Rassegna stampa 30 luglio

 

Giustizia: così il "carcere duro" diventerà… ancora più duro!

di Patrizio Gonnella (Presidente Associazione Antigone)

 

Italia Oggi, 30 luglio 2008

 

È alle porte un ulteriore irrigidimento del carcere duro, il regime disciplinato dall’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario. Ci aveva provato il precedente governo Prodi a modificarlo quando il 3 maggio 2007: l’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella, sentito in audizione formale dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa, preannunciò un disegno di legge governativo diretto a inasprire i contenuti della legge.

Il 41-bis, introdotto nel 1991 con il decreto Scotti-Martelli, ha visto la sua definitiva stabilizzazione nel 2002 con la legge n. 279. Nelle scorse settimane vi sono state molte polemiche sulla riduzione del numero dei detenuti soggetti a tale regime. Ciò sarebbe stato determinato dal forte incremento dei ricorsi, e, di conseguenza, dell’aumento degli annullamenti da parte della magistratura di sorveglianza dei provvedimenti applicativi del 41-bis. Alcuni dei punti presenti nel testo preannunciato dall’ex ministro Mastella sono oggi ricomparsi nel disegno di legge che ha come primo firmatario il senatore Carlo Vizzini, Presidente della Commissione Affari Costituzionali di Palazzo Madama. La proposta di modifica dell’attuale 41-bis si articola in tre punti:

l’innalzamento della durata del regime speciale sino a tre anni (e mai inferiore a due), a loro volta prorogabili; attualmente il limite massimo è invece di due anni mentre il limite minimo è di un anno;

l’inversione dell’onere della prova riguardante la cessazione del rapporto con l’organizzazione criminale di appartenenza facendola gravare sul detenuto, divenendo così una sorta di probatio diabolica; il detenuto deve specificatamente dimostrare che sia cessata la partecipazione o comunque ogni altra forma di collegamento o di contatto con il sodalizio criminoso di appartenenza ovvero ad altre organizzazioni criminali, terroristiche o eversive (oggi, viceversa, spetta all’amministrazione dimostrare la sussistenza del legame criminale con la cosca mafiosa);

la previsione della competenza territoriale sui reclami al solo Tribunale di Sorveglianza presso la Corte di appello di Roma, in modo, si afferma, da assicurare uniformità nell’applicazione della normativa ed evitare un’eccessiva eterogeneità di orientamenti giurisprudenziali da parte dei diversi tribunali.

Nei giorni immediatamente successivi all’annuncio del senatore Vizzini, in occasione del sedicesimo anniversario della morte di Paolo Borsellino, il ministro della giustizia Angelino Alfano, a sua volta, ha annunciato un inasprimento del 41-bis per via amministrativa con circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Viene disposto lo spostamento dei boss sottoposti al regime del 41-bis in celle lontane tra loro, allo scopo di evitare qualsiasi possibile contatto vocale. Nell’ipotesi di inosservanza della disposizione suddetta i detenuti potranno essere assoggettati a procedimento disciplinare.

Inoltre, viene ridotta ancora di più rispetto a oggi la possibilità di fare la socialità in gruppo, ossia di poter incontrare altri detenuti durante le ore di aria. La proposta di riforma troverà prevedibilmente la legittima resistenza dell’avvocatura e della magistratura di sorveglianza, la quale rischia di vedersi esautorate del tutto le proprie funzioni di controllo. Su questo tema sia le Camere Penali sia l’Associazione Nazionale Magistrati sono intervenute a difesa delle prerogative di controllo dei Giudici di Sorveglianza. D’altronde, sia la Corte europea dei diritti umani sia la Corte costituzionale hanno condizionato il loro sì al regime speciale solo in quanto la legge sia capace di garantire un effettivo ed efficace controllo giu-risdizionale sui provvedimenti amministrativi di compressione dei diritti dei detenuti che vi sono sottoposti, altrimenti il rischio è la violazione dell’articolo 27 della Costituzione. Il numero totale dei detenuti assoggettati al regime duro oggi sfiora le 600 unità. Erano 678 nel dicembre del 2002, nei giorni in cui veniva modificato l’articolo 41-bis della legge penitenziaria.

Giustizia: Gonnella; diritti umani, ma ora il Governo si fermi

 

Comunicato stampa, 30 luglio 2008

 

I diritti umani sono una cosa seria. Ce lo ha ricordato il Commissario del Consiglio d’Europa. In un Paese democratico il rispetto degli organismi internazionali avrebbe dovuto indurre i governanti a fermarsi, a lasciar perdere ogni politica repressiva irragionevole nei confronti degli immigrati.

Dopo le accuse di violenze gratuite da parte delle forze dell’ordine l’unica risposta ragionevole e rispettosa del ruolo sovra-nazionale dell’Alto Commissario per i diritti Umani di Strasburgo avrebbe dovuto essere quella di attivare una inchiesta interna e di dare il via libera a due leggi sacrosante: il Difensore Civico delle persone private della libertà (cosa che Sarkozy ha fatto immediatamente dopo la sua elezione) e l’introduzione del crimine d tortura. Invece no! Il nostro governo come ai tempi bui del fascismo si chiude nelle sue certezze illiberali e grida scompostamente contro l’invasore straniero.

 

Patrizio Gonnella, Presidente Associazione Antigone

Giustizia: "Antigone" istituisce Difensore Civico dei detenuti

 

Comunicato stampa, 30 luglio 2008

 

L’associazione Antigone vista la difficoltà - impossibilità - disinteresse a dar vita a un difensore civico nazionale per i detenuti, ha deciso di promuoverne la istituzione informale: un difensore civico di Antigone, che sia di stimolo e di denuncia di un decennio di insipienza parlamentare e che ci consenta di seguire e promuovere iniziative politiche a partire da casi e denunce provenienti dalle carceri. Nell’Unione Europea, prima dell’ingresso della Bulgaria e della Romania, ben 23 stati su 25 avevano istituito una figura simile.

Il Difensore Civico di Antigone rafforzerà gli strumenti di tutela dei diritti umani e dei diritti delle persone private della libertà attraverso visite periodiche negli istituti di pena e prestando assistenza amministrativa e legale a vantaggio dei detenuti. L’organismo si avvarrà degli osservatori volontari dell’Associazione, di un team legale e collaborerà attivamente con i garanti promossi dagli enti locali e dalle regioni. Chiunque potrà segnalare situazioni di disagio diffuso nelle carceri o vicende individuali scrivendo una lettera al Difensore Civico di Antigone (Via Principe Eugenio 31, 00185 Roma) o una mail (difensorecivico@associazioneantigone.it), o telefonando (06.44363191 - 331.8535104).

Giustizia: nei tribunali, tra costi da tagliare e falle da tappare

di Dario Ferrara

 

www.giuffre.it, 30 luglio 2008

 

Palamara (Anm): "Non avremo giudici per i processi ai rapinatori". La scure del Tesoro su spese correnti e personale. I sindacati: "Macchina inceppata.

È un tranquillo pomeriggio di ordinaria canicola nella rovente estate romana. In via Arenula un vecchietto sfida l’afa dirigendosi spedito verso la portineria del ministero della Giustizia. Nonostante l’aspetto impeccabile, l’inappuntabile completo chiaro di lino con la cravatta un po’ démodé e la rassicurante canizie, l’anziano signore sembra dire frasi sconnesse: chiede del Guardasigilli, vuole sapere che ne è dei 46 euro che ha versato al Dicastero l’anno scorso. Gran brutta cosa quando l’età si fa sentire, si danno di gomito gli impiegati. Ecco: se oggi un episodio del genere accadesse davvero, l’arzillo vegliardo sarebbe presto affidato alle cure degli "angeli custodi" del ministro: gli agenti della polizia penitenziaria probabilmente offrirebbero al nonnetto una bibita fresca, tanto per schiarirsi le idee.

Standard comunitari. Eppure, a pensarci bene, l’idea non è affatto peregrina. Dove vanno a finire le risorse pubbliche stanziate per tribunali e processi, giudici e pm? A questo punto la domanda, direbbe qualcuno, sorge spontanea: Giustizia, ma quanto mi costi? Parecchio, a giudicare dalla stretta annunciata dal Governo che al bilancio di via Arenula taglia 210 milioni di euro per il 2009, 250 per il 2010 e 442 per il 2011. E comunque la risposta all’interrogativo passa per i 46 euro di cui sembrava vaneggiare il vecchietto e che invece rappresentano la somma per abitante destinata annualmente alla Giustizia in Italia (come certifica la Commissione tecnica per la finanza pubblica, in breve Ctfp, su dati elaborati dalla Cepej, la Commissione per l’efficienza della giustizia creata dal Consiglio d’Europa). Il budget nostrano risulta in linea con quello previsto da altri importanti Paesi comunitari come Germania (53 euro), Svezia (44) e Olanda (41).

Ma c’è un ma. In questi Stati, a parità di materie trattate, i processi civili si svolgono in meno di metà del tempo necessario da noi: in Italia le cause durano in media 116 mesi, quasi dieci anni, contro i 34 mesi dell’Austria. E servono 582 giorni per un divorzio, 696 per un licenziamento, 1.210 per un inadempimento contrattuale: almeno questi sono i tempi medi della cause nostrane individuati dalla Cepej. Eppure i giudici italiani sono 1,39 ogni diecimila abitanti contro la media dello 0,91 degli altri Paesi europei e il bilancio del Ministero non è trascurabile: in termini di spese rappresenta l’1,7 per cento di quello dello Stato, secondo quanto certifica la Commissione Spending Rewiew nominata dal ministero dell’Economia nell’ultimo scorcio della scorsa legislatura.

Illuminante, per chi si aggira nelle vaste zone d’ombra del pianeta Giustizia, il Libro verde sulla spesa pubblica realizzato dalla Ctfp. Evidentemente c’è qualcosa che non va. A lasciarlo intendere è l’attrezzatissima Commissione europea sulla base di dati confermati dal Consiglio d’Europa e citati anche dalla Corte di cassazione italiana. Ancora: nella graduatoria del rapporto Doing Business 2008 della Banca Mondiale il nostro Paese occupa la posizione numero 155 (su 178) e da anni si dibatte nei bassifondi della classifica a causa dei "processi-lumaca" che generano "incertezza negli scambi e scoraggiano gli investitori".

Bankitalia non è certo più tenera: soltanto per arrivare alla conclusione di un procedimento civile di cognizione ordinaria di primo grado occorrono oltre due anni e sette mesi, ammonisce la Relazione annuale 2007 del governatore Mario Draghi. L’ufficio studi di Palazzo Koch punta il dito: "Carenze significative rimangono sotto il profilo organizzativo" (cfr. i documenti nel numero arretrato del 7 giugno 2008). "Certo, sarebbe opportuno rivedere i criteri di spesa e la distribuzione delle risorse", conviene Pierluigi Tirale, segretario del Consiglio nazionale forense, che riunisce gli interlocutori più qualificati del servizio-Giustizia.

Penitenziari in sofferenza. Allora: detto in soldoni, le risorse ci sono ma vanno usate meglio, spiega la Commissione di via XX settembre. Vediamo perché. Secondo i dati della Ragioneria generale dello Stato nel 2008 l’importo di competenza del ministero della Giustizia è di 7,5 miliardi di euro (era 7,7 nel 2007, 7,8 nel 2006, 7,3 nel 2005, 7,7 nel 2004, 6,2 nel 2003). Una cifra enorme, apparentemente. Ma il giovane Guardasigilli Angelino Alfano deve far funzionare una macchina elefantiaca tra Uffici del giudice di pace (848), Tribunali e relative Procure (165 più 220 sezioni distaccate di Tribunale), Tribunali per minorenni (29), Corti d’appello (29, di cui 3 sezioni distaccate), la Corte di cassazione e relativa Procura generale, il Tribunale superiore delle acque pubbliche.

Senza dimenticare l’Amministrazione Penitenziaria, che nel confronto con la vicina Francia, ad esempio, esce con le ossa rotte: a fronte di una sostanziale parità di detenuti nel 2007, 59 mila da noi contro i 58 mila d’Oltralpe, gli agenti di Polizia Penitenziaria nostrani sono oltre 41 mila a fronte di poco meno dei 31 mila transalpini, con uno stanziamento di risorse annuali, però, che ammonta a 2,8 miliardi di euro contro 1,8; una bella gatta da pelare, insomma, per il pm antiterrorismo Franco Ionta, che sostituisce Ettore Ferrara al vertice del Dipartimento (il via libera all’incarico per il procuratore aggiunto di Roma è arrivato dal Csm lo scorso 23 luglio).

Quando ci sono tante voci da coprire, allora, è inutile stupirsi di un budget previsionale di 7,5 miliardi per l’esercizio 2008, il primo a risentire dalla riclassificazione del bilancio dello Stato per missioni e programmi. Oltre 4 miliardi vanno al programma "Giustizia civile e penale", di cui 3 per il funzionamento, 866 milioni per gli interventi e 68 per gli investimenti. Al programma "Edilizia giudiziaria, penitenziaria e minorile" spettano 200 milioni e a quello "Giustizia minorile" 147. Sui 2,8 miliardi destinati all’Amministrazione penitenziaria, 2,3 miliardi sono di competenza del funzionamento, 402 milioni vanno agli interventi e 57 milioni agli investimenti.

Ministeriali sul fondo. Fin qui le cifre. Ma adesso il punto è: dove tagliare? Sui costi del personale e sulle spese per consumi intermedi, che insieme rappresentano l’85 per cento delle uscite (rispettivamente il 66 e il 19 per cento): lo suggerisce la Commissione tecnica per la finanza pubblica. E il ministro dell’Economia Giulio Tremonti sembra avere preso in parola il brain trust voluto dal suo predecessore Tommaso Padoa Schioppa.

C’è chi lamenta che con la stretta sulle spese primarie sarà a rischio perfino la cancelleria. I sindacati di chi lavora nell’Amministrazione che dicono? "C’è una situazione drammatica - sospira Eugenio Marra, coordinatore responsabile Fp giudiziario Cisl - lo Stato non investe nella Giustizia". Sarà, ma ci costa comunque 46 euro l’anno a cranio.

Provocazione raccolta: "Ma lei è mai stato in un tribunale? A Roma, ad esempio, in piazzale Clodio. Oppure a Milano: le strutture sono fatiscenti - sibila il dirigente -. E poi ci sono carenze di personale". A fronte di un organico di 47.372 unità nella dotazione del Ministero, lamentano le organizzazioni dei lavoratori, si rilevano 40.483 presenze e, dunque, anche 6.889 posti potenziali da coprire, dal commesso al direttore di cancelleria. Ancora assunzioni? Macché: nel dl 112/08 è confermato il blocco.

E per chi invece il posto a vita ce l’ha già, è in arrivo un piccolo dispiacere: "Come tutti i dipendenti ministeriali - racconta Marra - quelli della Giustizia hanno un fondo unico di amministrazione (il cosiddetto Fua, ndr) da cui attingere il salario accessorio, vale dire la retribuzione legata alla produttività, cioè agli obiettivi raggiunti, che si aggiunge alla paga base e vale per tutto il personale non dirigente. Il dl 112/08 - lamenta il sindacalista - dispone il taglio del Fua, che è ridotto del 10 per cento". Con effetto a cascata per i dipendenti.

La scure e la toga. Stavolta, però, le forbici del ministro mirano anche più in alto. Alle tasche di giudici e pm, ad esempio. Il ruolo della magistratura ordinaria prevede oltre 10 mila toghe, ma in organico ne risultano 9.153 (anche se i posti saranno coperti entro il 2010 dai concorsi espletati, banditi o in via di indizione). La categoria, fra l’altro, vanta un’anzianità media di servizio fra le più alte nel pubblico impiego, insieme con la carriera prefettizia e i dipendenti della presidenza del Consiglio dei ministri. E dunque pesa non poco sul bilancio pubblico, con una retribuzione media di comparto pari a 114.646 euro e un costo del lavoro annuale complessivo di 1,6 miliardi di euro stimati dalla Ragioneria generale dello Stato (dati 2006, i più recenti disponibili).

Senza contare che negli uffici con funzioni giudicanti, Cassazione esclusa, il 67 per cento dei magistrati ha un ruolo - e la corrispondente retribuzione - superiore alle funzioni svolte. Insomma, Tremonti ha fatto due conti e i risultati stanno nel dl 112/08 (la Camera ha votato lunedì 21 luglio la fiducia per la conversione in legge: il testo è attualmente all’esame del Senato). "Intervento peggiorativo senza precedenti", attacca subito l’Associazione nazionale magistrati quando il Governo approva il provvedimento. "Ma era riferito alla norma blocca-processi", corregge il tiro Luca Palamara, presidente dell’Anm. D’accordo, ma un comunicato dell’Anm sull’intervento previsto per il trattamento retributivo dei magistrati parlava di "ulteriore svilimento della funzione giudiziaria".

Scenario 1: "In soldoni - ricostruisce Palamara - la situazione che abbiamo rappresentato al sottosegretario Gianni Letta (alla presidenza del Consiglio, ndr) era questa: la carriera che normalmente un magistrato faceva in venti anni, a livello retributivo, ora sarebbe necessario farla in trenta". Scatti più lenti, insomma, e la stretta riguarda anche docenti universitari, dirigenti di Polizia e ufficiali delle Forze armate.

Ma il leader della magistratura associata non ci sta, sottolineando che tuttavia l’Anm si è spesso dichiarata disponibile ad accettare sacrifici per tutelare i colleghi più giovani: "Tutto questo - accusa il pm romano - è stato fatto con un decreto legge, con un atto unilaterale, con tanto di necessità e urgenza: una situazione che ci ha lasciato alquanto perplessi. E "perplessi" è un eufemismo, la parola più buona che mi è venuta in mente: i giovani perderebbero dieci anni di carriera rispetto alla generazione precedente di colleghi".

Però c’è lo scenario 2: "È una situazione - racconta il leader dell’associazione - che abbiamo rappresentato in una maniera molto forte al sottosegretario Letta, che ha capito che si verificherebbe una netta sperequazione fra i magistrati fra le varie classi di età: quindi è stata avanzata una proposta migliorativa". In che consiste? "Per un anno ci sarebbe un mancato aumento. Aspettiamo che sia approvata. Anche se riteniamo che la norma (articolo 69 del dl 112/08, ndr) dovesse essere eliminata nella sua totalità".

Forze nuove. La magistratura associata, comunque, non vuole parlare soltanto di questioni legate alla retribuzione. Anzi. I dirigenti dell’Anm sono di ritorno da una missione in Calabria e Sicilia, una ricognizione nel profondo Sud delle sedi disagiate: "È emerso che molti uffici giudiziari chiuderanno", taglia corto il presidente Palamara.

Come sarebbe a dire? "Non avremo giudici per fare il processo ai rapinatori, ai pedofili", denuncia con tono pacato ma fermo. Nel mirino c’è la norma che impedisce di destinare i giovani magistrati al termine del tirocinio a funzioni requirenti oppure giudicanti monocratiche penali (la disposizione è contenuta nell’articolo 2, quarto comma, della legge 111/07, approvata giusto un anno fa, dunque nella scorsa legislatura). In pericolo, manco a dirlo, le sedi "di frontiera", nei territori dove la presenza della criminalità organizzata è più invasiva, tutto messo nero su bianco nel dossier inviato al Csm e al Guardasigilli: in Calabria le Procure di Locri, dove tutti i magistrati in servizio hanno un’anzianità sotto i cinque anni, e Palmi, dove gli effettivi sono solo sei su un organico di dieci e la metà è in magistratura da meno di un lustro; in Sicilia le Procure di Siracusa e Gela: nella prima le pendenze complessive dell’ufficio sfiorano i 15.000 fascicoli, nella seconda la scopertura dei posti si attesta al 60 per cento. Soffre anche Caltanissetta, mentre a Vibo Valentia e al tribunale di Chiaravalle Centrale (sezione distaccata di Catanzaro) si rimboccano le maniche nonostante le carenze storiche.

Né convince, spiegano all’Anm, la proposta di assegnare i fascicoli al magistrato di prima nomina in tandem con un collega che abbia superato la prima valutazione di professionalità: in quasi tutti quegli uffici requirenti, infatti, prestano servizio quasi esclusivamente magistrati giovani. Insomma: il sindacato di giudici e pm chiede una deroga al divieto di utilizzare le "forze fresche", naturalmente ben motivata da esigenze di servizio.

Su tutti, però, ora incombe le scure di Tremonti. Fa riflettere in proposito la convergenza a sorpresa fra l’Associazione nazionale magistrati di Luca Palamara e l’Organismo unitario dell’avvocatura presieduto da Michelina Grillo, che hanno firmato un appello comune per il rilancio della politica sulla Giustizia in cui denunciano che "dal 1996 a oggi la pianta organica del personale amministrativo è stata ridotta di oltre ottomila unità".

In campo anche il Cnf, contro lo stanziamento statale per il patrocinio a spese dello Stato, definito "irrisorio"; mentre l’Associazione italiana giovani avvocati, guidata da Valter Militi, se la prende con il peso dell’imposta di bollo che nell’arco di vent’anni, secondo uno studio dell’Aiga, è aumentata del 4.000 per cento "senza apprezzabili benefici per gli utenti" del servizio Giustizia. "Siamo preoccupati per i tagli alla giustizia rispetto alle esigenze di funzionalità del processo - sintetizza il presidente dell’Anm Palamara -. Una funzionalità che va estesa all’intero sistema".

All’inferno e ritorno. Ecco: il sistema. Nella Relazione 2007 di Bankitalia si legge che la soluzione alle disfunzioni che affliggono la giustizia civile "non può arrivare solo da interventi sul piano dell’ordinamento giudiziario". C’è ben altro sotto. Dove sono le lacune maggiori? "Dall’inizio degli anni Novanta - ricostruisce il dirigente Cisl Fp Marra - è stata realizzata una serie di riforme a costo zero che ha inceppato completamente la macchina amministrativa, i tempi si sono allungati dismisura".

Intanto i "processi lumaca" non sono soltanto un costo sociale, ma rischiano di trasformarsi in una bomba a orologeria per le casse di Via Arenula per effetto dell’equa riparazione prevista dalla legge Pinto (89/2001), in base alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Nel 2002, quando scatta l’operatività, gli indennizzi riconosciuti ai cittadini vittime delle lungaggini giudiziarie si attestano a 1,8 milioni mentre nei quattro anni successivi l’incremento sfiora l’800 per cento. È vero: nel pozzo senza fondo delle finanze pubbliche in valore assoluto non sono granché anche i 17,9 milioni di euro del 2006, a fronte di 20.560 procedimenti iscritti ex legge Pinto; il dato, però, non tiene conto delle spese che non hanno trovato copertura nelle dotazioni di bilancio.

E soprattutto l’ammontare degli indennizzi in un anno rischia di schizzare fino a 500 milioni, che invece cominciano a essere una cifra considerevole. Il conto è presto fatto e certificato dalla Ctfp: quasi tutti i 50.000 ricorsi civili che arrivano annualmente in Cassazione hanno superato i cinque anni di pendenza complessiva (una delle dead line indicate dai giudici di Strasburgo); astrattamente avrebbero diritto all’equa riparazione circa 100.000 persone (cioè entrambe le parti in causa): ipotizzando per tutti una media di 4.000 euro di risarcimento e 1.000 di rimborso delle spese di difesa, si arriva al mezzo miliardo.

Né si può dimenticare che l’irragionevole durata dei processi genera altre grane per giudici e cancellieri perché la strada per ottenere l’equa riparazione passa sempre per le aule giudiziarie, e spesso finisce nell’ormai satura prima sezione civile della Cassazione: una spirale che rischia di condurci direttamente a Lucifero. Prima di finire all’Inferno non sarà il caso d’interrogarsi sulle disfunzioni denunciate da Bankitalia?

Quanto pesa, ad esempio, l’organizzazione delle risorse umane? "Oltre alla mancanza di uomini e mezzi c’è anche un deficit di gestione - ammette il sindacalista Marra -. La Giustizia è al centro di uno scontro fra politica e magistratura di cui da anni leggiamo quotidianamente sui giornali". E il bello è che l’autunno si preannuncia "caldo", con la riforma annunciata dal Guardasigilli Alfano che tocca temi scottanti come Csm, obbligatorietà dell’azione penale e separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e requirenti. Scontro a parte, comunque, l’orizzonte resta fosco. E la casse desolatamente vuote. "Dove colpiscono i tagli? Soprattutto al capitolo delle spese correnti", chiosa Palamara.

Giustizia: nella Cassa ammende troppe le somme inutilizzate

 

Italia Oggi, 30 luglio 2008

 

Nel bilancio della Cassa ammende c’è una cospicua presenza di somme non utilizzate. Somme che appaiono sovrabbondanti rispetto alla capacità di utilizzazione ai fini istituzionali previsti dalla legge. Ma ci sono altre criticità che devono essere rimosse.

Lo ha ammesso la Corte dei Conti, sezione centrale di controllo sulle amministrazioni dello Stato, nel testo della deliberazione n. 14 del 9 luglio 2008, con la quale ha rilasciato gli esiti dell’indagine effettuata sulla Cassa ammende, un ente dotato di personalità giuridica propria e con amministrazione da svolgersi secondo le norme della contabilità di Stato (cfr. articolo 4 della legge n. 547/1932).

Attualmente le finalità proprie indicate dalla legge consistono essenzialmente negli interventi di assistenza economica in favore delle famiglie dei detenuti e degli internati, per la realizzazione di programmi che tendono a favorire il reinserimento sociale dei detenuti e degli internati, anche nella fase di esecuzione di misure alternative alla detenzione.

Per la Corte, ancora oggi l’organizzazione della Cassa e la sua normativa contabile "risentono di una ancora non chiarita ambivalenza in ordine all’effettiva applicazione delle regole che presiedono agli organismi dotati di autonomia ovvero della piena applicazione delle regole della contabilità di stato. Il riferimento della magistratura contabile è alla mancanza di un organo di controllo assimilabile al Collegio dei revisori o ad "altro organo monocratico similare".

Tuttavia, ha rilevato la Corte, sussistono altre criticità. I giudici contabili hanno infatti puntato il dito sul parziale utilizzo delle somme a disposizione anche a causa del ritardo con il quale si è addivenuti alla regolamentazione e all’avvio effettivo dell’attività di valutazione dei progetti da finanziare, alla loro estensione tuttora parziale e limitata ai soggetti pubblici istituzionali, quali sono gli istituti e i servizi penitenziali, pur prevedendo la legge la possibilità del finanziamento di progetti presentati da soggetti privati, per gli interventi di assistenza economica in favore delle famiglie dei detenuti e degli internati, nonché per i programmi che tendono a favorire il loro reinserimento sociale anche nella fase di esecuzione di misure alternative alla detenzione. La Corte vede comunque favorevolmente l’istituzione di due nuovi organismi di controllo che "dovrebbero agevolare la realizzazione di un’attività di verifica dei risultati ottenuti".

Giustizia: Cittadinanzattiva; riforma pensi a priorità cittadini

 

Comunicato stampa, 30 luglio 2008

 

Aprire la riforma della giustizia alle priorità dei cittadini: lunghezza dei processi, valutazione civica e effettiva tutela della vittima. Lunghezza dei processi, valutazione civica e effettiva tutela della vittima.

Sono queste le priorità della società civile al centro della lettera aperta che Cittadinanzattiva, a firma del segretario generale Teresa Petrangolini, ha inviato al Presidente della Camera, al Ministro della Giustizia e al Vice Presidente del Csm.

Cittadinanzattiva è un Movimento di cittadini che da anni è impegnato sul tema del diritto alla giustizia. Si occupa, tra l’altro, di garantire l’accesso alla giustizia da parte dei cittadini, di contribuire al miglioramento della qualità dell’organizzazione giudiziaria italiana e di favorire un dialogo tra le varie componenti del servizio che ponga al centro il punto di vista di chi dovrebbe essere da esso tutelato, l’utente.

L’appello di Cittadinanzattiva è rivolto anzitutto affinché venga adottata la Carta dei diritti del cittadino alla giustizia, un primo passo verso un segnale chiaro di attenzione ai cittadini, per una riforma che parta dagli utenti e dalla loro sacrosanta esigenza di essere rispettati e tutelati, di fronte ad operatori della giustizia che non fanno il loro dovere, che sono i primi a violare le leggi, che esasperano con il loro comportamento il mal funzionamento del servizio, che si nascondono dietro a privilegi di casta. In secondo luogo, viene esplicitata la richiesta di aprire un dialogo con i cittadini sulle cose da fare, anche in vista dell’annunciata riforma della giustizia a partire dal mese di settembre.

Tale dialogo deve a nostro avviso partire da tre questioni (le più urgenti se ci si mette dal punto di vista degli italiani): i tempi dei processi; i costi dei procedimenti; la tutela delle vittime. Su questi tre temi il nostro Movimento, tramite la sua area specifica chiamata "Giustizia per i diritti", ha elaborato un pacchetto di misure e di proposte.

In terzo luogo, viene chiesto di dare attuazione al Protocollo d’intesa che il Ministero della giustizia ha sottoscritto con Cittadinanzattiva un anno fa, con l’obiettivo di costruire e realizzare un sistema di valutazione del servizio giustizia dal punto di vista civico, che potrebbe diventare un modo ordinario per far sì che a parlare di ciò che non va e di ciò che va del servizio fossero i cittadini e non solo gli addetti ai lavori. Questo anche grazie al contributo di giovani del servizio civile che lavorano nei nostri uffici per dare risposte ai cittadini. "Viceversa", si legge a conclusione della lettera, "i toni e le modalità con cui in questa fase si sta svolgendo il dibattito sulla giustizia ci lasciano interdetti.

Ci sentiamo spettatori impotenti in una lotta che vede il potere esecutivo e il Presidente del Consiglio scontrarsi quotidianamente con la magistratura per difendere prerogative e posizioni che a noi cittadini sono estranee. Non capiamo perché, in una situazione nella quale bisognerebbe rimboccarsi le maniche per far funzionare un servizio tra i più carenti d’Europa, ci si debba accanire contro uno dei poteri dello Stato, quello giudiziario, mettendone in discussione principi costituzionali di autonomia e di indipendenza. Non è questa la strada giusta perché induce noi cittadini, spesso vittime di una giustizia profondamente ingiusta, a pensare che non ci sia nulla da fare e che sia solo una lotta o personale o interna al sistema politico. Ci siamo fortemente preoccupati per il Decreto Salva processi e ci siamo mobilitati assieme ad altre associazioni per modificarne i contenuti, ottenendo sia l’esclusione di alcuni reati dal provvedimento, sia la sospensione dei termini di prescrizione per la durata del rinvio.

Riteniamo comunque che restino problemi aperti e aspetti difficilmente accettabili, come la cancellazione di fatto della obbligatorietà dell’azione penale e la scarsa tutela dei diritti delle vittime rispetto agli imputati. Allo stesso tempo, non possiamo dimenticare che anche i magistrati dovrebbero fare la loro parte, rinunciando alla ‘sacralità costituzionale’ con la quale interpretano il loro ruolo e uscendo da quell’autoreferenzialità che ne fa un potere distante da quel popolo in nome del quale dovrebbero amministrare la giustizia. Le chiediamo di essere ascoltati e di aprire una strada nuova nell’approccio al problema giustizia, fuori da interessi di parte e da rendite di posizione".

Giustizia: mostra fotografica dedicata ai detenuti-lavoratori

di Emilia Patruno

 

Famiglia Cristiana, 30 luglio 2008

 

Chi impara un mestiere dietro le sbarre difficilmente poi torna a delinquere. Ma oggi soltanto il 27,4 per cento degli oltre 53 mila detenuti svolge attività remunerate.

A parte la ferocia e la disumanità del luogo, e se non rievocasse i più gravi drammi della storia contemporanea, c’è una sola cosa che bisognerebbe salvare di Auschwitz, ed è la frase Arbeit Macht Frei ("Il lavoro rende liberi"), che campeggiava sopra il cancello di ingresso. Fu posta lì dal maggiore Rudolph Höss, comandante del lager, che sembra non la intendesse come una beffa, e nemmeno letteralmente, come falsa promessa fatta a coloro che avessero lavorato fino all’esaurimento per essere finalmente liberati, bensì come una dichiarazione mistica, per dire che il sacrificio di sé, sotto forma di enorme fatica, arreca una sorta di intrinseca libertà spirituale.

Si può discutere fino all’infinito se il lavoro possa o debba essere legato al carcere, e soprattutto se possa o debba influire sulla pena (si dice: "Mandateli a lavorare!", forse non sapendo che tantissimi detenuti vorrebbero lavorare, ndr). Per essere più chiari, se il lavoro possa accorciare la pena in termini di "sconto", entri cioè nella valutazione dell’espiazione e del risarcimento dovuto.

Il dato è che meno di un detenuto su tre (solo il 27,4 per cento) è impiegato in un’attività lavorativa: l’88 per cento (11.717 persone) lavora alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria. Dietro le sbarre la prima risorsa restano le "lavorazioni domestiche": scopino, portavitto, spesino, bibliotecario, barbiere, giardiniere, cuoco. E i numeri dicono che nelle carceri italiane appena 900 detenuti sono stati assunti nel privato con le agevolazioni fiscali della cosiddetta legge Smuraglia.

Il lavoro di qualità è un miraggio e si concentra, dentro e fuori, in un esiguo numero di penitenziari. Sulla carta gli ostacoli sono superabili, mettendo insieme legge Smuraglia, telelavoro, la possibilità di creare progetti e prendere fondi dalla "Cassa ammende" e il regolamento di esecuzione, il quale prevede che l’Amministrazione penitenziaria possa dare in comodato i propri spazi. Le cooperative sono esperimenti necessari, ma quando si confrontano col mercato arrancano, ricevono pochissime commesse, fatta eccezione per quelle che "si sono inventate" progetti di qualità (una per tutte, la cooperativa Rebus di Padova, che produce i Dolci di Giotto).

E poi c’è la faccenda della recidiva. Certo, prima di parlare di recidiva e di lavoro in carcere, dobbiamo intenderci su due aspetti della questione. Prima di tutto, è vero che in carcere ci sono oltre 53 mila detenuti, ma ben il 55,32 per cento di loro è in attesa di condanna definitiva (più del doppio della media europea, che non arriva al 25 per cento). Di conseguenza, quando parliamo di esecuzione della pena, di lavoro in carcere, è alle persone detenute in maniera definitiva che dobbiamo pensare. Il secondo aspetto è che, anche se non è bello a dirsi, non si può ipotizzare che tutte le persone detenute possano farci sperare per un loro, e nostro, futuro migliore. Come nella vita da "liberi", anche nella vita "detenuta" c’è chi è più intenzionato a cambiare, a migliorare la sua vita, e chi no.

 

Un doppio risultato

 

Il dato statistico dice che una percentuale molto bassa dei detenuti che lavora torna poi a delinquere: dall’1 al 5 per cento. Gli altri imparano un lavoro in carcere, e potendo lavorare da liberi, non scelgono di ritornare a delinquere, ma di andare a lavorare. Un doppio risultato su cui riflettere. Per noi cittadini liberi, una maggiore sicurezza. Un carcere utile, dotato di senso, che dà al condannato una possibilità di scelta. Un "passaggio" che ci può garantire meno delinquenza per le strade e più sicurezza nelle case, vale a dire quello che tutti noi vorremmo. Per lo Stato, cioè sempre per noi, significa spendere meno.

Ci sono carceri esemplari, in questo senso. Dove un detenuto, invece che costare 250 euro al giorno ne costa "solo" 170. La Gorgona, ad esempio, dove tutti i detenuti lavorano, e rientrano in cella soltanto per dormire: e sono macellai, agricoltori, falegnami, fabbri. Bollate, dove si sconta la pena lavorando. E, in prospettiva, Opera, dove si sta cominciando una meritoria, vitalissima "riconversione": da istituto in cui "non succede niente, se non le partite di calcio" a carcere dove il lavoro trova e troverà sempre più posto. Le ultime iniziative presentate, una gelateria in cui sono impiegati (da un’azienda esterna normale, con contratto di settore) dieci detenuti (a breve saranno venti) e un allevamento avicolo e serra (che ne utilizza altri dieci), sono convincenti, in questo senso.

E non è un caso che le fotografie pubblicate in queste pagine (tratte da "Officina libertà", una serie di ritratti di detenuti al lavoro realizzata grazie alla Fondazione Cariplo) siano state messe in un passaggio, a mo di galleria d’arte, che porta all’interno del penitenziario, ma anche "da dentro a fuori". Come a dire: guardate, la strada è questa.

Giustizia: Polizia Penitenziaria ha incontrato il Ministro Alfano

 

Comunicato Sappe, 30 luglio 2008

 

Quello in corso con il Ministro della Giustizia Angelino Alfano è un confronto utile e certamente produttivo per individuare le priorità di intervento per il Corpo di Polizia Penitenziaria e il sistema penitenziario. Abbiamo in particolare apprezzato la volontà espressa dal Guardasigilli Alfano di voler intervenire su un sistema che rischia l’implosione, con 55mila detenuti presenti a fronte di poco più di 42mila posti e con gli organici della Polizia penitenziaria - per altro sottostimati nel 2001 con un decreto voluto dal precedente Ministro Fassino contro il parere di tutte le Organizzazioni sindacali del Corpo - carenti di ben 4mila unità. Dati numerici che determinato tensione e conflittualità, come dimostrano i circa 70 colleghi aggrediti dall’inizio dell’anno negli istituti di pena del Paese.

Il Sappe ha chiesto al Ministro Alfano, che si è detto del tutto d’accordo, l’utilizzo del braccialetto elettronico per i detenuti con pene brevi, evitando con ciò di sovraffollare eccessivamente le carceri e potenziando quindi l’area penale esterna. Ci ha fatto piacere sapere, esternando al Ministro Alfano questa importante soluzione per il sistema carcere che si sta adottando anche in Francia, che è stato lui a suggerire al Ministro della Giustizia francese Rachida Dati (incontrato di recente a Bruxelles) la soluzione "braccialetto elettronico" per le prigioni d’Oltralpe, anch’esse pesantemente sovraffollate. Ora auspichiamo una rapida adozione del braccialetto elettronico per il controllo dei detenuti anche in Italia.

È il commento di Donato Capece, Segretario Generale del Sindacato autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione di Categoria, a margine dell’incontro odierno che si sta tenendo con il Ministro della Giustizia Alfano in via Arenula a Roma. Capece, che è anche presidente della Consulta Sicurezza (l’Organismo interforze che raggruppa i poliziotti del Sap, i penitenziari del Sappe ed i forestali del Sapaf), ha sottolineato di avere chiesto al Ministro della Giustizia di intervenire nel Consiglio dei Ministri per porre i correttivi necessari al Decreto legge in corso di conversione n. 112 del 2008, partendo da un punto di partenza fondamentale: il riconoscimento della specificità dei Comparti Sicurezza e Difesa dal Pubblico Impiego.

Giustizia: il giudice Simonetta Matone diventa Sottosegretario

 

Il Giornale, 30 luglio 2008

 

Simonetta Matone è una donna forgiata nell’acciaio, di essere sempre controcorrente nella sua categoria e di corporazione non si è mai preoccupata, anche se ha pagato, eccome. Averla scelta come Capo di gabinetto del Ministero delle Pari Opportunità è una chance formidabile offerta a un dicastero sempre lasciato nell’ombra.

Sulle sue scrivanie c’è sempre stata la fotografia di Giuliano Vassalli, il grande giurista socialista per il quale ha lavorato quattro anni, dal 1987 al 1991, al ministero di Grazia e Giustizia. Ma nel 1979 Simonetta Matone era già vicedirettore del carcere delle Murate a Firenze, pieno dei terroristi di Prima Linea. Fu l’inizio di una carriera forte, che passò per il carcere romano di Rebibbia.

Dopo l’esperienza con Vassalli diventò magistrato minorile, e nel Paese dove la mamma e il papà sono ancora sacri, ma pure il ‘68, ebbe il coraggio di dire che "Non esiste più la figura del padre: il maschio italico ha perso, in seguito alla rivoluzione femminista, la sua autorità, e questo era ed è giusto. Ma insieme ha perso anche un bene prezioso, la sua autorevolezza. E ha reagito in due maniere, opposte e devastanti entrambe: assenza o violenza. Tutti i ragazzi che passano di qua e si siedono su quella sedia hanno in comune un dato: nessuno stima il padre. Con la figura paterna tradizionale è scomparso il senso del dovere e della dignità. Le donne, purtroppo, sono spesso inadeguate a ricoprire il doppio ruolo".

A Rebibbia, alla fine degli anni Ottanta, la dura Matone concedeva permessi ai detenuti prima che la legge lo prevedesse. Confidava nell’opinione del cappellano, padre Mario Berni, uno che non sbagliava mai. Di quell’epoca conserva una targa: "A Simonetta, che tante volte ci aprì le porte".

Giustizia: pm; se Contrada migliora dovrà rientrare in carcere

di Boris Mantova

 

L’Opinione, 30 luglio 2008

 

Accetta di incontrarci al dodicesimo piano del Palazzo di Giustizia. Ha la scrivania piena di documenti ordinati secondo un criterio che solo chi lo conosce può capire. Ha lo sguardo fisso, cordiale ma determinato. Ugo Ricciardi è il magistrato che ha cambiato la vita di Bruno Contrada con un semplice "parere favorevole", sorprendendo tutti. Cinquantaquattro anni, sposato con tre figli, Ricciardi siede ora sulla poltrona di Sostituto Procuratore generale a Napoli.

Un passato prima alla Procura della Repubblica, dove ancora pesa la sua firma sotto l’inchiesta denominata Tangentopoli fiscale che portò in carcere centinai di nomi noti della finanza, e dell’imprenditoria nazionale ed estera. È l’unico ad aver firmato un’informazione di garanzia per l’allora presidente del Consiglio Ciriaco De Mita.

La carriera lo ha condotto a Roma all’ispettorato generale del ministero della Giustizia. Oggi è considerato uno degli uomini di fiducia del Procuratore generale di Napoli Vincenzo Galgano. In una calda mattina di luglio ha indossato la toga come sempre fa appena entra in ufficio - la sveste solo a giornata conclusa - doveva essere una delle tante udienze nelle quali si trova davanti camorristi, malavitosi, politici. E invece quella mattina davanti a lui si è seduto Bruno Contrada, l’ex funzionario del Sisde accusato di concorso esterno in associazione a delinquere, che chiedeva di uscire dal carcere per motivi di salute.

 

E Lei ha dato il suo parere favorevole. Soddisfatto?

Chiariamo subito, a livello personale nessuna soddisfazione. Codice alla mano, invece sono soddisfatto perché ho applicato la legge e nulla di più.

 

Quando ha pronunciato il suo parere favorevole ha immaginato cosa poteva accadere dopo?

Non sarei un magistrato sereno se pensassi alle conseguenze, soprattutto quelle dei media. Io mi limito ai fatti: lui aveva chiesto il differimento della pena per gravi motivi di salute, per altro comprovati uno per uno, e io ho dato parere favorevole. Poi il Tribunale di sorveglianza ha concesso molto meno, gli arresti domiciliari.

 

Che significa?

Che se Contrada nei prossimi mesi starà meglio, dovrà tornare in carcere. La normativa sotto questo punto di vista è tragica. Questo è un uomo condannato prima dalla natura, poi dalla giustizia. In poche parole lui non può permettersi il lusso di stare bene altrimenti si riapriranno le porte dell’istituto di pena.

 

Ma secondo lei deve stare in carcere?

Secondo me no ma in quanto detenuto e non Bruno Contrada. Chiunque nelle sue condizioni non dovrebbe rimanere in galera.

 

Quindi lei procuratore prescinde dal merito del processo?

Sia chiaro, noi non entriamo nel merito del processo. Io mi sono limitato, come prevede la normativa, ad analizzare le condizioni di salute del detenuto in questione

 

Però è innegabile l’attenzione particolare sul caso Contrada.

Guardi è stato detto tutto e il contrario di tutto.

 

Cioè?

È stato condannato in primo grado, assolto in appello, la Cassazione ha annullato l’assoluzione rimandandolo ad un’altra sezione che lo ha condannato con ultimo verdetto della Suprema Corte.

 

Questo fa capire comunque che era un caso spinoso?

Parlano i fatti.

 

Quindi il suo "parere favorevole alla scarcerazione" è servito?

A fare chiarezza sui fatti no, ma ripeto, perché i faldoni del processo certo non passano da noi.

Gli avvocati hanno presentato decine di documentazioni mediche. Io, da uomo che amministra la legge da 20 anni, ho fatto quello che mi è sembrato giusto fare. Tutto il resto fa parte del circuito mediatico che un magistrato non deve guardare.

 

Ma un uomo dell’età di Contrada può rimanere in carcere?

Se parliamo di età, certo che sì. Decine di persone dietro le sbarre ci muoiono, il problema è se sorgono patologie come quella di Contrada che non sono conciliabili con il regime detentivo.

 

Lei ha guardato il suo volto quando ha pronunciato il parere?

Stava di fronte a me ma era talmente pieno di barba...

 

Non ha notato neanche un sussulto?

L’ho letto ma non l’ho visto. Non potevo guardare lui, mi ha colpito invece la sorpresa dell’avvocato.

 

Per Contrada cosa si aspetta?

Se migliora torna in carcere, nel caso opposto resta fuori.

 

I legali stanno preparando un ricorso contro gli arresti domiciliari come giudica questa scelta?

L’avvocato fa tutto ciò che può fare, anzi lo deve fare, ai magistrati il compito di pronunciarsi.

Genova: trovato morto in cella, il nonno non crede a suicidio

 

Secolo XIX, 30 luglio 2008

 

Chiede di fare ulteriore chiarezza sulla morte del nipote, avvenuta nel carcere di Marassi, e promette di viaggiare, avanti e indietro, tra Genova e Piossasco, finché non sarà soddisfatto della risposta. Angelo Eliantonio è il nonno di Manuel, il ragazzo trovato morto venerdì scorso nella casa circondariale, e non si dà pace. Mostra due denunce presentate rispettivamente al reparto di polizia penitenziaria di Marassi e ai carabinieri di Piossasco, in provincia di Torino.

Porta con sé anche la fotocopia di una lettera, nella quale il ragazzo, 22 anni, denuncia una situazione molto difficile all’interno della struttura. Racconta anche di una telefonata che la famiglia avrebbe ricevuto dal ragazzo qualche giorno prima: in questa telefonata Manuel Eliantonio avrebbe detto - si legge nella denuncia - "di essere preoccupato perché i compagni di cella lo avevano massacrato di botte".

Secondo le parole del nonno, riportate nella denuncia alla polizia penitenziaria di Marassi, i suoi vicini avrebbero "sottratto con la forza la spesa che noi gli portavamo in occasione dei colloqui e lo costringevano a spendere i soldi disponibili sul suo libretto che noi periodicamente versavamo". Angelo Eliantonio mette anche in dubbio le modalità della morte del nipote, per la quale in un primo momento si era ipotizzato il suicidio: "Doveva uscire il 2 agosto - dice - Non è possibile che si sia tolto la vita".

Sulla questione la procura ha aperto un fascicolo tecnico per istigazione al suicidio e all’interno del carcere è stata avviata un’indagine amministrativa per verificare eventuali movimenti di denaro da Manuel in favore di altri detenuti. Sabato scorso, intanto, è stata effettuata l’autopsia sul corpo del giovane ma, in attesa degli esiti, per la direzione del carcere di Genova le cause della morte sono chiare: il ragazzo avrebbe inalato del gas butano per stordirsi ed è rimasto asfissiato.

La prima ipotesi del suicidio risulterebbe quindi esclusa per le condizioni con il quale è stato trovato il corpo. Per quanto riguarda possibili rapporti difficili con gli altri detenuti, il giovane, da pochi giorni, aveva chiesto e ottenuto di cambiare cella, ma non avrebbe mai segnalato maltrattamenti. Ora sarà quindi l’esito degli esami tossicologici e istologici a determinare altre eventuali azioni legali da parte della famiglia.

Alessandria: scuola in carcere, scoppia la polemica sui "tagli"

 

Secolo XIX, 30 luglio 2008

 

Luci e ombre sulla scuola della Casa di Reclusione San Michele. Mentre viene rinnovato l’accordo per il Polo Universitario interno, il corso per geometri rischia di perdere la prima e la quinta classe. La decisione dell’Ufficio scolastico regionale sta suscitando preoccupazione, gli enti locali hanno già sollecitato il ripristino dell’intero ciclo di studi.

Non è esclusa una manifestazione di sensibilizzazione, anche perché gli iscritti alla prima sono già otto e altri potrebbero aggiungersi nel mese di agosto. La scuola per geometri, sezione distaccata dell’istituto tecnico cittadino, è stata aperta nel lontano 1956. Prima in Italia, è diventata un punto di riferimento per chi cerca, attraverso lo studio, di prepararsi una speranza futura.

Il diploma consente di iscriversi all’università. Il Polo "Pausania", istituito nel 2001, è uno dei progetti che si svolgono a San Michele. Vi partecipano, oltre a istituto penale e Università, Comune, Cissana (Consorzio intercomunale servizi socio-assistenziale), cooperativa sociale "Il Gabbiano" e Betel, associazione di volontariato penitenziario. Attualmente sono presenti le facoltà di Giurisprudenza, Scienze politiche e Scienze Mfn (informatica). Ma, dice il direttore del carcere Rosalia Marino "stanno arrivando tante richieste da tutta Italia".

Studiare in carcere non è facile, ma i risultati sono più che positivi. Nel 2006-2007 tre detenuti hanno conseguito la laurea triennale e si sono iscritti ai corsi specialistici. Ora due studenti stanno collaborando con l’Università, grazie a borse di studio, attraverso un programma di lavoro esterno e quest’anno un altro studente ha conseguito la laurea di primo livello in Scienze politiche.

Ognuna delle tre facoltà ha designato un docente di riferimento che si occupa di coordinare le attività didattiche e di rapportarsi con i colleghi. Grazie a una convenzione con la biblioteca civica, gli studenti possono avere libri di studio, dispense e materiale didattico. A San Michele si possono anche seguire corsi di formazione professionale.

Torino: la condanna per i "bulli" è stata di accudire i disabili

di Maurizio Crosetti

 

La Repubblica, 30 luglio 2008

 

Aiutare chi ne ha bisogno come occasione di riscatto. Si chiama "messa alla prova": è la pena non detentiva che i tribunali italiani sempre più di frequente infliggono ai giovani bulli. Per dar loro una seconda chance e la possibilità di riflettere sugli sbagli commessi. E di rimediare. "È una soluzione educativa, certo non punitiva. Ma non è adatta a tutti e serve il contributo delle famiglie".

Invece della galera, aiutare un disabile. Invece dello spazio stretto di una cella, lo spazio enorme di un’esperienza. Per capire, ma di più per capirsi. Per elaborare l’errore e, se possibile, per non ripeterlo e cambiare dentro. Per capire, a contatto con le vite degli altri, specialmente quelle più difficili, che un’altra vita oltre il bullismo è possibile.

Tecnicamente si chiama "messa alla prova". I giudici dei minori la adottano con sempre maggiore frequenza, nei casi di violenza e non solo: si tratta di sospendere il processo e avviare il ragazzo a un percorso che preveda lavori e compiti socialmente utili, una specie di "volontariato obbligatorio". A contatto con i più deboli e i sofferenti (anziani, disabili, poveri) si dovrebbe comprendere non solo il proprio errore, ma qualcosa di se stessi. Per crescere, e recuperarsi. Per cambiare, non solo per espiare. E se funziona, se poi i giudici - con l’aiuto di psicologi e assistenti sociali - verificheranno che la prova è stata superata, il processo non si celebra più e il reato si estingue.

La strada dei lavori socialmente utili non è facile e neppure in discesa. È stata decisa per i ragazzi dell’istituto "Steiner" di Torino che filmarono un compagno autistico, e poi diffusero le immagini su Internet. Ma anche per gli studenti di Trento che filmarono una loro amica durante una festa, in atteggiamenti scabrosi. Lavori, sociali e non forzati, pure per i bulli che allagarono il liceo classico "Parini", a Milano, cercando di evitare un compito di greco, e lo stesso per i due goliardi virtuali del "Berchet" che avevano messo in rete un video offensivo. Un simile percorso è stato deciso per i vandali che imbrattarono di svastiche una scuola media di Rivoli Torinese, e per i quattro minorenni che pestarono a Roma un ambulante bengalese: hanno in qualche modo espiato assistendo altri immigrati.

Ma funziona davvero, il tribunale equo e solidale? "In molti casi sì. È un’opportunità che viene concessa ai ragazzi: sta a loro non sprecarla". Monica Frediani è il procuratore capo del Tribunale dei minori di Milano. "Pretendiamo l’ammissione di responsabilità da parte dei minori: è il requisito per poter cominciare la messa alla prova. Il controllo è severo e procede attraverso fasi diverse, si fatica, non è certo un’operazione di perdonismo. Anzi: quando le cose non vanno bene, il processo si riapre". La sospensione va da un minimo di sei mesi a un massimo di tre anni: "Il principio ispiratore è educativo, non repressivo né contenitivo. Chiaro che la messa alla prova non è adatta a tutti: le famiglie devono essere coinvolte. Personalmente, ci credo molto: è un investimento sul futuro. Quando funziona, non solo allontana il ragazzo dalla devianza ma può anche insegnargli un mestiere".

Nello stabilire quali lavori socialmente utili scegliere, non scatta mai un meccanismo automatico: la strada è diversa per ogni ragazzo, ed è il risultato di un lavoro di gruppo al quale partecipano numerosi specialisti. Mario Ancona, psichiatra e psicoterapeuta torinese, si occupa di progetti di prevenzione del bullismo nella scuola. Anche lui ritiene che la messa alla prova sia una risorsa importante. "È una finestra di riflessione - afferma - però non deve trascorrere troppo tempo tra l’evento e le attività scelte per il ragazzo, altrimenti lui non percepirà il collegamento. Il minore deve essere coinvolto nel percorso educativo perché rifletta su se stesso e capisca quello che lo interessa, e occorre il suo consenso autentico. La prova stabilita deve essere infine possibile e non sproporzionata, affinché il ragazzo senta che qualcuno si interessa veramente a lui".

Si tratta anche di individuare e stabilire limiti. Il buonismo qui non c’entra nulla. "È essenziale che l’autostima aumenti poco per volta, tenendo presente che la disciplina è un atto d’amore. Le esperienze attivano le riflessioni", spiega il dottor Ancona. "Se chi ha sbagliato entra in contatto con persone più deboli non imparerà qualcosa solo da loro ma anche dall’esempio di chi li aiuta come volontario: capirà che esistono altri modelli di riferimento, non solo quelle che un tempo si chiamavano le cattive compagnie. È il principio dell’educazione tra pari". Ma funziona davvero? "I risultati non si misurano col metro, e comunque conta anche l’impegno: bisogna insistere, a costo di recuperare solo qualcuno. Superare le pene detentive è una necessità che si va affermando sempre più, non solo tra i minori".

È sempre difficile conoscere il finale della storia. I ragazzi mantengono gli impegni presi? Comprendono quello che hanno fatto? Faticare per le vittime aiuta anche i colpevoli? L’avvocato Cosimo Palumbo è il legale di uno dei quattro dello "Steiner" che filmarono il loro compagno autistico. Il tribunale dei minori di Torino sospese la pena, e stabilì un percorso di recupero al Sermig, il servizio missionario giovanile di Ernesto Olivero, insieme con altre attività. Ora siamo a buon punto, e l’avvocato può tentare un primo bilancio.

"Ho toccato con mano che il pentimento dei mio assistito non è simulato ma autentico - sostiene - Nulla di scontato: è un processo di rielaborazione su se stessi. Dopo il servizio al Sermig, il giudice ha stabilito che il ragazzo dovesse seguire la scuola con regolarità e profitto: senza promozione cade tutto, e questo responsabilizza e costringe a un impegno concreto". Inoltre, siccome lo "Steiner" è una scuola di arti grafiche, è stato chiesto di preparare un bozzetto per un manifesto sulla disabilità. "Infine, la tappa più difficile - aggiunge Palumbo - per la quale i ragazzi sono a mio avviso quasi pronti: il confronto con il loro compagno, cioè la vittima. È quella che tecnicamente si definisce mediazione: non si chiede solo scusa, ma ci si confronta. Più che una riparazione è una presa di coscienza. Il minore che ha sbagliato, se non spreca l’occasione della messa alla prova, si arricchirà interiormente. Io ho visto molti risultati positivi, non ho dubbi che sia la strada giusta anche se non facile".

Un anno e mezzo fa a Monselice, provincia di Padova, alcuni bulli dell’istituto agrario "Kennedy" filmarono una serie di angherie ai danni di un professore, dirottando ovviamente su Internet i loro capolavori. Anche per loro, niente cella ma qualcosa di più. Lo racconta il preside Giacomo Zanellato. "Per quattro sabati consecutivi - dice - i ragazzi hanno lavorato per sistemare le serre, pulire i giardini e potare le piante. Inoltre hanno dipinto la recinzione esterna della scuola.

Anche se io credo che sia più importante la prevenzione: ce ne occupiamo da tempo, insieme a un gruppo di psicologi che lavorano con gli studenti. Essenziale è capire le origini del disagio e intervenire sulle cause: ci siamo accorti che i ragazzi più a rischio sono quelli del primo anno". Soprattutto a loro si prova a spiegare, con i gesti più che con le parole, che la disciplina è un atto d’amore. Qualcuno proverà a spiegarlo anche ai quattro ragazzini che l’altro giorno hanno devastato una scuola romana e hanno ripreso la bravata con il cellulare. Il loro sogno era finire su You Tube.

Torino: asilo-nido per i figli delle detenute, la Lega protesta

di Emanuela Minucci

 

La Stampa, 30 luglio 2008

 

"Che bello, prima i rom, figli dei detenuti. E poi i figli dei torinesi da anni in attesa di un posto al nido. Loro, per il centrosinistra sono sempre gli ultimi nella graduatoria".

Alla Lega Nord non è proprio andata giù la decisione del Comune di Torino - anzi, dell’Assessore del Prc Luigi Saragnese - di offrire anche ai figli dei carcerati la possibilità di iscriversi agli asili comunali. E promette dura battaglia in Consiglio: "Si tratta di un progetto che discrimina pesantemente la gente comune ed onesta - attacca il segretario cittadino del Carroccio Mario Carossa - dopo le case ai rom, i bus che dai campi nomadi dovrebbero portare i bambini rom a scuola, questa è l’ennesima delibera pro-rom e pro-delinquenti".

L’assessore che ha firmato la delibera, risponde con altrettanta indignazione: "Mi pare soltanto una decisione di grande civiltà che accoglie una proposta arrivata dal Garante dei diritti dei detenuti. Il nuovo regolamento consentirà ai piccoli delle mamme in stato di detenzione di lasciare la casa circondariale per essere inseriti nei nidi, anche oltre il limite della capacità ricettiva: vivere una vita normale è un loro diritto, ci pare. Si tratta di un’azione di profilo umanitario".

Parole che alla Lega sanno di provocazione: "Si tratta di decisioni che devono passare al vaglio del Consiglio comunale. E noi prepareremo un migliaio di emendamenti perché di fatto questo provvedimento stabilisce una corsia privilegiata per l’ingresso nei nostri asili di bambini extracomunitari, visto che nelle carceri di Torino la popolazione immigrata è oltre il 50 per cento".

Sulmona: la prima Facoltà di Medicina Penitenziaria in Italia

 

Il Tempo, 30 luglio 2008

 

Potrebbe essere la Facoltà di Medicina Penitenziaria a far decollare l’università sulmonese, un nuovo indirizzo di studio che approderebbe a Sulmona inaugurando il primo corso in Italia. Questo l’auspicio del sindaco Fabio Federico che nella mattinata di ieri ha voluto puntare l’attenzione sul rilancio della struttura universitaria peligna che ha bisogno di un assoluto recupero.

Un progetto che parte da lontano, ponendo le basi soprattutto su una sede universitaria dignitosa per dare la giusta autorevolezza ad un centro di formazione e di studio. Tra i sogni nel cassetto del primo cittadino e del preside della Facoltà di Economia, Fabrizio Politi ci sarebbero le caserme De Amicis e Opm che oggi rappresentano due delle strutture più prestigiose della città.

Un vero trampolino di lancio per la "nuova" università che attraverso un’operazione aggiuntiva potrebbe incentivare l’economia del territorio ormai allo stallo. Il sopralluogo nelle due strutture militari era fissato per ieri mattina ma un contrattempo ha fatto slittare l’incontro alla prossima settimana. "Le chance per un progetto con l’Esercito ci sono tutte - ha precisato il sindaco Fabio Federico - e la dimostrazione arriva dalla disponibilità a concedere le chiavi per il primo sopralluogo. Sono molto fiducioso e speriamo che l’iniziativa vada in porto in tempi brevi soprattutto per far sentire gli studenti universitari appartenenti ad un vero è proprio ateneo e non ad una struttura provvisoria".

Immigrazione: la Cdl si difende dalle accuse Ue di xenofobia

 

Corriere della Sera, 30 luglio 2008

 

"Respingo con indignazione l’affermazione del commissario Thomas Hammarberg, secondo cui gli atti di violenza avvenuti in Italia, ai danni dei campi nomadi, sono avvenuti senza che vi fosse un’effettiva protezione delle forze dell’ordine e che, a loro volta, hanno condotto raid violenti contro gli insediamenti. È una falsità clamorosa. La Polizia non ha mai fatto simili azioni. Dica il commissario Hammemberg quali siano questi atti".

Così il Ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ha risposto, durante le comunicazioni del governo sull’emergenza immigrazione alla Camera, al Commissario Ue ai diritti umani, Thomas Hammamberg, che in mattinata aveva criticato la politica italiana in tema di immigrazione: "Le misure attuate in Italia - aveva spiegato Hammamberg presentando il suo Rapporto sulla situazione dei nomadi in Italia - non tengono conto dei diritti umani e dei principi umanitari. Inoltre potrebbero fomentare altri episodi xenofobi".

Il responsabile dei Diritti umani del Consiglio d’Europa si era detto "estremamente preoccupato per tutti gli atti di violenza avvenuti ai danni dei campi nomadi, senza che vi fosse una effettiva protezione da parte delle forze dell’ordine che a loro volta hanno condotto raid violenti contro gli insediamenti". Inoltre, aveva aggiunto Hammamberg "sono stati fatti pochi progressi nell’effettiva protezione dei diritti umani dei Rom e dei Sinti".

"Sono davvero sorpreso, come cittadino italiano che apprezza le istituzioni europee, delle affermazioni fatte dal Commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa". Lo ha detto Gianfranco Fini ospite del Tg1. "Dire che la polizia italiana ha compiuto dei raid contro i campi Rom significa fare affermazioni che tutti i cittadini italiani sanno non essere vere". Fini ha concluso augurandosi che "il Consiglio d’Europa corregga questa visione molto unilaterale e falsa".

Il ministro degli Esteri, Franco Frattini, si è detto oggi sconcertato, respingendo con forza le sue parole. Il titolare della Farnesina lo ha puntualizzato durante una conferenza stampa all’ambasciata italiana a Washington. Frattini ha criticato, quindi, duramente le accuse di Hammarberg, malgrado quella che ha definito "la goffa smentita del suo portavoce".

Il ministro degli Esteri ha inoltre spiegato che di queste accuse ne parlerà non con Hammerberg, "che non conosco", ma direttamente con il segretario generale del Consiglio d’Europa. Il capo della diplomazia italiana ha sottolineato a più riprese come le forze dell’ordine in Italia non compiano "alcun raid nei campi nomadi", ma facciano "rispettare la legalità: siamo arrivati ad un punto - è stato lo sfogo di Frattini - che si confondono "i diritti umani con il rispetto dello stato di diritto".

Circa le critiche rivolte al governo italiano per quanto riguarda la legge sul reato di immigrazione clandestina, Frattini ha osservato ancora come ci siano molti altri paesi che hanno in vigore una norma del genere e che non vengono messi all’indice quotidianamente come l’Italia. Ritornando poi sulla polemica con Hammerberg, il ministro ha concluso dicendo che, "per una istituzione gloriosa come il Consiglio d’Europa, le sue parole rappresentano una parzialità di visione che mi sconcerta".

Immigrazione: nel Cpt, carcere e centro di prima accoglienza

 

Affari Italiani, 30 luglio 2008

 

Ci sono bambini ed ex detenuti. Donne nigeriane sbarcate a Lampedusa dopo viaggi di mesi in mezzo al deserto e lavoratori albanesi diventati clandestini per un vecchio precedente penale. Ragazzi algerini partiti in barca da Annaba che dicono "questo è un hotel" e tunisini che in arabo alzano la voce: "Iktab! - scrivi! - siamo ostaggi non ospiti".

Il centro di Gradisca d’Isonzo, provincia di Gorizia, dieci chilometri dalla Slovenia, è molte cose insieme. Contiene una sezione di prima accoglienza per i migranti intercettati nel Canale di Sicilia (Cda), un centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) e un centro di identificazione e espulsione (Cie). È insieme un luogo di accoglienza e di detenzione.

Un alto muro grigio di cemento nasconde completamente la struttura agli abitanti di via Udine e agli automobilisti di passaggio. È tutto imbrattato dagli spray delle tante manifestazioni organizzate dall’Osservatorio sul Cpt, contro l’apertura del campo. "Un lager non è mai umanitario", si legge in giganteschi caratteri rossi. Tuttavia Gradisca è qualcosa di più.

Sul ciglio della strada appena fuori il centro passano con una certa regolarità gruppetti di tre quattro persone, a piedi. La pelle nera tradisce la loro identità straniera. Sono gli ospiti del centro. Per la maggior parte nigeriani e somali. Vanno a fare un giro in centro. La loro presenza ha destato preoccupazione nella cittadinanza, secondo quanto riportato dalla stampa locale. La città conta 6.451 abitanti. I richiedenti asilo ospiti del Cda e del Cara sono 250. Altri 20 sono ospitati a spese della prefettura nell’Hotel Pellegrino, a Gradisca. Altri 120 in un albergo ad Aviano. Sono autorizzati a lasciare il centro dalle 8 del mattino alle 20.

È sufficiente registrare la propria uscita alla polizia, in portineria. La maggior parte sono arrivati in Italia dalla Libia, sulle barche intercettate al largo di Lampedusa. Gli algerini invece sono approdati in Sardegna, salpando dalla città di Annaba. Li hanno trasferiti a Gradisca perché non c’era più posto nei centri in Sicilia, Calabria e Puglia. Aspettano l’esito della propria richiesta d’asilo politico, analizzata dalla Commissione per il riconoscimento dello status di rifugiato di Gorizia. Alcuni sono qua da cinque mesi. Le famiglie e le donne con bambini sono stati spostati negli appartamenti disponibili del sistema nazionale di accoglienza Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo). Gli altri alla fine dell’iter dovranno lasciare il centro e arrangiarsi. Perché di posti liberi nello Sprar ce ne sono davvero pochi.

Entrando nel centro, il Cara si trova sul lato destro. É un terra tetto con ampie camere a otto letti, disposto sui quattro lati intorno a un cortile di cemento e di fronte a un grande giardino. Per le donne ci sono camere a parte. Dal lato opposto si trovano invece le gabbie. Oltre il corridoio degli uffici del personale, un corridoio a ferro di cavallo intorno a un cortile grigio chiuso da reti di ferro dà accesso sulle camerate, sempre a otto letti. I cancelli sono aperti e gli ospiti possono uscire. È il centro di prima accoglienza. Dietro una porta di ferro si accede invece alla sezione del centro di identificazione e espulsione. Lì la gabbia è chiusa per davvero. Impossibile evadere. I detenuti sono 63 su una capienza di 136 posti letto. Soprattutto tunisini e marocchini. Aspettano lo scadere dei 60 giorni di detenzione. Sperando di non essere rimpatriati.

Le condizioni del centro sono buone. Tutto è pulito è ordinato. É la seconda fase della storia dei Cpt, istituiti dalla legge Turco Napolitano nel 1998 adesso rinominati Cie. Adesso è tutto più organizzato. Anche perché i soldi non mancano. Il centro di Gradisca, come gli altri centri, è anche e soprattutto un grande affare. Intorno alla sua gestione girano cifre a sei zero. Dalla sua apertura, nel marzo 2006, fino al marzo 2008, il centro era gestito dalla cooperativa sociale Minerva, appartenente a Legacoop.

Ma l’ultimo bando ha assegnato il campo al consorzio trapanese Connecting People. Una realtà che raggruppa 69 cooperative sociali in Italia e che ha fatto della gestione dei Centri di identificazione e espulsione e dei Centri di prima accoglienza uno dei suoi punti di forza. Sono infatti gestiti da Connecting People i centri di prima accoglienza di Cagliari, di Brindisi, di Trapani (Serraino Vulpitta e Saline), oltre che una serie di progetti Sprar in Sicilia, a Catania, Acireale, Marsala e Mazara.

Un giro d’affari di decine di milioni di euro. Soltanto il centro di Gradisca frutta tra i cinque e sei milioni di euro l’anno. L’indennità con cui il consorzio si è aggiudicato la gara d’appalto, è infatti di 42 euro al giorno per ogni ospite. Il che significa 13.146 euro al giorno per i 63 migranti attualmente detenuti al Cie (su una capienza di 136 posti), i 135 ospiti del Cara (su 138 posti) e i 112 del Cda (al completo).

Connecting People ha nominato direttore del centro un militare in pensione. Si chiama Vittorio Isoldi, ed è stato vice comandante della brigata cavalleria di Pozzuolo del Friuli e, fino allo scorso anno, vice comandante della missione italiana di pace in Libano. Nel settore dell’immigrazione è alla prima esperienza. Tra poco arriveranno a dargli manforte 100 militari, recentemente assegnati al centro dal pacchetto sicurezza.

Gli immigrati detenuti nel centro di identificazione e espulsione (Cie) di Gradisca, in provincia di Gorizia sono 63, poco meno della metà dei 136 posti disponibili. Dormono in camere da otto letti ciascuna. I materassi sono di gommapiuma, l’aria condizionata non c’è e nei bagni non ci sono specchi. Le stanze si affacciano su un corridoio a ferro di cavallo che gira sui tre lati di un cortile grigio di cemento, chiuso da una grande gabbia di ferro. Scorrendo il registro delle presenze, spiccano le nazionalità tunisina, marocchina, albanese, ma anche algerina, senegalese e macedone.

Alcuni sono arrivati qui dopo aver scontato una pena in carcere, gli altri dopo un controllo dei documenti. C’è chi vive in Italia da dieci anni e ha perso il permesso di soggiorno dopo aver perso il lavoro. E c’è chi il permesso non l’ha mai avuto. Uno di loro è un ragazzo palestinese. Viene da Gaza e vive in Italia dal 2003. Nei centri di identificazione e espulsione è già stato detenuto altre quattro volte, a Modena. Per un totale di otto mesi. E a Modena lo hanno fermato anche l’ultima volta. Lavorava in nero per un’agenzia di traslochi. Non ha mai chiesto asilo. Non sa nemmeno come si possa fare. A Gradisca è arrivato da sette giorni. E da sette giorni è in sciopero della fame. Rifiuta il cibo. Chiede la libertà. Per quattro giorni anche Qasseri, un ragazzo tunisino, ha scioperato. Ma poi ha interrotto la protesta.

Tra i detenuti ci sono molti lavoratori. Uno di loro si chiama Djibi e viene dal Senegal. Lavora come scultore. È detenuto al Cie da quaranta giorni. Sfoglia un album fotografico e mostra un’aquila scolpita in bassorilievo nel legno. Con gli artigli stringe un drappo con su scritto "Polizia di Stato". Gliela aveva commissionata la Questura di Salerno, per la festa della Polizia, nel maggio scorso. Due mesi dopo l’hanno arrestato durante una retata nel condominio dove viveva, a Bolzano. Insieme a lui hanno portato via sette persone. I documenti li ha persi insieme al lavoro. Era in Italia dal 2005. Lavorava con contratti interinali, per l’agenzia Adecco. L’ultimo contratto a termine è scaduto prima del permesso di soggiorno e così non lo ha potuto rinnovare.

Anche Sefa Skerdi lavorava. È albanese, sulla quarantina. Apre un borsone che tiene sotto il letto e mi mostra le ultime buste paga. Da dicembre 2006 a gennaio 2008. Milleduecento euro al mese. Autista per conto del corriere Alba, di Rimini. Vive in Italia dal 1998. Nel 2005 l’avevano arrestato per spaccio di droga. Era uscito con l’indulto dopo due anni di carcere. E si era rimesso a lavorare. Ma tutti i nodi vengono al pettine, e al momento del rinnovo del permesso, il precedente penale ha fatto saltare la pratica, come previsto dalla legge. Gli hanno ritirato i documenti e consegnato un foglio di via. Al primo fermo della polizia stradale, per il furgone fuori peso, l’hanno portato dentro. Lo dovrebbero rimpatriare nei prossimi giorni. Ma tutti i suoi effetti personali rimarranno nella casa a Rimini. E dei due finanziamenti in banca, per un totale di 70 mila euro, non sa che cosa succederà.

Droghe: Lombardia; progetto inserimento tossicodipendenti

 

Notiziario Aduc, 30 luglio 2008

 

Reinserire nel mondo del lavoro e nella società tossicodipendenti con gravi problemi di esclusione sociale. Questo l’obiettivo del progetto del Ministero della Solidarietà Sociale "Budget per l’inclusione sociale di persone tossicodipendenti in trattamento o da attrarre in trattamento, ad elevata emarginazione", al quale la Giunta Regionale della Lombardia ha deciso di aderire. Il "budget per l’inclusione sociale" consiste in 400 euro al mese assegnato a ciascun soggetto per la durata di un anno che dovrà essere speso per realizzare "inserimenti socio-terapeutici" e "inserimenti lavorativi", intendendo con ciò azioni di avvicinamento al mondo della formazione e del lavoro. Gli inserimenti potranno avvenire in imprese, in opportuni laboratori o in strutture protette che simulano le imprese.

Sono previsti anche momenti di accompagnamento o di tutoraggio. Obiettivo: mettere in atto un continuum, che va da un’attività lavorativa "a bassissima soglia", ritagliata sulle limitate capacità lavorative delle persone, agli inserimenti socio-terapeutici e lavorativi, in particolare nelle cooperative sociali. E per realizzare questo progetto di reinserimento, la Regione avrà a disposizione 768 mila euro che verranno ripartiti tra le Asl e le associazioni del privato sociale, alle quali spetta di mettere in atto concretamente le azioni previste dal progetto stesso.

Droghe: ricerca europea su consumo di sostanze e sessualità

 

Notiziario Aduc, 30 luglio 2008

 

In Europa, le abitudini di consumo di droghe e alcol "ad alti livelli" da parte dei giovani incrementano le pratiche sessuali non sicure e "senza precauzioni", rileva un’indagine condotta per la Rete europea di ricerca e prevenzione dei problemi dei giovani (Irefrea).

Allo studio hanno partecipato oltre 1.300 persone tra i 16 e i 35 anni di nove Stati, che hanno riconosciuto come l’assunzione di alcol e determinate droghe li porti ad "alterare le proprie decisioni" e ad avere rapporti sessuali "di cui dopo si pentono". Malgrado ciò, il 28,6% degli intervistati ammette di bere alcol perché "facilita il contatto con un possibile partner sessuale", mentre un consumatore di cocaina su quattro la usa "per prolungare il rapporto sessuale", ha spiegato una delle autrici dello studio, Montse Juan, in dichiarazioni al Servizio d’informazione e notizie scientifiche (Sinc) raccolte da Europa Press.

I ricercatori hanno trovato un legame tra consumo di droghe e sessualità in età precoce: l’uso di alcol, cannabis, cocaina ed ecstasy prima dei sedici anni è infatti associato al fatto d’aver avuto rapporti sessuali prima di quell’età. Inoltre, il consumo di droghe dei partecipanti all’indagine si lega con l’avere più partner sessuali. È emerso che, negli ultimi dodici mesi, i consumatori abituali di cocaina hanno avuto cinque volte più probabilità d’avere cinque o più compagni sessuali o d’aver "pagato per fare sesso", ha spiegato l’esperta.

Di fronte a questi dati, gli autori concludono che si devono proporre programmi e strategie preventive, e continuare ad analizzare l’assunzione di droghe connessa agli aspetti sociali, psicologici e fisici legati alla sessualità, partendo dall’esperienza viva dei giovani.

Droghe: Marocco; produzione cannabis cala 40% per siccità

 

Asca, 30 luglio 2008

 

Una siccità stupefacente ha devastato i terreni di cannabis in Marocco, provocando da un anno all’altro una perdita del 40% della superficie coltivata e un calo secco della produzione. Le cifre compaiono nell’ultimo rapporto dell’Onudc, l’agenzia Onu sulla droga e sul crimine, che verrà presentato giovedì prossimo a Vienna, che spiega come questa caduta verticale sia, in minima parte, dovuta all’azione di repressione lanciata dal governo nei confronti di produttori e trafficanti e, in larga parte, "frutto di condizioni climatiche sfavorevoli e di un periodo in cui sul paese sono state rare le precipitazioni".

Secondo il rapporto elaborato nel 2006 dall’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Onudc) e relativo ai dati 2004-2005, il Marocco resta uno dei principali produttori al mondo di cannabis. Questa coltivazione si concentra in massima parte nelle province del Rif centrale - nel Nord del Paese - tra l’omonima catena montuosa e il mar Mediterraneo. Cuore del traffico internazionale di questa sostanza sono città come Hefchaouen, Ketama, Ouezzane.

Da alcuni anni, per cercare di contenere questo fenomeno, il governo di Rabat ha avviato una collaborazione con l’Onudc che ha portato qualche risultato concreto. In base ad una inchiesta elaborata dalle autorità marocchine con la partecipazione dell’organismo Onu, dal 2003 a oggi, la produzione di foglie di cannabis in Marocco sta andando via via riducendosi: ciò malgrado il fatto che la coltivazione mondiale non stia regredendo.

Se, infatti, nel 2003 la produzione totale di resine nel Paese maghrebino era stata di 3.060 tonnellate coltivate su 134 mila ettari di terra nella regione del Rif e aveva dato lavoro a 96.600 famiglie, nel 2004 le stime hanno dimostrato che l’area destinata alla produzione si è ridotta del 10 per cento. Tuttavia, si legge nel Rapporto 2006, pur accentuando gli sforzi, il Regno del Marocco rimane il più importante produttore e fornitore di hashish per il resto del Nord Africa e per l’Europa occidentale. L’80 per cento delle resine di cannabis destinate verso il Vecchio Continente provengono dal Marocco.

Spesso, poi, transitano dalla Spagna e dai Paesi Bassi per essere vendute su altre piazze. Molti osservatori sostengono che il vero problema sia la dilagante corruzione nel Paese. Impossibile, affermano, non riconoscere le coltivazioni di cannabis nel Rif e che fanno ormai parte del suo ecosistema. Qualcuno fa finta di non vedere. Quel che è certo è che la situazione è estremamente delicata, dal momento che sono migliaia le famiglie che vivono grazie al commercio di hashish.

C’è poi un secondo problema, quello del turismo. Città come Hefchaouen, infatti, sono riuscite a svilupparsi grazie all’afflusso di visitatori attirati dalla coltivazione di questa sostanza, ritenuta dagli estimatori la più pura e la migliore al mondo. Mentre dal canto suo, il governo di Rabat si è posto un obiettivo, quello di sradicare totalmente la cannabis entro il 2008.

Grecia: Msf; inaccettabili condizioni di vita nel Cpt di Mitilene

 

Aise, 30 luglio 2008

 

Sono inaccettabili le condizioni di vita per i migranti che si trovano nel centro di detenzione di Mitilene, ed inadeguate le cure mediche a due mesi dal lancio del progetto di Msf che mira a fornire assistenza medica e psicosociale ai migranti in Grecia. Questa oggi la denuncia dell’organizzazione medico umanitaria Medici Senza Frontiere (Msf).

Questa situazione è ulteriormente aggravata, proseguono da Msf, "dalla inefficacia da parte delle autorità di garantire anche il minimo miglioramento delle infrastrutture. Inoltre i team di Msf stanno incontrando delle difficoltà per accedere liberamente ai reparti di detenzione e ai pazienti, il che comporta il deterioramento della fornitura di assistenza medico umanitaria. In un centro di detenzione che, secondo le autorità, non può ospitare più di 400 persone, ce ne sono attualmente 800". Le forniture mediche sono insufficienti, come nel caso delle visite, delle diagnosi e del trasferimento dei casi più gravi. Vedendo che le condizioni di vita sono peggiorate, Msf chiede a tutte le autorità competenti di avviare un’azione immediata.

"I detenuti vivono in celle piene di acqua stagnante, con un numero assolutamente insufficiente di docce e latrine", spiega Yiorgos Karayiannis, capo della missione di Msf del progetto in Grecia, che descrive le condizioni di vita nel centro di detenzione di Mitilene. "Vi è una sola latrina funzionante per 100 persone. I reparti non sono stati adeguatamente puliti nel corso degli ultimi due mesi. Ai detenuti", aggiunge, "è raramente concesso di uscire dai reparti e il personale del centro di detenzione non è in grado di rispondere alle loro esigenze. La regola è che i detenuti rimangono bloccati nelle celle senza avere l’accesso a strutture che possano garantire la loro igiene personale e proteggerli da malattie trasmissibili".

Msf fornisce assistenza medica di base e sostegno psicosociale ai migranti. Fino ad ora, il team di Msf ha fornito assistenza medica a 550 migranti a Mitilene. Allo stesso tempo Msf ha iniziato la distribuzione di materiale di pulizia e la costruzione di latrine e docce.

Msf chiede l’immediato miglioramento delle condizioni di accoglienza dei migranti in conformità con le convenzioni internazionali e il loro accesso al sistema sanitario nazionale. Il libero accesso delle equipe di Msf ai centri che ospitano i migranti che vivono in condizioni precarie, è essenziale per la fornitura di assistenza medica umanitaria indipendente.

Dal 2 giugno Msf gestisce un progetto di emergenza nel Centro di Detenzione di Mitilene dove fornisce cure mediche e sostegno psicosociale ai migranti. Dalla scorsa settimana un team di medici e psicologi è presente ogni giorno presso il luogo di raduno dei migranti fornendo sostegno di carattere medico umanitario. Equipe di Msf visitano regolarmente il Centro di accoglienza per i minori non accompagnati di Ayassos.

In Grecia Msf lavora anche nell’insediamento temporaneo dei migranti nella città di Patrasso fornendo cure primarie e di salute mentale e sta inoltre valutando la possibilità di intervenire nei centri di detenzione di Evros e della regione di Rhodopi.

Marocco: per festa il Re concede grazia a più di mille detenuti

 

Asca, 30 luglio 2008

 

Il re del Marocco Mohammed VI ha concesso la grazia a più di mille prigionieri, in occasione dell’anniversario della sua successione al trono. Lo ha comunicato il ministero della Giustizia di Rabat in un comunicato. Dieci dei detenuti sono stati rilasciati immediatamente mentre ad altri 1.020 prigionieri il re ha concesso amnistia totale o una parziale riduzione della pena, a seconda dei singoli casi. Il ministero della Giustizia marocchina non ha tuttavia reso noto se fra i prigionieri graziati sono presenti militanti islamici in carcere per terrorismo. In Marocco è tradizione che in occasione di festività nazionali e religiose, il monarca decida regolarmente provvedimenti di grazia ai detenuti.

Australia: niente più carcere per i richiedenti asilo in attesa

 

www.peacereporter.net, 30 luglio 2008

 

Era una delle poche notizie che escono dall’Australia e fanno il giro del mondo: qualsiasi richiedente asilo arrivato nell’isola-continente veniva messo in carcere, e lì ci rimaneva mentre la sua pratica veniva esaminata. Le immagini delle proteste di questi migranti, alcuni con le labbra cucite a simboleggiare la loro mancanza di voce, hanno fatto il giro del mondo e divennero la caratteristica più conosciuta all’estero del conservatore John Howard.

Otto mesi dopo la sconfitta del premier che l’ha governata per undici anni, l’Australia ora volta pagina. Il nuovo governo di Kevin Rudd ha deciso di abbandonare la politica di detenzione automatica per i richiedenti asilo.

Le nuove disposizioni. "Non è un’apertura di massa dei cancelli, è una cosa relativa a un trattamento più umano dei richiedenti asilo", ha detto il ministro per l’immigrazione Chris Evans presentando le nuove disposizioni. "Questo governo rifiuta l’idea che la de-umanizzazione e la punizione degli arrivi non autorizzati con detenzioni a lungo termine sia una risposta efficace e civile. Le persone disperate non vedono come un deterrente la minaccia di una detenzione severa, spesso scappano da circostanze ben peggiori", ha aggiunto Evans. Sotto la nuova politica, il carcere rimarrà una possibilità remota, da utilizzare solo come ultima risorsa con i rifugiati considerati una minaccia alla sicurezza. In nessun caso verranno detenuti dei bambini, mentre la situazione degli adulti in carcere verrà rivista ogni tre mesi.

La "soluzione pacifica". Il programma di detenzione per i richiedenti asilo era stato introdotto dai laburisti all’inizio degli anni Novanta, ma fu con l’arrivo di Howard che venne applicato in modo sistematico. Nel 2001 fu introdotta la politica della "Pacific Solution", ossia la creazione - in cambio di aiuti economici - di alcuni centri di detenzione su piccole isole dell’Oceania, come Nauru, dove venivano inviati i migranti intercettati in mare o all’arrivo in aeroporto.

La filosofia alla base era simile a quella applicata dagli Usa ai detenuti di Guantanamo: non avendo messo piede sul suolo australiano, queste persone non potevano appellarsi alle leggi di tutela dei diritti umani. Il programma all’inizio era ben visto dagli australiani, convinti del fatto che molti immigrati mentissero sulla loro condizione di perseguitati in patria. Ma anche in seguito alle sensazionali proteste, tra cui quelle di alcuni detenuti di Nauru che si cucirono le labbra con il filo, la politica di Howard aveva perso popolarità. La "soluzione pacifica" era stata già abbandonata dal nuovo premier Rudd all’inizio di quest’anno. Quelle annunciate oggi sono le misure che completano la riforma dell’immigrazione, e si applicheranno già ai 380 richiedenti asilo attualmente detenuti.

Rimane un centro di detenzione. Le organizzazioni per i diritti umani hanno accolto con favore le novità del governo. Amnesty International ha definito le riforme "un passo avanti" che porta il sistema australiano "in linea con quello delle altre democrazie occidentali". Un centro di detenzione però rimarrà attivo, quello dell’Isola di Natale, territorio australiano a sud dell’arcipelago indonesiano, che il governo Howard ha reso "esterno" all’Australia per quanto riguarda i migranti in arrivo. Per i tanti profughi in fuga da Iraq, Afghanistan o Sri Lanka, che arrivano in Indonesia via aereo e poi tentano il viaggio della speranza via mare, è spesso il primo pezzo di terra australiano che possono sperare di incrociare.

Siria: liberati 4 attivisti per i diritti umani, processati altri 12

 

Asca, 30 luglio 2008

 

Le autorità di intelligence siriane hanno rilasciato quattro attivisti per i diritti umani, detenuti da mesi nelle carceri del Paese. L’Osservatorio siriano per i diritti umani ha precisato che il rilascio è avvenuto ieri per Kays Ahmad Ali, arrestato il 2 aprile 2008, Hamman Haddad, Barhouz Sharif Youssef e Hussein Mulla Ahmad, arrestati il 5 maggio 2008. Secondo l’Osservatorio gli arresti dei quattro attivisti sono una violazione delle libertà personali garantite dalla costituzione siriana e dagli accordi internazionali firmati da Damasco. Il gruppo chiede la liberazione di Aref Dalilah, professore di economia all’università siriana, incarcerato nel 2001 per "tentativo di cambiare la Costituzione con mezzi illegali e di altri prigionieri politici.

Domani inizia il processo di 12 attivisti del Manifesto di Damasco per il Cambiamento Democratico, arrestati all’inizio dell’anno, con l’accusa di "appartenenza ad associazione segreta con lo scopo di modificare la natura politica ed economica dello Stato". Gli appartenenti all’opposizione siriana sono ottimisti riguardo alla possibilità che il tribunale emetta sentenze meno dure di quelle richieste o decida di processarli da liberi. La leadership siriana potrebbe diffondere direttive per ridurre la pena, e numerose organizzazioni di diritti umani e partiti siriani, arabi e occidentali hanno chiesto alle autorità siriane di liberare i detenuti.

Serbia: Karadzic è estradato, sarà giudicato da Tribunale Aja

 

Asca, 30 luglio 2008

 

Radovan Karadzic, 63 anni, l’ex capo dei serbi in Bosnia accusato di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, è detenuto da stamattina al centro di detenzione del Tpi, il Tribunale internazionale per l’ ex Jugoslavia, a Scheveningen, un sobborgo della capitale olandese.

Karadzic è arrivato in Olanda a bordo di un aereo partito da Belgrado ed è atterrato verso le 6:30 a Rotterdam. Da qui è stato trasferito al Tpi a bordo di una camionetta nera blindata, accompagnata da un’altra simile di scorta, arrivata alla prigione verso le 7.15. Il Tpi ha confermato l’arrivo dell’imputato eccellente con un comunicato di poche righe.

Karadzic è stato trasferito in una cella singola di 15 metri quadrati, provvista di un letto vero, uno scrittoio, una televisione con i programmi in serbo, un bagno e un interfono per poter comunicare con le guardie. Resterà detenuto in attesa dello svolgimento del processo.

Karadzic dovrà sottoporsi a una visita medica e poi comparire in udienza preliminare davanti ai giudici che gli comunicheranno formalmente le accuse di cui è imputato e i suoi diritti. Seguirà la domanda di rito: si dichiara colpevole o innocente? Domanda alla quale Karadzic potrà rispondere entro 30 giorni. L’ex leader dei serbi in Bosnia, ritenuto il mandante politico del massacro di circa 8.000 musulmani dell’enclave di Srebrenica, nell’est della Bosnia, ha già dichiarato che si difenderà da solo.

Il centro è dotato di una palestra e di un’area svago, con vari giochi di società. Per i detenuti sono organizzati anche corsi di ceramica, di inglese e di computer. Nello stesso centro di detenzione, sono rinchiusi altri imputati eccellenti, anche grandi nemici di Karadzic. Il più importante fra questi ultimi è Ante Gotovina, il generale croato accusato di una pulizia etnica contro i serbi. Gotovina è sotto processo dall’11 marzo scorso insieme ad altri due generali, Ivan Cermak e Mladen Markac, tutti e tre accusati dell’eliminazione forzata dei serbi della regione croata della Krajina e della distruzione della loro comunità nell’agosto del 1995. Tra gli amici, Karadzic potrà incontrare Vojislav Seselj, capo della milizia serba di Belgrado. Tutti protagonisti su fronti opposti del conflitto che ha insanguinato i Balcani negli anni Novanta.

Con l’arresto di Karadzic, il 21 luglio scorso, si può ora chiudere un altro capitolo, che viene ora affidato alla giustizia internazionale. All’appello, mancano ancora due grossi nomi: Ratko Mladic, il generale serbo bosniaco, esecutore materiale del massacro di Srebrenica, che deve rispondere di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità; e Goran Hadzic, ex presidente dell’effimera Repubblica serba della Krajina, imputato di crimini di guerra efferati.

Il ricorso contro l’estradizione al Tribunale penale internazionale di Radovan Karadzic "non è mai stato spedito". Lo ha ammesso il suo avvocato, Svetozar Vujacic. Un obiettivo che non è stato raggiunto, anche perché le autorità di Belgrado hanno deciso di procedere comunque all’estradizione dato che era trascorso un tempo ragionevole dalla scadenza fissata per il ricorso, il 25 luglio, senza che fosse arrivato per posta ordinaria come sosteneva di averlo spedito la difesa.

 

 

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