Rassegna stampa 26 luglio

 

Giustizia: sapete a cosa dovrebbe servire, davvero, il carcere?

di Filippo Facci

 

Il Giornale, 26 luglio 2008

 

La maggioranza lo considera una punizione, una vendetta, un impedimento fisico a delinquere: ed è una visione legittima, è la cosiddetta funzione retributiva che c’è negli Stati Uniti e dove non ha senso prevedere indulti e semilibertà e condizionali e permessi vari, talché il problema del sovrappopolamento carcerario si risolve facendo più galere.

Volete davvero questo? Va bene, ma il fatto è che la nostra legge e la nostra Costituzione (articolo 27) dicono una cosa diversa, e spiegano che il carcere ha una funzione rieducativa e che sarebbe teso a scoraggiare le recidive, nonché a convincere che di delinquere non valga la pena. I suddetti e discussi strumenti di garanzia servirebbero per distinguere da caso a caso.

Potete dissentire, ripeto: ma il carcere in Italia sarebbe questo (sarebbe, perché ora è un pastrocchio) e per quanto si blateri sempre di cambiare la Costituzione non c’è mai nessuno che osi nominare l’articolo 27. Si protesta, ci si scontra, ci si indigna: ma in Italia nessun politico o giornalista spiega mai che cosa debba essere veramente e in definitiva, un carcere.

Giustizia: riforma Sanità Penitenziaria, una voce "da dentro"

di Sandro Quaglia (Segreteria Nazionale Sai - Sindacato Autonomo Infermieri)

 

Ristretti Orizzonti, 26 luglio 2008

 

Come tutte le persone interessate ben sapranno, il nostro Sindacato sin dalla sua nascita si è battuto per un maggiore e qualificato servizio a tutela di una classe di utenza molto complessa e, per questo, bisognosa di una assistenza sempre più qualificata.

Essendo, il nostro, un Sindacato di infermieri, cioè di professionisti culturalmente formati per il soddisfacimento dei bisogni dell’individuo sia sano che malato, abbiamo da subito cercato di far capire ai nostri interlocutori come, all’interno degli Istituti Penitenziari, fosse indispensabile portare, per la nostra categoria, una cultura che non prevedesse solo la visita medica e la somministrazione della prescrizione medica ma anche e soprattutto quella del dialogo con il detenuto nel proprio ambiente di vita, celle e compagni di cella, cercando di fare emergere quei bisogni la cui soluzione potesse evitare l’insorgenza di stati morbosi, sapendo che tra i nostri utenti vi sono anche individui che non sanno o non si rendono conto o non vogliono parlare della loro malattia, individui questi, che sono proprio esposti a maggiori rischi.

Per raggiungere tale obiettivo, verificata la enorme resistenza interna negli Istituti nei quali eravamo presenti e che ci veniva fatta anche in modo pesante sia dal personale medico (culturalmente preparato per la sola assistenza al malato o presunto tale e quindi alla sola diagnosi e cura) che di polizia penitenziaria (che vedeva e vede nel servizio sanitario penitenziario nei confronti dei detenuti il solo aspetto medico legale per la propria salvaguardia e per soddisfare i propri bisogni), abbiamo cercato raccordi con il Dap pensando che la nostra cultura ed i nostri convincimenti potessero essere imposti dall’alto.

Nel corso degli anni seguenti il Dap, recependo con grande convinzione le nostre istanze, emanava disposizioni sempre più tendenti a favorire l’assistenza in senso generale e quindi la prevenzione nei confronti del detenuto, trascurando interamente però la fase di verifica che di fatto vanificava l’emanazione di tali disposizioni lasciando ai Direttori di Istituto, in nome di una autonomia che sempre più si traduceva in autarchia, decisioni che a fronte di cali di disponibilità finanziarie, invece di andare ad incidere sugli sperperi, acquisti inutili o differibili ecc. ed affidandosi ai poteri gestionali ed organizzativi sanitari dei medici, andavano sempre più ad intaccare i monti orari degli infermieri che, con il complice silenzio del personale infermieristico dipendente cui si concedevano sempre maggiori agevolazioni, venivano sempre più relegati a compiti di manovalanza obbligandoli pertanto a trascurare gli aspetti assistenziali.

Durante la fase preparatoria e di approvazione della L. 230/99, ci schierammo a favore del passaggio nel Servizio Sanitario Nazionale ritenendo che questi potesse essere più "aperto" alla nostra professione che continuiamo e ritenere sempre più utile proprio nel contesto dell’utenza carceraria, aderendo anche al Forum Nazionale per l’Applicazione della L. 230/99 dal quale però fummo costretti ad uscire non perché non ci riconoscessimo in loro, ma perché davano poca visibilità al ruolo infermieristico affidandosi, per gli aspetti sindacali, alla sola Cgil e perché incentrava sempre più la propria richiesta facendo leva sulla inefficienza e fallimento del Servizio Sanitario Penitenziario senza nessuna analisi del (presunto) fallimento, ad esempio:

asseriva motivi di tardivo intervento senza analizzare che il carcere non è (e non sarà neanche dopo la 230/99) una corsia di ospedale dove un malato suona e l’infermiere accorre, in carcere con la richiesta di un intervento sanitario da parte di un detenuto, gli agenti di sezione devono eseguire una serie di procedure che di fatto portano ad un tardivo intervento del personale sanitario, ma non si può affermare che tale ritardo è determinato dall’inefficienza del SSP;

asseriva che i confronti con la salute percepita dai cittadini liberi mostrano uno stato di salute in carcere nettamente peggiore, e questo è certamente vero, ma non si analizza la tipologia di utenza che si ha in carcere, tipologia di utenza che rende il peggior stato di salute ovvio come è ovvio che in un reparto ospedaliero per anziani vi sia un tasso di mortalità superiore che in un reparto ospedaliero pediatrico.

E di tali esempi pratici ne potremmo fare a iosa, così come ci preme sottolineare che non risponde a verità che il fallimento (presunto) del SSP sia dovuto alla babele di rapporti di lavoro che non darebbero motivazioni al personale sanitario che esercita in carcere, perché medici ed infermieri a parcella, sono professionisti ed in quanto tali esercitano bene o male non in funzione della propria posizione contrattuale, ma in funzione della propria professionalità, così come ci preme far sapere che le enormi difficoltà che ha incontrato il SSP, sono per lo più dovute alle difficoltà organizzative dei Servizi di Traduzione e Trasporto e che sarebbero emerse facilmente se qualcuno si fosse preso la briga di analizzare la miriade di rinvii di esami esterni, il tutto senza poi bendarsi gli occhi per non vedere le enormi difficoltà e resistenze che i Servizi Sanitari Territoriali hanno fatto ogni qual volta si richiedeva un loro intervento.

Non vogliamo dimenticare gli enormi disagi assistenziali per i primi malati per Hiv e le risposte dei servizi territoriali, così come non possiamo e non vogliamo dimenticare i silenzi delle strutture territoriali "da sempre" competenti, sia prima che dopo la 230/99, in materia di sicurezza e prevenzione nei luoghi di lavoro, ed il carcere ha detenuti lavoranti soggetti ad Inps ed Inail e quindi al di fuori dalle competenze del comparto giustizia.

Tali fatti, per noi che viviamo più di ogni altra figura sanitaria all’interno di un carcere, ci hanno spinto a ritenere che il detenuto, dal punto di vista sanitario, si potrà accostare sempre più al "meglio" solo se si interverrà dal punto di vista culturale indistintamente su tutte le figure che operano all’interno dell’Istituto penitenziario, arrivando a trattarlo semplicemente come "individuo".

Per arrivare a ciò, dobbiamo però dimenticarci "tutti" - anche le Associazioni a loro più vicine - di prenderli in giro con affermazioni del tipo "con il transito del SSP nel SSN finalmente anche il detenuto sarà trattato come un cittadino normale", perché un detenuto avrà sempre necessità di permessi ed autorizzazioni di altre figure e servizi interni al pianeta carcere per ogni proprio atto sanitario e non, permessi ed autorizzazioni che necessiteranno sempre di tempi che ne rallenteranno l’usufruizione.

Durante l’audizione in sede di preparazione del Dpcm poi approvato il primo aprile, muovemmo critiche a quanto si andava prefigurando in quanto in sede legislativa si andava a calare dall’alto un provvedimento che disponeva il transito senza intervenire sui reali ostacoli che avevano determinato il disservizio, demandando gli aspetti, a nostro avviso ben più necessari, quali i rapporti tra Sicurezza e Sanità "a dopo"; ravvisando, in ciò, rischi che facevano pensare al fallimento della legge sulla chiusura dei manicomi, quando fu varata una legge (la 180) bellissima e civile ma che, chiudendo i manicomi senza dare alternative e certezze, ha provocato tanti disagi proprio nell’utenza che la legge voleva e doveva salvaguardare, disagi talmente evidenti da farla mettere in discussione e che sta facendo aprire un dibattito per una sua radicale riforma, disagi che già il transito della tossicodipendenza dal SSP al SSN, avevano evidenziato.

Dopo più di un mese dall’entrata in vigore del Dpcm del 01/04/08, nulla è cambiato, se non che ai disagi organizzativi interni dell’Istituto si vanno sommando i disagi organizzativi con l’ASL di competenza per i rifornimenti di materiale parafarmaceutico e farmaci che pur essendo di fascia "C" sono essenziali (benzodiazepine, colliri oftalmici ecc.).

In molte regioni di tale legge ancora non se ne parla, ma laddove si è cominciato a parlarne (vedi il Piemonte), si sono stipulati accordi dei quali si mette soprattutto in evidenza, almeno a leggere il comunicato stampa del 10/07, "la progettazione di interventi finalizzati ad assicurare il soddisfacimento dei bisogni di salute, della domanda di cure, a garantire la continuità dell’assistenza a favore del personale di Polizia Penitenziaria" (??) senza, tra l’altro, alcun riferimento per il personale sanitario attualmente operante e che, adesso sì, si sente minacciato, incompreso e frustrato dal fatto che di tale passaggio se ne stiano occupando Organizzazioni che fino ad oggi hanno soltanto ostacolato la sanità penitenziaria.

 

Sai - Sindacato Autonomo Infermieri

Per la segreteria nazionale

Il v.s. Sandro Quaglia

Giustizia: azione penale obbligatoria, riformarla è prioritario

di Tullio Padovani (Ordinario di Diritto Penale)

 

www.radiocarcere.com, 26 luglio 2008

 

Alle prese con il diluvio di processi che stabilmente inondano la giustizia italiana, le abbiamo provate (quasi) tutte: depenalizzazioni per liberare il campo dai reati "minori", riti alternativi per incentivare la rapida definizione dei procedimenti, giudice unico per moltiplicare il numero dei magistrati utilizzabili, disciplina delle priorità nella trattazione dei processi (il poco ricordato art. 227 del d.lg. n. 51 del 1998); e non è tutto. Risultati: scarsi, per non dire nulli.

Il problema è antico, cioè strutturale. Un tempo, per mitigarne la presenza, si ricorreva alle amnistie di "sfoltimento", con cadenza più o meno quinquennale in epoca repubblicana, e biennale durante il regime fascista, costretto dalla penuria di misure alternative stabili a ricorrere con generosa frequenza alla sagra dell’impunità retrodatata (qual è in pratica l’amnistia).

Ma dal 1992 il ricorso a questa causa estintiva è reso pressoché impraticabile dal fatto che, per introdurla, è richiesta una maggioranza qualificata, politicamente difficile da raggiungere.

Il ruolo dell’amnistia è stato allora assunto dalla prescrizione: il trionfo del tempo sulla giustizia, i cui fasti dipendono in sostanza dalle energie processuali investite nella definizione di questo piuttosto che di quel procedimento: dipendono cioè da come viene esercitata l’azione penale.

D’altra parte, nessun p.m. potrebbe applicarsi con pari solerzia, pari determinazione, pari dispendio di mezzi investigativi per perseguire indifferenziatamente tutti i reati che si riversano sul suo tavolo: piaccia o non piaccia, è costretto a scegliere.

Attualmente, la scelta avviene dietro il paravento di una norma costituzionale che sembra escludere persino la pronunciabilità della parola: l’art. 112 Cost., secondo cui "il p.m. ha l’obbligo di esercitare l’azione penale". La sua ragione genetica sta nella duplice esigenza di assicurare l’uguaglianza di fronte alla legge e di garantire l’autonomia del p.m. dalle interferenze del potere esecutivo. Ma si tratta di esigenze che, per quanto incontrovertibili in linea di principio, hanno determinato conseguenze paradossali e contraddittorie.

L’uguaglianza si è convertita nel suo contrario, se è vero, come è vero, che i reati non possono essere tutti, indifferenziatamente, perseguiti con pari effettività. E, del resto, nessuno si attende che la sottrazione di una bicicletta e lo svuotamento del caveau di una banca mobilitino lo stesso sforzo di indagine. Il principio di uguaglianza postula che situazioni sostanzialmente omogenee siano trattate allo stesso modo, e viceversa. Il piano di identificazione dell’uguaglianza può allora essere tracciato limitandosi a constatare che i due reati dell’esempio sono, in astratto, entrambi furti pluriaggravati?

Quanto all’autonomia del p.m., non si può non considerare i rilievi di Giuseppe Di Federico: l’obbligatorietà dell’azione penale rende il p.m. irresponsabile delle decisioni discrezionali che compie, e non può non compiere: converte così l’autonomia in atto sovrano, eliminando ogni controllo democratico sulle scelte di politica criminale e cancellando qualsiasi responsabilità.

Anche se questo stato di cose si perpetua in forma ingravescente man mano che si incrementa il profluvio dei procedimenti, il tabù dell’art. 112 Cost. ha per lungo tempo funzionato come una formula magico-religiosa. Mettere in discussione l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, in qualunque modo e in qualunque senso, è equivalso sino a ieri ad una bestemmia dinanzi all’altare: una bestemmia che - va pure detto - solo i Radicali osavano pronunciare, sostenendo, a buon diritto, che si trattava in realtà di una preghiera della ragione.

Oggi, i tempi sembrano mutati, e maturi per aprire la discussione: le soluzioni non sono a portata di mano, ma non sono nemmeno irraggiungibili. Senza pensare di riformare l’art. 112 Cost., occorrerebbe piuttosto dargli un contenuto, che attualmente non ha. Che faremmo se la Costituzione sancisse che il debitore è tenuto ad adempiere il proprio obbligo?

Considereremmo inutili o indebite le dozzine di norme che il codice civile dedica alla disciplina dei tempi, delle forme, dei modi con cui l’adempimento deve (o può) avvenire? In questa prospettiva, sarebbe anche il caso di ricordare che, il nostro codice di procedura colloca l’inizio dell’azione penale (l’inizio!) alla chiusura delle indagini preliminari (art. 405), e cioè quando il p.m. ha svolto le indagini "necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale" (art. 326).

La fase delle indagini preliminari è "coperta" dall’art. 112 Cost.? Non pare davvero. E se non lo è, i doveri funzionali che ne caratterizzano lo svolgimento sono suscettibili di regolamentazione anche in termini di scelta e di priorità. Il varco è aperto; anzi: è sempre stato aperto. Ma non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere.

Giustizia: Di Pietro; andiamo al voto col "Polo della Legalità"

 

Il Centro, 26 luglio 2008

 

L’Italia dei Valori apre di fatto la campagna elettorale per le regionali in Abruzzo con un comizio del presidente del partito Antonio Di Pietro, oggi alle 19 in piazza Salotto a Pescara. L’ex pm ha anticipato che il movimento candiderà un proprio uomo alla guida della Regione.

 

Onorevole Di Pietro, avremo un candidato governatore dell’Italia dei Valori?

"Noi chiediamo innanzitutto un ricambio generazionale della classe dirigente. Siamo una formazione politica nuova, fuori dai giochi di palazzo, da ruberie e approfittamenti. Crediamo che l’Abruzzo abbia bisogno di una scossa per ricominciare da capo".

 

La situazione è così grave e generalizzata?

"Non c’è altro da fare. Siamo di fronte a un trasversalismo della mazzetta, che, al di là delle responsabilità penali, presenta forti responsabilità politiche. C’è un collateralismo e un inciucio della mazzetta davvero umiliante per una regione così orgogliosa".

 

È vero che sarà lei in prima persona a candidarsi alla carica di governatore?

"Certe uscite anzitempo servono a bruciare le candidature più che a consolidarle. In Abruzzo anzitutto dobbiamo risvegliare la coscienza civile e la partecipazione dei cittadini".

 

Con qualcuno dovrete allearvi. Con chi?

"Abbiamo deciso, non solo per l’Abruzzo, di non guardare alle sigle ma alle persone. Finora si è discusso sempre di contenitori e non di contenuti, e mi riferisco anche alla questione morale. Ho sentito dire che in Abruzzo personalità compromesse del centrodestra oggi si candidano a guidare la Regione al posto del centrosinistra. Si cade dalla padella nella brace. Non va bene".

 

Farete le primarie per individuare i candidati?

"No, perché vorrebbe dire fare una coalizione e dunque accordi preliminari con altri partiti. Noi non vogliamo prendere a scatola chiusa una coalizione. Piuttosto che tapparci il naso preferiamo lavorare in queste settimane per costruire un punto di incontro con i portatori di interessi diffusi, con le associazioni, gruppi di persone, liste civiche, per individuare il polo della legalità che possa ridare credibilità all’azione politica in Abruzzo".

 

Quali garanzie chiederete ai vostri candidati?

"Non ci limiteremo a chiedere il certificato elettorale ma anche quello penale".

 

Escluderete dalle liste anche i semplici indagati?

"Abbiamo fatto una scelta di campo già alle elezioni politiche. Abbiamo stabilito delle regole di legittimità che si basano sulla non candidabilità delle persone condannate e sulla opportunità a non candidare persone sottoposte a giudizio, fino a quando non chiariscano la propria posizione. Oggi partiamo dal presupposto che chi è sottoposto ad accertamenti giudiziari debba fare un passo indietro".

 

È d’accordo sul voto in autunno?

"Credo che sia necessario ridare funzionalità a un organismo importante come la Regione e bisogna farlo al più presto. I fautori del rinvio sono i partiti che temono la sconfitta o quei consiglieri che sapendo che nessuno li voterà puntano a prolungare il mandato".

 

Però ci sono alcuni problemi tecnici. La legge elettorale contrasta con il nuovo statuto regionale.

"C’è una legge elettorale vigente e con quella si va a votare".

 

Onorevole, che idea si è fatta di questa inchiesta sulla sanità?

"L’inchiesta è seria, fatta in modo scrupoloso e qualificato".

 

Cominciano a emergere dubbi sulla posizione di alcuni indagati.

"Come in tutte le inchieste i magistrati devono valutare decine di posizioni. Certamente ci saranno posizioni da archiviare e altre da rinviare a giudizio. Ma il fatto che ci possano essere delle archiviazioni non inficia, bensì esalta l’inchiesta, perché vuol dire che ci sono dei magistrati indipendenti che verificano i fatti e dividono il grano dalla gramigna. Una cosa è certa il marcio c’era e c’è. E vorrei ribadire che tra i tanti "pizzini" mandati in varie carceri come solidarietà ai detenuti, con tutto il rispetto delle persone, ci poteva essere anche qualche messaggio di solidarietà ai magistrati, invece di accusarli di fare dei teoremi".

 

C’è una parte dell’opinione pubblica che ritiene la carcerazione di Del Turco inutile rispetto al punto in cui è arrivata l’inchiesta. È d’accordo?

"Non spetta a me valutare, ma la magistratura conosce le carte. Sarà l’interessato a rivolgersi a chi di dovere. Il problema è che una certa stampa etero diretta vuole diventare il quarto grado di giudizio e giudicare i giudici. Una cosa che sconcerta l’opinione pubblica".

 

Lei da ministro ha collaborato con Del Turco. Che impressione ne ha avuto?

"Da ministro delle Infrastrutture ho avuto contatti con tutti i Presidenti delle regioni, da Formigoni per finire con Del Turco. Ho lavorato bene con loro nel rispetto delle rispettive funzioni. Ma io mi occupavo di infrastrutture, qui stiamo parlando di sanità".

 

Il presidente vicario della Regione Enrico Paolini ha detto di aver collaborato con la magistratura. Ha parlato con lui o ha intenzione di incontrarlo?

"Non conosco i fatti specifici e non spetta a me giudicare i comportamenti. Lo dico come cittadino: ognuno che abbia un incarico o un ruolo istituzionale, se viene a conoscenza di eventuali reati deve andare dal magistrato, e se c’è qualcuno che lo critica vuol dire che ha qualcosa da nascondere".

 

Anche voi eravate in giunta.

"Noi fino all’ultimo abbiamo evitato di entrare nella giunta. Poi siamo entrati e abbiamo cercato di raddrizzare la baracca cercando di portare un contributo di innovazione. Ma non c’è stato dato il tempo: dopo 20 giorni è successo quello che è successo".

Giustizia: Uno bianca; dopo 14 anni Pietro Gugliotta è libero

 

Il Resto del Carlino, 26 luglio 2008

 

L’ex poliziotto, che non era stato condannato per gli omicidi, ha finito di scontare la sua pena. L’avvocato Stefania Mannino: "La scarcerazione sia serenamente accettata nel rispetto di una sentenza che ha escluso la sua partecipazione per tutti i fatti di sangue della banda".

Pietro Gugliotta tornerà in libertà nei prossimi giorni. Dopo 14 anni, dunque, esce dal carcere uno dei poliziotti condannati per la "Uno bianca", la banda che tra fine anni 80 e primo 90 seminò il terrore tra l’Emilia-Romagna e le Marche, facendo 24 morti e oltre cento feriti rapinando banche, uffici postali, supermercati e sparando a testimoni, nomadi e immigrati.

Gugliotta, che non è stato condannato per gli omicidi, grazie anche all’indulto e alla legge Gozzini, ha finito di scontare la sua pena. Comincerà un percorso di reinserimento nella società che prevede anche un lavoro in una cooperativa, che svolgerà comunque non a Bologna e neanche in Emilia-Romagna.

L’avvocato Stefania Mannino, la legale che ha difeso Gugliotta in tutti i gradi di processo: "Confido che la scarcerazione di Pietro Gugliotta sia ora serenamente accettata nel rispetto di una sentenza che ha escluso la sua partecipazione per tutti i fatti di sangue della banda e che, nel comminare una pena comunque elevata, ha tenuto conto di una sua responsabilità morale anche per i delitti da altri commessi".

"Gugliotta - sottolinea la Mannino - esce dal carcere dopo aver scontato interamente la sua pena. Come richiesto dai familiari delle vittime, non gli è mai stato concesso un giorno di permesso premio e non ha mai neppure trovato attuazione l’ammissione al lavoro all’esterno, pur autorizzata dal magistrato di sorveglianza nel novembre scorso; ha usufruito unicamente dei benefici che non potevano essergli negati, quelli per il corretto comportamento in carcere e per l’indulto, previsto da una legge votata dalla maggioranza assoluta dei parlamentari italiani.

Viene riconsegnato alla società civile dopo 14 anni di detenzione, scontati tutti in isolamento dal resto della popolazione carceraria, senza che sia stato avviato un concreto percorso di reinserimento sociale e ciò, lungi dall’essere una vittoria per i familiari delle vittime, rappresenta una grave sconfitta dei principi e delle finalità della pena propri di uno Stato di diritto".

Lettere: i detenuti da varie carceri scrivono a Riccardo Arena

 

Giuseppe ed altre 26 persone detenute nel carcere di Busto Arsizio

Caro Riccardo, ti scrivo anche a nome di altri 26 compagni di detenzione che hanno sottoscritto questa lettera per denunciare le precarie condizioni di vita a cui siamo costretti qui nel carcere di Busto Arsizio. Una struttura vecchia e degradata, dove c’è un grave sovraffollamento tanto che noi detenuti siamo costretti a vivere uno sopra all’altro. È una vergogna. Qui manca di tutto, e sopravvivere nel carcere di Busto Arsizio è come superare una tortura quotidiana.

Ci costringono a stare in cella per quasi tutti il giorno. Il resto del tempo lo passiamo nell’apatia più totale. Infatti qui nel carcere di Busto Arsizio non c’è per noi detenuti nessuna attività da fare. Né lavorativa, né educativa. Il nulla del nulla. Anche farci una semplice doccia è diventato un’impresa. Così, oltre al decoro, pure l’igiene personale è messa a rischio. Per questa ragione io e i miei 26 compagni detenuti abbiamo deciso di iniziare uno sciopero della fare per chiedere: lavoro, la possibilità di fare la doccia e attività sociali. Chiediamo di scontare la pena in modo dignitoso.

 

Aida: mio padre è detenuto a Catanzaro

Cara Radio Carcere, mio padre è detenuto nel carcere di Catanzaro. È in misura cautelare. È dal 20 dicembre 2008 che è detenuto. Mio padre ha 50 anni ed è affetto da diabete, ma ciò che veramente ci preoccupa è la sua malattia più grave cioè il cuore in quanto è cardiopatico grave. Il fatto che non riusciamo ad accettare è che non vengano dati a mio padre i farmaci che gli servono per le sue malattie. I medici del carcere gli danno altri farmaci che ritengono analoghi. Ma così non è perché mio padre sta sempre peggio. E d’altra parte è comprensibile, visto che ogni farmaco è diverso dall’altro.

Abbiamo dato ai medici del carcere tutta la documentazione relativa alla terapia da fare ma è stato inutile. Mio padre ha provato a fare la domandina per farsi portare i farmaci da noi, ma improvvisamente le numerose domandine sono sparite. Ha anche provato ad acquistarle lui stesso dal carcere ma neanche questo tentativo servì a qualcosa. Ci tenevo a raccontarti questo breve ma importantissimo episodio. Grazie mille a nome di tutti i detenuti e dei familiari.

 

Emanuele, dal carcere di Tolmezzo

Ciao Riccardo, ti scrivo dal carcere di Tolmezzo, che è un carcere punitivo. E tanti detenuti sanno di cosa sto parlando. Le celle dove siamo costretti a vivere sono fatiscenti e in più sono buie come caverne. L’unico nostro svago è guardare la televisione, che funziona e non funziona. Inoltre, qui non funziona niente. Non ci sono educatori. Non c’è lavoro. E l’amministrazione del carcere non ci da nulla, né mezzi né aiuti.

Il che crea alcuni problemi a noi detenuti italiani, ma ne crea tanti ai detenuti stranieri, che non hanno soldi e neanche il pacco dalla famiglia possono ricevere. Io ho la mia famiglia a Napoli e nonostante le numerose richieste fatte al Ministero della Giustizia, non riesco ad essere trasferito. Resto qui, in un carcere a 1.000 chilometri dalla mia famiglia. Una moglie e un figlio che non vedo da più di 10 mesi. È il carcere nel carcere. Caro Riccardo, ora ti saluto con una stretta di mano e ti ringrazio per quello che fai per noi detenuti.

Genova: detenuto 22enne muore inalando gas da bomboletta

 

La Repubblica, 26 luglio 2008

 

Un giovane detenuto piemontese è stato trovato morto in un bagno della prigione dopo che aveva inalato butano, probabilmente nel tentativo di drogarsi. È accaduto la scorsa notte. La vittima è Manuel Eliantonio, 22 anni, originario di Pinerolo, che stava scontando una condanna a 5 mesi nel carcere genovese di Marassi per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni plurime aggravate. La sua pena avrebbe dovuto terminare il 4 settembre.

Secondo quanto emerso dalle indagini della polizia penitenziaria, e anticipato oggi da alcuni organi di stampa locali, il giovane avrebbe cercato lo "sballo" inalando del butano attraverso un tubo di plastica collegato ad una piccola bombola usata per alimentare i fornelli da campo che i detenuti usano per cucinare.

Il butano, chiamato anche n-butano, è un idrocarburo che si ottiene per distillazione dal petrolio e dal gas naturale. Quella di utilizzare il gas butano come droga era, soprattutto in passato, una pratica assai diffusa nelle carceri. Quando il giovane è stato trovato dagli agenti della penitenziaria, ormai era troppo tardi. A nulla sono valsi i tentativi di rianimarlo da parte dei medici del carcere.

Milano: a San Vittore lo stesso degrado, per detenuti e agenti

 

Il Giorno, 26 luglio 2008

 

Racconto tratto dall’intervista fatta con Simone Porru, Sovraintendente della Polizia Penitenziaria in servizio nel carcere San Vittore di Milano e Segretario del Sindacato Sinappe.

Sono 17 anni che faccio l’agente di Polizia Penitenziaria ed è dal 1985 che lavoro nel carcere San Vittore di Milano. In tutti questi anni di servizio ne ho viste veramente tante. Ma oggi a San Vittore per il sovraffollamento e per il degrado siamo in uno stato di allarme eccezionale.

Il carcere di Milano può contenere infatti 700 detenuti, mentre oggi ce ne sono 1.414. Praticamente il doppio. Si tratta per lo più di detenuti in attesa di giudizio e circa il 70% è extracomunitario. Di fatto è impossibile far entrare a San Vittore più detenuti di quanti ce ne stanno ora. Spesso capita che le celle sono così piene che siamo costretti a mettere i detenuti appena arrestati in stanzette improvvisate, senza letto, dove i mal capitati dormono per terra, in attesa che si liberi un posto in una cella.

Altre volte arrivano detenuti malati di tubercolosi, che devono stare isolati per ragioni sanitarie, ma che, non essendoci posto, siamo costretti a mettere nella sala del barbiere. Sono scene brutte anche per noi agenti di polizia penitenziaria, che chiudiamo il cancello di quella stanzetta e che ogni sera, prima di tornare a casa, cerchiamo di dimenticare quello che abbiamo visto in carcere.

La realtà di San Vittore assomiglia a dei gironi infernali. Ogni reparto, ogni raggio, un inferno a parte. Il 3° e il 5° reparto sono stati da poco ristrutturati. E le celle sono decorose, ma a causa del sovraffollamento anche lì la vita è disumana. Nelle celle piccole ci sono 6 detenuti, mentre in quelle più grandi ce ne sono addirittura 9. Ovviamente sempre chiusi.

Inoltre, la presenza di molti detenuti stranieri ci impone di fare attenzione alle etnie per evitare litigi. Per esempio un ragazzo marocchino non puoi metterlo con un tunisino o con un albanese. Non a caso qualche settimana fa in una cella dove cerano due albanesi e due marocchini è scoppiata una rissa. Un rischio inevitabile quando non si hanno posti a disposizione.

Nel 6° reparto la situazione è ancora più grave. Le celle sono vecchie e sporche. Celle piene di povera gente. Gente che non ha nessuno, né biancheria pulita né sapone per lavarsi. È lì che si respira maggiormente l’abbandono. Sia il corridoio che le celle sono nere. I muri scrostati e poi, ora che è estate, il caldo e i cattivi odori tolgono il respiro anche a noi agenti figuriamoci a chi sta in cella… è un inferno.

Si tratta del reparto non solo più degradato, ma anche del più affollato. Lì ci cono celle con dentro 10 o 11 persone. Detenuti accatastati uno su l’altro chiusi in cella per 21 ore al giorno. Anche a me che ho così tanti anni di servizio, fa impressione camminare davanti a quelle celle. A volte si vede un braccio che sporge dalla grata per raccogliere una cicca per terra. Altre volte si sentono le urla di chi si è tagliato le braccia per avere un tranquillante. È terribile.

Non solo io, ma tanti altri colleghi soffrono questa situazione. A San Vittore uomini detenuti e uomini in divisa divido lo stesso degrado. Sono gli agenti più giovani a soffrire di più. Spesso, dopo una giornata di lavoro fatta di 12 ore, mi guardano smarriti. Ragazzi di prima nomina che affrontano una realtà così difficile come San Vittore. Ragazzi del sud che, lontano dalla moglie e dalla famiglia, devono vivere in una città costosa come Milano e con solo 1.200 euro al mese.

La maggior parte di loro non si può permettere una casa in affitto e così lasciano la moglie lontano e dormono nella caserma di San Vittore. Una caserma che però è fatiscente come il carcere ed è sovraffollata come il carcere. Le infiltrazioni d’acqua sono all’ordine del giorno e in una stessa camera ci possono dormire più di tre agenti. Ogni tanto il carcere viene sfollato. E così anche noi agenti riprendiamo un po’ il fiato. Ma poi tutto torna come prima.

Alessandria: sul Polo Universitario del carcere "San Michele"

 

www.giornal.it, 26 luglio 2008

 

Avvenuto ieri l’incontro per la formalizzazione del rinnovo dell’accordo di cooperazione con l’Università "Amedeo Avogadro" per il Polo Universitario "Pausania", attivo presso la Casa di Reclusione di San Michele-Alessandria.

L’incontro ha coinvolto diverse realtà locali: oltre il Comune di Alessandria, le Facoltà di Scienze Politiche, di Giurisprudenza e di Scienze M.F.N. dell’Università Amedeo Avogadro, il C.I.S.S.A.C.A., la Società cooperativa "Il Gabbiano", l’Associazione Betel, la Casa di Reclusione di San Michele-Alessandria.

Socializzazione e reintegrazione delle persone detenute, attraverso lo studio. Non solo un’attività di interesse per gli stessi detenuti coinvolti, ma importante per la comunità locale nel suo complesso. Nell’ Anno Accademico 2006-2007, ad esempio, sono risultati essere 8 i detenuti iscritti a facoltà universitarie, mentre quest’anno 3 detenuti sono riusciti a diplomarsi. Questo, in sostanza, l’obiettivo principale dell’accordo. Una serie di sinergie che intende proseguire nel tempo tale progetto, portando ad un numero sempre più elevato i diplomati-detenuti e cercando di evitare, una volta avvenuta la reintegrazione, che accadano delle "ricadute".

 

L’Università in carcere (a cura della Redazione di "Altrove")

 

Dopo una prima fase di sperimentazione, iniziata nel 2001, visto il positivo riscontro, è stato formalizzato il rinnovo dell’accordo di cooperazione tra l’Istituto di reclusione di San Michele - Alessandria e l’Università del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro" per il Polo Universitario "Pausania".

L’Assessore alla Solidarietà Sociale del Comune di Alessandrina, Teresa Curino, afferma: "intendiamo collaborare sempre di più per diffondere una cultura che riconosca nella socializzazione e reintegrazione delle persone detenute, attraverso lo studio, un’attività alquanto significativa: non solo di interesse per gli stessi detenuti coinvolti, ma importante per la nostra comunità locale nel suo complesso".

Una laurea conseguita in carcere ha un significato speciale, determinante per un percorso di reinserimento del detenuto nel tessuto sociale. Lo scorso anno tre detenuti hanno conseguito la laurea triennale e si sono iscritti ai rispettivi corsi di Laurea Specialistica. Risultati importanti anche dal punto di vista trattamentale per il pieno raggiungimento degli obiettivi, non solo in termini didattici (tre laureati in un anno) ma anche e soprattutto per le aumentate possibilità di lavoro e di reinserimento per gli studenti-detenuti una volta liberi. Tutto questo conferma l’importanza e la validità della legge "Gozzini" ultimamente messa in discussione.

Sulmona: Del Turco ha ricevuto visita di parenti e del Sindaco

 

Il Centro, 26 luglio 2008

 

Giornata di visite per Ottaviano Del Turco. In carcere sono andati a trovare il presidente della Regione Abruzzo il figlio Guido accompagnato dalla compagna del governatore Cristina D’Avanzo. Anche il sindaco, Angelo Salucci, del pese natale, Collelongo, di Del Turco è andato a trovare l’ex sindacalista. Del Turco ha riferito ai familiari di essere pronto ad un confronto con il suo principale accusatore per dimostrare la sua innocenza. Il presidente della Regione Abruzzo attende speranzoso che il provvedimento di carcerazione nei suoi confronti venga ripreso in esame. L’ex sindacalista, anche se in carcere, è in buone condizioni ed ha ricevuto altri libri.

Il figlio. "Mio padre è pronto a un eventuale confronto con il suo principale accusatore, sicuro di dimostrare la sua estraneità ai fatti. Sono azioni previste dalla procedura giudiziaria. Tutto quello che è legale siamo disposti ad affrontarlo affinché venga fuori la verità". Lo ha detto Guido Del Turco all’uscita dal carcere di Sulmona, dopo una nuova visita al padre Ottaviano, arrestato il 14 luglio nell’ambito dell’inchiesta su presunte tangenti nella sanità. "Non è una guerra, ma un confronto tra chi ti accusa e chi si deve difendere. Siamo convinti che tutto si sistemerà per il meglio" ha aggiunto il figlio del presidente dimissionario della Regione Abruzzo. Guido Del Turco è arrivato all’istituto di pena insieme al sindaco di Collelongo (L’Aquila), Angelo Salucci, e alla compagna del governatore, Cristina D’Avanzo

L’incontro è durato circa due ore e mezzo. All’uscita dal carcere la compagna di Del Turco non ha voluto rilasciare dichiarazioni. Lo ha fatto per lei Guido Del Turco, descrivendo l’incontro come molto commovente. "Non si vedevano dal giorno dell’arresto e ci sono stati molti momenti di silenzio. Nessuno dei due - riferisce ai cronisti - ha pianto. Ci siamo imposti sin dall’inizio di questa vicenda di non lasciarci travolgere dalle emozioni, ce le teniamo dentro". Alla richiesta di commentare le affermazioni di Antonio Di Pietro che ieri, in piazza a Pescara, ha chiesto solidarietà anche per i magistrati che seguono l’inchiesta, oltre che per coloro che sono in carcere, il figlio di Del Turco ha replicato: "preferisco non commentare".

Il Sindaco. "Ottaviano Del Turco si aspetta un provvedimento che riveda la sua condizione di detenuto in carcere". Lo ha riferito, al termine del colloquio avuto con lui Angelo Salucci, sindaco di Collelongo (L’Aquila), il paese natale del Presidente della Regione Abruzzo, arrestato nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Pescara su presunte tangenti nella sanità. "Del Turco è pronto ad accontentare qualsiasi richiesta degli inquirenti, sa quali sono i suoi obblighi in questo momento di detenzione, ma sa anche quali sono i suoi diritti e tutte le mosse che potrà fare il suo avvocato.

Di sicuro - ha proseguito Salucci - si aspetta di essere messo in una condizione diversa da quella attuale, sa di essere innocente ed è pronto a qualsiasi confronto, anche con il suo principale accusatore, visto che questa è una delle prove più importanti sulla quale si fonda tutta l’inchiesta". Quanto alle condizioni del governatore dimissionario, Salucci ha detto di averlo trovato piuttosto bene. "Abbiamo parlato delle cose di tutti i giorni e mi ha chiesto di portare il suo saluto alla gente di Collelongo".

Insieme ad altri libri, nell’istituto di pena di Sulmona - dove è andato insieme al figlio e alla compagna di Del Turco - Salucci ha fatto avere all’ex presidente della Regione anche "tante lettere di solidarietà arrivate a casa. Volevamo portare anche qualche dolce locale - ha concluso -, ma non è stato possibile perché è vietato dal regolamento".

Roma: a Rebibbia femminile lezione astronomia per detenute

 

Ansa, 26 luglio 2008

 

Per una sera le stelle sono entrate anche in uno dei posti dove è più difficile vederle, il carcere. È successo nel penitenziario romano di Rebibbia, dove 65 detenute ieri sera hanno assistito a una lezione dell’astronomo Paco Lanciano e hanno potuto vedere e riconoscere gli astri che spesso in alcune celle non si riescono neanche a vedere.

L’evento è stato organizzato dall’associazione Vic (Volontari in carcere) in collaborazione con le biblioteche di Roma. Alle detenute, provenienti da tutti i reparti del carcere, compreso quello di alta sicurezza, è stato permesso per la prima volta di uscire dalle celle di sera e di sdraiarsi in uno spiazzo mentre Lanciano, con l’aiuto di una mappa celeste proiettata su uno schermo, le aiutava a districarsi fra le stelle e i pianeti visibili nonostante le luci del carcere tutte accese, spaziando anche sui miti greci legati alle costellazioni.

L’esperimento può dirsi perfettamente riuscito, con le detenute, quasi tutte giovanissime molte delle quali straniere, tutte attente alla spiegazione e che facevano a gara nel trovare nel cielo le stelle di volta in volta indicate dall’astronomo sulla mappa. Alla fine le domande allo scienziato hanno spaziato dal classico legame delle stelle con l’oroscopo a concetti ben più difficili, come l’origine dell’universo.

"È stato un momento emozionante anche per me - ha commentato alla fine la vicedirettrice del carcere Ida Del Grosso - spero che con questa lezione, rapportandosi a spazi così grandi, anche le detenute capiscano che questo e un momento di passaggio della loro vita, e che arrivi loro un messaggio di speranza". Quello di Rebibbia è il più grande carcere femminile d’Italia, e conta circa 350 detenute. l’esperienza della lezione, sempre con Lanciano, era stata fatta già l’anno scorso, ma nella sezione maschile.

"Dopo l’esperienza dell’anno scorso sono state proprio le detenute a chiederci di ripeterla qui - spiega una delle volontarie che ha organizzato l’evento - in particolare una di loro ci teneva moltissimo, perché dalla sua cella non riesce a vedere il cielo, e ha detto di non vedere le stelle da sette anni".

Palermo: lettere d’ammirazione ai "boss", la Procura indaga

 

La Sicilia, 26 luglio 2008

 

"Don Bernardo, le tue preghiere e la tua Bibbia sono più sacre di quelle del Papa". "Caro Totò Riina, l’ammiro come uomo per quello che ha fatto, potrebbe essere mio padre e ne sarei fiero". Sono alcuni dei brani delle lettere indirizzate a Provenzano e Riina nelle carceri di Novara e Opera dove sono detenuti in regime di 41 bis e che "Panorama" pubblica oggi.

È sempre la stessa storia. Il crimine e i criminali affascinano. Una patologia, ma non c’è nulla da fare. Ad Henri Desiré Landru, l’uomo che strangolò dieci donne e un ragazzo, bruciandone poi i cadaveri nella stufa della sua villa di Gambaise, vicino Versailles, in cella arrivavano centinaia di lettere inviategli da signore folli d’amore per lui. Processato e condannato a morte, fu ghigliottinato il 25 febbraio 1922.

Anche il bandito Salvatore Giuliano, ucciso misteriosamente a Castelvetrano il 5 luglio 1950, attirava le donne come il miele le mosche. Ed altrettanto accadeva a "Grazianeddu" Mesina, il bandito di Orgosolo che dopo 40 anni trascorsi in carcere il 24 novembre 2004 fu graziato dal presidente Carlo Azeglio Ciampi.

Storia identica per Renato Vallanzasca, "il bel René" della Banda della Comasina, condannato a 4 ergastoli e 260 anni di reclusione. Innumerevoli le donne che lo hanno amato anche epistolarmente. Due le ha sposate da detenuto: Giuliana Brusa nel luglio 1979 e Antonella D’Agostino il 5 maggio scorso. E che dire di Luciano Lutring, il "solista del mitra", l’ex pericolo pubblico numero uno d’Italia e Francia? Oggi, ottenuta la grazia nel 1977, dipinge e scrive. Da detenuto le donne sbavavano per lui scrivendogli appassionate lettere d’amore.

Tornando a Provenzano e Riina a scrivere sono giovani, donne innamorate, galeotti e sacerdoti con richieste di aiuto, consigli, preghiere. "Missive - scrive Panorama - che trasudano ammirazione, indignazione per "l’ingiustizia" del carcere e che sono accompagnate spesso da immagini di San Leoluca, patrono di Corleone, e Santa Rosalia, patrona di Palermo". Sulle lettere indagano la Procura di Palermo e la Procura Nazionale Antimafia. "C’è sempre il sospetto - spiega il Procuratore Nazionale Piero Grasso - che persino le preghiere spedite nascondano messaggi criptati. Si prendono brani del Vangelo, preghiere e su quel testo si costruisce un cifrario criptato".

Sassari: detenuto vince premio "Scafi" per la drammaturgia

 

La Nuova Sardegna, 26 luglio 2008

 

Detenuti scrittori con il senso dell’ironia. Grazie alla capacità di far ridere raccontando una storia di scelte difficili, dodici detenuti di San Sebastiano hanno vinto il premio "Annalisa Scafi" per la drammaturgia, nell’ambito del progetto speciale per il sostegno alla scrittura penitenziaria. Il prestigioso riconoscimento è stato ufficializzato la settimana scorsa a Roma, all’interno del Festival "I solisti del teatro".

E proprio nello scenario della capitale, la compagnia "Piera degli Esposti-Teatro 91" ha messo in scena l’opera tratta dal racconto dei detenuti sassaresi, "Il ragazzo e la sua betoniera, ovvero meglio la grammatica che la pratica". La storia racconta di Giuseppe, mandato a lavorare in un cantiere edile da un padre abbrutito dalla fatica e di poche parole. Giuseppe scappa dal lavoro, ma dopo notti insonni sceglie di abbandonare la strada del fannullone per tornare a scuola.

Una storia a lieto fine, condita con molta ironia ed espressioni del sardo dialettale, che si è aggiudicata il premio tra 142 concorrenti. "Il lavoro è nato da un progetto realizzato con la psicologa del carcere, e il risultato raggiunto è la conferma della qualità del percorso di inclusione scelto in questi ultimi anni - ha commentato Maria Paola Soru, educatrice -.

L’anno scorso i detenuti di Sassari hanno vinto il premio letterario "Luna nuova", organizzato da Casa Serena: un’altra conferma delle cose buone che si riescono a esprimere nel mondo carcerario".

Immigrazione: sbarchi raddoppiati, è "emergenza nazionale"

 

La Repubblica, 26 luglio 2008

 

Clandestini: il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’Interno Roberto Maroni, ha proclamato, ieri, lo stato di emergenza nazionale. Ma subito è scoppiata la polemica con l’opposizione. Il ministro ombra dell’Interno, Marco Minniti, del Pd, ha attaccato chiedendo di "conoscere ragioni e finalità dell’emergenza".

Il Presidente della Camera, Gianfranco Fini, del Pdl, accogliendo la proposta di Minniti, ha chiesto che il Governo riferisca in Parlamento. Il premier, Silvio Berlusconi, non è intervenuto (il suo silenzio è stato giudicato "grave" da Mario Barbi, del Pd), ma ha lasciato rispondere il ministro dell’Interno Roberto Maroni, visibilmente innervosito per l’ennesima tempesta abbattutasi sul Viminale dopo le polemiche sulle impronte ai bambini rom (con le "censure" del parlamento Ue e degli esperti Onu), sul reato di clandestinità e sull’uso dell’Esercito in compiti di ordine pubblico nelle grandi città.

"Abbiamo prorogato una procedura - ha spiegato Maroni - iniziata nel 2002 e rinnovata per altre 5 volte con 4 decreti dell’Esecutivo guidato da Silvio Berlusconi e due da Prodi". "Il penultimo rinnovo - ha aggiunto il titolare del Viminale - del precedente governo di centrosinistra, limitava a 3 regioni l’emergenza. Noi l’abbiamo estesa all’intero territorio nazionale per dare più assistenza ai clandestini e poterli accogliere in tutte le regioni in edifici e non in stand o tende".

Maroni ha poi motivato l’emergenza con delle cifre: "Nei primi sei mesi dell’anno - ha detto - gli sbarchi di clandestini sono raddoppiati, anche perché non è ancora operativo l’accordo con Gheddafi di pattugliare le coste libiche. Quando lo sarà, il problema non esisterà più".

All’interrogativo lanciato dal leader dell’Idv, Antonio Di Pietro ("c’è davvero un’emergenza invasione o è solo una misura burocratica per costruire prima i nuovi Cie?"), ha risposto Ignazio La Russa, ministro della Difesa, secondo cui il decreto del Cdm "è una decisione burocratica che serve ad accelerare le procedure per la costruzione dei nuovi centri di espulsione".

Ma le risposte del ministro dell’Interno leghista, puntuali e precise dal punto di vista tecnico, non sono servite a placare la tensione politica con l’opposizione. "È una decisione abominevole - ha tuonato il vice capogruppo del Pd alla Camera, Gianclaudio Bressa - non essendo capaci di governare su cose vere e importanti puntano alla paura della gente. Sono dei mascalzoni".

"È un clima da stato di polizia", gli ha fatto eco il vicepresidente della Camera, Rosy Bindi. "Impugneremo la decisione del cdm davanti alla Consulta - ha detto il governatore della Puglia, Nichi Vendola - questo è un pezzo di fascismo". Per Pino Sgobio, del Pdci, "siamo alla dichiarazione di guerra agli extracomunitari". L’ulivista del Pd Franco Monaco ha invece bollato l’intera vicenda come "una pubblicità-regresso", mentre Bobo Craxi ha parlato di "provvedimento razzista" dando a Maroni della "faccia di bronzo per non rendersi conto dell’enormità dichiarata".

Maroni ha definito tutta questa polemica "degna della peggiore politica italiana". Ma gli ha prontamente replicato Minniti sostenendo che "la mala politica è aver proclamato lo stato di emergenza lasciando poi l’intero Paese in sospeso per alcune ore prima di avere delle spiegazioni, giunte solo dopo le richieste dell’opposizione". A creare "confusione" e alzare la temperatura dello scontro, secondo Minniti, sono stati alcuni esponenti della maggioranza che hanno enfatizzato il decreto "annunciandolo come assoluta novità".

Il riferimento è alle dichiarazioni di Roberto Cota, presidente dei deputati leghisti alla Camera ("lo stato di emergenza dà all’esterno un forte segnale tale da far capire che l’immigrazione clandestina non è più tollerata"). E a quelle dell’europarlamentare dello stesso partito, Mario Borghezio, secondo cui "l’Europa approverà questa decisione, che si inserisce nel "nuovo corso" della politica dell’Ue sul rimpatrio dei clandestini". Ma queste parole, per Minniti, sono la prova della "contraddizione tra Viminale e una parte della maggioranza che allude a ben altri intenti".

Immigrazione: il "muro di Lampedusa" è patetico ed ipocrita

di Gad Lerner

 

La Repubblica, 26 luglio 2008

 

Il governo italiano risponde da par suo al cittadino del mondo Barack Obama, simbolo meticcio della contemporaneità. "Dobbiamo abbattere tutti i muri che ancora dividono i popoli e le razze, i ricchi dai poveri", invocava giovedì da Berlino il candidato presidente. E noi? L’indomani facciamo finta di edificare il patetico muro di Lampedusa. Naturalmente è una bugia che il territorio nazionale sia minacciato da un’invasione di "clandestini" tale da richiedere la proclamazione dello stato d’emergenza. Al contrario, una vera emergenza scatterebbe nella malaugurata ipotesi che i lavoratori immigrati privi di permesso di soggiorno abbandonassero le nostre aziende e le nostre famiglie.

Ma per il ministro Maroni lo scandalo e la riprovazione internazionale sono boccate d’ossigeno, perseguite cinicamente, come già i commissari etnici, il censimento dei nomadi e la sottolineatura esibita delle impronte digitali obbligatorie per i minori rom. Di fronte ai funzionari del Viminale e ai prefetti impensieriti da tale crescendo di deroghe alla normale amministrazione dell’ordine pubblico, pare che Maroni si giustifichi sottovoce: lasciate che io lanci i miei proclami urticanti e prometta ai sindaci squattrinati la stella di sceriffo; ci aiuterà quando dovremo far digerire agli enti locali l’inevitabile perpetuazione dei campi nomadi e dei ricoveri provvisori. Logica vorrebbe che il governo della destra autoritaria, come antidoto ai flussi incontrollati, faciliti nuove procedure d’immigrazione regolare. Ma non è questo che vuole. Gli stranieri continueranno ad arrivare con visti turistici per essere assunti in nero. Resteranno estenuanti le pratiche di rinnovo del permesso di soggiorno, e nel frattempo anche i regolari che perdono il posto verranno lasciati precipitare nel gorgo dell’illegalità. Perché nel paese dell’economia sommersa il sopruso e l’ingiustizia convengono a molti.

Chi ha vinto le elezioni imponendo la percezione di una società preda della criminalità straniera, chi alimenta la leggenda degli immigrati furbi, titolari di privilegi a scapito della popolazione locale, ora accoglie come un complimento perfino l’accusa di disumanità. Ne misura gli effetti benefici sui sondaggi d’opinione. Il senso comune reazionario viene infatti coltivato a uno scopo preciso: programmare una guerra tra poveri qualora il calo dei redditi acuisca gravemente il disagio sociale. Seminare oggi il falso allarme per "il persistente ed eccezionale afflusso di extracomunitari"; annunciare il potenziamento delle "attività di contrasto", non rappresenta una deriva fascista ma qualcosa di più subdolo e insidioso: la codificazione della disuguaglianza anche in materia di diritti fondamentali dell’uomo, fra cittadini e non cittadini, fra appartenenti al popolo ed estranei necessari al popolo purché rassegnati alla condizione di paria. Questa teorizzata disparità di trattamento è alla base delle antimoderne campagne contro la costruzione di moschee a Milano e Genova, città in cui vivono decine di migliaia di musulmani. Ma l’intimidazione degli stranieri irregolari - necessari e quindi tollerati purché ridotti a paria - già ne condiziona la vita, all’insegna della paura: varie associazioni di medici denunciano un calo drastico dell’utenza di immigrati bisognosi di cura nelle strutture sanitarie. Vogliamo considerarlo un risparmio, o una vergogna?

La destra italiana fu rigenerata quindici anni fa dall’inventore della tv commerciale facendo leva sulla figura universale, moderna, tendenzialmente cosmopolita, del consumatore di prodotti. Oggi, al contrario, la stessa destra propugna una visione etnica dell’italianità. E aspira a dominare il tempo delle vacche magre rifornendosi del combustibile particolarista: quasi un nuovo colonialismo applicato al mercato domestico.

Nel resto d’Europa destra e sinistra si dividono sull’applicazione di norme rigorose che governino il flusso migratorio, sempre finalizzate all’integrazione e alla cittadinanza. Ultima venuta, l’Italia viceversa s’inebria di retorica del "territorio" da purificare con la macumba di un’immensa ronda provvidenziale. Come se per bucare il video dei talk show i politici di entrambi gli schieramenti fossero chiamati solo a gareggiare su chi sia il più bravo a espellere il maggior numero dei famigerati "clandestini". Eppure non è lontano il tempo in cui le nuove generazioni degli immigrati parteciperanno alla contesa pubblica, chissà, forse esprimendo i loro Obama multicolore. Speriamo solo di non arrivarci per via di una guerra tra poveri, nel segno dell’odio separatista.

Immigrazione: in Italia diritti umani a rischio, l'Europa vigile

 

La Repubblica, 26 luglio 2008

 

"Il governo deve stare attento, se convince i cittadini che il Paese affronta una situazione d’emergenza provocherà nuove tensioni tra italiani e stranieri. E comunque essere arrivati fino a questo punto già mette a rischio il rispetto dei diritti umani". Nel suo italiano perfetto lo scozzese Graham Watson - leader dei liberal-democratici all’Europarlamento, il terzo gruppo per forza e dimensioni di Strasburgo - commenta l’estensione dello stato d’emergenza extracomunitari a tutto il territorio nazionale. Un giudizio politico, mentre per ora la Commissione europea - guardiana dei trattati Ue - ha preferito il silenzio non ritenendo il provvedimento di sua competenza.

"È molto difficile credere che in Italia ci sia un allarme. Sappiamo che in tre regioni ci sono stati problemi specifici, ma dichiarare lo stato d’emergenza lascia supporre che negli ultimi giorni qualcosa sia cambiato. E io, francamente, non ho visto alcuna notizia in questo senso. È per questo che appoggio l’opposizione che chiede di spiegare le ragioni del provvedimento e le sue modalità".

 

Lei conosce bene il nostro Paese, qual è la sua analisi?

"Il governo deve stare molto attento. Non può trasformare le attuali tensioni in qualcosa di più grave, in un’emergenza nazionale. Non può indurre gli italiani a credere che si trovino di fronte ad una minaccia, altrimenti le tensioni tra le diverse comunità presenti sul territorio aumenteranno. Penso ai rapporti tra italiani e rom, ma non solo. Lo stato d’emergenza va usato con grande cautela e io non riesco proprio a credere che la situazione si sia aggravata a tal punto da giustificarlo".

 

Pensa che dopo la censura politica dell’Europarlamento sulla schedatura dei rom e le indagini aperte dalla Commissione Ue ci saranno nuovi attriti con Bruxelles?

"Il governo non può pensare che qui siamo tutti in vacanza fregandocene di cosa succede a Roma. Il commissario Ue alla Giustizia, Jacques Barrot, ha già detto senza mezzi termini che le regole comunitarie devono essere rispettate e sono certo che seguirà la situazione con occhio molto attento".

 

In generale, cosa pensa della serie di provvedimenti sull’immigrazione presi dal governo Berlusconi?

"Non si può fare a meno di notare che in tutta Europa ci sono molti extracomunitari: in Grecia, dove i clandestini sono più del doppio che in Italia, uno stato d’emergenza sarebbe giustificato, così come a Lampedusa. Ma non su tutto il territorio italiano. È un provvedimento eccessivo e spero che nell’applicazione delle nuove leggi prevalga il buon senso".

Droghe: Giovanardi, lo "sceriffo" che fa sparire la monnezza

di Andrea Boraschi e Luigi Manconi

 

L’Unità, 26 luglio 2008

 

Immaginatevi un Charles Bronson poliziotto, che gira di notte per una qualche metropoli americana dentro la sua macchina. Le strade sono buie, il solito idrante rotto che spara acqua per ogni dove, qualche spacciatore all’angolo tra la 76esima e la Cross Hill Avenue. "Ripulirò queste dannate strade da tutta questa spazzatura", mormora il buon Charles. E via a rincorrere un ladruncolo portoricano, un pusher nero, un mafiosetto irlandese o italiano.

Con l’ossessione della dannata "spazzatura". Che, nella sua valenza metaforica, è un topos di certa filmografia (a sua volta, sovente, definita proprio così: trash, cioè spazzatura), e sta a indicare la feccia, tutta quella marmaglia di cui liberarsi senza troppi complimenti, gente di malaffare da lasciar ammuffire nella più buia delle galere.

In scenari meno esotici, la "spazzatura", grazie ai fatti di Napoli, è diventata anche un’icona dell’aria (o del fetore) dei tempi nel nostro paese: una sgradevole installazione (prossima a divenire permanente) che racconta una pluralità di cose che tralasciamo volentieri di elencare. Più in generale, a legare queste e altre derive semantiche di quella parola lì, c’è sempre un’istanza di rimozione: va rimossa la "monnezza" dalle strade con tanta determinazione quanta ne metteva Bronson nel ripulire i quartieri del suo distretto dalla criminalità. Insomma, se c’è spazzatura c’è (o si vorrebbe ci fosse) almeno un camion disposto a portarla in discarica, un treno con destinazione Germania o un giustiziere della notte disposto a perseguirla, fosse anche in capo al mondo.

Mutuando molti dei significati qui esposti, di recente un membro dell’attuale governo ha detto che "la droga è spazzatura e come spazzatura deve essere rimossa dalla società". A voler giocare con la fantasia si potrebbero immaginare queste parole in bocca a Gianfranco Fini: una sparata asciutta asciutta delle sue, che su certe questioni è rimasto rigido e inesorabile. Oppure, perché no, a pronunciarle potrebbe essere qualcuno dei suoi. O, ancora, non sfigurerebbero nel vocabolario di certi leghisti o tra i pensieri di taluni teodem.

E invece no: in virtù di quello stesso teorema per cui a far casino più di tutti, nelle feste dei tempi del liceo, era sempre qualcuno dell’Azione Cattolica, a pronunciarle è stato il sottosegretario Carlo Giovanardi, improvvisatosi Bronson o Bertolaso. Insomma, voce grossa e fuori gli attributi: la droga è spazzatura, dunque va rimossa. Invero Giovanardi non è nuovo a mostrarsi come un vero duro, se sollecitato da qualche imperativo categorico: qualcuno ricorderà le sue esternazioni, ad esempio, sulla normativa olandese in materia di eutanasia, quando ebbe e dire che "la legislazione nazista e le idee di Hitler in Europa stanno riemergendo" (ne nacque un caso diplomatico con i Paesi Bassi, ma poco male).

E poi ha dato battaglia per la chiusura anticipata dei locali notturni, ha spiegato che gli omosessuali possono stare nell’esercito, purché non facciano troppo le checche; di recente ha minacciato di introdurre una legge che vieti in maniera assoluta qualsiasi manifestazione antiproibizionista. Il tutto sempre con quel piglio da moralizzatore senza morale e senza paura. Ora, non che le droghe siano un pallino dell’ultima ora: in fin dei conti se la legislazione italiana ha accolto l’equiparazione tra droghe pesanti e droghe leggere è soprattutto merito dell’ex esponente dell’Udc.

Però questa volta l’esponente del Pdl si è mostrato più tosto del solito. Altre sue esternazioni, pur sparate grosse, avevano la forma della protesta e dell’indignazione, avevano qualcosa di veracemente scomposto (quando ognuno di noi ben sa che i veri duri sono spietati con flemma); questa volta no, questa volta Giovanardi è secco, conciso e implacabile. Che mo, verrebbe proprio da pensare, per la droga sono cavoli amari. Ma, attenzione, in questo caso quel signore, i contenuti delle sue prese di posizione e anche i toni, gli accenti e i modi utilizzati rappresentano la linea del nostro governo.

E, allora, sorgono alcune domande. Come facciamo a sbarazzarci della droga? Ovvero, esiste qualcuno dotato di buon senso che crede che quella sostanza possa essere eliminata dalla circolazione, cancellata, bandita per sempre dagli usi e dai costumi di milioni di consumatori? O forse quella parolina che a "spazzatura" si associa tanto bene - e che già abbiamo richiamato: "rimozione" - qui assume goffamente un significato psicanalitico?

Gli esponenti della maggioranza, Giovanardi in testa, intendono affrontare un problema sociale o trovare una qualche strada per nasconderlo, minimizzarlo e non doverlo più "vedere"? E poi: non si corre il rischio che a identificare quelle sostanze - che bene certo non fanno - con la "monnezza" si finisca presto o tardi, per confusione o per calcolo, col considerare come un rifiuto anche chi da quelle sostanze dipende?

Perché in effetti, a ripensarci bene, la normativa Giovanardi sul consumo di stupefacenti sbatte dentro i tossici e i consumatori occasionali un po’ come Bronson sbatteva dentro la spazzatura umana che infestava le strade delle sue città. Insomma, noi siamo per la riduzione del danno e per una politica che depenalizzi il consumo di stupefacenti. E siamo per chiamare le cose col loro nome: convinti che gli infiniti termini usati sin qui per identificare le droghe ("spazzatura" è solo l’ultimo) abbiano solo prodotto guasti.

Il sottosegretario con delega alla Famiglia, alla Droga e al Servizio civile non deve pensarla così. Non ci attendiamo nulla di buono. Intanto ha presentato la Relazione annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze. Aumentano i morti per overdose, aumenta il consumo di cocaina (sempre più a buon mercato, come pure l’eroina) e ancor più quello di cannabis, cresce la reperibilità degli stupefacenti, anche a scuola; e aumentano i soggetti segnalati alle prefetture per possesso e quelli denunciati per reati previsti dalla legge 309 (la sua): 35.238 nel 2007.

E lui dichiara che non bisogna esagerare con gli allarmi: "si corre il rischio di legittimare l’idea che siccome le droghe sono così tanto diffuse, combatterle è una battaglia persa e tanto vale liberalizzarle". Vallo a capire. In un frangente simile Bronson avrebbe usato parole e maniere più coerenti e conseguenti. (E, in conclusione, come dimenticare - dettaglio sublime - che un equivalente nostrano di Bronson, quel Tomas Milian romanizzato e intrucidito, era soprannominato Monnezza?).

Droghe: ispettore penitenziario arrestato con 25 kg di hashish

 

Notiziario Aduc, 26 luglio 2008

 

Un Ispettore della Polizia Penitenziaria, G.A., di 48 anni, è stato arrestato questa mattina dagli agenti della squadra mobile di Reggio Calabria per detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti.

L’uomo svolge servizio presso una casa circondariale della Campania ed è originario della provincia di Palermo: stava facendo rientro a casa per le ferie estive. L’uomo, fermato per dei controlli agli imbarcaderi di Villa San Giovanni, nonostante si fosse presentato come un "collega" ha tenuto un comportamento "nervoso e insofferente" che ha insospettito gli uomini del vice questore Diego Trotta che hanno così deciso di effettuare una perquisizione all’interno dell’autovettura, rinvenendo oltre 25 chili di hascisc che, immessa sul mercato, avrebbe garantito guadagni per oltre 250 mila euro.

L’uomo, dopo le formalità di rito, è stato accompagnato presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere a disposizione della Procura della Repubblica di Reggio Calabria.

Droghe: Muccioli (S. Patrignano); in 30 anni salvati in 20 mila

 

Notiziario Aduc, 26 luglio 2008

 

Nel 1978 mio padre Vincenzo fondò la comunità di recupero di tossicodipendenti "San Patrignano". Grazie al sostegno di mia madre, iniziò questa impresa con spirito pionieristico: così Andrea Muccioli in un’intervista al settimanale "Gente", che ne ha diffuso un’anticipazione, ricorda il compleanno della comunità.

"In trent’anni di attività, abbiamo salvato 20 mila ragazzi ricordo la prima ospite, con il suo drammatico problema, che bussò alla nostra porta. Ci sarebbero tante cose da raccontare, ma preferisco far parlare le cifre". Gli ospiti di San Patrignano sono attualmente 1.693. Il 60% di loro non ha mai fatto uso di eroina, ma ha consumato cocaina e droghe sintetiche. La maggior parte è uscita dall’incubo della tossicodipendenza: il tasso di recupero completo è del 73%. Il nostro metodo educativo si basa sul concetto di famiglia allargata. "Ho visto tanti innamorarsi - racconta Lina Balsani, tra le prime volontarie accanto al fondatore Vincenzo -. Qui si sono celebrati ben 16 matrimoni" e, per le coppie, è stato realizzato un quartiere di 60 villette all’interno della comunità.

Iran: a Teheran impiccate 20 persone, 126 da inizio dell’anno

 

Ansa, 26 luglio 2008

 

La magistratura iraniana ha annunciato che trenta fra omicidi e trafficanti di droga saranno impiccati domani mattina a Teheran. Lo riporta stamani la stampa nazionale. Secondo un comunicato della procura di Teheran, citato dal quotidiano Aftab, "dieci fra di loro hanno commesso omicidi e venti sono stati riconosciuti colpevoli di fare parte di bande di trafficanti di droga".

Trenta impiccagioni rappresentano il numero maggiore di esecuzioni in un giorno negli ultimi anni in Iran. Le esecuzioni di gruppo sono frequenti nella repubblica islamica, ma in genere riguardano al massimo una ventina di persone. Dall’inizio dell’anno sono state eseguite nel paese almeno 126 condanne capitali.

L’organizzazione italiana contro la pena di morte "Nessuno tocchi Caino" ha ricordato che nel 2007 l’Iran è stato il secondo paese al mondo per numero di esecuzioni eseguite (almeno 355), preceduto da Cina (almeno 5.000) e seguito da Arabia Saudita (almeno 166), Pakistan (almeno 134) e Stati Uniti (42).

 

 

Segnala questa pagina ad un amico

Per invio materiali e informazioni sul notiziario
Ufficio Stampa - Centro Studi di Ristretti Orizzonti
Via Citolo da Perugia n° 35 - 35138 - Padova
Tel. e fax 049.8712059 - Cell: 349.0788637
E-mail: redazione@ristretti.it
 

 

 

 

 

Precedente Home Su Successiva