili. Per questo chi può si organizza e non mancano veri e propri negozi, i cui "titolari" pagano un "affitto". L’alternativa per i detenuti privi di risorse è quello di lavorare per una delle officine attive nelle strutture o nell’area amministrativa.

Difficile però che raggiungano i privilegi dei "boss", alcuni dei quali avrebbero nelle loro celle acquari e animali esotici. Pesante il coinvolgimento delle guardie carcerarie, spesso veri e propri partner d’affari dei detenuti. Il governo della capitale si è difeso dicendo di essere già intervenuto per porre fine a questa situazione, ma che persistono delle anomalie.

 

 

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