Rassegna stampa 28 luglio

 

Giustizia: Napolitano; basta muro contro muro, serve dialogo

 

Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2008

 

Giustizia, intercettazioni, ma anche l’eccessivo ricorso ai voti di fiducia e l’invito a limitare lo scontro fra maggioranza e opposizione ed anzi a lavorare insieme per le riforme. Questi i temi principali toccati dal presidente della Repubblica ricevendo i cronisti parlamentari nella tradizionale cerimonia del "Ventaglio".

Napolitano ha inoltre invitato tutti a evitare le volgarità in politica: "Liberiamoci dalle angustie di una polemica politica che finisce, perdendo il senso della misura, per scadere nella volgarità e nell’ingiuria, per venir meno al rispetto da tutti sempre dovuto alle istituzioni e ai simboli della Repubblica".

Capitolo Giustizia. Il lodo Alfano, ha affermato Napolitano, è stato promulgato "nel modo più meditato e motivato" indipendentemente "da sollecitazioni in qualsiasi senso". "Ogni altro giudizio appartiene alla politica e non può coinvolgere o chiamare il causa il Presidente della Repubblica. Si stia attenti, da parte di tutti - ha aggiunto - a doverose distinzioni di posizioni e di ruoli".

Sull’utilizzo delle intercettazioni e sui provvedimenti per una nuova disciplina su questa tematica, Napolitano ha sostenuto che l’esercizio del diritto di cronaca "non può mirare a soddisfare la "mera curiosità" voyeuristica del pubblico ma deve corrispondere all’esigenza di informare su ‘fatti oggettivamente rilevanti per la collettività".

Napolitano ha poi invitato a frenare "l’esasperazione" nei rapporti tra maggioranza e opposizione, "che si riflette anche nel non decidere nomine per importanti organi di garanzia". Anche perché le riforme, ha spiegato, vanno fatte d’accordo: "Piaccia o non piaccia, non c’è alternativa alla ricerca di larghe convergenze".

Il Presidente ha infine criticato un ricorso eccessivo al voto di fiducia: "È essenziale garantire un corretto equilibrio tra Governo e Parlamento, senza precipitazione e forzature. La questione del non abusare del ricorso alla decretazione di urgenza e ai voti di fiducia non è nuova, ma ciò non toglie che essa debba essere seriamente presa in considerazione".

Giustizia: di "allarme" in "allarme"… inseguendo gli elettori

 

Corriere della Sera, 28 luglio 2008

 

Tecnicamente, il provvedimento viene considerato ragionevole, se non necessario. Il raddoppio degli immigrati clandestini registratosi nell’ultimo semestre mette nei guai le strutture di accoglienza; e suggerisce rimedi rapidi. Ma dal punto di vista politico è un’altra cosa. L’emergenza nazionale dichiarata ieri dal governo ripropone l’immagine di un Paese condannato all’eccezionalità: si tratti di giustizia, rifiuti o sicurezza.

Riacutizza le polemiche e crea qualche inquietudine anche al Quirinale. E fa emergere la voglia del centrodestra di risolvere i problemi più "caldi" aggirando i confini giuridici e le limitazioni imposti dalle leggi ordinarie. Il fatto che l’emergenza sia stata definita tale dal 2001, seppure limitata a Calabria, Sardegna e Sicilia, proietta sul provvedimento un alone di ambiguità. E offre qualche argomento in più al governo contro gli attacchi del centrosinistra.

Visto con le lenti di Palazzo Chigi, il disegno ha una sua coerenza. Rientra in un piano di allarme generale che l’esecutivo sta mettendo in pratica. Segnala all’elettorato l’attivismo di Silvio Berlusconi e dei suoi alleati sui temi che alimentano paure e fobie dell’opinione pubblica. E punta a marcare la discontinuità con gli anni dell’Unione.

Di più: l’emergenza immigrazione viene brandita come uno dei simboli del lassismo a cui si starebbe ponendo rimedio. È un’operazione nella quale si mescolano esigenze obiettive e calcoli politici. Ed evidenzia il doppio registro delle mosse governative.

Da un lato, Silvio Berlusconi sottolinea i risultati già raggiunti o a portata di mano, in nome di un ottimismo e di una fattività aderenti allo stile del personaggio. Dall’altra, affida ai suoi Ministri il compito di lanciare messaggi forti e non proprio positivi sui pericoli che il Paese deve fronteggiare. Nella conferenza stampa di ieri a Palazzo Chigi il canovaccio è stato questo. Di immigrazione il premier non ha parlato. Si è saputo solo dopo che il Consiglio dei Ministri l’aveva proclamata un’emergenza.

Il centrosinistra reagisce sostenendo che si tratta di iniezioni di paura decise strumentalmente. Ed accusa Berlusconi di fomentare l’allarme contro gli immigrati e di esporli a reazioni razziste. I parlamentari del Pd si sono rivolti anche al Presidente della Camera, Gianfranco Fini, chiedendogli una discussione in Parlamento.

Fini ha girato la richiesta a Palazzo Chigi e Viminale, perché si presentino a Montecitorio entro martedì e riferiscano. E il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ha detto che lo farà "per ribadire la necessità di questo intervento che, peraltro, è una proroga di una ordinanza del governo Prodi".

Rinfaccia agli oppositori la politica dell’Unione: l’emergenza, dice, è figlia di quella stagione. E si prepara ad attaccare "le falsità ed il pregiudizio" del centrosinistra, compreso Antonio Di Pietro, che su questo tema mostra qualche affanno polemico. Di Pietro ironizza su un’Italia in cui "tutto è emergenza"; e tende a minimizzare la gravità del fenomeno, affermando che "si tratta soltanto del sovraffollamento del centro di accoglienza a Lampedusa". Ma per Maroni la situazione è meno rosea. A sentire lui, viene demonizzata una misura che "va a favore degli immigrati clandestini". E che, c’è da giurarci, resterà in primo piano fino alle elezioni europee del 2009.

Giustizia: il "malato" che barcolla e la staffetta degli spintoni

di Gian Carlo Caselli (Procuratore Generale di Torino)

 

La Stampa, 28 luglio 2008

 

La giustizia italiana è un malato grave, ma invece di mettere in campo robuste azioni positive si preferisce parlar d’altro. Si dovrebbe spendere di più e meglio. Le risorse dovrebbero esser distribuite più razionalmente. Sistemi processuali farraginosi e complessi, al limite dell’incredibile, dovrebbero essere finalmente snelliti.

Le impugnazioni dovrebbero essere decisamente ridotte, come in tutti i Paesi europei. Ma di azioni positive non se ne vedono. Domina invece il paradosso dell’inefficienza efficiente. Se la giustizia non funziona non si faccia un bel niente per farla funzionare meglio. La si lasci soffrire: che le cose peggiorino sempre più, fino alla catastrofe. Perché sempre più inefficienza significa sempre meno credibilità della magistratura.

E quando - alla fine della storia - se ne aggredirà l’indipendenza, i magistrati (questo cancro!) si ritroveranno assolutamente soli. Nessun cittadino che non sia pazzo si mobiliterà per chi non sa rendere il servizio per cui è pagato coi soldi pubblici (non a caso l’indice di gradimento della magistratura registra crescenti flessioni... e c’è qualcuno che si stupisce).

Ecco dunque l’inefficienza efficiente. Funzionale cioè a un disegno che mira (mortificando la magistratura) a ridurre se non impedire i controlli che si indirizzino verso determinati interessi. Spietati verso gli altri (tolleranza zero...), ma indulgenti verso se stessi: è la regola di chi, in Italia, va cercando in ogni modo impunità.

In questo quadro, anche l’incredibile diventa possibile: rovistando nelle pieghe della manovra finanziaria si scoprono tagli consistenti alle spese di giustizia e ulteriori riduzioni negli organici (già pesantemente sofferenti) di segretari e cancellieri. Colpi da ko, letteralmente, per una giustizia che già barcolla. Con buona pace per la tutela dei diritti dei cittadini (a partire dalla sicurezza).

Ma con la prospettiva di ripartire dalle macerie - se non proprio volute, quanto meno "volentieri" non impedite - per edificare una casa nuova: riformando il Csm, cancellando l’obbligatorietà dell’azione penale, introducendo quella separazione delle carriere che avrà come interfaccia - inevitabilmente - la dipendenza dei Pm dal governo.

Così i giochi (con la ciliegina della riesumazione dell’immunità parlamentare dopo il lodo) saranno fatti: e quei rompiscatole di magistrati se ne staranno finalmente buoni nel recinto tracciato dalla politica. Una politica al riparo dai controlli e quindi non più costretta a proclamare rispetto per la legalità, laddove è l’orticaria per le regole che la fa (in verità trasversalmente) da padrona.

L’inefficienza efficiente - sono le martellanti campagne tese ad avvalorare l’esistenza di atteggiamenti giustizialisti o peggio di una persecuzione giudiziaria nei confronti di questo o quel personaggio "eccellente". Tali campagne hanno l’effetto di erodere in radice la credibilità della giustizia. Se lo dicono "loro", con il peso che deriva dalle prestigiose cariche ricoperte, ogni cittadino soccombente in una causa civile o condannato in un processo penale la penserà allo stesso modo. Un momentaccio, per la magistratura.

Alessandro Galante Garrone ha scritto che "a volte non basta, per un giudice, essere onesto e professionalmente preparato; in certe situazioni storiche, per poter ricercare e affermare la verità, con onestà intellettuale, bisogna essere combattivi e coraggiosi".

Che oggi vi sia una situazione di questo tipo lo teme Federico Orlando, quando scrive (Europa - 16.7.08) che per la "casta" dei magistrati non c’è "bisogno di suggerimenti, perché la casta si auto suggerisce", magari vedendo che certi difensori sono "diventati nuovamente ministri o addirittura alte cariche protette da scudi". Per cui in certi casi "(la casta) si autolimita".

Ho ancora sincera fiducia nella forte tenuta della magistratura, ma sarebbe sbagliato nascondere la rilevanza del tema posto da Orlando. Che gira e rigira è il problema della linea di confine fra attacco e intimidazione. Con il corollario di alcuni interrogativi ineludibili. È giusto gettare pregiudizialmente fango su un magistrato solo perché indaga o eventualmente condanna - per fatti specifici, non certo per il suo "status" - un personaggio pubblico?

Giustizia giusta è solo quella che assolve? Ragionando in questo modo, non si sovvertono le regole fondamentali della giustizia? Non si incide sulla serenità dei giudizi? La posta in gioco è evidente. Riguarda la Costituzione repubblicana, il rischio che essa stia subendo - nelle prassi se non nelle forme - curvature negative sul piano di alcuni principi fondamentali.

Un pessimo viatico per le preannunziate riforme d’autunno, nel senso che se il buon giorno si vede dal mattino saranno riforme non della giustizia ma dei giudici, la cui "efficienza" sempre più sarà misurata sulla capacità di conformarsi agli orientamenti del governo.

Agli ipocriti che bollano l’indipendenza della magistratura come privilegio di una casta irresponsabile, è facile replicare che senza indipendenza della magistratura non si può neppur concepire una giustizia giusta, almeno tendenzialmente uguale per tutti. Se non c’è indipendenza, inevitabilmente qualcuno potrà indicare ai magistrati chi favorire e chi invece maltrattare. Ecco perché l’indipendenza della magistratura è un privilegio, sì: ma dei cittadini che vogliano continuare ad essere uguali.

Giustizia: dramma dei detenuti suicidi, anche di quelli salvati

 

Agenzia Radicale, 28 luglio 2008

 

Nel carcere di Frosinone gli agenti della polizia penitenziaria sono riusciti a sventare un tentativo di suicidio salvando un detenuto che cercava di impiccarsi. Protagonista del caso, un detenuto italiano di circa quarant’anni; dopo aver ricevuto la notizia dell’entità della sua condanna definitiva, depresso, si è avvolto un asciugamano al collo e ha cercato di impiccarsi.

Casi frequenti. Gli ultimi, in ordine di tempo, sono quelli di Giuseppe Pistorino, era detenuto nel carcere di San Gimignano (Siena). Anche lui impiccato, come il ragazzo di 26 anni detenuto a Sollicciano: incensurato, coinvolto in una inchiesta su truffe telefoniche, si è impiccato usando i lacci delle scarpe. Nel carcere abruzzese di Sulmona, come a Frosinone, gli agenti sono riusciti a bloccare un tentato suicidio; come riferisce un flash di agenzia: "Aveva ricevuto comunicazione di una difficoltà in ambito affettivo, per questo ha tentato il tragico ultimo gesto, quello che almeno dieci detenuti delle carceri italiane mettono in campo quotidianamente".

Nella notizia, una clamorosa notizia: "ha tentato il tragico ultimo gesto, quello che almeno dieci detenuti delle carceri italiane mettono in campo quotidianamente per sfuggire". Significa che nelle carceri italiane si verificano qualcosa come 3.650 tentativi di suicidi.

Nel 2007 quelli che vengono rubricati come "atti di autolesionismo in carcere" hanno riguardato 3.687 detenuti; nei primi sei mesi del 2008 si registrano almeno 23 suicidi, mentre una trentina sono i detenuti morti per altra causa. Nel 2007 i suicidi sono stati 45: 43 gli uomini, di cui 16 stranieri. Altri 76 sono morti per cause più o meno "naturali". L’anno in cui si sono registrati più decessi è stato il 2001: 69 suicidi su 177 morti dietro le sbarre; dal 2002 allo scorso anno invece, la media dei detenuti che si è tolto la vita in carcere si è mantenuto tra i 50 e i 57 casi.

La situazione attuale: i detenuti in attesa di condanna definitiva sono il 55,32 per cento, oltre il doppio della media europea, che sfiora il 25 per cento. Complessivamente, nelle carceri italiane sono stipate (dati aggiornati al 15 luglio) 54.605 detenuti, a fronte di 42.890 posti regolamentari. Negli ultimi sei mesi, i detenuti sono aumentati di quasi seimila unità: un aumento progressivo dovuto essenzialmente all’effetto provocato da due leggi: la ex Cirielli sulla recidiva; e la Bossi-Fini sull’immigrazione. Gli stranieri detenuti sono 20.458 (il 37,4 per cento del totale), mentre nel 2000, prima dell’approvazione della legge Bossi-Fini, la percentuale era del 29,31 per cento. Si tratta soprattutto di persone originarie del Marocco, della Tunisia, della Romania e dell’Albania. Oltre 1.800 sono detenuti per irregolarità nell’ingresso nel nostro paese.

Giustizia: Pietro Gugliotta è libero, lavorerà come educatore

di Alessandro Cori

 

La Repubblica, 28 luglio 2008

 

"Fuori Gugliotta farà l’educatore e credo che svolgerà bene il suo nuovo ruolo. Questo perché sulla carta ci sono tutte le premesse perché riesca. In questi anni ha seguito un percorso in carcere che gli permetterà di costruirsi una vita, soprattutto grazie al ruolo svolto dai servizi sociali e dai volontari che lo hanno aiutato".

La vicesindaco Adriana Scaramuzzino (titolare della delega ai Servizi Sociali), che è stata il tutor che ha seguito l’ex componente della banda della Uno bianca durante il suo percorso universitario dietro le sbarre, spezza una lancia a favore di Pietro Gugliotta che domani lascerà il carcere dopo quattordici anni. Un periodo vissuto senza ottenere permessi premio e quindi senza contatti con l’esterno.

Gugliotta, su "suggerimento" dei Servizi Sociali abbandonerà Bologna quasi subito, passerà a trovare l’anziana madre (l’unica persona della sua famiglia che nei primi anni di carcere gli è stata vicina) e molto probabilmente trascorrerà qualche giorno a casa di uno dei volontari che lo hanno seguito. Poi, andrà a lavorare in una coop che si occupa del recupero di ragazzi svantaggiati ed ex detenuti.

La comunità si trova in Friuli, ma opera anche in Veneto e quindi l’ex agente della centrale operativa trascorrerà qui i suoi prossimi sei mesi. Dopodiché, starà a lui decidere cosa fare della sua vita. Potrebbe anche tornare a Bologna, una scelta che non sarebbe sicuramente condivisa dall’associazione dei familiari delle vittime della Uno bianca.

"Quando uscirà Gugliotta sarà un uomo libero - dice la Scaramuzzino - senza restrizioni. Noi però abbiamo lavorato perché lui si ricostruisca una vita lontano da una città che ormai gli è ostile e Gugliotta è consapevole di questo. Quindi la soluzione scelta, che comunque è stata concordata con lui, è sicuramente la più adatta. Gli era stato anche proposto di andare in Sicilia, viste le sue origini catanesi, ma ha rifiutato. Seguirà un percorso di reinserimento e a sua volta farà il formatore, ma non avendo avuto esperienze esterne prima ad ora, anche lui dovrà adattarsi".

Dopo i primi anni in cella, in cui Gugliotta è sprofondato in uno stato di depressione che lo ha portato a dimagrire ben 20 chili, con l’aiuto dei volontari dell’Avoc e della Caritas l’ex bandito è uscito fuori dal suo stato di prostrazione in cui era sprofondato. Ha iniziato a studiare e lavorare in carcere, facendo le pulizie, e nel 2003 a conferma della buona condotta tenuta negli ultimi 14 anni, il quarantasettenne ha anche ricevuto una segnalazione positiva dal ministero per aver aiutato tre agenti della polizia penitenziaria (Flavio Menna, Valerio Simbula e Leonardo Gaetani) a spegnere un incendio provocato da alcuni detenuti della Dozza.

Solo pochi giorni fa poi, Pietro Gugliotta ha conseguito la laurea triennale in Informazione scientifica sul farmaco e la vicesindaco ha assistito alla cerimonia. "Sono stata il suo tutor, per questo ho partecipato. Dopo aver finito l’esame, mi ha colpito che nonostante il suo carattere duro si sia commosso pensando al fatto di non aver potuto vedere crescere le sue figlie, che non lo hanno più voluto incontrare".

Giustizia: Contrada querela il fratello del Giudice Borsellino

 

Ansa, 28 luglio 2008

 

"Su formale incarico del generale Bruno Contrada trasmetteremo copia degli articoli di stampa che riportano le infamanti e farneticanti accuse di Salvatore Borsellino alla Procura della Repubblica competente per i reati ravvisabili d’ufficio mentre nei prossimi giorni verrà presentata querela per diffamazione continuata e aggravata a mezzo stampa". Lo annuncia, con una nota, uno dei legali dell’ex funzionario del Sisde, l’avvocato Giuseppe Lipera, in merito alla dichiarazioni rese dal fratello del magistrato Paolo Borsellino sulla concessione degli arresti domiciliari all’ex "superpoliziotto".

 

L’Onore che non c’è, di Aldo Pecora (www.centomovimenti.com)

 

Non fa in tempo ad uscire dal carcere, che minaccia subito querele per il fratello del giudice Borsellino. Spesso, parlando dei fatti calabresi, ho cercato di stigmatizzarne ironicamente l’assurdità cercando sempre, però, di non ridurne mai la loro triste e cruda drammaticità.

Qui non siamo nuovi, purtroppo, alla protervia di taluni che, calpestando in ogni modo le leggi umane e dello Stato, con gli occhi freddi e le mani ancora grondanti di sangue, o le tasche piene di soldi, hanno negato l’evidenza delle proprie azioni, per di più ergendosi a vittime, perseguitati, capri espiatori da sacrificare all’altare del giustizialismo popolare.

Al tempo stesso questa è la regione dove, come ovviamente per tutto il Paese, viene sistematicamente punito chi cerca di esercitare la propria funzione nella società in maniera onesta, tutto funziona al contrario: chi denuncia viene denunciato e chi indaga viene indagato.

Lo ripeto continuamente ai bambini che incontro nelle scuole, per semplificare questi concetti altrimenti difficili da comprendere: "in Calabria può capitare che i topi inseguano i gatti ed i ladri inseguano le guardie". E se fino ad oggi ho preferito, per pietà, non entrare direttamente nelle vicende legate a Bruno Contrada, adesso non riesco a desistervi e voglio mettere nero su bianco, giusto per non essere frainteso, ogni mio convincimento.

Lo faccio non tanto in segno di solidarietà all’amico Salvatore Borsellino, che non ne ha bisogno, ma quanto per suggerire al maggior numero possibile di persone il senso di disprezzo più profondo che ogni cittadino italiano dovrebbe in questo momento riservare esclusivamente al Contrada.

Innanzitutto chiariamo una cosa: Bruno Contrada ha concorso con la mafia e, seppur le sue mani non si siano macchiate direttamente del sangue di Falcone, Borsellino e degli uomini delle scorte, indirettamente lo considero anche io un assassino: così come è punito con la stessa pena di chi uccide anche chi concorre all’omicidio, io considero parimenti mafioso anche chi concorre più o meno direttamente o indirettamente a qual si voglia sodalizio criminale.

Chiariamo anche una seconda cosa: Bruno Contrada non ha mai chiesto la Grazia al Presidente della Repubblica, proprio perché non ha mai ammesso di essere colpevole, nonostante le prove schiaccianti che ne hanno determinato la condanna in tutti e tre i gradi di giudizio.

Non meno importante l’atteggiamento adottato dai familiari del Contrada, i quali spesso hanno accennato a "verità sconcertanti", senza mai però denunciare queste verità alle autorità competenti. "Bruno sta pagando per tutti", hanno spesso detto.

Rincaro io la dose: Bruno Contrada è un personaggio che Sciascia avrebbe categorizzato tra gli ominicchi, un complice, un codardo, perché continua ancora a coprire le vergogne, gli interpreti e i responsabili di chi, come spesso dice Salvatore Borsellino, ha costruito la cosiddetta Seconda Repubblica impastando assieme al cemento il sangue delle stragi del ‘92.

Chiariamo in terza istanza anche il fatto che Bruno Contrada non è stato scarcerato per decorrenza dei termini, come per Riina Junior, e che il reato di concorso esterno in associazione mafiosa a lui contestato non si è prescritto come per il senatore a vita Giulio Andreotti.

A Bruno Contrada è stata revocata la misura della detenzione perché evidentemente per lui la legge è più uguale piuttosto che per altri, perché è riuscito a suscitare un non meglio identificabile senso di pietà, di pena, nei confronti di qualche animo pio.

Alla notizia di prossime sue querele a Salvatore Borsellino anche io, oggi più di prima, provo pena, anzi, disprezzo per Bruno Contrada: provo pena per un ominicchio che prima di appellarsi alle leggi e alle Istituzioni dello Stato, dovrebbe scontare fino all’ultimo giorno, in carcere, fino all’ultima ora, in carcere, la pena infertagli per aver tradito quelle stesse leggi e quelle stesse Istituzioni dello Stato Repubblicano.

Prima di minacciare querele, Contrada dovrebbe soltanto inchinarsi di fronte a tutta la famiglia Borsellino, chiedendo umilmente perdono delle proprie malefatte ed omissioni di fronte a loro, a Dio ed alla storia. E prima di invocare le leggi a tutela del suo Onore, dovrebbe dimostrarci di possederlo, l’Onore. Credo che nei corsi per le Scuole di Polizia si dovrebbe espressamente insegnare ai giovani aspiranti servitori dello Stato ad essere non tanto dei bravi poliziotti, ma certamente sforzarsi ad essere l’esatto contrario di Bruno Contrada.

 

Aldo Pecora

Portavoce di "Ammazzateci Tutti"

Umbria: Progetto "Il carcere in rete", primo mese di attività

 

Ristretti Orizzonti, 28 luglio 2008

 

Il Progetto "Il carcere in rete" è partito in Umbria il 30 giugno 2008: le varie iniziative messe in campo dalle Associazioni di Volontariato ("San Martino" di Terni ed Orvieto, "Arci" Terni e Perugia, Associazione "I miei tempi" Spoleto) nei quattro istituti di pena della nostra regione.

Pena - carcere - alternative al carcere. Su questo trinomio, e sui diversi significati che ciascun termine sottende, si sono confrontate in Italia, negli ultimi decenni concezioni differenti, che hanno dato luogo a posizioni culturali, esperienze professionali e operative, processi di riforma assai significativi: la risultante è data dall’attuale assetto del sistema penale e penitenziario, dalla pluralità di attori e di interventi in esso presenti.

Se rivolgiamo l’attenzione alla popolazione detenuta ne individuiamo con facilità alcune caratteristiche prevalenti: alta percentuale di persone tossicodipendenti, incidenza significativa di rilevanti problemi di salute, appartenenza alle fasce più povere e marginali della popolazione, scarso livello di istruzione e scarsità o assenza di esperienze lavorative pregresse, disgregazione familiare, alta percentuale di persone straniere, recidività. Rispetto a questo quadro è necessario strutturare programmi di intervento complessi e articolati per riuscire a scardinare i meccanismi che riportano gli individui a situazioni devianti e quindi ad esperienze di detenzione

In primo luogo si deve quindi intervenire necessariamente partendo dal carcere con il sostegno, l’orientamento, l’informazione piccoli "ponti" ha disposizione del detenuto per un probabile/possibile reinserimento nella comunità.

In secondo luogo vi è un interesse generale, da parte della nostra società a cercare di sperimentare interventi che riescono a coniugare sul territorio, il bisogno di sicurezza dei cittadini e la necessità di reinserire nel tessuto sociale le persone condannate ad una pena restrittiva.

La sicurezza non si deve identificare con la carcerazione sempre e comunque ma piuttosto con il dialogo e la prevenzione e che il "trattamento rieducativo " non consista nel permissivismo ma in un concreto "contratto" da stipulare con la persona incorsa in reato e in un’altrettanta concreta rete di sostegno da offrirgli per il reinserimento.

La rete deve essere ampia e non deve avere "smagliature", questo proprio per permettere azioni congiunte di inclusione complessiva ( casa, lavoro, ecc). Solo offrendo opportunità reali si può sconfiggere il rischio che la persona continui la strada dell’illegalità e del crimine.

A questo proposito si può affermare a pieno titolo che il volontariato penitenziario in questi anni assieme all’azione degli enti locali e dei servizi territoriali costituisce il punto e il momento d’incontro tra sicurezza e reinserimento essendo impegnato su entrambi i versanti attraverso interventi sui cittadini detenuti e sulla società civile. Un anello di congiunzione che si pone l’obiettivo di superare le separazioni e le contrapposizioni, sia a livello individuale che collettivo. È un volontariato sempre meno sostitutivo e sempre più sperimentatore di progettualità nuove di interventi continuativi e stabili, capace di essere protagonista di quella rete che circonda positivamente il carcere.

È un volontariato che "abita il carcere", lo conosce, vive i drammi, le amarezze, i problemi e forse questo punto di osservazione rende le associazioni pronte a capire le esigenze i bisogni e a dare risposte che sono progetti. Partendo da questa conoscenza crediamo di poter presentare un progetto nel bando relativo, che investa l’ambito penitenziario a livello regionale.

Gli Istituti della Regione Umbria sono differenti tra loro ma in ogni carcere ritroviamo le caratteristiche di cui sopra. Pensiamo ad un progetto che vada ad implementare e sostenere azioni già in essere e che si muova su cinque assi: interventi di prima necessità: distribuzione di beni primari; azioni di orientamento, accompagnamento, affiancamento; interventi di mediatori culturali per detenuti/e stranieri/e; sostegno ed accompagnamento dei familiari dei detenuti; supervisione operatori.

 

Elena Sdringola

(Conferenza Regionale Volontariato e Giustizia dell’Umbria)

Sicilia: Fleres; assegnare i detenuti in carceri vicini a famiglie

 

Ristretti Orizzonti, 28 luglio 2008

 

Al Ministro della Giustizia. Oggetto: Tematiche carcerarie. Assegnazione e trasferimenti detenuti. Illustrissimo Signor Ministro, come Lei sa, con Legge Regionale 19 maggio 2005, n. 5, art. 33 della Regione Siciliana, è stata istituita in Sicilia la figura del Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e il loro reinserimento sociale.

In questi anni di attività, durante le visite negli istituti penitenziari dell’isola e soprattutto attraverso la corrispondenza che l’Ufficio riceve da parte dei detenuti, si è evidenziata tra le altre, una incoerente applicazione dell’Ordinamento Penitenziario relativamente all’assegnazione dei detenuti negli istituti di pena.

L’art. 42 dell’Ordinamento Penitenziario, e la stessa Costituzione Italiana nel contesto della umanizzazione della pena e del reinserimento sociale dei detenuti, prevede che i cittadini reclusi vengano assegnati in Istituti di pena che favoriscano, per la vicinanza con il luogo di residenza dei familiari, il rapporto con questi ultimi.

Pur nella considerazione dell’applicazione dell’art. 41 bis O.P. che prevede forme più severe di esecuzione della pena per reclusi particolarmente pericolosi, risultano moltissime assegnazioni di detenuti comuni e comunque non rientranti nel regime dell’art. 41 bis O.P., in istituti di pena molto distanti dal luogo di residenza dei familiari, a volte nei punti estremi della penisola.

Registriamo infatti numerose richieste di trasferimento verso la Sicilia che provengono da siciliani reclusi in altre regioni e, di contro, la richiesta di tanti reclusi negli istituti siciliani che chiedono il trasferimento verso altre regioni.

Inoltre, le stesse richieste si registrano per trasferimenti all’interno del territorio siciliano, fatte nel tentativo legittimo dei detenuti di avvicinarsi alle loro famiglie. La distanza dalla residenza dell’Istituto di detenzione incide infatti non solo sulla vita del recluso, ma in quella quotidiana delle famiglie; non è secondario l’aspetto economico per gli spostamenti settimanali di interi nuclei familiari, per fruire del colloquio.

Non sfugge alla S.V. Ill.ma, come un congruo numero di famiglie interessate non abbia redditi cospicui, per il quale, ad esempio, una trasferta settimanale da Catania a Palermo, incide solo per il viaggio per almeno 50 euro, per un totale di 200-250 euro al mese, ovvero una cifra assolutamente non affrontabile per molti familiari di detenuti. Inoltre, in questa circostanza, la distanza dalla residenza comporta che i familiari debbano perdere una giornata lavorativa per effettuare il colloquio, impedendo - soprattutto a quelli che non godono di ferie (si pensi alle collaboratrici domestiche, a chi fa assistenza agli anziani,…) - di usufruire del diritto di mantenere un contatto affettivo con il detenuto.

Sono certo che anche la S.V. Ill.ma, riconosca nella giusta espiazione della pena uno dei cardini dell’ordinamento democratico e civile e che consideri questa prassi di assegnazione "casuale", se non una vessazione verso i detenuti (e soprattutto verso i loro familiari che non sono colpevoli di nessun reato per meritare di non vedere il loro coniuge, padre, o figlio), almeno una illogica consuetudine che ritarda e a volte impedisce un più facile percorso per l’abbandono del circuito criminale e il reinserimento nella società.

Lo Stato non ha alcun interesse a dimostrarsi incattivito e vendicativo verso chi delinque, ha invece tutto l’interesse a mostrarsi severo e giusto, ossequioso per primo delle proprie leggi, e rigoroso nell’applicazione. Infine, per quanto possa sembrare pleonastico, si evidenzia quanto la detenzione rappresenta una opportunità per lo Stato e la società che devono sapere cogliere l’occasione per favorire qualsiasi percorso di recupero alla legalità di risocializzazione. In questa visione il rapporto affettivo con i propri familiari risulta se non fondamentale, sicuramente importante.

Pertanto Le chiedo di volere intervenire affinché si attui una importante ri-assegnazione collettiva dei detenuti, rispettando l’art.42 dell’O.P. e favorendo ogni singola assegnazione presso l’Istituto più vicino al luogo di residenza delle loro famiglie.

Assolutamente certo che la S.V. Ill.ma saprà cogliere l’importanza della richiesta, rinnovo la disponibilità istituzionale e personale a collaborare con la V.S. e i Suoi uffici per una immediata soluzione della questione. Cordiali Saluti

 

Il Garante

On. Dott. Salvo Fleres

Senatore della Repubblica

Genova: madre detenuto morto denuncia "me l’hanno ucciso"

di Ludovico Poletto

 

La Stampa, 28 luglio 2008

 

Alla mamma aveva scritto una lettera drammatica: "Qui in carcere mi ammazzano di botte". "Mi riempiono di psicofarmaci". "Mi ricattano", "Sto male". Ieri lo hanno trovato senza vita riverso per terra, con una bomboletta di gas in mano, in un bagno del carcere di Marassi, a Genova. E adesso, la madre si rigira tra le mani quella lettera tremenda, mentre grida le sue accuse e il suo dolore.

Manuel Eliantonio, 22 anni, originario di Piossaco, è morto l’altra mattina nella struttura penitenziaria dov’era rinchiuso da quasi cinque mesi. Ucciso, dicono al Marassi, dal gas butano respirato da una bomboletta di gas da campeggio. Suicidio? "Forse un incidente", lasciano intendere dalla casa circondariale. Spiegando che il butano è spesso adoperato come droga dai detenuti.

Ma la madre di Manuel, Maria, urla: "Mio figlio lo hanno ammazzato. Lo hanno pestato a sangue e lo hanno stordito con psicofarmaci. Lo hanno ucciso, e stanno cercando di coprire tutto". Mostra l’ultima - nonché l’unica - lettera che il figlio le ha inviato dal carcere dov’era rinchiuso per una condanna a 5 mesi e dieci giorni. "Una storia da niente, resistenza a pubblico ufficiale", dice lei.

L’ultimo scritto di Manuel sono due paginette strappate da un quaderno a quadretti su cui c’è lo spaccato di una vita d’inferno. "Cara mamma, qui mi ammazzano di botte almeno una volta alla settimana. Adesso ho soltanto un occhio nero, ma di solito...". E ancora: "Mi riempiono di psicofarmaci. Quelli che riesco non li ingoio e appena posso li sputo. Ma se non li prendo mi ricattano con le lettere che devo fare". E ancora: "Sai, mi tengono in isolamento quattro giorni alla settimana, mangio poco e niente, sto male".

La notizia della morte di suo figlio, Maria l’ha avuta ieri mattina. Una telefonata dal carcere e l’annuncio: "Manuel è spirato stanotte". Disperata, è partita subito per Genova. In tarda serata è di nuovo a casa, dalla figlia più piccola. Ha gli occhi gonfi per tutte le lacrime che ha pianto, è stanca, disperata e distrutta. "Voglio andare fino in fondo a questa storia. Mio figlio era malato. Non avrebbe dovuto assumere psicofarmaci. Doveva essere curato, non sedato. Avrebbero dovuto portarlo in ospedale se stava male, non abbandonarlo in una cella, solo".

In quell’unica lettera ricevuta dal figlio, mamma Maria legge la disperazione di un ragazzo troppo a lungo maltrattato. "Doveva essere scarcerato il 5 agosto", racconta. "Quando la lettera è arrivata gli ho subito risposto con un telegramma: "Resisti, figlio mio. Resisti, è quasi finita". Speravo di rivederlo tra qualche giorno, invece è arrivata soltanto quella maledetta telefonata da Marassi".

Il verbale della polizia penitenziaria racconta che Manuel si sarebbe stordito con il butano di una bomboletta adoperata per un fornelletto da campo che aveva in cella. Prassi assai abituale per detenuti con problemi di tossicodipendenza. Ma qualcosa è andato storto, l’intossicazione gli è stata fatale. Per chiarire i contorni di questa morte la Procura della repubblica ha già aperto un’inchiesta. Ci sarà un’autopsia, che dovrebbe chiarire tutti i dubbi. Anche quelli sollevati da mamma Maria.

Napoli: vi racconto il giorno del mio ingresso a Poggioreale

di Achille della Ragione (Medico)

 

www.napoli.com, 28 luglio 2008

 

Il carcere è un luogo di finta democrazia, mantenuta al livello più basso possibile. Sintomatico che per la spesa mensile qualsiasi detenuto possa spendere un massimo di 520 euro e con quella cifra debba acquistare tutto dal cibo alla carta igienica.

Appena vi entri non conta se sei innocente o colpevole, in attesa di giudizio o condannato a pena definitiva, se sei un soggetto fragile o duro e spietato. Non fa alcuna differenza se prima abitavi in una casa degna di questo nome o se sopravvivevi in una baracca, se eri abituato a lavarti regolarmente o se col sapone avevi una idiosincrasia insuperabile. Se mangiavi a pranzo ed a cena o solo quando capitava. Naturalmente a soffrire di più sono coloro che vivevano decentemente, che sono innocenti, malati, sensibili, culturalmente e socialmente distanti anni luce con i nuovi compagni di cella.

La prima intollerabile offesa alla dignità è il dover consegnare in deposito le cose più innocenti: il pettine, una spugna naturale, i medicinali; assurdo, come nel mio caso, che ti vengano sequestrati anche i libri, le foto dei tuoi familiari, addirittura un blocchetto di carta ed una penna per scrivere qualche appunto, per timore che possa uscire fuori qualche notizia sulle spaventose condizioni di vita all’interno di quelle tristi mura.

Nel famigerato carcere dello Spielberg, in periodi famosi per repressione e ferocia, a Silvio Pellico fu permesso di scrivere "Le mie prigioni", la cui diffusione costò all’Austria più di una grande guerra perduta.

Auspico che queste amare riflessioni che mi accingo ad elaborare possano, grazie al magico potere della scrittura, riuscire ad incrinare, se non scardinare le fondamenta di un assurdo edificio predisposto ad infliggere sofferenza ed umiliazione, senza speranza alcuna di redenzione e di reinserimento in assoluto dispregio del dettato costituzionale della logica e della pietà.

Sono diventato la matricola 137584, un semplice numero, privato dei più elementari diritti. Trascorro 5 - 6 forse 7 ore (il tempo non si può misurare, in assenza non solo di orologi ma anche della luce, che a stento filtra tra robuste sbarre) in un locale di pochi metri quadrati assieme a una decina di nuovi ingressi, naturalmente senza potere né bere né compiere la funzione fisiologica contraria. Tra gli improvvisati compagni di attesa, spauriti personaggi come il mio collega di professione e di sventura, l’anestesista della banda criminale, un uomo di quasi 70 anni, reduce da pochi giorni da un grave episodio di edema polmonare.

Ad ognuno di noi viene consegnato, dopo una umiliante ispezione corporale, un bacile, una brocca di plastica, delle scodelle metalliche miserevoli, un cuscino di spugna, una federa ed un lenzuolo.

In serata saliamo ad un piano superiore. Nuova interminabile attesa in una cella confortata dalla presenza di un rubinetto a cui abbeverarsi dopo ore di arsura ed un maleodorante cesso turco nel quale finalmente poter sfogare almeno i nostri improcrastinabili bisogni corporali.

Un momento di luce è rappresentato dal colloquio con lo psicologo, una bella, ma soprattutto umanissima signora, la dottoressa Caputo che ringrazio pubblicamente ed alla quale avrei voluto dedicare il libro. Mi accoglie con parole di conforto, mi assicura che la mia permanenza sarà breve e forse mi servirà di esperienza per un nuovo libro, mi confida di aver letto il mio volume sul problema dei rifiuti in Campania. È tarda sera quando raggiungo la cella 22 del padiglione Avellino.

Verona: lavori dei detenuti, vendita a Santuario del Frassino

 

L’Arena di Verona, 28 luglio 2008

 

Ieri il Santuario del Frassino a Peschiera è tornato ad ospitare la giornata della solidarietà promossa e organizzata dall’Associazione La Fraternità, da 40 anni impegnata sul fronte del recupero sociale dei detenuti.

Annuncia frate Beppe Prioli, il francescano veronese fondatore dell’Associazione: "Dopo la felice esperienza dello scorso anno, torniamo a Peschiera, accolti dalla comunità francescana del Frassino, insieme ai nostri volontari e ad alcuni detenuti con i loro familiari. Portiamo con noi i lavori di artigianato e pittura realizzati sia dai detenuti e detenute della casa circondariale di Montorio che da alcuni amici pittori".

La giornata della fraternità ha preso il via alle 9, con l’arrivo dei partecipanti e l’esposizione dei lavori. Alle 10 l’incontro di fra Beppe con i familiari e alle 11.30 la messa. Nel pomeriggio, prima del rientro al convento di San Bernardino, una visita a Peschiera.

Il religioso ben conosce la cittadina arilicense: "Sono stato qui molte volte, come cappellano all’interno del carcere militare, finché è stato chiuso. Anche qui il lavoro fatto con i detenuti aveva dato buoni risultati in termini di recupero. Progetti", sottolinea fra Beppe, "resi attuabili dalla legge Gozzini, quella ora messa in discussione dall’attuale disegno di legge del governo, che intende ridimensionare sensibilmente molti dei benefici concessi a chi sta scontando una pena".

Il fondatore della Fraternità difende la legge Gozzini: "Permette, per esempio, a chi sta in carcere di avviare un lento rientro nella società fatto di piccoli passi, che vanno dai permessi premio alle misure alternative di detenzione. È una legge che consente anche a chi opera all’interno del carcere di lavorare in condizioni decenti e alle persone detenute di allenarsi alla legalità e libertà. È anche grazie a questa norma se c’è stata una riduzione di violenza nelle carceri".

A sostegno della sua difesa della legge Gozzini, fra Beppe cita le statistiche: "I numeri parlano chiaro: il 60 per cento di chi rimane in galera sino all’ultimo giorno torna a commettere reati negli anni successivi; la recidive scende però al 19 per cento tra coloro che escono dal carcere prima, ma preparandosi gradualmente con percorsi e misure alternative".

Conclude il francescano veronese promotore dell’associazione La Fraternità: "Un detenuto in regime di semilibertà che commette un reato fa sempre notizia. Non succede lo stesso, però, per le migliaia di persone che proprio grazie a questi percorsi favoriti dalla legge Gozzini sono riuscite a lavorare, si sono create una famiglia e vivono una vita dignitosa e nella legalità. A me pare", conclude fra Beppe, "che anche di questo si dovrebbe tenere conto ogni qualvolta si parla di sicurezza".

Taranto: il carcere cade a pezzi, protesta polizia penitenziaria

 

Taranto Sera, 28 luglio 2008

 

Il carcere tarantino cade a pezzi. Ed è proprio il caso di dire che fa acqua da tutte le parti. Già perché proprio le infiltrazioni di acqua dalle docce e dai bagni hanno minato la resistenza dello scatolone di cemento inaugurato alla periferia della città nel 1987. Era l’epoca delle carceri d’oro, ma quello di largo Magli si sta rivelando un penitenziario di carta pesta. Già nel 2002 le infiltrazioni di acqua avevano eroso i muri di celle e corridoi, aprendo profonde crepe.

A quell’epoca risale la prima segnalazione spedita da Taranto all’amministrazione penitenziaria. Solo in questi giorni, però, le tante proteste e la rabbia dei baschi blu della polizia penitenziaria hanno trovato ascolto. "Il terzo piano del carcere - spiega il vice commissario Giovanni Lamarca, comandante della polizia penitenziaria - è in via di ristrutturazione.

È stato chiuso e sono in corso lavori di messa in sicurezza. Poi si passerà agli altri due piani". Per consentire gli interventi parte dei 500 detenuti è stata smistata nelle altre carceri della regione. Numeri che danno il senso delle altre problematiche che affliggono il carcere tarantino. Prima dell’indulto la popolazione carceraria sfondava il tetto delle settecento unità.

E pensare che il penitenziario ionico era stato pensato a celle singole per circa trecento detenuti. Ora in ciascuna di quelle celle ci sono tre detenuti, grazie ai letti a castello che però non possono far lievitare lo spazio vitale. In più, e su questo è partita la protesta dei sindacati, il corpo della Polizia penitenziaria a Taranto risulta essere sempre sotto organico. I baschi blu dovrebbero essere almeno 353, ma in largo Magli ce ne sono 320.

Perugia: con Genesu raccolta differenziata arriva in carcere

 

Il Centro, 28 luglio 2008

 

Nel capoluogo umbro la struttura penitenziaria e la società Gesenu promuovono un innovativo progetto di sostenibilità ambientale: raccolta differenziata e auto compostaggio.

Il carcere di Perugia e la Società Gesenu, da anni attiva a livello nazionale e internazionale nel settore della gestione rifiuti, promuovono un’innovativa e interessante iniziativa per lo sviluppo delle pratiche di raccolta differenziata: tutto il sistema carcerario, dagli uffici agli ospiti dell’istituto maschile e femminile contribuiranno concretamente agli obiettivi cittadini di aumento delle percentuali di raccolta.

Proprio la scorsa settimana il Comune di Perugia e la Gesenu hanno premiato le "buone pratiche" di sostenibilità, segnalandole come esempi concreti che possono generare fenomeni di "emulazione positiva" e un richiamo a una " responsabilità condivisa" verso la comunità. Ecco un primo, importante riscontro. Raccolta differenziata spinta dentro le mura carcerarie: carta, cartone, vetro, plastica, lattine, frazione organica, pile esauste verranno differenziate all’interno del carcere e raccolte da Gesenu.

La frazione organica sarà "compostata" in un piccola piazzola di compostaggio all’interno della struttura carceraria e, successivamente il compost di qualità prodotto sarà reimpiegato nell’azienda agricola presso la quale prestano attività sociale i detenuti e che vende i prodotti biologici ricavati.

Il direttore del carcere, Antonio Fullone, accompagnato dai responsabili della Gesenu, ha già tenuto un primo incontro informativo e di sensibilizzazione dei detenuti distribuendo materiale informativo e riscontrando interesse e numerose richieste di chiarimenti.

"Con il prezioso contributo di Gesenu", ha dichiarato il direttore Fullone, "siamo sicuri che i nostri ospiti sapranno mettere in atto le buone pratiche sia nel periodo di detenzione che quando usciranno di qui, coinvolgendo anche le loro famiglie. Questo progetto rappresenta un momento importante di integrazione dell’istituto penitenziario con la comunità esterna. Mi piace sottolineare come il carcere possa essere anche testimonianza di buone prassi da imitare, un esempio da seguire. Un istituto di pena che non si integra nella politica sociale, economica e culturale della comunità alla quale appartiene, non ha senso e, soprattutto, futuro".

Volterra: boom di presenze per "Compagnia della Fortezza"

 

Il Tirreno, 28 luglio 2008

 

Ottocento spettatori in carcere nei primi quattro giorni di Volterrateatro. Oltre ai volontari e agli addetti ai lavori, agli attori e agli agenti di polizia penitenziaria. Presenze con numeri che non risultano avere precedenti, per il carcere e per il festival, grazie a una macchina organizzativa forte e a un programma - per il ventennale dalla nascita in carcere della Compagnia della Fortezza - particolarmente nutrito di spettacoli e iniziative all’interno della fortezza medicea che ospita la casa circondariale del Maschio.

Oltre cinquanta persone lo staff (fra detenuti attori, tecnici, scenografi e costumisti) intorno ad Armando Punzo, direttore artistico di Volterrateatro, regista e fondatore della compagnia della Fortezza. Solo una sessantina gli agenti di polizia penitenziaria effettivi in servizio, a fronte di un flusso di persone ed eventi massiccio e continuo: dal primo pomeriggio fino a mezzanotte nella giornata di apertura (lunedì scorso) e fino alle venti in media ogni sera (fino a ieri).

E tre spettacoli quest’anno, invece di uno, per la Compagnia della Fortezza. "Marat Sade", "Pinocchio" (la versione definitiva dopo lo studio dell’anno scorso), "L’ultimo nastro di Krapp": è entusiasta del lavoro teatrale della compagnia nata e cresciuta in carcere e del festival la dottoressa Maria Grazia Giampiccolo, direttrice del Maschio.

"Il ventennale del festival - spiega Giampiccolo - è stato incentrato sulla fortezza medicea. Non solo teatro ma anche altri eventi a cui hanno partecipato tante persone danno il senso dell’apertura all’esterno di questa struttura e dello sforzo organizzativo di un personale di polizia penitenziaria davvero straordinario. Mi auguro - continua la dottoressa Giampiccolo - che gli spettacoli della Compagnia della Fortezza possano andare in tournée".

"Ci sono già richieste per portare nei teatri italiani "Marat Sade" e "Pinocchio" - spiega Punzo -. Invece per "L’ultimo nastro di Krapp" e per "Il libro della vita" (monologo di Mimoun El Barouni, ex detenuto del Maschio, oggi uomo libero, divenuto attore con Punzo mentre era in carcere, ndr) abbiamo già in programma alcuni appuntamenti: a fine agosto porteremo i due spettacoli a San Marino, grazie a un accordo firmato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il ministero della cultura di San Marino".

Sull’idea del carcere oggi ancora più aperto, grazie anche alla "consacrazione", il 28 giugno scorso, di uno spazio teatrale vero e proprio (il teatro intitolato a Renzo Graziani, il direttore del carcere scomparso in un tragico incidente che fu il primo a sostenere il progetto teatrale di Punzo), Punzo aggiunge: "Ci auguriamo, con il nostro teatro, di poter ospitare sempre più spettacoli e compagnie. Il nostro vuole essere un teatro che produce e che ospita al contempo".

Fuori dal carcere, intanto, appena conclusa la replica di "Pinocchio", Aniello Arena, uno degli storici attori di Punzo, tradisce l’emozione e la fatica degli abiti appena tolti del personaggio di Lucignolo. Stanco e soddisfatto: le giornate del festival sono state massacranti e produttive, con un viavai di persone che si sono congratulate.

"Quest’anno c’è stata molta più partecipazione - dice Arena -: tre spettacoli nostri e quelli che abbiamo ospitato, il convegno e le mostre". Lui recita in due spettacoli, fa Lucignolo in "Pinocchio" e un paziente in "Marat"; la seconda interpretazione la sente più nel profondo. "Il "Marat" lo sento addosso - continua Arena -. Perché qui riesco bene a esprimere me stesso: ci vuole tanta energia per il mio personaggio, e io ce l’ho dentro di me".

Bologna: un libro nella propria lingua per i detenuti stranieri

 

www.socialpress.it, 28 luglio 2008

 

Salvatore Giampiccolo chiede, da mediatore, che ai suoi ex compagni di carcere venga concessa la libertà di sopravvivere dietro le sbarre con decoro. Parla di libertà di leggere e di scrivere Salvatore, che conosce bene la vita da carcerato. Sono cose queste che ti rendono libero anche da rinchiuso, dice. E fa un appello per combattere la discriminazione dei detenuti stranieri.

Insieme a Roberto Morgantini, del Centro Lavoratori Stranieri Cgil, Mattia Fontanella del Comitato delle Memorie, ha dato vita alla campagna "Un libro per il carcere. Le biblioteche ci sono ma i testi sono solo in italiano - spiega -, ho girato quaranta carceri diversi e la situazione era la stessa". L’iniziativa nasce per rispondere alle richieste degli stranieri della Casa circondariale "Dozza" di Bologna, ma vuole fare da precursore a una pratica da realizzare in tutta Italia. Salvatore ha scontato una pena di 25 anni e oggi, che ne ha sessanta, ha deciso di aiutare i più deboli.

Collabora con gli avvocati di strada e spera di poter essere ricordato da qualcuno per avergli fatto del bene. Racconta la quotidianità dei detenuti stranieri, che gli stanno particolarmente a cuore: "In una cella di 3 metri per 2,40 ci stanno in tre, hanno la doccia, perciò non è necessario che escano neppure per lavarsi. Stanno li 21 ore su 24, tre ore sono concesse per una boccata d’aria.

Ma il resto del tempo è vuoto, inutile, non passa mai. Non ci sono abbastanza lavori da assegnare a tutti e così si finisce per fare i conti con lo sconforto, la pesantezza, persino con la voglia di morire.

Molti sono vittime della legge Bossi-Fini - continua Salvatore - clandestini colpevoli di piccoli reati. Devono scontare due, cinque o dieci anni, ma per loro è più difficile rispetto che per molti italiani ottenere il rito alternativo e lo sconto di pena. Perché sono immigrati in un paese straniero. I più non ricevono visite. Sono condannati a un isolamento totale dalle circostanze, non da un tribunale. Poter leggere un libro nella propria lingua sarebbe un passo verso l’esistenza civile da concedere anche se chi ha sbagliato è straniero. E se, come qualcuno dice, la lettura nobilita l’animo, è un peccato negarla a chi ne sente il bisogno.

La civiltà, quella autentica, si trova spesso nelle cose che non si vedono. Nei luoghi remoti, oscuri del vivere: quelli del dolore, della sofferenza. Delle marginalità. Delle privazioni: come il carcere. Dove ogni giorno la parola civiltà deve essere alimentata, sostenuta, tenuta in vita, con rigore e perseveranza (quasi come un fiore), da chi vi opera e da chi è in stato di detenzione. Una parola che va rinfocolata, rivitalizzata anche dall’esterno: dall’intervento degli uomini liberi. Che non devono rimanere indifferenti. Come se il carcere fosse altro da loro. Distinto. Distante.

Il carcere è, nella sua drammaticità, l’altra faccia del salotto buono. Col carcere bisogna fare i conti. Fino in fondo. Perché la civiltà o comprende tutto e tutti o non è civiltà. E un libro può rendere meno incivile, meno, inutilmente crudele questo luogo. Un libro in cui la parola civiltà lasci intravedere, seppure in lontananza, la parola libertà". Con queste parole Roberto Morgantini e Mattia Fontanella hanno voluto lanciare la propria richiesta di donare un libro per la biblioteca della Casa Circondariale "Dozza" ad ambasciate, consolati, aziende e privati.

Chi volesse rispondere all’appello, può far pervenire i testi al Centro Lavoratori Stranieri CGIL in via Marconi 69/D - Bologna. Telefono 051.6087190. cell 335.7456877. Naturalmente i libri devono essere in lingua straniera (araba, francese, inglese, spagnolo, russa, albanese, rumena).

Oristano: tre mesi da auto-reclusa nella comunità di recupero

di Monica Bottino

 

Il Giornale, 28 luglio 2008

 

Ha vissuto tre mesi da detenuta per dimostrare quanto sia difficile per chi ha passato l’esperienza del carcere riprendere una vita normale. O almeno provarci. E quando è tornata a casa si è sentita un po’ più sola. È la straordinaria esperienza di una psicologa genovese, Lorena Capilleri, che nell’estate del 2006, a trentasette anni, ha vissuto l’esperienza della detenzione in una comunità di recupero in Sardegna, in mezzo a prostitute, spacciatori e tossicodipendenti e anche persone condannate per omicidio, ormai a fine pena.

"Il Samaritano", la comunità fondata da don Giovanni Usai, cappellano nel carcere di Isili, è ad Arborea, nelle campagne del Sassu. Abbastanza lontana affinché nessuno possa riconoscere un infiltrato. Grazie a un accordo tra l’Università e il Ministero dell’Interno la psicologa ha potuto inserirsi tra gli altri detenuti, in tutto una quarantina, e avvicinarli per una ricerca che probabilmente sfocerà in due libri.

Uno più accademico sulle modalità di detenzione e di recupero, e l’altro un diario personale, scritto a caldo subito dopo il rientro a Genova, dove l’attendevano un marito e un figlio di tredici anni. "Il lato umano è quello che ho sentito di più", esordisce Lorena, bionda dai tratti morbidi, una dolcezza infinita nella voce e un carattere d’acciaio che l’ha fatta sopportare senza cedimenti un’esperienza che avrebbe piegato tanti altri. Lorena voleva farlo e l’ha fatto. Contro tutti e contro tutto. Anche a dispetto di chi l’avrebbe voluta trattenere a casa.

"Sono partita con un borsone e quattro cose dentro raccolte a caso - racconta con l’emozione intatta di quel difficile debutto -, e come fossi uscita a piedi dal carcere di Marassi con nulla o quasi con me, mi sono imbarcata su una nave sono arrivata in Sardegna. Lì, al porto mi è venuto a prendere Giovanni Caparelli, l’uomo che dirige il centro".

Ex detenuto anche lui, Caparelli è di origini liguri, ha scontato una condanna di 17 anni per un omicidio passionale e ha vissuto gli ultimi tre anni - graziato da un permesso per buona condotta - da don Usai. Oggi è l’uomo che più di tutti incarna la verità della riabilitazione. Direttore della cooperativa che sostiene la comunità con il lavoro agricolo e zootecnico è il braccio destro di don Giovanni Usai.

 

L’ingresso

 

A prima vista "il Samaritano" è una fattoria qualsiasi, senza steccati né recinzioni. "Un cancello chiuso per metà all’inizio del viale rivela la natura del luogo - spiega Lorena -, chi entra deve rispettare le regole, altrimenti se ne va. Ma chiude anche con il percorso di riabilitazione, resta un ex detenuto che difficilmente troverà una nuova collocazione, più facilmente tornerà a delinquere". È successo a Fatia, marocchina di 36 anni, compagna di stanza di Lorena insieme a Florence, nigeriana di trentadue anni. Prostitute che non sono riuscite a troncare i rapporti con i loro carnefici. "Lui, un sardo, la chiamava e Fatia spariva anche due o tre giorni per seguirlo e obbedire agli ordini - racconta Lorena -. Ma anche quando tornava con lo sguardo scuro e fiero allo stesso tempo non le si poteva chiedere niente. Io, almeno, non potevo. La regola era la stessa per tutti, una regola mai dichiarata, ma sempre rispettata: io non ti chiedo e tu non chiedi a me". Lorena, per evitare di trovarsi in difficoltà, si era inventata un passato detenzione nel carcere di Marassi per contraffazione e truffa. Credibile. "Bella Genova, c’è il mare come qui", le aveva risposto un ragazzo che le aveva chiesto da dove venisse. Ma neanche una parola sulla detenzione, sulla pena scontata. Niente. Omertà.

 

Sveglia all’alba

 

Una camera a tre letti e un armadio: due sono donne che hanno visto il peggio, la terza è Lorena. Non c’è bisogno di molto per chi si alza alle 4 e mezza del mattino per andare nei campi a raccogliere pomodori. Lei, psicologa abituata alle ricerche bibliografiche, si è ritrovata con la schiena rotta dalla fatica. Senza un lamento. "Come gli altri mi alzavo all’alba e andavo al lavoro: ognuno faceva quello che era nelle sue possibilità. Io per un po’ ho retto, poi non ce l’ho fatta più e sono andata a lavorare nelle serre. C’era un caldo terribile, ma almeno stavo in piedi e la fatica era sopportabile". Poi i pasti, consumati sempre nello spirito della comunità. "Io prima ero abituata a mangiare un toast a mezzogiorno al volo, dove capitava, tra un appuntamento e l’altro, e abituarmi a mangiare tutti insieme, magari parlando anche delle nostre esperienze non è stato facile. Anzi. Per me era una tortura".

 

Con le prostitute

 

Fatia e Florence hanno la faccia di chi non ha più niente da perdere. Hanno già perso tutto. Chiara ha trent’anni ed è al settimo mese di gravidanza. L’opera di avvicinamento di Lorena agli altri detenuti non è facile. C’è il rischio di scoprirsi perché nessuno viola la regola del "niente domande". "Le altre erano impenetrabili, specialmente le nigeriane - racconta - erano addirittura in un blocco di stanze lontane dalle due ali principali destinate all’ospitalità, in una specie di piccolo villaggio tutto loro, dove la comunità tribale da cui erano state strappate poteva essere virtualmente ricostruita. Mangiavano secondo ritmi loro, parlavano il dialetto loro". Una regressione messa in opera per dimenticare.

 

La scoperta dell’orrore

 

"È stato quasi per caso che ho scoperto quello che nemmeno immaginavo esistesse - prosegue Lorena -, le docce erano in comune con le altre ragazze e senza volere ho visto i loro corpi martoriati dalle violenze e dalle sevizie subite. Essere prostitute nella nostra società significa sottostare alle leggi degli schiavisti. Leggi inumane, che possono arrivare a scegliere una ragazza per farla massacrare di botte fino a ucciderla e filmare il tutto per vendere il video agli "appassionati"". Lorena ascolta il racconto di una ragazza la cui sorella è stata uccisa così, sparita nel nulla. Poche parole, la sofferenza si legge negli sguardi, c’è tanta "comunicazione indiretta" la chiama lei. L’indifferenza, invece, fa sentire queste donne ancora più sole, più spaventate, ma non è facile entrare in confidenza. "Solo Chiara, che aspettava un bambino, si è fatta avvicinare da me - continua - perché era preoccupata e allora sono riuscita a ispirarle fiducia dicendole che anche io sono mamma e cercando di rincuorarla".

 

Senza telefono

 

Tre mesi e una telefonata sola a casa. Nella comunità tutti possono avere il cellulare e mantenere contatti con l’esterno, anche se, a seconda del tipo di permesso concesso dall’amministrazione carceraria, ci sono restrizioni. Lorena se le impone da sola e cerca di non far scoprire la propria identità. "Ho chiamato una volta cercando di non farmi scoprire - ricorda - mio figlio aveva il mio numero di telefono e sapeva che avrebbe potuto rintracciarmi in caso di necessità. Non lo ha fatto: è un adolescente molto responsabile e sa che sua mamma ha un lavoro che la porta qualche volta lontano da casa". Passano le settimane e Lorena entra nella parte dell’ex detenuta con l’anima. Senza riserve. "Mi sentivo parte di una comunità, partecipe di un progetto e ho capito quale sia il ruolo di cooperative come quella di don Usai che danno una nuova possibilità".

 

Don Giovanni Usai

 

"Sono povero come i miei detenuti, ho deciso quindi di ospitarli a casa mia", ha detto il sacerdote, convinto che la criticità del mondo contemporaneo non sia tanto la mancanza di mezzi, quanto quella di fratellanza, amore. Dal 1999 nella comunità di Arborea vivono una quarantina di persone per volta, ex detenuti originari di ogni parte del mondo che mettono anche da parte antipatie di razza per vivere in perfetta comunità. C’è chi alla fine si rifà una vita e chi torna a quella disgraziata di prima, ma tutti sono invitati ad allontanarsi soltanto quando si sentono pronti per farlo, senza forzatura alcuna. Liberi.

 

Diffidenza e paura

 

"Sono sempre stata serena, non ho mai avuto paura, ma ho dovuto vincere il muro di diffidenza che avevo intorno a me, e che, ho notato subito, si alza intorno a tutti quelli che entrano per la prima volta al Samaritano - racconta Lorena -. Ho lavorato anche in biblioteca, accanto ad altri detenuti, e una volta un ragazzo mi ha chiesto da dove venivo. "Dal carcere di Genova, ho risposto. E lui mi ha detto, "bella Genova, c’è il mare" come se l’unico dato interessante fosse per lui quello, non certo il motivo della mia condanna".

 

Il ritorno a casa

 

Sta per finire il racconto dei suoi tre mesi da detenuta e a Lorena si inumidiscono gli occhi. C’è la tristezza di quel momento che avanza. Reale come se fosse oggi. Come reale è stata l’indifferenza di molti che si è sentita sulla pelle. "Tornare a casa è stato difficilissimo, mi ero abituata a vivere in pochi metri, con quattro cose, e mi sono ritrovata nel mio grande salotto, seduta sul divano con le mani in grembo a guardare la finestra assolata. Lo spaesamento è stato totale, il senso di appartenenza che avevo sperimentato nella comunità mi mancava. Non è stato facile. Nemmeno con mio figlio accanto". Lorena se n’è andata senza svelare mai la propria identità. Non sarebbe stato possibile. Il rapporto di fiducia della gente con la comunità stessa sarebbe venuto meno. "Ma non ho potuto fare a meno di informarmi con Caparelli sulle mie compagne di stanza, sulle ragazze che avevo conosciuto. Purtroppo sono tornate sulla strada".

 

Il futuro

 

"Non sarò mai più la stessa, non lo sono più stata, anche la mia vita personale e familiare è cambiata dopo quell’esperienza", confessa Lorena. "Ma sono contenta di averla fatta, mi ha arricchito in maniera straordinaria...", continua e si capisce che non si parla soltanto del profilo professionale. I primi giorni dopo il ritorno Lorena li ha trascorsi scrivendo fiumi di pagine di ricordi, finché erano più vivi, riguardando i disegni fatti dai detenuti. Li ha trascorsi a pensare che la vita, a volte, ti riserva delle sorprese. E che per uscire dal carcere serve l’accoglienza e l’amore. Come per vivere fuori.

Immigrazione: Lampedusa; 2 bambini morti e gettati in mare

 

Il Corriere della Sera, 28 luglio 2008

 

Due bimbi in tenera età sono stati gettati in mare, dopo essere morti di stenti durante la traversata del Canale di Sicilia durata cinque giorni. Lo hanno raccontato all’equipaggio della motovedetta che li ha soccorsi alcuni dei 75 clandestini, tra cui 11 donne, soccorsi su un gommone a 46 miglia da Lampedusa. È la notizia più drammatica di una giornata caratterizzata da un numero particolarmente alto di sbarchi: in Sardegna sono arrivate 150 persone, in Sicilia in tutto circa 200. Le 75 persone arrivate per ultime a Lampedusa, tra le quali 11 donne, sono in condizioni precarie per via della prolungata navigazione, forse di cinque giorni.

Lampedusa - "Due bimbi che erano a bordo del gommone sono morti durante la traversata del Canale di Sicilia e siamo stati costretti a gettarli in mare". A raccontare la drammatica vicenda è stato il padre dei due bimbi, un nigeriano di 30 anni. "La notte dopo la partenza mio figlio, un bimbo di 2 anni, ha cominciato a vomitare. È morto quasi subito e siamo stati costretti a buttare in acqua il corpo. Il giorno dopo - ha continuato il clandestino - ha cominciato a sentirsi male l’altra mia figlia di 4 anni. Era completamente disidratata. Anche lei è morta e l’abbiamo gettata in mare".

I migranti erano stati intercettati a 46 miglia dall’isola, su un gommone nero, di nove metri. Nel corso della giornata, fino a questo momento, sono giunte a Lampedusa 227 persone in quattro diversi sbarchi. Tra i 75 extracomunitari, tutti molto provati dalla traversata, ci sono tre feriti. In condizioni più serie un nigeriano, partito dalla Libia con un piede ferito. Durante il viaggio è peggiorato a causa di un’infezione. Ora è stato trasportato in ospedale a Palermo in elicottero. Sono complessivamente 641 gli immigrati che si trovano in questo momento nel Centro di prima accoglienza e soccorso di Lampedusa, dopo l’arrivo dei 227 extracomunitari giunti sull’isola nei quattro sbarchi che si sono registrati dalla notte scorsa. Intanto il comandante della Capitaneria di Porto di Lampedusa, Achille Selleri, ha confermato che nuovi barconi carichi di clandestini, diretti verso le coste siciliane, sono stati segnalati a largo della Libia.

Sardegna - Sono almeno 130 gli immigrati sbarcati nelle ultime 12 ore sulle coste sud occidentali della Sardegna. Gli arrivi, favoriti dalle condizioni del mare, si sono ripetuti dalle 4 del mattino fino al primo pomeriggio. Un’altra ondata è prevista in serata: un elicottero della Guardia di Finanza segnala infatti in avvicinamento tre barchini carichi di extracomunitari. Gli immigrati, tutti nord africani, sono approdati a gruppi sulle spiagge tra Teulada e Porto Pino, tra loro anche due o tre donne dall’aspetto curato: "ben vestite e truccate - riferiscono i militari delle Fiamme Gialle - tanto che sembravano uscite da una festa".

Una sessantina di clandestini sono stati individuati sul litorale dai carabinieri di Carbonia, altri sono stati seguiti in volo dagli elicotteri della Finanza mentre cercavano di nascondersi tra la vegetazione, quindi bloccati dagli uomini impegnati nella perlustrazione. Altri ancora, infine, soccorsi in mare dai pattugliatori, aggrappati agli scogli. Secondo le prime informazioni, tra gli ultimi arrivi vi sarebbero anche alcuni clandestini già approdati in Sardegna per i quali scatterà l’arresto. I nord africani sono stati trasferiti nel centro di prima accoglienza realizzato nell’area dell’aeroporto militare Mario Mameli di Cagliari-Elmas. La struttura è quasi al completo: probabilmente un gruppo dovrà essere ospitato altrove per la notte in attesa di raggiungere domani un altro centro della Penisola.

Immigrazione: nei Quartieri Spagnoli la "caccia" agli stranieri

di Leandro Del Gaudio

 

Il Mattino, 28 luglio 2008

 

Un episodio gravissimo che non fa onore a Napoli. Extracomunitari respinti dai Quartieri Spagnoli, indagine della Digos: si cercano i "registi" della rivolta.

Qualcuno avrebbe soffiato sul fuoco della protesta mettendo in moto una strategia di violenza. Qualcuno avrebbe fatto girare segnali d’allarme, infiammando animi, fomentando rabbia. È una delle ipotesi sulla reazione degli abitanti di via Pasquale Scura ai Quartieri Spagnoli, in vista dell’arrivo di immigrati dopo il crollo di un palazzo in via Trencia a Pianura.

Indaga la polizia. L’inchiesta della Digos è condotta in queste ore dal dirigente Bonagura. Danneggiamento, incendio doloso, manifestazione non autorizzata, i reati su cui procedono le forze dell’ordine. Un’inchiesta che punta a ricostruire quanto accaduto nella notte tra venerdì e sabato ai Quartieri Spagnoli, dove alcuni residenti hanno respinto l’arrivo di un centinaio di immigrati. Un piccolo esodo da Pianura a Montecalvario fronteggiato con violenza e interrotto sul nascere.

Xenofobia? Malessere spontaneo o uno scontro organizzato? Sta di fatto che tre notti fa in via Scura è accaduto di tutto: cassonetti in fiamme, sassaiole, bottiglie incendiarie, occupazione della scuola "Scura" che avrebbe dovuto ospitare il gruppo di immigrati. Sono le stesse scene, in un contesto urbano differente, della rivolta anti rom che ha infiammato il quartiere della periferia orientale di Ponticelli. Un’immagine di Napoli su cui interviene il sindaco Rosa Russo lervolino: "Un episodio gravissimo che non fa onore a Napoli.

Ciò soprattutto tenendo conto che tra di loro vi erano numerosi bambini in tenera età. Non è questo il sentire della maggioranza dei cittadini e della Napoli civile e democratica che si prepara al grande confronto tra tutte le razze e le culture del 2013. Il Comune - aggiunge il sindaco - ha seguito la vicenda fin dal primo momento ed ha contrastato con fermezza questa posizione discriminatoria. Continueremo a seguire la situazione con attenzione perché prevalga la logica umana e civile dell’ospitalità e dell’accoglienza".

Chi c’è dietro la protesta? Si pensa ad esponenti politici attivi sul territorio: avrebbero dato l’allarme giocando d’anticipo. La rappresaglia almeno un risultato l’ha ottenuto: gli immigrati sono tornati a Pianura, nei pressi del lotto TI, il palazzo sgomberato per un incendio improvviso a metà della scorsa settimana. Ed è qui, ai piedi dei palazzi abusivi di Napoli ovest, che monta l’attesa per le prossime scelte di comune e prefettura. Più di cento africani hanno trascorso un’altra notte - la quarta - in strada, su materassi e sistemazioni di fortuna. Arrivano dal Ghana, dal Burkina Faso, da Capo Verde, dalla Costa d’Avorio.

In tanti sono rifugiati politici e risultano quindi titolari del permesso di soggiorno. Poi c’è un altro gruppo di extracomunitari: arrivano a Pianura da altre zone dell’area metropolitana, probabilmente nella speranza di ottenere qualcosa nel corso della mediazione con il Palazzo. Puntano ad occupare case in via dell’Avvenire, sempre a Pianura.

Stamattina, ore nove, un gruppo di sgomberati incontrerà i vertici di Palazzo San Giacomo: vogliono una casa, una sistemazione. L’assessore alla Protezione civile Giorgio Nugnes chiede l’intervento del prefetto Pansa (responsabile governativo dell’emergenza immigrati a Napoli) e invita alla calma: "Il palazzo TI era uno scandalo che andava risolto, abbiamo messo a disposizione di immigrati e napoletani le stesse strutture". L’assessore Giulio Riccio chiede che vengano identificati i responsabili della rappresaglia ai Quartieri.

Immigrazione: concorso di "Marea" dedicato a "clandestine"

 

Il Sussidiario, 28 luglio 2008

 

Concorso 2008 della Rivista "Marea", trimestrale femminista di saperi e culture. Argomento: clandestine. Scadenza 5 ottobre 2008. La rivista Marea invita tutte le lettrici e le donne amanti della scrittura a cimentarsi in un racconto non più lungo di dieci (10) cartelle a partire da una parola difficile, attuale, evocativa e inquietante: clandestina. Spesso le donne sono state, sono e (ancora) saranno in una condizione di clandestinità. Alcune migranti, le attiviste per i diritti umani femminili dove ancora i diritti sono un miraggio, quelle che vivono dove l’aborto è un reato, e molte altre situazioni ancora. Se la parola "clandestina" vi ispira un racconto, non esitate: c’è tempo fino al 5 ottobre per inviare il vostro racconto.

Il concorso è riservato esclusivamente alle donne. Sono previste due vincitrici prime classificate e altre finaliste. Il tema del concorso è: Clandestine. L’autrice può inviare n. 1 racconto inedito, non in fase di pubblicazione, di max 10 cartelle di 60 battute per 30 righe circa, in n. 2 copie dattiloscritte di cui 1 anonima (se possibile anche trascritta in dischetto in formato word doc o rtf).

A titolo di contributo spese per l’organizzazione, è richiesta una quota di partecipazione di 8,00 Euro da versarsi sul conto corrente postale n. 25402280 intestato a: Associazione Marea, c/o Guidetti, Via Leamara 2, 16144 Genova. Le opere dovranno pervenire entro e non oltre il 5 ottobre 2008; fa fede il timbro postale. Inviare le opere corredate da: dichiarazione contenente:1) l’autorizzazione al trattamento dei dati personali ai sensi della legge 675/96, 2) dati personali (indirizzo, tel, mail), 3) ricevuta del versamento della quota di iscrizione, 4) una busta affrancata intestata all’autrice per la comunicazione dell’esito, a: Associazione Marea C/o Monica Lanfranco Via Ruspoli, 1/5 16129 Genova.

La selezione sarà effettuata da una commissione composta da esperte del mondo della cultura, del giornalismo, delle istituzioni pubbliche e/o private e delle associazioni femminili. Il giudizio della commissione è insindacabile e segreto. Le opere giudicate vincitrici saranno premiate con l’abbonamento alla rivista Marea. Alle autrici verrà consegnato un attestato di partecipazione.

È prevista la pubblicazione delle opere vincitrici e finaliste in una raccolta, stampata da Erga Edizioni come supplemento alla rivista Marea, che sarà distribuita da Cda Consorzio Distributori Associati e dalla Associazione presso le librerie e i luoghi delle donne d’Italia. L’Associazione Marea si riserva la facoltà di utilizzare le opere selezionate per l’eventuale pubblicazione nella rivista omonima. Tale iniziativa, non essendo a scopo di lucro, ma volta esclusivamente alla divulgazione della cultura femminile, non prevede alcun compenso per le autrici.

Le autrici sono garanti dell’originalità degli scritti che presentano e partecipando alla iniziativa accettano implicitamente le norme del presente regolamento. La premiazione si terrà a Genova in sede e data da stabilirsi.

Droghe: Torino; partita d’eroina killer, quattro morti sospette

 

La Stampa, 28 luglio 2008

 

Quattro morti sospette. La prima 72 ore fa, l’ultima ieri mattina. È caccia a Torino ai pusher della droga killer, una partita di eroina e cocaina tagliata male che sta seminando morte tra i tossicodipendenti. Nella notte i carabinieri hanno arrestato 17 pusher e sequestrato oltre 1.200 dosi, che sono ora nei laboratori analisi del comando provinciale per essere analizzati. Tocca agli esperti del Las, il Laboratorio analisi stupefacenti, individuare la componente mortale di questa droga ed eliminarla per sempre dalla strada.

"Abbiamo scelto i controlli a tappeto del territorio - spiega il comandante provinciale dei carabinieri, colonnello Antonio De Vita - perché crediamo possa essere l’unico modo per difendere la vita dei tossicodipendenti, che sono l’anello di una catena che è comunque difficilmente controllabile". Colpa di spacciatori senza scrupoli, che per 50 euro confezionano dosi di droga mista a terra, tra i rifiuti che si accumulano nei cespuglio del Parco Stura, il famigerato Tossic Park. Colpa dell’inesperienza di pusher improvvisati, che sostituiscono i connazionali arrestati o ritornati al proprio Paese per l’estate.

Colpa della disperazione dei tossici, a caccia di qualunque cosa da iniettarsi nelle vene pur di porre fine alle continue crisi di astinenza. Eroina o cocaina non fa differenza, anche quando non si sa da dove arrivano o se siano state mescolate. Come in America, dove lo speed-ball, questo il nome del pericoloso cocktail, va di moda già da tempo. Roba troppo forte per i fisici debilitati da anni di sniffate e buchi sparsi. Specie quando le modalità in cui viene confezionata in condizioni igieniche drammatiche.

Dopo che il blitz al Parco Stura dello scorso 26 giugno ha portato alla chiusura di alcuni laboratori chimici artigianali, i bilancini di precisione dei pusher sono finiti lungo il fiume Stura, nascosti nei tronchi degli alberi o, peggio ancora, tra l’immondizia che si accumula da queste parti. Ovvio che poi possa scapparci il morto, a pensare che quel miscuglio di microbi di ogni genere viene iniettato nelle vene. Gli specialisti del comando provinciale dei carabinieri non escludono nessuna ipotesi. E intanto continuano a rastrellare i viali del Tossic Park, le vie di Porta Palazzo e quelle di Barriera di Milano. Perché anche solo una dosa può essere fatale.

Giulio Manfredi (giunta di segreteria Radicali Italiani) e Domenico Massano (giunta di segreteria Associazione Radicale Adelaide Aglietta) hanno commentato:

"Sarà un segno dei tempi: in nome della sicurezza, i militari svolgeranno le funzioni delle forze dell’ordine; e le forze dell’ordine, a Torino, svolgono le funzioni degli operatori socio-sanitari, tentando di ridurre il danno provocato dalle partite di eroina tagliata male o troppo pura, immesse sul mercato da nuovi spacciatori. Ma non è la stessa cosa!

Tra ieri e oggi alcuni spacciatori sono stati arrestati; saranno sostituiti da altri e i consumatori di sostanze illegali continueranno a dipendere da questi, senza avere alcuna possibilità di controllare quello che si inietteranno o quello che ingeriranno. Questo accade ogni giorno, a Parco Stura come dappertutto.

A Parco Stura c’era e c’è la possibilità concreta (perché la legge, addirittura la legge Fini-Giovanardi, non lo proibisce) di istituire una narco-sala per permettere almeno ai cittadini tossicodipendenti (che hanno il diritto come gli altri alla salute e alla sicurezza) di consumare le sostanze sotto controllo medico, in condizioni ambientali ben diverse da quelle che oggi i TG hanno documentato. Una narco-sala anche per agganciare i consumatori e permettere loro un accesso più facile alla rete dei servizi socio-sanitari.

Nel film "Il ladro di bambini", il regista Gianni Amelio fa dire a un carabiniere "Noi carabinieri facciamo i lavori che gli altri non vogliono fare". Sarebbe ora che la politica non delegasse più alle forze dell’ordine, oltre alla repressione, anche quelle politiche di riduzione del danno attuate, adesso, in tanti paesi europei. Sindaco Chiamparino, nulla da dichiarare?".

Cobs: sperimentare le stanze del consumo. Evitare che le persone muoiano nello squallore e nell’abbandono. È l’appello del Cobs Piemonte, il Coordinamento operatori servizi a bassa soglia, che definisce "evitabili" le morti per overdose degli ultimi giorni e ribadisce la necessità di sperimentare le stanze del consumo sicuro, le cosiddette narco-sale. "Come ogni estate - si legge in una nota dei Cobs - è partita la strage dei consumatori di sostanze stroncati da overdose o mix chimici letali. Proprio queste sono le morti evitabili. Ribadiamo quindi la richiesta di poter effettuare una sperimentazione sanitaria che permetta di incidere sul fenomeno almeno per quanto riguarda le morti e la diffusione di patologie droga-correlate".

Iraq: Marco Pannella in sciopero della fame per Tareq Aziz

di Valter Vecellio

 

L’Opinione, 28 luglio 2008

 

Iniziativa radicale contro la pena di morte. Solo grazie all’impegno del leader radicale oggi Tareq Aziz ha degli avvocati difensori.

Perché questo ennesimo bisogno di "dialogo" di Marco Pannella - iniziato il 6 luglio scorso - e di un’altra cinquantina tra parlamentari, dirigenti e militanti radicali? Non è una protesta. È un’iniziativa politica contro la prevedibilissima condanna a morte dell’ex ministro iracheno Tarek Aziz, numero due del regime guidato per decenni da Saddam Hussein. "Dopo la straordinaria vittoria della Risoluzione sulla Moratoria Universale della pena di morte approvata dall’Assemblea Generale dell’Onu il 18 dicembre 2007", dice Pannella, "centinaia di parlamentari di tutti gli schieramenti politici, premi Nobel e personalità di tutto il mondo hanno sostenuto l’azione non-violenta e lanciato o aderito all’appello "Moratoria della pena di morte anche per Tarek Aziz".

Quello che non viene detto, non viene "raccontato" (e anche perché sia detto, sia "raccontato" si digiuna), è che in questi giorni in Irak è in corso un processo burla che con ogni probabilità si concluderà con la condanna a morte del cristiano caldeo Tarek Aziz. Ad Aziz è stata negata ogni garanzia processuale. Fino a qualche giorno fa non aveva neppure un collegio di difesa, dopo che il suo avvocato iracheno ha abbandonato il paese per paura di essere assassinato.

Se ora ha degli avvocati lo si deve all’iniziativa di Pannella e dei radicali. Non si tratta di un "mero" atto umanitario; è piuttosto un preciso, concreto e puntuale obiettivo politico: la difesa del diritto e della verità, della legalità e della giustizia in Irak. Evitare la condanna a morte e l’esecuzione di Tarek Aziz segna un’evidente soluzione di continuità rispetto a metodi e pratiche in voga ai tempi di Saddam, oltre ad assicurare verità e giustizia a tutte le vittime del suo regime, non solo quelle per cui Aziz è oggi sotto processo. Chi ne è convinto può fare qualcosa: firmare l’appello che si trova on-line nel sito www.radicalparty.org.

Non se ne parla, non se ne deve parlare: Pannella sostiene che a fine febbraio 2003 sembrava possibile un rinvio dell’inizio della guerra: "Ricordo che il 18 gennaio del 2003 dissi da "Radio Radicale" che occorreva dare forza politica alla possibilità che ci fosse davvero una alternativa, con le dimissioni o l’esilio di Saddam. C’eravamo riusciti a tal punto che probabilmente il presidente degli Stati Uniti ha anticipato la data della guerra perché la pace stava scoppiando".

La cosa non meriterebbe di essere approfondita e "raccontata"? Quando si chiede perché con tanta insistenza si propone che l’informazione radiotelevisiva pubblica si doti di un format per i diritti civili e umani è anche per dare questo tipo d’informazioni. Forse è per questo che il progetto non decolla?

Israele: una lettera di Mordechai Vanunu, 18 anni in carcere

 

Associated Press, 28 luglio 2008

 

L’ingegnere israeliano Mordechai Vanunu ha lavorato per nove anni nel centro nucleare di Dimona. Nel 1986 è stato sequestrato a Roma da un commando del Mossad, processato in Israele a porte chiuse e condannato a 18 anni di carcere per aver rivelato al giornale britannico Sunday Times l’esistenza di un programma nucleare militare israeliano, che lui ha visto e fotografato.

Nel 1986 lo stato d’Israele aveva in dotazione 200 testate atomiche! Programma nucleare che lo stato ebraico ha sempre negato. Mordechai è stato scarcerato nel 2004, ma il 2 luglio del 2007 viene di nuovo condannato dalla "giustizia" israeliana a 6 mesi di prigione per aver rotto la sua "promessa di silenzio", cioè per aver parlato di nuovo con la stampa. L’8 luglio del 2008 ritornerà in tribunale per appellarsi contro la nuova sentenza di sei mesi! Ci uniamo all’appello dell’ingegnere, nella speranza che i media amplifichino questa ignobile e vergognosa operazione antidemocratica.

Di seguito la sua lettera consegnata alla stampa. "Sono Mordechai Vanunu, colui che ha detto la verità sul programma israeliano per le armi nucleari nel 1986, e ho pagato con 18 anni della mia vita in una prigione israeliana. Sono stato rilasciato nell’aprile 2004, ma Israele mi ha negato i miei diritti umani di libertà di parola e di libertà di movimento non permettendomi dal 1986 sino ad oggi nel 2008 di lasciare il paese.

L’8 luglio 2008 ritornerò in un tribunale per appellarmi contro una nuova sentenza a sei mesi di prigione per aver parlato a dei media stranieri dopo il mio rilascio nel 2004. Chiedo che i media riportino il mio caso e gli sforzi degli avvocati e dei cittadini norvegesi per garantirmi asilo politico.

Israele afferma che detengo ancora un segreto sul loro impianto nucleare sotterraneo, un posto in cui non sono stato in 23 anni e in cui non sono nemmeno mai stati gli ispettori internazionali per l’energia atomica.

Ho detto tutto ciò che sapevo sul programma israeliano per le armi nucleari nel 1986 perché ascoltai la voce della mia coscienza e volevo evitare guerre nucleari. Dal 2004 ho parlato con migliaia di turisti e pellegrini a Gerusalemme est e registrato ore di video disponibili sul Web.

Israele è stato fondato a condizione del sostegno alla Dichiarazione Universale dell’Onu sui Diritti Umani. Io chiedo al mondo che richieda ad Israele di onorarla e non solo in questo caso.

Ognuno ha il diritto di lasciare qualunque paese, incluso il proprio, e di ritornare al proprio paese: articolo 13-2. Ognuno ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione; questo diritto include la libertà di mantenere opinioni senza alcuna interferenza e di ricercare, ricevere e comunicare informazioni ed idee attraverso qualunque media indipendentemente dalle frontiere".

 

 

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