Rassegna stampa 17 novembre

 

Giustizia: Alfano; un ddl su effettività pena e processo penale

 

Agi, 17 novembre 2008

 

La prossima settimana "ci sarà un’iniziativa di legge sull’effettività della pena e sul processo penale". Lo ha detto il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, a margine della cerimonia per i 50 anni del Csm, sottolineando che "di riforme costituzionali ci occuperemo a cornice di tutto questo".

Il guardasigilli ha detto di aver "molto apprezzato" le relazioni svolte questa mattina dal vicepresidente del Csm Nicola Mancino e dal presidente emerito della corte costituzionale Giovanni Conso, "non tanto e non solo per la ricostruzione storica, quanto per la proiezione verso il futuro: si è gettata una luce importante sui temi cardine del Csm, quali pareri, le nomine, le pratiche a tutela e la sezione disciplinare".

Giustizia: indagine al Senato su condizione salute dei detenuti

 

Ansa, 17 novembre 2008

 

Un’indagine conoscitiva per "accertare le attuali condizioni di salute dei detenuti nei penitenziari italiani" e per prospettare "adeguate soluzioni". Questa la proposta che il presidente della commissione Giustizia del Senato, Filippo Berselli, ha formulato oggi all’ufficio di presidenza e che è stata accolta all’unanimità dall’ufficio di presidenza della commissione. Berselli, nei giorni scorsi aveva chiesto al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria una relazione sullo stato della sanità nelle carceri italiane. "I dati acquisiti - spiega Berselli - hanno portato alla luce la drammatica situazione igienico-sanitaria in cui versano moltissimi reclusi. E sulla quale ora noi intendiamo far luce". Il senatore del Pdl ha proposto di effettuare quest’indagine conoscitiva, previa intesa con la commissione Sanità di Palazzo Madama.

Giustizia, Napolitano; governo e opposizioni riflettano su Csm

 

Adnkronos, 17 novembre 2008

 

Il capo dello Stato alla cerimonia per il 50esimo anniversario della legge istitutiva dell’organo di autogoverno dell’Ordine giudiziario: "Approfondiscano la vicenda storica vissuta finora dal Consiglio superiore della magistratura, prima di formulare ipotesi di riforma".

Il governo e il Parlamento approfondiscano la vicenda storica vissuta finora dal Consiglio superiore della magistratura, prima di formulare ipotesi di riforma dell’organo di autogoverno dell’Ordine giudiziario. L’invito, sotto forma di pacato suggerimento, arriva dal capo dello Stato Giorgio Napolitano, che del Csm è presidente, al termine della cerimonia per il 50esimo anniversario della legge istitutiva a Palazzo dei Marescialli.

Per Napolitano si tratta di "una storia che forse non è abbastanza conosciuta e sulla quale poco si riflette e che, nello stesso tempo, ha sollevato interrogativi e problemi in modo molto serio e obiettivo. Penso che queste considerazioni - insiste Napolitano - potranno illuminare il dibattito, quando ci sarà in Parlamento, tra le forze politiche di governo e di opposizione".

Secondo il vicepresidente del Csm, Nicola Mancino, la previsione costituzionale di attribuire al capo dello Stato la presidenza "si è mostrata nell’esperienza vissuta in questo cinquantenario, lungimirante e stabilizzatrice e ha permesso di superare fasi di stallo che non sono mancate e soprattutto a volte le aspre polemiche nate dal difficile rapporto politica-giustizia".

Proprio il ruolo super partes del presidente della Repubblica, ha aggiunto Mancino, "è stato e resta garanzia dell’unicità in un solo organismo della rappresentanza della magistratura sia inquirente che giudicante". L’occasione del 50esimo anniversario del Csm è servita per Mancino a "suggerire un’utile riflessione su alcuni eccessi di autoreferenzialità, soprattutto di inalterabilità delle sue articolazioni e dei suoi organi di interni".

Dal presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Conso (che è stato anche vicepresidente del Csm) è arrivato un appello a mettere alla base di delibere e pareri la "non appartenenza ad alcuna corrente e non insistere a tutti i costi su propri candidati, ma guardare ad una scelta per il bene della collettività".

L’invito è giunto dopo non poche polemiche e accesi dibattiti politici su un possibile correntismo dell’organo di autogoverno della magistratura; un appello "alla deontologia e all’etica". Per quanto riguarda l’attività della sezione disciplinare del Csm, Conso ha invitato a "tenersi lontano da posizioni preconcette" e ha sottolineato la positività delle pratiche a tutela delle toghe spesso vittima di "ingiuste colpevolizzazioni genericamente formulate".

Giustizia: addio a "carcere duro" così benefici ai boss mafiosi

di Salvo Palazzolo

 

La Repubblica, 17 novembre 2008

 

Il fronte dell’antimafia cede silenziosamente. Negli ultimi cinque mesi è stato revocato il carcere duro a 13 padrini di Cosa nostra, ‘Ndrangheta e Camorra. È rimasta vuota la cella al 41 bis che ospitava Salvatore Calafato, il mandante dell’omicidio del giudice Rosario Livatino. Sono rimaste libere anche le celle di Giuseppe Iamonte, Fioravante Abruzzese e Mario Pranno, capi storici della criminalità organizzata calabrese. Anche Giuseppe Biviera, uno degli ‘ndranghetisti coinvolti nella faida che ha portato alla strage di Duisburg, non è più al carcere duro.

Da gennaio a giugno, come denunciato da Repubblica, erano stati addirittura 37 i padrini che avevano vinto la loro battaglia legale con i giudici di sorveglianza, da Torino a Roma, da Perugia a Napoli. Il ministro della Giustizia è riuscito a far ritornare al 41 bis solo il capomafia Antonino Madonia, uno dei mandanti dell’omicidio Dalla Chiesa. Tutti gli altri restano detenuti comuni, nonostante le condanne all’ergastolo e i misteri che ancora custodiscono. Nonostante, soprattutto, i ripetuti annunci di inasprimento del regime del carcere duro. L’emendamento sul nuovo 41 bis, approvato all’unanimità nei giorni scorsi dalla commissione Giustizia e Affari costituzionali del Senato, deve ancora andare in aula (l’esame è previsto nei prossimi giorni).

Intanto, ormai dalla primavera fanno vita più comoda Giuseppe La Mattina, uno dei mafiosi che uccise il giudice Paolo Borsellino. Poi Giuseppe Barranca e Gioacchino Calabro, che si occuparono degli eccidi del 1993 fra Roma, Milano e Firenze. Al carcere duro non stanno più da mesi neanche altri capi storici dell’Ndrangheta: Carmine De Stefano, Francesco Perna, Gianfranco Ruà e Santo Araniti, il mandante dell’omicidio Ligato. E neanche il boss della Camorra Salvatore Luigi Graziano.

La nuova lista degli annullamenti contiene altri nomi di livello. Tutti nomi di capi. Giuseppe Iamonte era fra i trenta latitanti più pericolosi d’Italia quando fu arrestato, appena tre anni fa, dopo una lunga carriera cui lo aveva iniziato il padre Natale. Il figlio era però andato oltre: era diventato il fornitore ufficiale di tritolo per i clan del Mezzogiorno, per questo veniva riverito più di un padrino. Gli ultimi provvedimenti di revoca riguardano pure il capo della cosca degli "Zingari" di Cosenza, Fioravante Abruzzese; poi il capo di un altro clan di Cosenza, Mario Pranno; il capo storico della mafia di Gela Davide Emmanuello e il suo collega camorrista Gaetano Bocchetti, anche lui dai meriti criminali riconosciuti da diverse sentenze, per essere stato il fautore della cosiddetta "alleanza di Secondigliano". Infine, anche Eduart Tresa, rappresentante della mafia albanese in Italia. Eccoli, i 50 padrini a cui nel 2008 è stato revocato il carcere duro: quando erano in libertà organizzavano e ordinavano. Spesso, senza sporcarsi le mani. Adesso, in carcere, sono detenuti modello. Ai giudici di sorveglianza che si sono occupati dei loro casi sono mancate notizie aggiornate sull’"attuale pericolosità riconosciuta", che è il requisito perii mantenimento del 41 bis.

Dice Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, la prima organizzazione sindacale dei poliziotti penitenziari: "Abbiamo appreso con piacere della annunciata riforma, ma come spesso accade non si sono fatti i conti con la realtà, ovvero con chi deve applicare norme maggiormente restrittive. Servono più personale, più fondi, più mezzi. Siamo già oberati di lavoro. Uno dei compiti più gravosi resta quello con i detenuti cosiddetti ad alto indice di vigilanza", quelli a cui è stato revocato il 41 bis: rientrano nel circuito ordinario, dove spesso c’è sovraffollamento, e impedire che tornino a comunicare all’interno e all’esterno del carcere è davvero un carico insostenibile".

Giustizia: la "sicurezza privatizzata"... in questi tempi già cupi

di Renzo Guolo

 

Metropoli, 17 novembre 2008

 

Il parlamento si sta occupando in questi giorni del decreto-sicurezza e, in particolare, di alcuni emendamenti presentati dalla maggioranza. Quello che ci preme sottolineare subito è l’ideologia che ispira queste e altre norme del "pacchetto sicurezza".

Un’ideologia che tende a trasformare i cittadini in arbitri o vigilantes dei diritti di libertà garantiti dalla Costituzione. Lo si evince anche dall’altro emendamento al decreto. Quello che consente agli enti locali di avvalersi della collaborazione di "associazioni di cittadini" nella gestione della sicurezza del territorio.

L’istituzione delle cosiddette "ronde" è un precedente pericoloso: non solo perché mina, "privatizzandolo" a favore di gruppi che possono potenzialmente diventare una sorta di milizia personale o di partito, lo storico primato dello Stato in materia; ma anche perché produce solitamente conseguenze destinate a mettere a rischio proprio quella sicurezza che si vorrebbe tutelare. Si pensi all’uso che talune amministrazioni potrebbero farne nell’intento elettorale di far sentire il fiato sul collo alle nuove "classi pericolose", delle quali gli immigrati fanno parte per "elezione".

Una novità che accanto alla trasformazione delle polizie municipali in organo di ordine pubblico generale, in concorrenza con i corpi di polizia nazionale e, nei fatti sempre più orientate nelle loro funzioni da istanze politiche, rischia di alimentare non solo conflitti istituzionali ma anche drammatiche torsioni e violazioni dei diritti. Esito del quale, francamente, non si sente alcun bisogno nel già cupo clima del tempo.

Giustizia: la sfida del Pd alla camorra; se l’esercito non basta

 

La Repubblica, 17 novembre 2008

 

Agli stati generali di Caserta il Partito democratico lancia il patto sulla sicurezza, ma senza Walter Veltroni bloccato a Roma da un’improvvisa indisposizione, conseguente a un recente intervento chirurgico, il segretario del Pd ha infatti rinviato al 19 dicembre il suo appuntamento nella terra dei Casalesi. In una lettera inviata ai compagni di partito, ha però sottolineato quanto sia "importante agire sulla cultura della gente in modo che a disvalori come l’egoismo, il mito del guadagno facile e a tutti i costi, la mortificazione dei meriti, si sostituiscano i valori come la solidarietà, l’accoglienza, le pari opportunità per tutti i ragazzi".

Secondo il leader dell’opposizione è altresì necessario "rivedere la disciplina degli appalti pubblici sia per impedire di aggirare i controlli sulle certificazioni antimafia sia per vigilare ancora meglio sulle amministrazioni". "I Casalesi - ha aggiunto nella missiva - sono una holding criminale con un giro d’affari da miliardi di euro, ma insieme possiamo batterli". Per Veltroni è quindi necessario scongiurare i tagli a scuola e sicurezza: "Sarebbe bene - ha ribadito - che il governo ascoltasse la voce del Paese".

Strategia condivisa da Antonio Bassolino, che ha lanciato "il patto per la sicurezza in provincia di Caserta". "Anche se la materia non è di competenza degli enti locali - ha dichiarato il governatore - metteremo a disposizione risorse regionali e comunitarie, come fatto per Napoli, per dotare le forze dell’ordine di altre volanti e di nuove tecnologie". "Serve uno sforzo nazionale - ha aggiunto - per rafforzare Tribunale e Procura di Santa Maria Gapua Vetere. La seconda parte del processo Spartacus, infatti, può essere a rischio se non si realizza un forte intervento finanziario in termini di mezzi e di un maggiore numero di magistrati. E poi serve una stazione unica appaltante presso l’amministrazione provinciale di Caserta con il supporto di altre istituzioni e un nucleo interforze".

Per il segretario campano del Pd Tino Iannuzzi "l’obiettivo è di costruire una classe dirigente limpida spingendo gli altri partiti a fare lo stesso" mentre per Cristiana Coppola, vicepresidente nazionale di Confindustria, "gli imprenditori stanno combattendo al fianco delle istituzioni contro la criminalità organizzata costituendosi parte civile nei processi".

Il pm Raffaele Cantone ha lanciato un pacchetto di misure per contrastare l’azione della camorra: "Stazione appaltante unica e nuovi meccanismi per gli appalti pubblici, certificazione antimafia per le ditte private, estensione delle pene ai funzionari quando i consigli comunali vengono sciolti per infiltrazioni camorristiche".

E ancora procedure più veloci ed efficaci per la confisca dei beni e istituzione di un’Agenzia nazionale che se ne occupi, agevolazioni fiscali alle aziende precedentemente controllate dai clan allo scopo di salvaguardare i livelli occupazionali evitando il fallimento e infine maggiore tutela per chi denuncia estorsori e delinquenti: "I politici - ha concluso - abbiano il coraggio di non candidare chi non è al di sopra di ogni sospetto e non lascino solo chi si ribella, come Vincenzo Schiavone della clinica Pineta Grande".

Suggerimenti raccolti da Marco Minniti: "Saranno inclusi in una proposta di legge del Pd" ha annunciato. Quindi il ministro dell’Interno del governo-ombra ha puntato il dito contro Nicola Cosentino: "Non è credibile un esecutivo che ha al suo interno un sottosegretario così chiacchierato e accusato da cinque pentiti, il quale mantiene anche la delega ai fondi Cipe. Va rimosso immediatamente".

Quanto all’impiego dell’Esercito, Minniti ha chiarito: "Utilizzarlo nelle grandi città ha solo un valore propagandistico, ma può essere importante nella lotta ai clan a patto che venga accompagnato da adeguati interventi normativi".

Giustizia: gli "arbitrati"; così i giudici si danno aumento da soli

di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

 

Corriere della Sera, 17 novembre 2008

 

Più "amanti" per tutti. Ricordate come il giudice Aldo Quartulli definì gli arbitrati, che consentono ai magistrati amministrativi di guadagnare soldi extra? "Le sentenze sono la moglie, gli incarichi l’amante". Bene: dopo essere stati più volte aboliti e ripristinati, stanno per tornare alla grande.

Grazie a un emendamento che andrà in discussione proprio martedì. Il cuore dell’emendamento, firmato da tre senatori del Pdl, Massimo Baldini, Valter Zanetta e Luigi Grillo (il presidente della commissione Lavori pubblici del Senato rinviato a giudizio per concorso in aggiotaggio per i suoi rapporti con Giampiero Fiorani) è racchiuso in una sola riga: "Sono abrogati i commi 19, 20, 21 e 22 dell’articolo 3 della legge 24 dicembre 2007, n. 244". Arabo, per i non addetti ai lavori.

Ma l’obiettivo è chiaro: vengono abolite le norme introdotte nell’ultima finanziaria del governo Prodi che vietavano alle pubbliche amministrazioni, senza eccezioni, di stipulare contratti contenenti la clausola del ricorso all’arbitrato in caso di disaccordo. Pena, l’intervento della Corte dei conti e pesanti sanzioni.

Riassumiamo? Gli arbitrati (aboliti dal governo Ciampi, ripristinati da Berlusconi, riaboliti da Dini e via così) sono una specie di corsia preferenziale parallela alle cause civili. Se l’ente pubblico che ha commissionato un lavoro e chi quel lavoro lo ha eseguito vanno a litigare sui soldi, possono chiedere che a stabilire le ragioni e i torti non sia la lentissima giustizia civile ma una specie di giurì.

Un arbitro lo nomina un litigante, uno quell’altro e i due insieme nominano il presidente. Niente di male, apparentemente. Se non fosse per due nodi. Primo: gli "arbitri" sono spesso giudici chiamati a decidere "privatamente " su cose che a volte toccano lo stesso Comune, la stessa Provincia, la stessa Regione o lo stesso Ministero su cui possono essere delegati a decidere nelle vesti di membri dei Tar o del Consiglio di Stato.

Secondo nodo: stando ai dati del presidente dell’Autorità per la vigilanza dei lavori pubblici Luigi Giampaolino, lo Stato (guarda coincidenza) perde sempre. O quasi sempre: in 279 arbitrati in due anni tra il luglio 2005 e il giugno 2007, ha vinto appena 15 volte. Sconfitto nel 94,6% dei casi, ha dovuto pagare alle imprese private 715 milioni di euro. Pari al costo del Passante di Mestre.

Va da sé che, oltre ai privati, hanno esultato gli arbitri. Che si sono messi in tasca, euro più euro meno, una cinquantina di milioni. Una cosa "indecorosa", diceva un tempo Franco Frattini invocando "l’incompatibilità totale fra lavoro istituzionale dei giudici e altri incarichi". "Inaccettabile", concorda il Csm che da anni non consente ai giudici civili e penali di accettare arbitrati. "Indecente", insiste Antonio Di Pietro, che più di tutti ha spinto, da ministro delle Infrastrutture, per mettere fine all’andazzo.

Macché: di proroga in proroga, è rimasto tutto come prima. E il divieto assoluto di ricorrere all’arbitrato non è mai entrato, di fatto, in vigore. Peggio: l’emendamento Grillo - Baldini - Zanetta non si limita a ripristinare gli arbitrati. Va oltre. E stabilisce una specie di percorso automatico: o l’ente pubblico e l’impresa privata che vanno in lite si accordano entro un mese oppure, senza più le procedure di prima, si va dritti alla composizione arbitrale. E dato che in questi casi lo Stato perde quasi sempre, va da sé che questo potrebbe spingere perfino le amministrazioni più riluttanti, per non subire oltre il danno la beffa di dover pagare avvocati e spese processuali, a rassegnarsi alla "proposta di accordo bonario".

Cioè alle richieste delle imprese. Coscienti di spazzare via tre lustri di tentativi di moralizzazione avviati da Carlo Azeglio Ciampi, gli autori dell’emendamento hanno sciolto nella pozione uno zuccherino: il dimezzamento dei compensi minimi e massimi dovuti agli arbitri. Evviva! Fermi tutti: salvo la possibilità di aumentare del 25% le parcelle "in merito alla eccezionale complessità delle questioni trattate, alla specifiche competenze utilizzate e all’effettivo lavoro svolto". E chi decide l’aumento? Gli arbitri stessi.

Non bastasse, la sconcertante manovra per rilanciare gli arbitrati mai aboliti arriva nella scia di altri due episodi, diciamo così, controversi, che riguardano gli stessi magistrati amministrativi, da sempre cooptati a decine in questo e quel governo, di sinistra o di destra, come capi di gabinetto o responsabili degli uffici legislativi.

Incarichi che ricoprono continuando a progredire nella carriera giudiziaria come fossero quotidianamente presenti e cumulando i due stipendi. Il primo è la decisione di spostare la definizione delle norme che dovrebbero regolare gli incarichi pubblici. Abolito il tetto massimo di 289 mila euro fissato da Prodi, tetto che arginava alcuni stipendi stratosferici, il governo si era impegnato a fissare le nuove regole entro il 31 ottobre.

Macché: tutto rinviato. Nel frattempo non solo tutto resta come prima, ma alcune società pubbliche come il Poligrafico, la Fincantieri o l’Anas hanno rimosso dai loro siti l’elenco delle consulenze e il loro importo, vale a dire uno dei fiori all’occhiello rivendicato sia dal vecchio governo di sinistra sia da Renato Brunetta. Ma la seconda "eccentricità" è forse ancora più curiosa. Riguarda un concorso. Erano in palio 29 posti di "referendario" (traduzione: giudice) nei Tar.

Presidente della Commissione: Pasquale De Lise, "aggiunto" del Consiglio di Stato e autore di una celebre battuta sugli arbitrati suoi: "Il guadagno legittimo di qualche soldo". Partecipanti: 415 candidati. Ammessi agli orali, svoltisi in queste settimane: 30. E chi c’è, tra questi promossi? Una è Paola Palmarini, docente alla Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze di cui tempo fa era rettore il marito, Vincenzo Fortunato, capo di gabinetto di Giulio Tremonti nonché membro del Consiglio di Presidenza, cioè dell’organo di autogoverno delegato a nominare le commissioni d’esame.

Un’altra è Anna Corrado, moglie di Salvatore Mezzacapo, giudice dei Tar e lui stesso membro dell’organo di autogoverno che sceglie le commissioni. Il terzo è Enrico Mattei fratello del magistrato del Tar Fabio Mattei, ammesso agli orali (dopo essere stato inizialmente scartato), grazie a una sentenza del Tar Lombardia firmata da Pier Maria Piacentini, il quale non molto tempo prima aveva avuto dal già citato organo di autogoverno l’autorizzazione ad assumere un incarico molto ben remunerato "di studio e approfondimento dei problemi concernenti concessioni di valorizzazione dei beni demaniali". Incarico "conferito dal Direttore dell’Agenzia del Demanio". Cioè dalle Finanze.

Giustizia: Sappe; agenti dal Nord alla Sicilia per servizi scorta

 

Comunicato stampa, 17 novembre 2008

 

L’Amministrazione Penitenziaria distacca 30 poliziotti penitenziari da sedi del Nord (fortemente sotto organico di personale) in Sicilia per servizi di tutela e scorta. Durissima protesta del Sappe: "sono tutti in servizio in sedi del Nord Italia, fortemente sotto organico. faremo sit-in davanti al Dap".

"La decisione unilaterale dell’Amministrazione penitenziaria di distaccare ben 30 agenti di Polizia penitenziaria da sedi del Nord Italia (caratterizzate da tempo da una gravissima carenza di Personale) a Palermo, in Sicilia, per assolvere a compiti di tutela e scorta di Autorità, tra le quali pare anche il Ministro della Giustizia Angelino Alfano, è gravissima ed è letteralmente uno schiaffo al Sindacato che da tempo chiede di rinforzare gli organici della Polizia penitenziaria del Nord, gravemente sotto organico. È una decisione arbitraria, fatta senza alcun confronto sindacale, che andrà ad aggravare la situazione delle carceri del Settentrione e renderà ancora più gravose le condizioni dei poliziotti penitenziari che lavorano nel Nord Italia. Questo provvedimento deve essere revocato e per rafforzare la nostra protesta organizzeremo nelle prossime ore un sit-in davanti alle sedi da cui sono stati presi gli agenti e, successivamente, a Roma davanti alla sede dell’Amministrazione penitenziaria".

Durissima presa di posizione di Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria, alla disposizione emanata in questi giorni dall’Amministrazione penitenziaria di Roma.

Gli agenti interessati provengono da Istituti in gravissima sofferenza come Milano, Verona, Ivrea, Torino, Sanremo e da altri penitenziari del Veneto, Lombardia, Piemonte. Tutte regioni e sedi in cui è gravissima la carenza di poliziotti penitenziari. L’Amministrazione penitenziaria, anziché assegnare Agenti in quei Reparti del Nord Italia in cui più è forte la carenza di personale, ne toglie ulteriori per mandarli in Sicilia a non si capisce bene cosa fare, visto che nessuna informativa è stata data ai Sindacati. Chiediamo l’immediata revoca del provvedimento e l’attivazione di un confronto con i Sindacati per predisporre urgenti provvedimenti finalizzati a sanare le gravi carenze di poliziotti penitenziari che si registrano al Nord Italia. Ci appelliamo al Ministro della Giustizia Angelino Alfano perché ci aiuti a fare immediata chiarezza su questo incomprensibile provvedimento che di trasparente non ha proprio nulla".

 

Sappe - Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria

Giustizia: pronta legge per medici, l’errore non sarà più reato

di Margherita De Bac

 

Corriere della Sera, 17 novembre 2008

 

Destino inesorabile per otto su dieci. Denunciati e trascinati in tribunale per sospetta malpractice. Accusati di aver sbagliato. Un rischio che i chirurghi devono mettere in preventivo e dal quale cercano di difendersi con tutte le armi. Ricorrendo ad esempio alla cosiddetta medicina difensiva, cioè prescrivendo al paziente cure, ricoveri, esami che in cuor loro ritengono superflui ma che risulterebbero solidi scudi in caso di processo.

Ogni anno il sistema sanitario pubblico sborsa tra 12 e 20 miliardi per analisi di tipo precauzionale. Una proposta di legge appena depositata ha l’obiettivo di alleggerire "il disagio di fronte alla crescita prepotente del contenzioso medico legale e alla richiesta di risarcimento a tutti i costi".

Un progetto di depenalizzazione dell’errore medico annunciato già a giugno dal sottosegretario al Welfare Fazio, e auspicato dalle categorie dei camici bianchi, chiamati da famiglie e pazienti a sostenere battaglie giudiziarie infinite che in quasi 9 casi su 10 si concludono con l’assoluzione. Primi firmatari Iole Santelli (vicepresidente commissione Affari Costituzionali) e Giuseppe Palumbo (presidente Affari sociali), entrambi Pdl, il provvedimento introduce nel codice penale e civile una serie di aggiunte e nuovi articoli che definiscono la colpa professionale legata ad un atto medico e chiariscono i meccanismi del nesso di causalità.

"Ora la giurisprudenza non dà margini di certezza, i tribunali decidono in modo discrezionale, non c’è uniformità e i cittadini possono fare causa contro tutti e tutto", spiega la Santelli. "Un conto sono imperizia e negligenza che continueranno ad essere punite e resteranno nell’ambito penale - aggiunge Palumbo -. Un altro sono gli errori che non derivano da omissioni o superficialità tecnico scientifica. E allora la causa è civile".

Insomma, sarà meno automatico per i cittadini citare il dottore in giudizio. La legge si affianca a quella già in discussione al Senato, avviata da Antonio Tomassini. Obiettivi "modesti", si spiega nella premessa: "Alleggerire la pressione psicologica sul medico e l’animo a volte vendicativo del paziente nei confronti dei sanitari, accelerare la soluzione delle vertenze giudiziarie". Particolare importanza viene attribuita alle caratteristiche dei periti, al ruolo delle assicurazioni e al consenso informato. Un anno di carcere per chi "sottopone una persona contro la sua volontà a un trattamento arbitrario". "Siamo il Paese col maggior numero di denunce contro la categoria, assieme al Messico - lamenta Rocco Bellantone, segretario della società italiana di chirurgia -.

Solo in Italia i reati medici vengono puniti penalmente, altrove si dà per scontato che chi opera o prescrive una cura non ha un atteggiamento lesivo. Quando sbagliamo siamo accomunati a chi commette un omicidio in stato di ubriachezza". Tra gli specialisti più tartassati, i ginecologi-ostetrici, su cui pesa la doppia responsabilità di mamma e bambino. Tra le contestazioni più frequenti, il ritardato cesareo.

Giustizia: strage Erba; requisitoria del Pm, chiederà ergastolo

 

Corriere della Sera, 17 novembre 2008

 

Dopo sette mesi di pausa e 17 udienze, con la requisitoria del pm Massimo Astori, riprende in Corte d’Assise a Como il processo per la strage di Erba. L’accusa, che ha già annunciato la richiesta di ergastolo, riassume quello che è emerso contro Olindo Romano e Rosa Bazzi, accusati dell’omicidio di Raffaella Castagna, Paola Galli, Valeria Cherubini e del piccolo Youssef. I due rispondono anche del tentato omicidio del testimone Mario Frigerio.

Gli imputati devono anche rispondere di incendio doloso e tentata distruzione di cadavere mediante incendio doloso. Non è esclusa una dichiarazione spontanea di Romano, mentre l’avvocato Roberto Tropenscovino dovrebbe rendere noti i contenuti della lettera scritta nel fine settimana da Azouz Marzouk per motivare lo sciopero della fame che sta attuando da due settimane nel carcere di Vigevano, contro l’espulsione dall’Italia come pena accessoria al patteggiamento a 13 mesi per droga. Espulsione che potrebbe scattare già il primo gennaio, non appena espiata la pena. In aula non è previsto l’arrivo di Mario Frigerio che, secondo quanto riferisce il suo legale di parte civile Manuel Gabrielli, "non sta molto bene", ma ci sarà il giorno della sentenza, forse il 26 di novembre.

 

Il pm: "Un altro viaggio nell’orrore"

 

"Un altro viaggio nell’orrore". È iniziata così la requisitoria del pm di Como Massimo Astori pronto a chiedere la condanna all’ergastolo per Olindo Romano e Rosa Bazzi. Astori ripercorre "d’un fiato" quanto accaduto la notte del quadruplice omicidio "tappa per tappa fino a scrivere quella parola che è stata solo evocata finora: ergastolo". Non sa il pm quanto "una condanna peserà su quell’orrore", ma spiega che "ora è il momento del giudizio e della pacatezza". Astori ha già in mente la sua condanna: ergastolo.

 

L’accusa: "Atto feroce come non mai"

 

"Uno dei più feroci atti criminali che la storia ricordi nel nostro Paese", ha detto il pm di Como. Astori ha fatto una cruda contabilità dei colpi che uccisero Raffaella Castagna, suo figlio Youssef, la madre della donna, Paola Galli, la loro vicina di casa, Valeria Cherubini, e ferirono gravemente il marito di quest’ultima, Mario Frigerio: 76 colpi dei quali 24 furono le sprangate e 52 le coltellate. L’ultima, nell’appartamento di Raffaelle Castagna, uccise Youssef, di poco più di due anni, e fu "vibrata alla gola senza pietà".

 

Le motivazione degli omicidi

 

Secondo la tesi della Procura, Olindo Romano e Rosa Bazzi avrebbero pianificato nell’arco di un anno il massacro pedinando ripetutamente Raffaella Castagna nei suoi spostamenti per recarsi al lavoro. Tutto sarebbe scaturito dalla minaccia di richiesta risarcimento danni per 3.500 euro per le lesioni che la moglie di Azouz Marzouk subì durante una delle solite liti con i coniugi del piano di sotto avvenuta la sera del 31 dicembre 2005. Il processo per quella lite avrebbe dovuto tenersi due giorni dopo la strage.

 

La ricostruzione del magistrato

 

La sera dell’11 dicembre 2006 i Romano dopo essersi procurati coltelli e spranghe e aver disattivato il contatore della corrente della vicina, sarebbero saliti compiendo l’eccidio, accanendosi su Paola Galli e Raffaella Castagna con decine di sprangate e coltellate. Rosa, come lei ammise nelle prime confessioni poi ritrattate come fece pure il marito, si sarebbe scagliata sul piccolo Youssef: "Piangeva così forte e mi faceva venire il mal di testa", disse al gip Nicoletta Cremona. Poi diedero fuoco all’appartamento. Tutto questo pianificato e premeditato. Nell’uscire però l’elemento imprevisto: i coniugi Frigerio, attirati dalle urla e dal fumo causato dall’incendio, erano scesi per vedere cosa stesse accadendo.

Sempre secondo le confessioni ritrattate, Olindo Romano si scagliò su Mario Frigerio sgozzandolo, Rosa Bazzi rincorse Valeria fino alla mansarda superiore massacrandola a coltellate e sprangate. Quindi tornarono nella loro lavanderia, arrotolarono gli abiti e i guanti indossati in un grosso tappeto che caricarono in auto. Si allontanarono da Erba, andarono in un lavatoio non distante per lavarsi del sangue, raggiunsero il Mc Donald’s di Como per crearsi l’albi poi crollato sotto il peso di un misero scontrino. Durante il tragitto gettarono in tre diversi cassonetti, armi e abiti sicuri che sarebbero finiti già all’alba nel forno inceneritore de "La Guzza" di Como.

Lazio: Garante; un altro morto nelle carceri regionali, sono 17

 

Comunicato stampa, 17 novembre 2008

 

"Ancora un morto nelle carceri del Lazio. Ancora un decesso senza motivi apparenti. Quella di venerdì scorso all’interno del carcere di Viterbo è la vittima numero 17 nelle carceri della nostra regione dall’inizio dell’anno. Una vera e propria strage che si consuma nel silenzio di quanti, piuttosto, preferiscono puntare l’attenzione su inasprimento delle condizioni di detenzione e certezza della pena".

È quanto dichiara il Garante Regionale dei diritti dei Detenuti Angiolo Marroni commentando la notizia della morte, avvenuta venerdì scorso, di un detenuto di 35 anni nel carcere "Mammagialla" di Viterbo. Sulle cause del decesso di Emiliano L., questo il nome del detenuto, la Procura avrebbe aperto un fascicolo contro ignoti.

Secondo l’Ufficio del Garante dei detenuti Emiliano è il 17mo morto accertato (16 detenuti e un agente di polizia penitenziaria) nelle carceri del Lazio dall’inizio del 2008 contro gli 11 del 2007 e i dieci del 2006. Quelli deceduti quest’anno sono tutti uomini: sei sono stati i suicidi (compreso l’agente di polizia penitenziaria), quattro i decessi per malattia, sette quelli da accertare o non accertati. I decessi sono avvenuti a Regina Coeli (cinque), Rebibbia (cinque), Viterbo (quattro), Velletri e Frosinone.

"In due mesi, dal 13 settembre ad oggi, abbiamo registrato sei decessi, cinque dei quali per cause da accertare - ha aggiunto il Garante dei detenuti -.

La drammatica conferma che la sicurezza dei cittadini è solo uno dei lati della medaglia: dall’altra parte ci sono, infatti, le precarie condizioni di vita nelle carceri e il sovraffollamento, che impediscono in recupero sociale dei detenuti. Non possiamo più nasconderci: non basta più parlare di nuove strutture o inventare leggi che creano più carcere, come la recente norma che prevede la detenzione per chi abbandona i rifiuti. Serve invece coraggio per immaginare un nuovo sistema che preveda, per i reati meno gravi, il ricorso a pene alternative e forse più dissuasive".

 

Trovato cadavere in carcere, è giallo (Corriere di Viterbo)

 

L’hanno trovato cadavere gli agenti venerdì mattina, a Mammagialla. Era all’interno della sua cella. Sul corpo, non c’erano segni apparenti di "lesività esterna" e le cause della morte, a prima vista, erano inspiegabili. La Procura, appena è stata informata dell’accaduto, ha disposto il sequestro della salma, aprendo, nel contempo, un procedimento contro ignoti. L’autopsia, un esame di rito, è stata già disposta, ed è stata fissata per i prossimi giorni. Probabilmente, si farà nell’obitorio dell’ospedale civitonico Andosilla poiché, ancora adesso, la nuova sala settoria, realizzata nel cimitero di San Lazzaro, non è pronta. Sulle cause della morte dell’uomo, Emiliano Leonetti, non si sa nulla.

L’intento della Procura è quello di capire se, nell’evento, abbiano avuto una qualche responsabilità, ed eventualmente di che tipo, terze persone. Non si tratterebbe comunque di uno di quei casi di suicidio che, recentemente, sembrano essersi intensificati, tanto da mobilitare a fondo sia gli osservatori del sistema penitenziario sia, e soprattutto, il garante per i diritti dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni.

Le indagini, subito avviate, cercano di ricostruire le ultime ore di vita dell’uomo e, soprattutto, il suo reale stato di salute e i suoi possibili contatti. Nessuno, secondo i pochi particolari trapelati, sembrerebbe aver sentito nulla di particolare e, quindi, non sarebbero giunti segnali allarmanti che, in qualche modo, potessero far prevedere l’evento. È un dato accertato che, nel carcere di Viterbo, uno dei fattori di disagio più pesanti è costituito proprio dalla presenza di detenuti in transito, ovvero trasferiti a Mammagialla da altre carceri - in genere romane - con problemi di salute, più o meno rilevanti.

E, questo, sia per quanto riguarda particolari patologie di cui soffrano, sia per il consumo di stupefacenti di cui alcuni di loro, avendolo protratto per anni, scontano le conseguenze. Un problema, quello della medicina penitenziaria, che fa registrare una forte pressione sul carcere, nonostante la presenza di strutture e personale altamente specializzati. Della persona scomparsa, in queste ore, si cerca di ricostruire anche i trascorsi. Ma si tenta pure di capire se, sul piano della vigilanza e dell’assistenza, vi siano state carenze e omissioni: una volta però accertato che, per l’uomo, si potesse comunque fare qualcosa.

La morte, infatti, potrebbe essere stata un evento assolutamente naturale, imprevisto e imprevedibile. La magistratura, comunque, non vuole lasciare nulla di intentato e si intende mettere in luce ogni aspetto anche nascosto della vicenda, in modo tale da non doversi trovare, un giorno, di fronte a contestazioni attinenti a presunte lacune o ritardi nelle indagini. Tutto, ancora una volta,è stato fatto rapidamente e in modo assolutamente adeguato dagli inquirenti. Tornando al carcere, ne vanno ricordati, tra i problemi, la carenza di personale e l’impegno particolare richiesto per la sorveglianza dei detenuti speciali

Pesaro: detenuto 40enne trovato morto, il secondo in 7 giorni

 

Il Messaggero, 17 novembre 2008

 

Dramma nella mattinata di ieri nel carcere di Villa Fastiggi dove è stato trovato morto un detenuto di 40 anni di nazionalità albanese. L’uomo, che doveva scontare una pena legata a piccoli reati, è stato trovato accasciato a terra e quando sono scattati i soccorsi, allertati dagli agenti della polizia penitenziaria, purtroppo per lui non c’era più nulla da fare.

Vano ogni tentativo di rianimare il detenuto da parte dei sanitari del 118 immediatamente intervenuti: probabilmente, stando a un primo accertamento medico, il decesso potrebbe essere dovuto a improvviso malore che ha avuto come conseguenza l’arresto cardiocircolatorio.

Sarà ora compito dell’autopsia, disposta dalla magistratura come da prassi, stabilire con esattezza le cause della morte. Certo è che si tratta del secondo decesso avvenuto all’interno del carcere di Villa Fastiggi nel giro di pochi giorni. All’inizio della scorsa settimana una detenuta italiana di 40 anni, che scontava un periodo di reclusione per spaccio di stupefacenti, è morta accanto alla compagna di cella dopo essere stata colta da malore. E anche nel suo caso il primo referto medico ha parlato di arresto cardiocircolatorio.

Oristano: detenuti di Mamone in permesso aiutano l’ambiente

 

La Nuova Sardegna, 17 novembre 2008

 

Si abbattono "le mura" e si spalancano le pesanti cancellate. È la terza volta, giovedì scorso, nell’arco di 2 settimane, che un gruppo di detenuti della Casa di Reclusione di Mamone visitano e operano a livello ecologico nel centro di Onanì.

Le altre due visite sono state effettuate il 30 ottobre e il 3 novembre, mentre è in programma un quarto appuntamento per il giorno 26. L’iniziativa, recepita dal sindaco Fausto Goddi, è stata promossa dall’assessore ai servizi sociali del comune Giuseppe Contu, nonché impiegato a Mamone e socio dell’associazione Luches Onlus, previa richiesta all’amministrazione penitenziaria e autorizzazione del magistrato di sorveglianza.

Si tratta di un permesso speciale per una giornata di socializzazione. Ogni volta il gruppo di sei detenuti è stato accompagnato da Giuseppe Contu, con la collaborazione in qualche occasione dal parroco di Onanì nonché Cappellano di Mamone don Nicola Porcu.

"Queste persone - ha commentato Contu - spesso non vengono conosciute per quello che sono. Anzi vengono demonizzate. Conoscendole la gente si accorge che sono persone come noi e hanno bisogno di qualche aiuto. Questo è lo scopo dell’iniziativa".

Le due volte precedenti i gruppi erano composti da extracomunitari, l’ultimo, invece, da detenuti della Tunisia, Gana, Nigeria, Costa d’Avorio e un sardo. Al loro arrivo sono stati ricevuti nel comune, dove la segretaria Lorenzina Piras ha invitato il caffè e i dolci. Poi tutti al lavoro di buona lena per pulire le vie del paesello.

"Sono anni - ha sottolineato Contu - che faccio questo tipo di lavoro, ne ho portato fuori almeno 150 e non mai avuto nessun problema". Moncef, tunisino di 40 anni: "Siamo contenti di queste uscite. Facciamo pulizia, per l’ambiente, è un lavoro utile per la società e anche per noi. Lo dobbiamo a signor Contu che ci aiuta, è sempre disponibile".

Il ringraziamento è corale, a tutti. Antonio Varrucciu, 52 anni di Calangianus: "Mi sto divertendo, dopo tanti sforzi per uscire. L’uscita è utile, mi svago, non posso rimanere sempre all’orto". Poi tutti a gustare la cucina del cuoco Antonio Zerbino. Steven 62 anni del Gana "Buono, bello, libertà, mangiare". Dopo le fotografie ricordo,tutti a Mamone con un pezzo di Onanì e una giornata speciale nel cuore.

Imperia: grazie ai detenuti l’uliveto incolto diventerà giardino

 

Secolo XIX, 17 novembre 2008

 

Il progetto, presentato oggi, prevede la riqualificazione di tutta l’area, con la creazione di giochi per bambini, aree attrezzate per i cittadini e gli abitanti e un piccolo campo da bocce per gli anziani.

Un piccolo uliveto abbandonato, situato ai Piani di Imperia, sarà presto restaurato e trasformato in giardino, grazie a un progetto portato avanti dal Comune di Imperia, con la Scuola Edile e la Cassa Ammende della Casa circondariale di Imperia, che vede il contributo di sette detenuti iscritti a un programma di borsa lavoro.

Il progetto, presentato stamani, dall’assessore all’Arredo Urbano, Angela Ardizzone, con il direttore del Carcere di Imperia, Angelo Manes, prevede la riqualificazione di tutta l’area, con la creazione di giochi per bambini, aree attrezzate per i cittadini e gli abitanti e un piccolo campo da bocce per gli anziani.

L’importo dei lavori, circa 250.000 euro, viene finanziato interamente dalla Cassa Ammende. I detenuti verranno pagati con una borsa lavoro del Comune. "Sono molto soddisfatta di questo progetto - ha affermato l’assessore Ardizzone - intanto perché abbiamo dato la possibilità a persone che stanno scontando la loro pena di avere, alla fine del corso, una qualifica di giardiniere. Inoltre, perché riqualifichiamo un’area che restituiamo ai cittadini completamente attrezzata, con un piccolo sforzo economico". Si tratta di un uliveto di circa duemila metri quadrati.

"L’iniziativa - afferma il direttore del carcere di Imperia, Angelo Manes - fa parte di un progetto curato da più istituzioni, che prevede il reinserimento lavorativo di un certo numero di detenuti, che alla fine riceveranno la qualifica di giardiniere. Stiamo studiando anche altre iniziative con il Comune di Imperia, per la pulizia dei giardini e di altre zone della città".

Immigrazione: emergenza clandestini, il business degli appalti

di Guido Ruotolo

 

La Stampa, 17 novembre 2008

 

Nei giorni scorsi si sono presentati al Viminale, al Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, con un provvedimento che tecnicamente è una richiesta di "esibizione di atti". Insomma, hanno presentato un elenco di documenti da dover portare via. Un atto di polizia giudiziaria. Una bomba a orologeria, pronta a esplodere e a deflagrare sul tavolo del ministro dell’Interno, Roberto Maroni.

Al centro dell’attenzione dell’iniziativa giudiziaria è la proclamazione dello stato d’emergenza in tutto il territorio nazionale per l’immigrazione clandestina. Grazie a quel decreto governativo sono stati aperti, a partire da quest’estate, 49 centri provvisori di accoglienza sparsi in tutt’Italia, affidati a trattativa privata in gestione a imprese e associazioni che dovevano garantire l’assistenza agli immigrati, soprattutto richiedenti asilo, che non potevano più essere accolti negli strabocchevoli ex Cpt oggi Cie. Il decreto governativo quando fu varato, alla fine del luglio scorso, sollevò un vespaio di polemiche e di sospetti, con l’opposizione che si interrogava sulle sue "ragioni e finalità". E il ministro Maroni che si difendeva sostenendo che con il decreto "si sarebbe garantita maggiore assistenza ai clandestini, accolti in tutte le regioni italiane".

Il ministero dell’Interno, con l’estensione dello stato d’emergenza dalla sole regioni meridionali (Sicilia, Calabria, Puglia) a tutto il territorio nazionale, ha aperto questi centri per fronteggiare il flusso di migliaia di clandestini sbarcati soprattutto a Lampedusa (nei primi nove mesi del 2008, 27.417 contro i 17.000 dell’anno precedente). Proprio perché si tratta di una situazione d’emergenza, il decreto governativo, infatti, prevede una corsia preferenziale per ridurre al massimo i tempi burocratici e i vincoli imposti dalle gare d’appalto pubbliche. Tutti gli appalti vengono così affidati a privati, a imprese, ditte, associazioni, cooperative che devono avere precisi requisiti e rispettare determinate procedure.

Ma in questo caso, sembra che l’inchiesta giudiziaria abbia accertato che non sono state rispettate neppure le procedure per l’acquisizione delle strutture messe a disposizione da enti locali e associazioni, prive, a quanto trapela, degli stessi certificati di "idoneità" degli stabili stessi. La reazione del Viminale alla visita della polizia giudiziaria è stata di imbarazzo. L’indagine giudiziaria, affidata ai carabinieri del Noe, mira a verificare se sono state rispettate tutte le procedure per l’affidamento della gestione di questi piccoli centri d’accoglienza. In particolare, gli investigatori sono interessati a capire su quali basi sono state scelte le imprese, le associazioni, le cooperative; e se sono stati rispettati tutti i passaggi previsti dalla legge o se sono saltate alcune procedure della stessa normativa.

L’attenzione degli investigatori si sarebbe concentrata su alcune imprese, ditte che gestiscono le mense in più centri e che hanno vinto diverse gare d’appalto per altre istituzioni pubbliche. Tra queste, la società "Auxilium" collegata alla cooperativa "La Cascina". I sospetti riguardano le modalità attraverso cui queste imprese si sono aggiudicate la gestione di alcuni centri. Insomma, potrebbero aver avuto dei santi protettori in paradiso, anzi in Parlamento, che avrebbero influenzato i prefetti e i responsabili del Dipartimento dei diritti civili e dell’immigrazione del Viminale facendo ricadere proprio su quelle imprese la scelta.

Nel paniere dei carabinieri sarebbero finite anche intercettazioni ambientali e telefoniche, testimonianze dei diretti protagonisti che avrebbero confermato più di una anomalia in queste assegnazioni. Colpisce che alcune imprese abbiano ottenuto la gestione di più strutture, che altre si siano aggiudicati i centri per i richiedenti asilo e altri per i centri dell’emergenza nazionale.

L’emergenza clandestini è anche un grande affare. Ogni immigrato che viene ospitato in questi neocentri di accoglienza, in attesa dell’identificazione o dell’esame delle richieste di riconoscimento dello status di rifugiati o di richiedenti asilo e protezione, costa allo Stato una retta quotidiana di circa 55 euro.

Decine di migliaia di euro vengono bruciati ogni giorno. E l’inchiesta partita su un paio di appalti rischia di allargarsi a tutti i centri dell’emergenza immigrati. Mentre il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, nei prossimi giorni annuncerà l’apertura di altri dieci nuovi Centri di identificazione ed espulsione, i Cie.

Immigrazione: io, schiavo al mercato… per due euro e mezzo!

di Paolo Berizzi

 

La Repubblica, 17 novembre 2008

 

Prima cosa: scavalcare. "Lì in mezzo, tra la porta numero 3 e la 4, vai tranquillo", mi suggerisce Driss, un ragazzo marocchino, sorriso sghembo e infreddolito. Se vuoi lavorare come schiavo delle cassette, all’Ortomercato di Milano, devi arrampicarti su questa barriera di ferro - saranno tre metri e mezzo d’altezza - che gira sui quattro lati e che ora traballa per i movimenti accelerati e scomposti di chi sale sopra e salta dall’altra parte. Le quattro di notte. Sono dentro. "Vai al piazzale 60, o al 61, o al 62, o al 63, che c’è lavoro". Calpesti uno dei 450 mila metri quadrati del mercato e ti sbatte addosso la sensazione di essere in un posto dove non sei nient’altro che braccia, ma dove un misero lavoro nero - questo sì - puoi cercarlo in libertà. Senza nessuno che ti punta, che ti intralcia.

Confuso nella suburra dei bancali, file interminabili di pile di scatole di legno e di plastica; odori forti di ortaggi, il freddo che li stampa nelle narici; i fumi dei Tir, 300 ogni notte; i camioncini degli ambulanti che aspettano il carico (il nome del proprietario è scritto sulla ribalta con la vernice spray); i caporali che smistano il traffico umano.

La spianata di cemento di via Lombroso è il regno del racket delle braccia e delle cassette. Si lavora come servi. Sembra di stare nell’800 sudamericano, o nelle campagne meridionali degli anni Cinquanta. Invece è Milano, la capitale economica d’Italia. Mille chilometri dal cottimismo dei pomodorini di Foggia, di Castel Volturno, di Pomigliano d’Arco. L’Ortomercato - 1 milione di tonnellate di merce venduta ogni anno (il 30% va all’estero) - è gestito da una società del Comune (Sogemi).

Qui dentro si carica e si scarica frutta e verdura per sei o anche dieci ore di fila: dall’una di notte alle undici del mattino. Si guadagnano 15-20 euro. Sfruttamento schifoso, tanto al chilo. Ti pago il caffè, dicono gli ambulanti e i grossisti che si presentano in furgone o in Suv ai ragazzi egiziani, marocchini, tunisini, rumeni, albanesi, indiani, filippini, a questo esercito di disperati - qualche centinaio, italiani quasi zero - che ogni notte arriva per tirare su un pò di spiccioli. Molti si rivolgono agli intermediari, i "cacciatori di braccia".

Altri fanno da sé. Si mettono lì, fanno la posta davanti agli ambulanti. Si spostano in gruppi. Seguono la corrente dei muletti che schizzano da un posteggio (gli stand dei venditori) all’altro, portano in giro sempreverdi e primizie di stagione dappertutto nella ragnatela infinita dei capannoni (145 imprese,160 produttori locali). Certe notti gli schiavi delle cassette si accoltellano per mettere le mani su un bancale prima che arrivi un altro. Una guerra dei poveri che deflagra negli anfratti bui che circondano i capannoni.

Cinque minuti dopo le quattro sono di fronte al padiglione C (sud). Giubbotto, berretto di lana, guanti da lavoro. E due braccia da sfruttare. Tra gli stand delle cooperative che brulicano di venditori e compratori e via Varsavia (dove ci sono le porte 3 e 4) si estendono i piazzali di carico più "battuti": dal 59 al 63. È un ufficio di collocamento all’aperto.

Praticamente ci sono solo immigrati extracomunitari. Quelli già al lavoro. Quelli che arrivano alla spicciolata dopo avere scavalcato la cinta vulnerabile come una fetta di burro. Quelli che "comandano", e a cui si appoggiano i verdurai per reclutare manodopera. Ci sono manovali e magazzinieri "fantasma". Sono invisibili come lo sono - incredibilmente - i colleghi che scavalcano da fuori. E nessuno che li fermi mai. Spuntano dalla cabina di carico dei furgoni. Entrano nel mercato dalla porta principale, la 4, come clandestini, nascosti dove poi verrà sistemata la merce. Via Lombroso è una groviera. Altro che i tornelli promessi da Sogemi nel 2007, annunciati alle cooperative in regola - che sono la maggior parte - e mai installati.

"Aspetta qui" mi dice un marocchino sulla quarantina. Paziento tra i bagni fetidi del piazzale 62, un’autoambulanza e una fila di furgoncini. Guardo attorno. Il confine tra l’essere qualcuno o qualcosa e il non essere niente è una fila di mini uffici. Sono i box dei grossisti, disposti lungo il perimetro dei capannoni e anche all’interno. Sono il punto d’approdo di molti "schiavi". I caporali e gli ambulanti li ingaggiano sui piazzali e poi li obbligano a fare la spola tra i camion e gli stand. C’è una confusione pazzesca.

Magari il problema dell’Ortomercato fossero "solo" le tonnellate di eternit (tettoie, tubature, rivestimenti) che il Comune in 43 anni non ha ancora rimosso; magari fossero solo gli autoarticolati che arrivano da tutta Europa e, anziché fermarsi nelle aree di sosta, si infilano nelle stradine che come arterie tagliano il ventre molle del mercato. Di più. Il problema non è nemmeno e soltanto la criminalità organizzata - camorra, mafia, soprattutto ndrangheta - che da vent’anni si infiltra nel più grosso mercato alla distribuzione d’Italia (qui aveva messo radici la cosca calabrese Morabito - Bruzzaniti - Palamara, che faceva partire quintali di cocaina e che aveva aperto un night club nella palazzina della Sogemi).

La vera piaga è il lavoro nero. Diffuso, trasversale, tollerato, indisturbato. Un sistema che sembra far comodo a tutti. Dei 3mila lavoratori dell’Ortofrutticolo si calcola che almeno la metà siano irregolari. Ci sono cooperative che sembrano specializzate nell’offrire lavoro aumma-aumma; alcune chiudono e poi riaprono sulle proprie ceneri. I titolari si "ripuliscono", escono dalla porta e rientrano dalla finestra. E a poco valgono gli sforzi di guardia di finanza, ispettorato del lavoro e sindacati.

Davanti all’ufficio di un grossista che si chiama come il frutto da cui si ricava l’olio, sta per scoppiare una rissa tra egiziani e marocchini. Volano insulti e spintoni. Si ribalta una pila di casse di kiwi. Il solito problema: la guerra dei bancali. Valgono 50 centesimi quando sono carichi di roba. Una goccia nel mare del giro d’affari del mercato (3 milioni di euro al giorno). Il lavoro chiama. Il mio uomo, adesso, è un ambulante italiano, dieci anni di Ortomercato, accento partenopeo intatto.

"Questo deve fare due viaggi", mi dice indicando il vecchio furgone con la fiancata scrostata. Due viaggi "pieni". Vuol dire che bisogna caricare la merce. Mi rimbocco le maniche. Siamo in tre, due fissi, uno, l’ultimo arrivato, temporaneo (per stanotte mi chiamo Alberto e vengo dall’Albania). Affondo in mezzo a muri di arance, cime di rapa, lattuga, melanzane, banane, mele, cavoli. Nadil viene da Tunisi. Si è fatto quattro mesi a San Vittore per spaccio. Adesso è qui a caricare: "Vengo ogni notte ed è l’unico posto dove si trova lavoro senza problemi. Un paio di volte mi ha fermato la polizia, ti cacciano fuori, ma la sera dopo ritorni".

Il capo gira, controlla. Si allontana per trattare coi grossisti la merce da acquistare e portare ai mercati rionali. Poi torna e chiede di fare in fretta. "Ragazzi, qui si lavora... ". C’è chi aspetta il suo turno, qualche "briciola" da raccogliere, qualche cassetta da impilare. È infrequente sentire parlare italiano. Tra chi scarica, il rapporto italiani-stranieri è di uno a trenta. Se non fosse per l’auto della polizia municipale e quella della vigilanza privata Securitalia che ogni quarto d’ora tagliano questa folla di lavoratori in nero - molti clandestini - senza battere ciglio, sembrerebbe di stare in un suk africano. Nel caos, alle cinque e mezza, un muletto investe un ragazzo marocchino (irregolare): frattura alle gambe, ricovero al Paolo Pini. Parte il primo viaggio del "mio" furgone. Continuo a caricare.

Sono sotto un altro "posteggiante". Un tipo tarchiato con gli occhiali che fa lavorare, a giro, una decina di immigrati, qualcuno giovanissimo. Uno mi offre una manciata di semi di finocchio. È l’alba. Al bar del capannone D ci sono un busto di Mussolini e un poster del Duce. Dominano il bancone dall’alto. "Fino a qualche anno fa - ragiona il vecchio operatore ortofrutticolo davanti al caffè - in questi piazzali c’erano le cooperative regolari, adesso è uno schifo, un mercato di schiavi che nessuno vuole o riesce a fermare". I padiglioni e i piazzali mano a mano si svuotano. Gli ultimi tir escono che sono le 6. Ma c’è ancora il tempo per tre ore di lavoro. Sono sempre lì a trasportare cassette. Le ordino sul furgone. Con i miei colleghi africani ci capiamo a gesti. La cosa su cui sembriamo più d’accordo è che, tutti noi, non vediamo l’ora che i furgoni escano da qui per piazzare la merce nei mercati rionali. E che i "capoccia" sborsino il misero salario per troppe ore di lavoro.

Alla fine della notte, quando la luce del giorno rende ogni operazione meno facile, meno fluida, l’ambulante mi chiama da parte. Dietro un camion. Mi paga. Quindici euro per sei ore di carico. Due euro e cinquanta all’ora. Scavalco di nuovo la barriera di ferro, il confine fra il suk e la città. Sempre lì, tra la 3 e la 4, nello stesso punto da cui ero entrato. "Ciao Alberto, se vuoi ci vediamo domani".

Droghe: Europa; 30% detenuti per reati su legge stupefacenti

 

Adnkronos, 17 novembre 2008

 

Ogni anno più di 400 mila persone che fanno uso di droga transitano negli istituti di pena europei, e, tra questi, si stima ci sia un "numero considerevole di consumatori problematici". Una situazione allarmante che ha portato l’Osservatorio Europeo sulle droghe e tossicodipendenze (Oedt), agenzia della Ue con sede a Lisbona, a scrivere nella sua relazione annuale di porre particolare attenzione a questa fascia di consumatori e ai servizi sanitari.

In Europa sono oltre 600mila i detenuti e nella maggior parte dei paesi la percentuale dei condannati per violazioni della legge sulle droghe arriva a sfiorare il 30 per cento. Secondo uno studio Ue condotto tra il 2001 e il 2006, la percentuale di detenuti che dichiara di aver utilizzato sostanze illecite almeno una volta nella vita varia notevolmente a seconda della popolazione carceraria: si va da un terzo circa in Bulgaria, Ungheria e Romania fino all’84 per cento in un carcere femminile in Inghilterra e Galles. La sostanza più utilizzata risulta essere la cannabis. Inoltre in carcere la tipologia di consumo di droga è più nociva, e questo perché, secondo alcuni studi, più di un terzo dei soggetti intervistati ha utilizzato almeno una volta stupefacenti per via parenterale.

Tra il 2006 e i primi mesi del 2007 sei paesi hanno revisionato le linee guida che disciplinano il diritto dei detenuti al trattamento terapeutico. A partire dal Belgio, dove una direttiva del ministero della Giustizia ha stabilito che i detenuti hanno diritto alle stesse opzioni terapeutiche disponibili all’esterno del carcere. Anche l’Irlanda ha varato nuove linee guida per definire lo standard sanitario dei servizi terapeutici, stabilendo che non sia inferiore a quelli erogati in comunità. La Norvegia ha rafforzato la cooperazione tra i rispettivi settori di competenza, mentre in Danimarca una modifica della legge del gennaio 2007 consente ai detenuti tossicodipendenti di accedere gratuitamente alla terapia di disintossicazione.

In Romania i ministri di Giustizia, Salute pubblica e Amministrazione e Affari interni, hanno esteso l’erogazione della terapia sostitutiva alle carceri con programmi integrati di assistenza medica, psicologica e sociale per i detenuti. Infine la Slovacchia ha concesso la fornitura di servizi psicologici ai tossicodipendenti in detenzione provvisoria che hanno i sintomi dell’astinenza forzata dopo l’inizio della detenzione.

La Relazione annuale dimostra però che, benché i livelli di consumo delle sostanze stupefacenti continuino a essere storicamente elevati, sembra essere iniziata una fase di maggiore stabilità. Per la gran parte delle forme di consumo, non si sono infatti registrati incrementi importanti, anzi, in alcune aree sembra piuttosto esserci una tendenza alla diminuzione. Come nel caso degli indicatori del consumo di anfetamine ed ecstasy, che mostrano una situazione generale di stabilità o addirittura declino; in alcuni paesi, anche il consumo di cannabis si sta stabilizzando o sta diminuendo tra i giovani.

La disponibilità delle opzioni terapeutiche, inoltre, pur essendo ancora insufficiente, continua a migliorare in Europa. Infine, nella relazione si sottolinea una maggior coesione a livello europeo nelle soluzioni scelte dagli Stati membri per fronteggiare il problema. Infatti, 26 Stati membri dell’Ue, oltre la Croazia, la Turchia e la Norvegia, hanno adottato un documento strategico nazionale in materia di droga. L’ultimo anno è stato di intensa attività politica sul piano nazionale, dal momento che circa la metà degli Stati membri si trova in fasi diverse di un processo di revisione e rielaborazione dei rispettivi documenti strategici.

Svizzera: consigli anti-crisi; investite nelle prigioni americane

di Franco Zantonelli

 

La Repubblica, 17 novembre 2008

 

Investire i propri soldi nelle prigioni. L’ultima trovata dei banchieri svizzeri, con più fantasia che scrupoli, propone fondi di investimento alimentati dai profitti delle carceri private statunitensi. Alla base un ragionamento che non fa una grinza: c’è la recessione, una delle conseguenze sarà l’aumento della criminalità e, quindi, le carceri diventeranno sempre più un business.

Così il Credito Svizzero, la seconda banca elvetica, dopo aver subìto un rovescio finanziario colossale, sonda strade alternative per i suoi clienti alla ricerca di redditività. E ha scoperto che le carceri private rendono soldi e attirano finanziamenti pubblici perché consentono risparmi dal 15 al 20%, rispetto a quelle statali. Nel mondo, in primo luogo negli Stati Uniti, ma anche in Australia e in Gran Bretagna, ne esistono 180, alcune con oltre 2 mila detenuti.

L’idea del Credito Svizzero ha fatto però indignare Amnesty International, che accusa la banca di "cinismo allo stato puro". In un’intervista al quotidiano Le Matin di Ginevra Danièle Gosteli Hauser, responsabile della sezione Economia e Diritti Umani, si dice "choccata" e non riesce a credere che uno dei protagonisti di uno dei più gravi crack finanziari della storia, possa pensare di speculare sull’aumento della criminalità dovuto proprio a questa crisi.

"Questa storia dimostra che i soldi non puzzano", stigmatizza, dal canto suo, l’economista Paul H. Gambinsky, fondatore dell’Osservatorio della Finanza di Ginevra. "Le banche - aggiunge - stanno cercando nuove vacche da mungere, oggi che i settori tradizionali di investimento hanno il fiato corto".

Il Credito Svizzero non commenta le polemiche, limitandosi a definire la propria iniziativa tramite un portavoce: "Era un’informazione interna non destinata alla stampa", mentre una fonte anonima della banca parla di "nuovo regalo avvelenato dei nostri amici americani".

Ma le prigioni private possono, davvero, costituire un business? Giacinto Colombo, che ha operato in diverse organizzazioni non governative svizzere specializzate in consulenza carceraria, ritiene che "anche in questo ambito il privato arriva prima del pubblico, stabilisce i prezzi e riesce a fare utili. Non a caso negli Stati Uniti esistono società che gestiscono carceri che sono quotate in Borsa".

Del resto, riflette l’esperto, proprio negli Usa, dove c’è un tasso di detenzione di 600 detenuti ogni 100 mila abitanti, contro gli 85 della media europea, "le carceri non saranno mai vuote e, di conseguenza, costituiscono un investimento sicuro. Contrariamente agli alberghi, non dipendono dall’evoluzione della congiuntura".

Quanto ai dubbi etici, il professor Gambisnky si domanda: "Oggi che si parla tanto di fondi di investimento socialmente responsabili, il Credito Svizzero arriva con la proposta di investire nelle prigioni statunitensi: come può pensare di attirare dei clienti sfruttando le disgrazie dei detenuti americani proprio non riesco a comprenderlo".

Grecia: l’inferno nelle carceri, scoppia la rivolta tra i detenuti

 

Il Manifesto, 17 novembre 2008

 

Maltrattamenti, pestaggi e torture sono all’ordine del giorno nelle carceri greche, tra le più sovraffollate d’Europa. E non solo: la mancanza del personale medico, la sporcizia nelle celle e negli spazi comuni - non a caso epatite e altre malattie sono diffusissime -, ma soprattutto il regolamento disciplinare, sempre più rigido, danno l’immagine di un vero e proprio inferno. Non a caso nelle carceri greche, solo nel 2007 57 detenuti hanno perso la vita in modo drammatico. Tra loro Matiea, di 15 anni, incarcerato per tre grammi di hashish, che ha preferito impiccarsi piuttosto che continuare a subire maltrattamenti.

"È ora di porre fine a questa situazione" dicono migliaia di detenuti disperati, che hanno iniziato uno sciopero della fame illimitato. Niente rivolte, come nel passato, che sono finite in sanguinose repressioni. Questa volta la "resistenza", cominciata il 3 novembre, è silenziosa e si estende a tutti i 21 istituti penitenziari del paese. Più di 5600, tra i quali anche i minorenni nelle prigioni di Avlona, Diavata e Volos, sono i detenuti in sciopero della fame; una ventina di essi, fra cui greci, kurdi e afghani nelle prigioni di Trikala e Grevena, si sono cuciti la bocca con ago e filo, mentre le donne, oltre il cibo, rifiutano anche i liquidi per ottenere migliori condizioni e il rispetto dei loro diritti nell’inferno carcerario.

Che la situazione è disumana lo dimostrano anche i numeri. 12.200 sono i reclusi nelle prigioni greche, che al massimo possono "ospitare" 7.000 detenuti. Più della metà sono stranieri e la maggioranza è incarcerata per reati legati all’uso di droga. Migranti, insomma, e gente povera che ha bisogno di cure. Soltanto 700 sono i detenuti per reati gravi. Al contrario, non sono pochi i casi di ragazzi che scontano pene di molti anni nel momento in cui alcuni giudici sono coinvolti in scandali di scarcerazione di grossi trafficanti di droga.

Inoltre, centinaia sono quelli in attesa di giudizio, visto che secondo la legislazione greca una persona può essere detenuta fino ai 18 mesi prima di essere processata. Nello stabilimento carcerario più grande del paese, la prigione di Korydallos ad Atene, dove stanno 2.500 detenuti, mentre ha 650 posti, ogni mattina i megafoni "invitano" i reclusi a mettersi in fila per ricevere calmanti e altri psicofarmaci.

Che la situazione è drammatica lo ammettono tutti. Il presidente della repubblica, Karolos Papoulias, che ha convocato il ministro della giustizia per essere informato sulla situazione nelle carceri, ha detto che "la risoluzione dei problemi riguarda la qualità della nostra democrazia". Il famoso compositore Mikis Teodorakis, 83 anni, che fu incarcerato durante il regime dei colonnelli, ha inviato un messaggio nel quale afferma che "sono al vostro fianco, anche se non dispongo di altre forze", sottolineando che "tutti i greci dovranno vergognarsi di ciò che accade dietro le sbarre di ogni carcere". Sulla stessa lunghezza d’onda anche l’intervento di Manolis Glezos, 86 anni, eroe della resistenza contro i nazisti, il quale unisce "la propria voce al grido di disperazione di migliaia di detenuti contro le condizioni disumane che si vivono nelle carceri".

Ma più di loro sono gli stessi detenuti, che parlano di condizioni vergognose, di soprusi e aggressioni regolari, di umiliazioni e intimidazioni da parte di polizia e agenti penitenziari, del tempo estremamente breve per passeggiare nel cortile del penitenziario. Detenuti che raccontano come sono stati bruciati vivi quattro loro compagni perché le guardie, durante un incendio al carcere di Korydallos l’anno scorso, non li lasciavano uscire dalle celle; oppure come dormono nei corridoi, nelle toilette e nelle celle "uno sopra all’altro". Vecchi che soffrono di cancro all’ultimo stadio e non ottengono la scarcerazione, oppure giovani tossicodipendenti che dovrebbero essere curati ma muoiono senza nessun aiuto.

I "prigionieri dell’inferno", come si autodefiniscono in un documento, affermano essere "stanchi delle false promesse di tutti i ministri della giustizia degli ultimi dieci anni", e chiedono tra l’altro il miglioramento delle condizioni nelle carceri, la fine delle pesanti pene disciplinari, la chiusura dei riformatori giovanili, una revisione delle detenzioni per droga, la riduzione dei periodi di attesa per i processi, migliori condizioni di igiene e assistenza sanitaria.

Come ha reagito il ministro Sotiris Chatzidakis? Dopo il suo incontro con il premier Kostas Karamanlis per discutere il problema, ha visto anche i rappresentanti dei reclusi e ha ribadito loro la sua disponibilità a una serie di riforme. Panos Lambrou, membro dell’Iniziativa per i diritti dei prigionieri afferma che ci sono speranze che dalle parole si passi ai fatti, ma esprime il suo scetticismo.

Il consiglio speciale per le prigioni si è riunito in urgenza dopo l’ennesimo intervento dell’ordine degli avvocati e di organizzazioni non governative per presentare una serie di raccomandazioni: minore tempo di detenzione per chi è in attesa di giudizio, scarcerazione limitata per certe categorie di malati, ecc. Soltanto che, a sentire i detenuti, avvocati e organizzazioni per i diritti umani, queste misure per migliorare le condizioni e sfoltire le carceri "sono insufficienti".

Usa: a Guantanamo ci sono almeno una dozzina di minorenni

 

Associated Press, 17 novembre 2008

 

Il Dipartimento alla Difesa degli Stati uniti ha annunciato oggi d’aver rivisto al rialzo la stima del numero dei prigionieri minorenni detenuti nella struttura carceraria speciale di Guantanamo, a Cuba.

Secondo la nuova valutazione, i minorenni detenuti sono una dozzina. La precedente stima, comunicata all’agenzia delle Nazioni unite per i diritti dell’infanzia (Unicef), era di otto.

Il portavoce del Pentagono Jeffrey Gordon ha spiegato che la discrepanza nelle stime sarebbe dovuta al fatto che alcuni dei giovani detenuti non conosce la propria data di nascita e quindi non è stato facile definire quanti dei prigionieri abbiano meno di 18 anni. I gruppi per i diritti civili hanno chiesto una precisa identificazione dei minorenni che, in base alle norme internazionale, godono di una speciale protezione.

Germania: fugge da carcere nascosto dentro scatola di cartone

 

Associated Press, 17 novembre 2008

 

Non è la storia di un film o di una serie Tv, ma un fatto realmente accaduto pochi giorni fa nel carcere di Willich, a pochi chilometri da Düsseldorf: il 42enne di origine turca Hans Lang, condannato a 7 anni di prigione per detenzione di droga e spaccio, è riuscito ad evadere infilandosi in un cartone 150×120 e facendosi spedire tramite corriere. Lang lavorava da un po' di tempo nella tipografia del penitenziario, da dove spesso partivano pacchi destinati a negozi ed attività. In occasione di una grossa spedizione e forse con l’aiuto di alcuni complici, il 42enne si è quindi fatto chiudere in una scatolone nascosto tra i tanti in partenza. Nessuno ha controllato e il piano ha avuto successo.

Inutile dire che una volta varcato il cancello del carcere Lang è saltato giù dal furgone e si è dileguato, forse grazie a qualche altro complice. Ora in tutta la Germania è caccia all’uomo che, secondo le autorità locali, è ancora nascosto in zona in attesa che si calmino un po' le acque.

 

 

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