Rassegna stampa 8 dicembre

 

Giustizia: Alfano a Pd e Udc; la riforma possiamo farla da soli

 

Il Messaggero, 8 dicembre 2008

 

Mentre il Cms si occupa della guerra delle procure, tra Catanzaro e Salerno, riscuotendo l’apprezzamento del Guardasigilli, lo stesso ministro Alfano rilancia il controverso progetto di riforma della giustizia. E facendo eco a Silvio Berlusconi, ammonisce l’opposizione: se Pd e Udc (Alfano dà per scontato il no di Di Pietro) si opporranno alla separazione delle carriere di giudici-pm e alla riforma del Csm, allora "questa maggioranza ha le idee chiare e i numeri capaci da portare avanti un percorso di riforma anche da sola".

Il no dell’Anm. Dal canto suo l’Associazione nazionale magistrati si affretta a lodare la tempestività con cui il Csm ha avviato una pratica di trasferimento d’ufficio dei capi delle procure di Catanzaro e Salerno ("è un’ulteriore riprova di come il sistema giudiziario ha al suo interno i mezzi e gli strumenti per poter intervenire anche in situazioni che hanno rischiato di minare la credibilità della magistratura", dicono Luca Palamara e Giuseppe Cascini), ma allo stesso tempo alza uno steccato: "È dannoso strumentalizzare questa vicenda per riparlare di separazione delle carriere, Csm e obbligatorietà dell’azione penale".

I punti chiave della proposta Alfano. I tre punti nodali della proposta di riforma sono la separazione giudici-pm (con l’ipotesi di concorsi diversi oppure con scelta definitiva su quale carriera intraprendere al momento dell’ingresso in magistratura); doppio Csm (uno per i pm e l’altro per i giudici, con una quota di toghe minoritaria in entrambi e forse nessuno dei due presieduto dal Capo dello Stato); azione penale non più obbligatoria per tutti i reati (probabilmente indirizzata dal ministro della Giustizia e dal Parlamento in base a delle priorità). Tre punti che comporteranno inevitabilmente modifiche costituzionali. Da qui la necessità di trovare una maggioranza dei due terzi. Sempre che si intenda evitare la mannaia del referendum confermativo.

Modifiche al codice di procedura penale. Intanto l’ufficio legislativo del ministero è impegnato non tanto sulla "grande riforma" ma su un pacchetto di modifiche al codice di procedura penale da portare forse nel Cdm del prossimo 19 dicembre. Sono misure per risolvere l’emergenza sovraffollamento carceri (con modifiche alle norme sulle gare di appalto per costruirne nuove, così da evitare che in caso di contenzioso si blocchino i lavori) e misure per accelerare il processo penale. Queste ultime avverranno con un ddl: il codice non può essere modificato per decreto, il Quirinale non darebbe mai il via libera. In questa anticipazione di riforma il nocciolo è lo svincolare la polizia giudiziaria dal pubblico ministero nell’attività investigativa: la prima potrà cercare e acquisire le notizie di reato liberamente e anche sequestrare autonomamente il corpo del reato; il pm invece potrà solo ricevere le notizie di reato (non solo dalla pg ma anche con denunce di privati, querele etc.). Come dire, addio al pm superpoliziotto.

 

Quattro mosse per ridisegnare il sistema giudiziario

 

La proposta di riforma voluta dal Ministro della Giustizia Angelino Alfano prevede quattro punti salienti. Al primo posto compaiono gli obiettivi ordinamentali ovvero la riforma del Consiglio superiore della Magistratura e la ridefinizione dei suoi compiti.

Il secondo punto va nella direzione di rendere più efficiente la gestione della spesa con interventi mirati sulle carceri e in particolare sulle sedi disagiate. Il terzo prevede processi civili con l’e-justice, la semplificazione del rito e l’accelerazione dei processi. Infine, il quarto, spinge a fare in modo che al processo penale ci sia l’effettiva terzietà del giudice e l’obbligarietà dell’azione penale.

Ecco quella che potrebbe diventare la prossima riforma della giustizia. Un progetto che, secondo la maggioranza, si sta rendendo quanto mai necessario soprattutto dopo gli scontri tra le procure di Catanzaro e Salerno. Ma la principale preoccupazione alla quale l’ufficio legislativo del ministero sta cercando di trovare soluzione è quella del sovraffollamento delle carceri. Forse infatti già alla riunione del Csm, il prossimo 19 dicembre, sarà presentato un pacchetto di modifiche al codice di procedura penale che andranno a modificare, tra le altre cose, le norme sulle gare d’appalto per la costruzione di nuovi penitenziari. In questo modo si eviterà, ad esempio, che, in caso di possibili contenziosi, si blocchino i lavori.

Giustizia: Radicali; riforma non può attendere 1 minuto di più

 

Ansa, 8 dicembre 2008

 

Rita Bernardini (membro Commissione Giustizia Camera dei Deputati) e Giuseppe Rossodivita, Presidente del Comitato Radicale Piero Calamendrei, esprimono in una nota "solidarietà a quel Pm di Catanzaro che secondo quanto ufficiosamente emerso nel corso dell’audizione al Csm sarebbe stato denudato nel corso della nota perquisizione".

"Oltre che a lui - osservano - esprimiamo la nostra solidarietà a tutte quelle centinaia di cittadini che ogni anno vengono perquisiti, denudati e poi magari assolti, senza che per questo venga convocato d’urgenza il Csm e senza che alcuno ne risponda mai davanti ad un organismo od autorità. Così come vogliamo manifestare la nostra vicinanza alle migliaia di detenuti, più della metà in attesa di giudizio e presunti innocenti, che sono "ospitati" nella patrie galere in condizioni indecenti ed illegali e privati dei più elementari diritti fondamentali oltre che della dignità umana. Non ci rassegniamo al fatto - concludono - che ci siano cittadini denudati più uguali degli altri ed auspichiamo che, senza strumentalizzazioni e a partire da questo episodio, la cosiddetta società civile si renda conto dello stato comatoso della nostra giustizia che non può più attendere un minuto per quelle riforme che da anni, come Radicali, vogliamo siano messe nell’agenda politica di un paese in mano a politici a dir poco distratti e a corporativismi di vario genere".

Giustizia: rissa tra Procure; bloccate le indagini su 80 persone

 

La Repubblica, 8 dicembre 2008

 

I magistrati di Catanzaro che definiscono "un danno devastante per la magistratura italiana" la perquisizione che hanno subìto su disposizione dei procuratori di Salerno. Questi ultimi che si difendono dalle accuse di aver fatto spogliare un pm di Salerno, negando l’episodio. Continua la rissa fra i magistrati di Salerno e quelli di Catanzaro, della quale si sta occupando il Csm. Sui suoi possibili effetti interviene anche l’ex capo del pool milanese di Mani Pulite, Saverio Borrelli. "Ho il timore - dice - che questa vicenda possa giustificare una campagna per legittimare una riforma che punti al depotenziamento della magistratura".

Difficile, per la Prima commissione di Palazzo dei Marescialli, tentare di riportare pace fra le due procure, considerato che quella di Catanzaro contesta alla salernitana di aver inventato, "per motivi abbietti", un "complotto" di magistrati calabresi ai danni del pm Luigi De Magistris. E di aver bloccato, con il sequestro degli atti, "una richiesta di rinvio a giudizio di ottanta persone che avrebbe coinvolto giunte calabresi di destra e di sinistra". Il Csm ha già avviato la procedura di trasferimento nei confronti del pg di Catanzaro Enzo Jannelli e del procuratore di Salerno Luigi Apicella, entrambi interrogati d’urgenza sabato insieme ad altri quattro magistrati. Ma il consigliere togato di Md, Ezia Maccora, precisa che "la pratica non è affatto conclusa: dopo le audizioni di martedì (domani per chi legge-ndr) decideremo se c’è ancora spazio per l’avvio di altre procedure".

Sono emersi, intanto, altri particolari sugli interrogatori di Jannelli e di Apicella. Il primo non ha risparmiato pesanti accuse ai colleghi salernitani. "La procura di Salerno - ha dichiarato al Csm Jannelli - sapeva che eravamo pronti a chiudere l’inchiesta "Why Not" con la richiesta di rinvio a giudizio di 80 indagati". Domanda del Csm: ma lei s’è reso conto, quando ha firmato il contro-sequestro, di essere indagato? Jannelli: "Sì, ma ho agito come magistrato, non come indagato". Nuova domanda: non poteva aspettare la risposta istituzionale, come l’intervento del presidente della Repubblica e quello del Csm? Jannelli: "No, perché sarebbe stata comunque troppo lenta".

Ed ecco cosa Jannelli riferisce ai membri della Prima commissione sui suoi colleghi salernitani. "Ci hanno sequestrato anche i nostri appunti scritti a mano: in quel momento abbiamo capito che ci volevano impedire di chiudere l’indagine". "I magistrati di Salerno - è il j’accuse di Jannelli - hanno sposato le tesi di De Magistris, creato dalla "stampa" come un mito a tal punto che chiunque si intromette è ritenuto un delinquente. De Magistris entra ed esce dalla procura di Salerno quando vuole, penso anche che sia stato lui a scrivere il provvedimento di sequestro nei nostri confronti e poi di metterlo in rete". Il pg catanzarese riferisce, poi, alcune informazioni delicate su "Why Not" ("è stata fatta tutta da consulenti e ora non abbiamo i soldi per pagare il loro conti salatissimi"). E su una inchiesta parallela che la procura di Paola sta svolgendo all’insaputa di tutti. "Paola - svela Jannelli - ha già 400 indagati, e sta facendo gli stessi nostri accertamenti tanto che prima o poi le due inchieste si dovranno riunire. Ma le indagini, a Paola, le fanno i magistrati, non i consulenti". È stato infine il presidente della Corte d’Appello di Catanzaro, Pietro Antonio Sirena, a svelare a Palazzo dei Marescialli un altro episodio riservato. "I magistrati di Salerno - ha riferito - hanno sequestrato anche il provvedimento con il quale il nostro consiglio giudiziario aveva bocciato l’avanzamento di carriera di De Magistris. E il magistrato che in quell’occasione aveva fatto il relatore, è stato indagato". E la procura di Salerno, ha aggiunto ancora il procuratore d’Appello, ha voluto sequestrare anche gli atti di un processo in corso presso la Corte di Catanzaro che si svolge in seguito a un ricorso di De Magistris.

Giustizia: Csm; fatti sconcertanti, via Capi delle Procure rivali

 

La Repubblica, 8 dicembre 2008

 

Il Csm è stato di parola. Ugo Bergamo, presidente della prima commissione, aveva detto che una decisione sullo scontro tra le procure di Salerno e di Catanzaro sarebbe stata presa in giornata. Così è stato. E nei confronti di Luigi Apicella, procuratore di Salerno, e di Enzo Jannelli, procuratore generale di Catanzaro, è stata avviata la procedura di trasferimento. L’iter è appena iniziato, martedì prossimo ci saranno le audizioni degli altri magistrati coinvolti. La "sentenza" vera e propria del plenum dovrebbe arrivare poco dopo Natale. I due procuratori potrebbero essere dunque rimossi per incompatibilità funzionale e ambientale.

"Abbiamo agito con la massima tempestività per ripristinare nel paese la fiducia nella magistratura", ha detto Bergamo nella conferenza stampa seguita a una riunione di sette ore, definita da chi vi ha assistito "tesa e con una sofferenza palpabile". Un clima da "livelli di guardia". E del resto, nelle audizioni di ieri emergono particolari inquietanti, davvero senza precedenti, sulla guerra tra procure. Il procuratore di Catanzaro, Jannelli, racconta i metodi di perquisizione: "I pm calabresi sono stati denudati". Due ore e mezzo la sua audizione. Sono proprio queste perquisizioni ad essere contestate al procuratore di Salerno. E Apicella, dal canto suo, replica con una ricostruzione dei fatti dettagliata, racconta dei veti opposti alla richiesta di avere i faldoni di "Why not" e "Poseidone", le due inchieste tolte a Luigi De Magistris. Accuse e controaccuse.

"Sono emerse cose sconcertanti" si sfoga Nicola Mancino, vice presidente del Csm. Toccherà a lui in serata riferire al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, quanto è accaduto. A testimonianza dell’estrema attenzione con cui dal Quirinale viene seguita la vicenda.

Per ora Apicella e Jannelli sono ancora - formalmente - a pieno titolo nelle loro funzioni. Il procuratore di Salerno si difende e commenta: "Continuerò a fare il mio lavoro finché potrò, sono sereno, convinto di quanto fatto e in pace con la mia coscienza. Abbiamo agito rispettando le norme del codice e le procedure". Un cortocircuito all’interno della stessa magistratura. L’occasione per il governo Berlusconi di accelerare sulla riforma della giustizia.

Antonio Di Pietro, leader di Italia dei valori ed ex pm di Mani pulite, è l’unico a criticare l’"arbitrato" del Csm. "Anche loro - polemizza - sono stati colpiti da terzismo. Non si può sbagliare in due ed è necessario una volta per tutte decidere da che parte stare, se cioè con i magistrati che hanno scoperto una cupola politico-affaristica o con coloro che hanno allontanato quella scoperta. D’ora in poi si parlerà di guerra tra le procure e non dei contenuti dell’inchiesta "Why not", la stessa cosa che è successa per Mani pulite". Insomma, De Magistris "andava lasciato lavorare", bene sarebbe che gli fosse "riaffidata" l’inchiesta che gli è stata tolta e anche la Procura di Salerno "va fatta lavorare, non va criminalizzata". Di Pietro afferma inoltre di non avere condiviso i "toni" con cui Napolitano si è rivolto per chiarimenti alla procura salernitana.

Il provvedimento che avvia l’iter per il trasferimento di Apicella e Jannelli è stato preso dalla prima commissione all’unanimità. Ma è ancora molto il lavoro da fare: martedì saranno ascoltati i pm di Catanzaro Salvatore Curcio, Alfredo Garbati e Domenico De Lorenzo, titolari dell’inchiesta "Why not"; e nel pomeriggio i pm di Salerno Gabriella Nuzzi, Dionegio Verasani, Antonio Centore, Patrizia Gambardella, Roberto Penna e Vincenzo Senatore. Il Csm vuole scandagliare a fondo.

Giustizia: scontro tra Procure fa emergere la crisi di sistema

di Mario Coffaro

 

Il Messaggero, 8 dicembre 2008

 

Ministro Alfano lo scontro tra procure fa emergere una crisi di sistema?

"Evidentemente c’è un qualcosa di gravissimo e anche di incomprensibile per i cittadini. L’idea, cioè, che due procure si inseguano tra di loro ha creato allarme e confusione al tempo stesso e ciò che noi dobbiamo preservare è la fiducia dei cittadini nella giustizia".

 

La tempestività del Csm è il segno di una consapevolezza nuova della stessa magistratura o della paura di essere travolti da una riforma non gradita?

"È il segno della piena comprensione che la vicenda di Catanzaro e Salerno necessitava di un urgentissimo punto fermo, pena la delegittimazione dell’intero sistema giudiziario a cominciare dal suo apice, dal suo vertice cioè dal Csm. Per questo ho apprezzato la tempestività del Csm che peraltro ha fatto emergere dei risvolti inquietanti relativamente ai quali mi pare che anche a palazzo dei Marescialli non vi sia stata alcuna reticenza".

Perché si è arrivati a questo punto? Una volta il problema erano le toghe politicizzate e oggi?

"Qui nella sostanza la politica non c’entra. Se i magistrati di Salerno indagano quelli di Catanzaro e i magistrati di Catanzaro indagano quelli di Salerno, siamo di fronte ad una patologia che va, mi si permetta, oltre ogni limite fin qui conosciuto. Tant’è che in quelle ore delicate non intravvedendosi un punto di chiusura del sistema delle garanzie, il capo dello Stato ha ritenuto doveroso intervenire".

 

Secondo lei, esiste ancora il partito dei giudici?

"Io non so se esista ancora il partito dei giudici. Credo che le ultime vicende testimonino la persistenza in Italia di un fenomeno singolare, quello dell’abuso delle intercettazioni, sconosciuto in altri Paesi europei, che vorrei definire con una figura evocata dal professor Panebianco sul Corriere della Sera: la pesca a strascico. Ecco con la pesca a strascico qualche pesce finisce in padella, ma si uccidono molte forme di vita innocenti e si producono danni secolari all’ambiente".

 

In concreto: come il governo farà funzionare la giustizia per i cittadini?

"Tre sono le questioni di fondo. Una è la giustizia civile: oltre 4 milioni di processi pendenti sono intollerabili, come sono intollerabili dieci anni di attesa, a volte più, per una sentenza definitiva. Sono danni incalcolabili per i cittadini, per la giustizia e per l’economia dell’Italia da cui gli investitori stranieri fuggono in quanto le controversie contrattuali non possono attendere anni e anni per le sentenze. Abbiamo messo in campo una riforma che è già stata approvata alla Camera e speriamo che il Senato licenzi al più presto per accelerare la soluzione delle controversie in essere e per individuare soluzioni alternative ai tribunali, come la conciliazione, la mediazione".

 

La seconda è il processo penale?

"Sul processo penale occorrerà attuare pienamente l’art. 111 della Costituzione che parla del giusto processo. Siamo al lavoro e speriamo di portare correttivi significativi anche al processo penale in tempi rapidi".

 

La terza?

"Le riforme ordinamentali. Vogliamo intervenire sulla Costituzione per far si che la parità tra accusa e difesa non sia un auspicio ma la realtà. Dobbiamo far sì che il giudice, per essere equo ed imparziale, sia tanto distante dall’avvocato quanto dal pubblico ministero".

Se fosse solo lei a scegliere indichi le priorità tra questi obiettivi? Separazione delle carriere? Riforma del Csm? Immunità per i parlamentari? Certezza della pena? Intercettazioni? Sveltezza del processo penale e civile?

"Eccetto la vicenda dell’immunità che non ha mai fatto parte dell’agenda del governo, tutte le altre lo sono a pari titolo. E noi non stiamo facendo un ordine di una graduatoria proprio perché le stiamo perseguendo tutte insieme. Proprio esattamente come le dicevo poc’anzi. Potrei dirle che sul processo civile siamo già al Senato, sul processo penale siamo già intervenuti con il pacchetto sicurezza così come sulla certezza della pena, inasprendo alcune sanzioni, ed altre ancora ne faremo. In riferimento alla riforma costituzionale intendiamo realizzare ciò che pensiamo e diciamo dal 1994".

 

Farà anche la riforma della responsabilità civile dei magistrati?

"Lì non ci vuole la riforma. Ma ci vuole l’effettività del principio che è stato approvato a larga maggioranza dal popolo italiano con un referendum".

 

Le carceri sono di nuovo stracolme: quali soluzioni sta approntando?

"Le carceri sono piene. E lo sono per oltre un terzo di stranieri. Ciò è lo specchio di un mondo che cambia e con cui occorre fare i conti senza bende davanti agli occhi. Abbiamo deciso di costruire nuove carceri e contiamo davvero di farcela per consentire una maggiore certezza del fatto che le nostre scelte di politica criminale non siano frenate dalla difficoltà nelle carceri e per consentire che i detenuti che vivono reclusi stiano in condizioni dignitose, potendo applicare il precetto della funzione rieducativa della pena e anche quello del senso di umanità".

 

Ma si è parlato di messa in prova, braccialetto, assunzione di personale, costruzione di nuovi istituti. Qual è la via maestra?

"Per risolvere la questione carceraria la via di fondo è costruire nuove carceri".

 

E gli istituti già pronti ma vuoti, non utilizzati?

"Mi sono già impegnato a fare aprire al più presto quelli che si possono già aprire, bloccati come sono stati da inefficienze o contenziosi amministrativi apparsi insuperabili. E credo che i primi risultati li avremo a breve".

 

Chi può frenare di più la riforma della giustizia: la mancanza di soldi o resistenze all’interno della maggioranza?

"No, dentro la maggioranza c’è una linea coesa e molto compatta nel procedere alle riforme. Abbiamo sottoscritto un programma che non era una liturgia formale, ma che ha un alto livello di condivisione e che si regge su una forte identità di vedute sulle riforme costituzionali. Noi siamo convinti della ineluttabilità di queste riforme".

 

Abruzzo, Crotone, Napoli, Genova, Trento, Foggia, Firenze: perché la magistratura oggi colpisce di più a sinistra che a destra?

"Credo che il Pd stia facendo i conti con i risultati del governo locale. Resto affezionato all’idea, sennò non potrei fare il ministro della Giustizia, che la magistratura debba sempre intervenire laddove è giusto intervenire".

 

La questione morale di cui parla Berlusconi riguarda solo il Pd o è più generale? Investe anche la magistratura?

"La questione è semplice. Queste settimane stanno dimostrando che non c’è un primato etico di qualcuno su qualche altro, di un qualcuno che sia appartenente ad una parte politica o ad un ordine professionale".

 

Berlusconi vuole presto la riforma della giustizia: sarà un testo blindato, prendere o lasciare, oppure accetterete i contributi del Pd e dell’Udc?

"Le riforme riguardanti la giustizia saranno fatte se possibile con un’ampia maggioranza per la quale io ho fatto pubbliche aperture al Pd. Se necessario le approveremo da soli. Pensiamo di porre mano ad alcune riforme costituzionali insieme con l’opposizione, questa sarebbe la via preferibile. Tuttavia, sarebbe sbagliato fermarsi qualora il Pd non varcasse il Rubicone decidendo una volta per tutte in materia di giustizia di stare nel campo dei riformatori".

 

S’è riacceso il giustizialismo? Riuscirete a convincere la maggioranza del Paese a voltar pagina?

"Noi pensiamo di avere dalla nostra la maggioranza del Paese sul tema della giustizia esattamente come l’abbiamo su altri temi. E del resto il tema della giustizia non è mai stato secondario per la nostra coalizione. E dunque se abbiamo vinto è anche per le nostre posizioni in materia di giustizia".

 

Torniamo un momento alla lunghezza dei processi: quali soluzioni vorrebbe realizzare? L’inappellabilità della doppia sentenza conforme? L’obbligo dei riti alternativi?

"Sul processo civile abbiamo già messo in campo le soluzioni, come ho detto prima. Sul processo penale un recente rapporto Eurispes dimostra che troppo spesso sono non tanto deficit normativi ad impedire la celerità dei processi quanto inefficienze organizzative alle quali occorre dar rimedio con una valorizzazione dei principi di efficienza e delle cosiddette "best practices" (migliori risultati ndr) all’interno della magistratura".

Giustizia: Pierluigi Concutelli è stato colpito da ictus cerebrale

di Giorgio Ferri

 

Liberazione, 8 dicembre 2008

 

Martedì 2 dicembre, Pierluigi Concutelli, l’ex comandante militare di Ordine Nuovo, in carcere da 32 anni (di cui 7 trascorsi in articolo 90, i "braccetti della morte") per diverse condanne all’ergastolo, è stato colpito da ictus cerebrale nel reparto G14 di Rebibbia e ricoverato d’urgenza presso l’ospedale Pertini.

Secondo i medici che l’hanno preso in cura, l’emorragia sarebbe in fase regressiva ma il versamento avrebbe comunque prodotto una emiparesi facciale sinistra con una conseguente situazione di afasia del linguaggio. Insomma le condizioni del detenuto restano molto serie. I suoi familiari hanno spiegato che al momento appare cosciente ma non riesce più ad esprimersi correttamente.

Le precarie condizioni di salute, già abbondantemente pregiudicate dalla presenza di numerose patologie e diversi incidenti di natura cerebrale e cardiocircolatoria che l’avevano colpito negli anni passati, rendevano questo ulteriore episodio clinico una circostanza altamente prevedibile. Un fatto annunciato da tempo, ma sul quale i giudici del tribunale di sorveglianza di Roma hanno preferito sorvolare, decidendo comunque di revocare, lo scorso 8 ottobre, la semilibertà al detenuto, per una vicenda accaduta in estate. Il 9 agosto, al momento del suo rientro serale in carcere, Concutelli era stato trovato in possesso di una modica quantità di hashish di cui faceva uso terapeutico per abbassare la tensione arteriosa. Sulla vicenda era stata presentata anche un’interpellanza parlamentare da parte di alcuni deputati radicali.

Quanto accaduto solleva in modo emblematico la questione irrisolta dell’ergastolo, proprio nei giorni in cui è in corso una mobilitazione nazionale dei detenuti contro il "fine pena mai". Concutelli è uno dei reclusi ultra trentennali delle nostre prigioni. Nonostante beneficiasse della semilibertà da qualche anno, difficilmente avrebbe ottenuto la liberazione condizionale, unico passaggio - altamente virtuale - che consente oggi ad un ergastolano di mettere fine alla sua condanna perpetua. Il lavoro esterno, l’oggettiva assenza di una qualsiasi pericolosità sociale, non sono prove di reinserimento considerate sufficienti per poter mettere fine all’ergastolo. Occorre, infatti, il cosiddetto "ravvedimento", cioè la misura del grado di pentimento o rielaborazione interiore del proprio passato sanzionato dalla legge. Elemento soggettivo-psicologico demandato alla valutazione, anche questa ultrasoggettiva, degli operatori penitenziari e dei magistrati. Un nodo gordiano che impedisce di mettere fine anche alla prigionia politica legata ai fatti degli anni 70.

Concutelli è uno dei pochi detenuti politici di estrema destra ancora imprigionati. Il loro numero si conta sulle dita di una mano. Isolato e abbandonato dai "suoi", allorché la destra di governo ha abilmente favorito l’uscita dalle carceri degli altri esponenti dell’eversione nera. C’è da chiedersi se questa sfortuna sia legata al suo essere stato un fascista non stragista sui generis, antievoliano, culturalmente legato ad una delle correnti antiborghesi dei fasci delle origini. Uno che scriveva anni fa sull’Unità, in una lettera aperta ai Naziskin: "Fratellini miei, nazionalsocialisti immaginari, solo alcune specie di mammiferi erbivori, e per lo più cornute, sono contro il miscuglio delle razze. Fossi in voi andrei orgoglioso dell’appartenenza a una rara specie, l’umana, in cui le commistioni razziali sono necessarie, frequenti e ricorrenti". Chissà, forse proprio per questo alla destra di governo piace che stia ancora in prigione.

Giustizia: per i giornalisti on-line "primato" delle incarcerazioni

di Mauro Munafò

 

La Repubblica, 8 dicembre 2008

 

Può essere interpretato come il segnale definitivo dell’importanza di internet per la libertà di espressione. Per la prima volta i giornalisti online hanno superato i colleghi della carta stampata e degli altri media nella triste classifica del numero di arresti. Secondo l’annuale studio del Committee to Protect Journalists, organizzazione no profit che difende il diritto di informazione, ci sono attualmente 125 giornalisti in prigione in 29 diversi stati del mondo, e ben 56 di questi lavoravano su testate online o alla redazione di blog personali.

"Il giornalismo online - dichiara il direttore esecutivo del Cpj Joel Simon - ha cambiato il paesaggio dei media e il modo di comunicare con gli altri. Ma il potere e l’influenza della nuova generazione di giornalisti online ha catturato l’attenzione dei regimi repressivi di tutto il mondo che hanno accelerato il contrattacco".

I numeri raccolti dal Cpj parlano chiaro: dopo anni in cui era la carta stampata la principale portavoce della stampa libera nel mondo, i nuovi media hanno compiuto il sorpasso, anche grazie alla minore necessità di investimenti (si parla spesso di freelance e non di dipendenti di aziende editoriali) e alla difficoltà di essere controllati. Lo stesso rapporto riconosce inoltre come non sia stata applicata una rigida definizione di "giornalismo online", ma si sia provveduto a verificare quanto il lavoro di blogger e scrittori fosse di natura giornalistica, cioè basato sul racconto e l’analisi di fatti reali.

"L’immagine del blogger solitario che lavora a casa in pigiama può essere affascinante - continua Simon - ma quando le autorità bussano alla porta, essi sono soli e vulnerabili. Il futuro del giornalismo è online e adesso siamo in guerra contro i nemici della libertà di stampa che usano le prigioni per definire i limiti del dibattito pubblico". Dopo i blogger e i giornalisti online, i più perseguitati risultano i professionisti della carta stampata (42% di arresti) mentre televisione, radio e documentari seguono rispettivamente con il 6, il 4 e il 3%.

Se si registrano novità rilevanti per la tipologia dei media colpiti, non altrettanto si può dire per i paesi dove il bavaglio alla libera stampa risulta più soffocante. Per il decimo anno di fila il primo posto spetta alla Cina, che ospita nelle sue carceri ben 28 giornalisti, 24 dei quali lavoravano su testate online. I numeri dimostrano come le pressioni sul regime di Pechino in occasione delle Olimpiadi non abbiano avuto effetto, visto che nel rapporto del 2007 risultavano esserci 29 giornalisti in stato di arresto, solo uno in più di oggi. Tra i casi più rilevanti nel paese asiatico, che da solo ha imprigionato quasi la metà dei giornalisti online del mondo, c’è la storia di Hu Jia, freelance condannato a tre anni e mezzo di reclusione per alcune interviste rilasciate ai media stranieri molto critiche nei confronti del Partito Comunista Cinese.

A poca distanza dalla Cina c’è Cuba con 21 arrestati (erano 24 nel 2007). Chiude il podio la Birmania con 14 imprigionati. Proprio il paese del sud-est asiatico ha raddoppiato in un anno le cifre, procedendo contro alcuni professionisti responsabili di aver diffuso notizie e immagini degli effetti del ciclone Nargis sul paese. Nessun sostanziale cambiamento neppure nelle accuse avanzate: per il 59% dei giornalisti il reato è la violazione di segreto di Stato o l’attività anti patriottica, ma per il 13% degli accusati non viene avanzata alcuna accusa formale, costringendoli a rimanere in carcere per lunghi periodi senza un processo. Unica nota positiva nel rapporto, il numero complessivo di giornalisti in prigione, in calo per il secondo anno consecutivo e passato dai 134 del 2006 agli attuali 125.

Marche: dall’8 al 14, lo sciopero della fame contro l’ergastolo

 

Il Messaggero, 8 dicembre 2008

 

La decisione è stata presa dai detenuti condannati all’ergastolo, nell’ambito della campagna nazionale per la sua abolizione. Una delegazione di consiglieri, osservatori e volontari visiterà il penitenziario di Fossombrone.

Sciopero della fame nelle carceri marchigiane. Dall’8 al 14 dicembre i detenuti condannati all’ergastolo, hanno proclamato uno sciopero della fame, nell’ambito della campagna nazionale per l’abolizione dell’ergastolo Mai dire mai, partita in Toscana.

Lunedì prossimo una delegazione composta da consiglieri regionali del Prc, del Pdci e di Sinistra Democratica, e osservatori e volontari dell’associazionismo, visiterà il carcere di Fossombrone (Pesaro), dove la settimana di digiuno prenderà il via, chiedendo di verificare le condizioni dei reclusi. Ci si assicurerà anche che non vengano adottati eventuali provvedimenti repressivi nei confronti di coloro che aderiscono allo sciopero della fame. I consiglieri regionali solleciteranno inoltre la Regione Marche ad approvare una risoluzione che spinga il Parlamento ad affrontare la proposta di legge per la cancellazione dell’ergastolo.

Marche: Prc, Pdci e Sd; adesione a protesta contro l’ergastolo

 

Il Messaggero, 8 dicembre 2008

 

Una delegazione composta da consiglieri regionali Prc, Pdci, Sd oggi è in visita, assieme ad alcuni osservatori e volontari dell’associazionismo, il carcere di reclusione di Fossombrone (PU) dove avrà inizio la settimana di digiuno della campagna nazionale per l’abolizione dell’ergastolo intitolata "Mai dire mai".

La campagna è iniziata il 1 dicembre con lo sciopero della fame attuato in Toscana da parte di centinaia di ergastolani e detenuti con loro solidali. La protesta proseguirà in Umbria e nelle Marche dall’8 al 14 e poi a staffetta in tutte le regioni d’Italia fino a marzo.

I consiglieri della sinistra si presenteranno ai cancelli del penitenziario con l’intento di verificare le condizioni dei detenuti e per assicurarsi che non vengano presi eventuali provvedimenti repressivi nei confronti di coloro che aderiscono allo sciopero della fame. Secondo gli esponenti politici si tratta di "una campagna di notevole importanza, che si inserisce in un momento particolarmente delicato, nel quale è necessario opporsi alle derive securitarie portate avanti a livello nazionale dalla destra".

Dagli esponenti dei vari Gruppi consiliari è stato preso anche l’impegno a presentare una risoluzione affinché la Regione Marche, che ha già varato ad ottobre la legge regionale n. 28 "Sistema regionale integrato degli interventi a favore dei soggetti adulti e minorenni sottoposti a provvedimenti dell’Autorità giudiziaria ed a favore degli ex detenuti", solleciti anche la discussione e approvazione da parte del Parlamento nazionale della proposta di legge per la cancellazione della pena dell’ergastolo.

Lecce: il carcere di Borgo San Nicola… è come un colabrodo!

 

Gazzetta del Mezzogiorno, 8 dicembre 2008

 

"Dovessi sintetizzare il giudizio sulla struttura che ho visitato oggi direi che è un gigante dai piedi di argilla dove si è celebrato un inno allo spreco". È molto severo il giudizio che consegna il segretario generale della Uil Pa - Penitenziari al termine della visita effettuata nella giornata odierna alla Casa circondariale di Lecce. "Una struttura che giocoforza va annoverata tra le più importanti nel panorama penitenziario nazionale, anche in relazione alla tipologia di detenuti ospitati. Ma è una struttura in grave sofferenza strutturale . È per dirla in breve un carcere colabrodo. Le infiltrazioni di acque piovane - rivela Sarno - sono importanti, cospicue e certificabili in ogni parte dell’istituto".

La Uil ha anche diffuso alcuni riferimenti numerici perché "si possa definire il quadro complessivo". Ad oggi a Lecce sono detenuti 1.213 detenuti (1.127 uomini e 86 donne) di cui ben 351 (300 uomini e 51 donne) classificati ad "alta sicurezza" a fronte di una capienza prevista di 660 e tollerabile di circa 980. "Debbo dire, però - aggiunge Sarno - che il sovraffollamento non genera particolari problemi sotto l’aspetto igienico-sanitario, anche se la compressione degli spazi fruibili risulta evidente.

E aggiunge: "Dal 1 gennaio al 30 novembre a Lecce sono entrati 2385 detenuti e ne sono usciti 2.099. Le traduzioni effettuate sono state 3003 per un complessivo di detenuti tradotti pari a 6.010 (di cui 2078 A.S. e 97 collaboratori). Le unità di polpen impiegate nel servizio traduzioni sono state complessivamente 15483. Ma la singolare particolarità che ho riscontrato a Lecce è lo spropositato numero di opere d’arte collocate nei vari spazi e ambienti dell’istituto che sono costate all’incirca 4 miliardi di lire nel 1997, quando il carcere è stato consegnato. Dispiace che tale investimento oggi sia ridotto in sculture allocate in spazi verdi incolti e aggredite dalle erbacce".

"Gridano vendetta anche i 5 gazebo in ferro battuto (per circa 150 milioni di lire) originariamente destinati ai colloqui in spazi verdi e oggi abbandonati. Per questo dico che questo istituto è un inno allo spreco e questo dispiace. Ancor più - sottolinea il sindacalista - nell’aver potuto constatare come l’istituto presenti gravi vulnus sul fronte della sicurezza. Vorrei che qualcuno potesse spiegarci perché la sala operativa (sala regia) costata circa 700 milioni di lire dell’epoca non è mai stata funzionante e l’istituto è privo di qualsiasi sistema di video sorveglianza e le sezioni sono prive di allarme. Ma recentemente si sono spesi circa 350mila euro per l’impianto antincendio, che già non funziona più. Credo che ci sia materia sufficiente perché la gestione amministrativa del complesso salentino possa essere opportunamente attenzionata, quantomeno in sede ispettiva"

Pare essere, invece, rientrato l’allarme ingenerato da episodi di violenza che nei mesi scorsi ha fatto registrare il ferimento di circa 50 poliziotti penitenziari: Forse il peggio è passato e stiamo ritornando, lentamente, alla normalità. Almeno lo spero. Resta il fatto, gravissimo, che in poco più di quattro mesi circa 50 poliziotti penitenziari sono dovuti ricorrere a cure ospedaliere per ferite riportate da aggressioni subite da detenuti. Spia di un malessere certificato".

Agrigento: ministro promette miracoli, il carcere è una caienna

 

Agi, 8 dicembre 2008

 

"Siamo ammirati da come il Ministro della Giustizia Alfano conceda libero sfogo alla politica dei miracoli sul tema delle carceri, quando al tempo stesso non riesce a guardare ai problemi di casa propria, ad Agrigento appunto". A dirlo è Leo Beneduci, segretario generale dell’Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria (Osapp), il quale ricorda che "dalla casa circondariale di Cavadonna, che ha poco più di 10 anni e che non è di certo un carcere ottocentesco, continuano a pervenirci segnalazioni di quali siano i problemi di vivibilità per i detenuti e per il personale di Polizia Penitenziaria: un po’ per la questione del sovraffollamento, ma soprattutto per i gravi e numerosi difetti che la struttura presenta fin dal suo debutto, basti solo pensare che molte celle sono state dichiarate inagibili a causa dell’acqua che continuamente scorre dai piani superiori. A inizio dicembre - continua Beneduci - i detenuti erano 447 a fronte di una capienza prevista di 159, in certi casi ce ne sono 7 per cella. Al Ministro chiediamo come si faccia a parlare ancora di Riforme con situazioni contingenti come questa".

"Dopo una visita ai posti di servizio, fatta dal nostro Vice segretario generale Domenico Nicotra, si è riscontrato che quasi tutte le sezioni non hanno prese e sbocchi per il ricircolo dell’aria: quando è l’ora dei pasti gli odori si sommano al fumo, ed è per questo che si racconta di qualche caso di malessere sia tra il personale che tra gli ospiti dell’istituto.

Numerosi sono i luoghi (bagni e posti di servizio) senza finestre, basta solo varcare la porta d’ingresso per avvertire forte il senso di nausea che pervade tutto l’istituto. Altrettanto numerosi sono gli spazi al buio, che a causa della pericolosità dello scorrere dell’acqua dai piani superiori costringe la direzione a tenere parte della struttura senza elettricità".

"Questo - continua Beneduci - è il quadro nella città natale del Guardasigilli, e tutto questo per buona pace del ricondizionamento del detenuto che auspica il Ministro in ogni suo intervento. Il personale della Penitenziaria è oggetto continuo di numerose esalazioni frutto della miscela di umido dei muri e surriscaldamento degli impianti: in un posto di servizio di transito ove stazionano due unità per turno vi sono armadietti contenenti quadri elettrici le cui emissioni vengono respirate continuamente dagli agenti del turno.

Per non parlare del camminamento del muro di cinta che è completamente al buio, e cosparso di fili elettrici liberi che il personale deve stare attento ad evitare nelle ronde di notte. Il caso di Agrigento ci dimostra come il dramma non cambi, sia che ci si trovi di fronte Cavadonna, che Regina Coeli o San Vittore. Se queste sono le strutture che dovranno costruire e gestire i privati, e che Alfano ci propone nel suo pacchetto di Natale, qualcuno dovrà certamente ricredersi sugli effetti di determinate scelte edilizie, come quelle che si sono avute in passato".

Forlì: direttrice; dentro solo poveracci, carcere non interessa

di Francesco Zanotti

 

Corriere Cesenate, 8 dicembre 2008

 

Rosa Alba Casella, calabrese, lancia un monito contro la tendenza a ghettizzare i carcerati. Tenacia e determinazione da vendere. È un condensato di nervi, saldi, la direttrice della Casa circondariale di Forlì. Rosa Alba Casella, calabrese di Palmi (Rc), classe 1965 è un funzionario dello Stato dalla grinta invidiabile.

Parla su due telefoni mentre risponde alle domande del giornalista. D’altronde, dicono i suoi più stretti collaboratori, "normalmente fa tre cose in contemporanea". E le fa bene, pare di capire. Pranza, quando può, alle 4 del pomeriggio con un pacchetto di cracker e dice senza alcun timore che se i detenuti affidati alla sua custodia aumentano e i fondi assegnati dal ministro Tremonti diminuiscono significa che si sta assistendo a un criterio di assegnazione dei fondi statali non facile da comprendere. "Se cresce la popolazione carceraria, come fanno a scendere i consumi di acqua e luce?".

"Il carcere non elimina il disagio - continua la dottoressa Casella, una laurea in giurisprudenza conseguita a Messina, prima del concorso pubblico con cui ha vinto il posto al Ministero della Giustizia -. Si sta assistendo a un meccanismo perverso: se una persona rimasta in carcere per un pò di tempo riesce a uscire, rischia di rientrarvi subito. Se non si mettono in atto percorsi di recupero delle persone, si ripete sempre la stessa storia".

"Crescono le problematiche familiari, è vero, ma penso non abbia molto senso rispondere con il carcere, anche nei casi più violenti ed efferati - prosegue la direttrice -. Oggi c’è un grande allarme sociale dovuto alla microcriminalità: scippi, rapine in villa e negli appartamenti, droga. La gente ha paura e questi reati creano parecchi timori diffusi. Non vedo una politica seria di prevenzione. Si agisce solo sulla repressione. I reati finanziari, al contrario, vengono trattati e visti in tutt’altra maniera. Pensi che a Forlì, in questo momento, non c’è un solo detenuto di questo genere. Dentro ci stanno solo i poveretti, come alcuni stranieri, per i quali risulta, per assurdo, migliore la soluzione-carcere rispetto alla libertà".

Ma il carcere, a quanta gente interessa? "Interessa sempre meno - risponde sicura la Casella. Con l’individualismo che si coglie in giro, il male viene confinato in un angolo. E la prigione è uno di questi angoli in cui si nasconde un’altra delle sofferenze del nostro tempo".

Angoli difficile da vivere, anche a causa del sovraffollamento. Attualmente ci sono oltre 200 ospiti a Forlì, in una struttura che ne può contenere fino a 165. Si sono toccate anche 220 presenze, nella scorsa primavera. In questi casi le celle destinate a un solo detenuto diventano da due: otto metri quadrati, bagno compreso. Per regolamento, ogni detenuto dovrebbe avere a disposizione nove metri quadrati, servizi esclusi.

"C’è bisogno di una struttura nuova - aggiunge in proposito la direttrice -. Si prevedono tre anni di lavori per la sua realizzazione in città. Speriamo bene. Certo è che se a una persona togli la dignità diventa poi molto difficile fare discorsi rieducativi. La galera è brutta, ma in queste condizioni è ancora peggio".

Nella Casa circondariale di Forlì ci sono soprattutto detenuti in attesa di giudizio. Un terzo sono tossici, la maggioranza di Cesena. I dipendenti sono un centinaio, compresi gli agenti di Polizia penitenziaria. L’effetto dell’indulto è ormai svanito e i numeri attuali superano quelli precedenti al provvedimento di clemenza.

"Le riforme non ci sono state - spiega la direttrice -. Anzi, ora siamo in presenza di una legislazione più restrittiva che fa aumentare la popolazione carceraria. I rapporti con l’esterno ci sono e oggi sei detenuti sono occupati in lavori di assemblaggio con due aziende del territorio cesenate, la Vossloh di Sarsina e la Mareco Luce di Bertinoro. Gli altri vengono impiegati in lavori di pulizie interne. È ancora poco, ma rispetto al niente di prima, è già tanto".

"In questa struttura dalle piccole dimensioni, i rapporti sono buoni e fra i detenuti non ci sono particolari problemi, se non quelli legati alla densità della presenza - tiene a precisare la direttrice Casella -. Infine non posso non citare l’attività delle associazioni di volontariato che gestiscono corsi di pittura, bricolage e cucito. Senza loro non sarebbero possibili reali percorsi di rieducazione. Il dato più significativo, comunque, sta nelle relazioni umane che si creano".

Mantova: in ospedale stanza-detenuti sorvegliata dal monitor

di Luca Scattolini

 

La Gazzetta di Mantova, 8 dicembre 2008

 

Una stanza dell’ospedale attrezzata per i detenuti del carcere e per gli internati dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione che necessitano di cure. Si tratta di una camera con due posti letto con, a fianco, una sala per gli agenti di polizia penitenziaria svolgono il servizio di piantonamento, con un monitor che permette di vedere, tramite videocamera, quello che accade nella stanza accanto.

La struttura è stata attrezzata al Poma di fronte al reparto di chirurgia da cui è separata per non creare disagio agli altri degenti. I detenuti e gli internati dell’opg vi accederanno se affetti da patologie diverse dalle malattie infettive. "Abbiamo deciso di creare questa nuova area all’interno dell’ospedale - ha spiegato il direttore generale del Poma, Luca Stucchi - perché lo Stato ha trasferito la competenza della sanità penitenziaria alle Regioni.

Questa di Mantova è una delle poche strutture in Lombardia, assieme a Brescia e Cremona, che può svolgere questo compito. La nuova struttura - dieci mesi di lavori e una spesa di 50mila euro - ha visto la luce ieri mattina con il taglio del nastro. Presenti alla cerimonia, oltre al direttore generale, il direttore della Casa Circondariale di via Poma Enrico Baraniello, il magistrato del tribunale di sorveglianza Luigi Fasanelli, Anna Gerla della direzione amministrativa, il direttore dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione Antonino Calogero, il vice questore Guglielmo Magnani, il prefetto Giuseppe Oneri, il direttore della chirurgia generale Coriolano Pulica e la responsabile qualità e accreditamento Graziella Borsatti.

Latina: i docenti del carcere ottengono un’indennità di rischio

 

www.sabaudiain.it, 8 dicembre 2008

 

La storia dell’indennità di rischio e di servizio penitenziario per gli insegnanti delle scuole carcerarie è lunga e laboriosa, ma finalmente i docenti degli Istituti di Pena che hanno fatto ricorso al Tar del Lazio, Sezione staccata di Latina, hanno avuto giustizia ed hanno ottenuto, dopo oltre vent’anni di lotte sindacali e culturali, che essa venisse equiparata a quella degli altri operatori penitenziari. La vertenza, dopo diverse proteste sindacali e professionali, è stata promossa insieme con altri colleghi di varie parti d’Italia dall’insegnante Cav. Angelo Ruggieri, attuale Presidente Onorario del G.I.S.CA. (Gruppo Italiano Scuola Carceraria), il quale nel 1994, tramite un legale, presentò ricorso al Tar di Latina, quale capofila di trentadue docenti.

La sua esperienza didattica con gli adulti, le sue riunioni sindacali in varie carceri in Italia e all’estero, la sua nomina a Direttore Responsabile del giornale "Vita sindacale S.A.G." (Sindacato Autonomo Giustizia) e successivamente del giornale del SI.A.L.PE. (Sindacato Autonomo Lavoratori Penitenziari) gli permisero di fornire ai proponenti (fra cui l’on. Enzo Nicotra di Lentini - CT) del disegno di legge n°5159-B "Provvedimenti urgenti per il personale della Giustizia", importanti documenti da esaminare per la risocializzazione del detenuto attraverso la scuola in carcere.

La proposta di legge aveva fatto più volte andata e ritorno tra Camera e Senato. Alla fine fu approvata e pubblicata con legge n°436 del 27/10/’87, ma il Dipartimento della Giustizia aumentò l’indennità di rischio per tutti gli operatori penitenziari tranne per gli insegnanti che sono quelli che, unitamente agli agenti di Polizia Penitenziaria, rischiano di più per il contatto diretto con i detenuti. Basti pensare alla carneficina che vi fu nel carcere di Alessandria, nel maggio 1974, quando alcuni di costoro, partendo da sei aule scolastiche, causarono la morte di diversi operatori penitenziari, fra cui l’insegnante Pierluigi Campi. Ecco perché il Ruggieri si rivolse al TAR di Latina presentando una buona documentazione che, malgrado i lunghi anni trascorsi, gli ha permesso di vincere la causa con piena soddisfazione dei ricorrenti, molti dei quali già in pensione.

Grazie, quindi, all’attivo interessamento suo e di alcuni appartenenti al sindacato S.A.G., nonché degli onorevoli proponenti, l’adeguamento dell’indennità penitenziaria riconosciuto dalla legge 436 è stato esteso per sentenza agli insegnanti carcerari che hanno fatto ricorso, mentre gli altri devono ancora lottare perché vengono tuttora pagati al lordo con circa 1,70 euro di indennità di rischio al giorno, quando presenti, ed euro 0,00 ai fini della pensione, secondo la vecchia legge n° 65 del 03/03/1983.

Per il delicato argomento di questa notizia abbiamo voluto sentire il prof. Angelo Ruggieri che in proposito così si è espresso: "A prescindere dalle notevoli somme arretrate che i ricorrenti hanno già avuto e avranno ancora, è stata una delle più belle soddisfazioni della mia vita, anche perché ho dovuto lottare contro l’ignoranza e l’ostruzionismo, oltre che delle fonti ufficiali dei ministeri interessati, di numerosi colleghi di varie parti d’Italia che non credevano a quanto avevo sostenuto per tanto tempo con scritti, dibattiti, convegni, proteste e sacrifici personali anche economici. Alcuni docenti sindacalizzati, addirittura, avevano raccolto delle firme contro le mie circolari per sostenere che illudevo i colleghi in quanto l’adeguamento dell’indennità di rischio non spettava agli insegnanti carcerari. Ora essi mi cercano.

Certo è vero, aggiungo, che nel passato gli insegnanti carcerari, solo perché appartenenti amministrativamente ed economicamente al Ministero della P.I., si sono visti respinti ricorsi presentati al Tar di Salerno, di Venezia, di Lecce e anche alla Corte Costituzionale, ma il Tar di Latina con oculata precisione, competenza e senso di responsabilità, a seguito dell’abbondante documentazione raccolta da anni e da me presentata tramite il mio avvocato di allora, ha reso giustizia ai ricorrenti contro l’ingiusta posizione del Dipartimento della Giustizia che, alle proteste degli insegnanti rispondeva sempre con le stesse motivazioni sommarie ed errate, sebbene in altri scritti lo stesso Ministero della Giustizia abbia riconosciuto "l’opera meritoria degli insegnanti nei confronti dei detenuti e degli internati".

Questo è quanto ci ha riferito il prof. Cav. Angelo Ruggieri e noi ci congratuliamo con lui per la sua importante attività in favore della categoria degli insegnanti carcerari che operano per la risocializzazione del detenuto attraverso l’attuazione del suo diritto all’educazione e all’istruzione.

Busto Arsizio: presentazione di libro "Storie da mondi diversi"

 

Varese News, 8 dicembre 2008

 

Una favola per i bambini: per quelli di Elvis, a cui lui potrà raccontarla in futuro; per quelli romeni, come Cristian, che vivono in Italia; per i figli di Barbara che non sanno leggere, ma che potranno guardare i disegni fatti dalla mamma; per tutti i bimbi (e non solo) che non vogliono fare della "diversità" un ostacolo. È questo, e tanto altro, il libro "Storie da mondi diversi" che ieri, sabato 6 dicembre, è stato presentato alla Libreria Boragno di Busto Arsizio. Presenti per raccontare come è nato questo volume c’erano la curatrice Carla Bottelli, insegnante di lingua e letteratura italiana e da anni volontaria in carcere; due dei partecipanti al progetto di arte-terapia che si è svolto nella casa circondariale di Busto Arsizio, Elvis del Ghana e Cristian della Romania; Barbara Parini che ha realizzato i disegni ed Emanuela Coerezza, psicologa, che insieme alla collega Valeria Api ha condotto il laboratorio di fiabe durato circa due anni. Presente fra il numeroso pubblico anche il sindaco bustocco Gigi Farioli.

"Nel carcere di Busto - spiega Coerezza - ci sono molti detenuti stranieri e più di cinquanta nazionalità diverse. Abbiamo deciso di far diventare queste "diversità" una ricchezza e di organizzare questo laboratorio di terapia. Abbiamo scelto la fiaba perché esiste in tutte le tradizione, con forme diverse, ma c’è sempre". Il laboratorio di arte-terapia e il libro si inseriscono all’interno del progetto pedagogico dell’area trattamentale della casa circondariale (rappresentata nel corso della serata da Teresa Pignataro, educatrice, e Antonio Coviello, vicecomandante degli agenti di Polizia penitenziaria). È stato inoltre finanziato dal ministero di Giustizia e realizzato in collaborazione con la FA.T.A, associazione di Cesano Boscone che si occupa di bambini con gravi dififcoltà (presente la dottoressa Isabella Orsini). Proprio a queste due realtà andranno i proventi della vendita del libro che verranno infatti devoluti a La FA.T.A. per le sue attività e al carcere per finanziare progetti già esistenti e nuove iniziative.

Nel volume sono contenute dieci fiabe, tutte scritte in italiano con a fronte il testo in lingua madre. Di queste otto sono fiabe narrate dai partecipanti al laboratorio che hanno condiviso con noi alcune storie della loro cultura; una, "Destini incrociati", è stata inventata da un detenuto romeno e infine c’è la favola condivisa "Lenticchia e il ciondolo".

"Abbiamo deciso - spiega Bottelli - di concludere il nostro percorso con un progetto comune che superasse tutte le diversità, culturali e linguistiche. È nata questa fiaba che abbiamo deciso di tradurre in inglese". Completano alla perfezione le storie i disegni di Barbara Parini, architetto e designer. "È stata la mia prima esperienza da disegnatrice. Mi sono divertita molto ed è stato un lavoro davvero emozionante. Chi legge può interpretare le storie a modo suo, ma per chi non sa ancora leggere, penso ad esempio ai miei bambini, è importante avere dei disegni che "raccontano"".

Ma come hanno vissuto tutto questi i diretti interessati? Emozionatissimi, Cristian ed Elvis (nella foto mentre autografano i libri. In primo piano Elvis, dietro Cristian) hanno raccontato cosa ha rappresentato per loro partecipare a quel progetto e vedere una fiaba del proprio paese pubblicata in un libro. "Mia nonna mi raccontava sempre questa storia - spiega Elvis, che ha scritto la "Tartaruga mangiona" -. Raccontarla per me è stato come fare un tuffo indietro di trenta anni. Ora spero di leggerla presto ai miei bambini".

Anche il pensiero di Cristian va ai bambini, soprattutto a quelli di origine romena che come lui vivono in Italia. "Ho narrato la leggenda "L’orso bonaccione e la volpe malandrina" che spiega come mai oggi gli orsi non hanno più la coda. Volevo che anche i bambini italiani la conoscessero e che i tanti bimbi romeni che ci sono in Italia potessero leggere qualcosa che appartiene alla loro cultura".

Nuoro: presentato il documentario "Mamone: oltre la sbarra"

 

Comunicato stampa, 8 dicembre 2008

 

Grande successo riscosso alla Satta per la presentazione dell’inedito progetto Mamone: Oltre la sbarra, prodotto dall’Ass.ne Culturale Janas di Nuoro, con il contributo del comune di Bitti.

L’auditorium, stracolmo di pubblico, ha registrato la presenza di importanti autorità. Erano presenti il Provv.re regionale dell’Amm.ne Penitenziaria, il Dr. Francesco Massidda, e direttamente da Roma, dal Ministero di Giustizia, la Dr.ssa Borzacchiello e la dr.ssa De Paolis. Presenti in sala il Prefetto, il Questore e la Dr.ssa Incuollu direttrice di Badu e Carros, nonché diversi rappresentanti del panorama politico e culturale sardo.

Tutti concordi sull’elogio unanime rivolto alle due autrici, Nicolina Carta per aver scritto il libro Oltre la sbarra, e Pj Gambioli per aver diretto il primo documentario storico sulla colonia penale, Mamone: oltre la sbarra.

Dopo i saluti del Presidente del Consorzio Biblioteca Satta, dr. Priamo Siotto, il direttore Tonino Cugusi ha coordinato i lavori, lasciando la parola al relatore Ugo Collu che ha catalizzato l’attenzione del pubblico esponendo una relazione di grande impatto culturale ed emotivo.

È stato proiettato il documentario Mamone: oltre la sbarra, per la regia di Pj Gambioli, che ha restituito a Mamone il valore dell’esistenza, aggiungendo all’atmosfera artistica la bellezza della verità. La regia sapiente lega infatti reperti fotografici alle riprese di oggi, supportate da preziose interviste, ottenendo un documentario che rende giustizia alla storia e ai luoghi. Le musiche originali sono state composte dal Maestro Ignazio Pes, mentre per l’avvolgente voce narrante è stato scelto l’interprete Franco Stefano Ruiu. Le immagini di copertina, sono state curate dal pittore nuorese Elio Moncelsi.

L’autrice Nicolina Carta ha ambientato nel carcere di Mamone un romanzo di intensa introspezione dove il percorso interiore del protagonista si lega alle storie degli altri carcerati, dove la forza del passato va incontro alla tenerezza del futuro. I dialoghi rubano, complici un linguaggio originale ed uno stile marcato, la scena agli avvenimenti, e attraverso le conversazioni e le riflessioni, si tesse una trama di vissuto e di presente, dove trovano spazio l’amore, il dolore, le ragioni dei fallimenti e quelle della speranza.

Le due autrici, Nicolina Carta e Pj Gambioli, hanno parlato con passione del loro progetto, e delle future presentazioni che le vedranno coinvolte in un tour regionale e nazionale, con un importante evento che si terrà a Roma presso una delle sedi ministeriali.

In chiusura della presentazione sono intervenuti il provveditore regionale dr. Francesco Massidda e le Dr.sse Borzacchiello e De Paolis, sottolineando l’importanza dei temi trattati, e ringraziando le due autrici per aver realizzato un evento di così alta levatura.

Agrigento: giovedì 11; i detenuti diventano attori per un giorno

 

La Sicilia, 8 dicembre 2008

 

Detenuti attori nella casa circondariale della città termale. L’11 dicembre, alle 16.30, sarà messa in scena la commedia "Ma quale famiglia Addams? Peggio!". Unico atto per "attori" che stanno scontando la pena. Un modo intelligente per impegnarsi, e nello stesso tempo arricchire il bagaglio delle esperienze utili quando sarà il tempo del reinserimento nella società. Non è la prima volta che all’interno del carcere saccense si svolgono attività di apprendimento. Diverse sono state le esperienze, dalla lavorazione della ceramica al corallo, dalla gastronomia alla recitazione.

Il tutto mirato per consentire ai detenuti di acquisire esperienze che possano tornare utili quando una volta scontata la pena. Un modo di facilitare il reinserimento in società ed evitare il reiterare di comportamenti contro la legge. L’attività, in tal senso, è abbastanza corposa e frenetica all’interno della casa circondariale saccense. Attività ormai conosciuta tra i cittadini della città termale e più volte apprezzata.

Quasi un appuntamento, ormai, specie in prossimità delle festività natalizie. Quella che andrà in scena la settimana prossima sarà una commedia brillante con molte parodie di un a vita frenetica. Una delle attività più interessanti esercitate in carcere è stata quella relativa alla lavorazione del corallo. Diversi detenuti hanno potuto imparare l’arte della lavorazione e acquisire quella maestria che si potrà rivelare utile per intraprendere un’attività una volta usciti dal grande cancello della casa circondariale.

Droghe: Censis; per italiani "consumo" è sempre più normale

 

Notiziario Aduc, 8 dicembre 2008

 

Gli italiani provano a normalizzare la droga, sempre più pervasiva nella quotidianità e sempre meno associata a fenomeni di devianza e marginalità conclamate. A dirlo è il Rapporto sulla situazione sociale del Paese prodotto dal Censis. Se diminuiscono infatti i decessi per overdose, passati dagli 825 del 2001 ai 589 del 2007, e le quantità di eroina sequestrate (158 chili in meno tra il 2001 e il 2007) e delle persone segnalate per eroina, (da 9.670 a 6.560), aumenta però l’uso di droghe compatibili.

La cocaina sequestrata (oltre 2mila chili in più in 6 anni) e le persone segnalate per l’uso di questa droga passano da 8.221 del 2001 a 13.078 del 2007, così come aumentano i ritrovamenti di droghe sintetiche (le dosi sequestrate passano tra il 2001 e il 2007 da 315.779 a 393.457). Sotto l’effetto di stupefacenti si guida sempre di più: tra il 2004 e il 2008 le contravvenzioni sanzionate tra il venerdì e la domenica con questa motivazioni sono il 46,8% del totale.

"La normalizzazione virtuosa diffusa nel quotidiano contempla, tuttavia, scarti, circoscritti ma non necessariamente meno dirompenti, sul piano del rischio e della emozionalità estrema. La mistica del no limits - spiega dal centro Studi - diventa un richiamo ritualizzato, condiviso da fasce ampie di cittadini normali che lo incasellano in momenti specifici, contrassegnati da un’apparente sospensione delle regole della normalità".

Un esempio? Le infrazioni accertate per il gareggiamento in velocità passano dal 2004 al 2008 da 93 a 312, mentre nel solo fine settimana si registra la metà dei morti per incidenti stradali, così come le contravvenzioni sanzionate tra il venerdì e la domenica per guida in stato di ebbrezza sfiorano il 70,5% . Una vera e propria escalation poi per i rave-party, passati da 4, con soli 6 denunciati nel 2006 ai 12 del 2008 con oltre 400 persone identificate.

Droghe: l'Olanda chiude i coffee shop e le vetrine a luci rosse

 

Notiziario Aduc, 8 dicembre 2008

 

Nuovo giro di vite in vista ad Amsterdam contro i coffee shop - i bar dove è legale acquistare e fumare hashish e marijuana - e le vetrine a luci rosse, dove sono "esposte" le prostitute. L’amministrazione comunale ha annunciato ieri di voler ridurre drasticamente il numero dei locali dediti a queste attività nel centro della città.

Obiettivo dell’iniziativa, liberare almeno in parte il cuore di Amsterdam da attività che, secondo l’amministrazione locale, contribuiscono all’aumento della criminalità che si sta registrando in queste aree. Allo stesso tempo la principale città olandese punta a rifarsi il look trasformando il centro città in una zona che, oltre a essere più sicura, sia anche più bella e vivibile.

È ormai da qualche tempo che in Olanda si è invertito il trend di tolleranza verso i coffee shop, autorizzati dal 1976 a vendere cinque grammi di cannabis ad ogni cliente maggiorenne. Alcune cittadine vicine alla frontiera belga hanno deciso di chiudere alcuni di questi bar per limitare il turismo transfrontaliero della droga e recentemente è scattato, nella città simbolo del Paese, il divieto di vendita dei funghi allucinogeni. Il progetto presentato oggi dal comune di Amsterdam punta a ridurre del 17% il numero complessivo dei coffee shop e dimezzare quello delle vetrine a luci rosse, che dovrebbero scendere dalle 482 attuali a 240.

Europa: i bambini di strada sono sempre di più, forse 200.000

di Benedetta Verrini

 

Vita, 8 dicembre 2008

 

Parla Reinhold Müller, direttore dell’European Federation for Street Children. Sono tanti, tantissimi i "bambini di strada" in Europa. Soprattutto se con questa definizione, oltre al fenomeno tanto ben documentato dei paesi dell’Est, si includono tutti i minori esclusi dai percorsi e dalle opportunità di crescita come casa, famiglia, scuola, formazione professionale.

Per parlare di loro, dai bambini rom agli stranieri non accompagnati, dai minori vittime della tratta agli adolescenti con drop-out scolastico e sociale, e della condizione in cui versano, che preoccupa l’Unione Europea, si è tenuta a Verona la conferenza internazionale "Promuovere l’integrazione di bambini e giovani emarginati attraverso l’inclusione sociale: scuola, formazione professionale e partecipazione".

Un ampio confronto sulle criticità e sulle strategie possibili d’intervento presso il Centro Polifunzionale don Calabria di Verona - organizzato dalla Comunità S. Benedetto-Istituto don Calabria e dall’Associazione belga "European Federation for Street Children", che da anni opera nel settore dei bambini di strada.

La conferenza si è proposta come luogo di discussione critico degli aspetti connessi al fenomeno dei bambini di strada e della loro condizione, ma anche come confronto delle pratiche innovative e di successo sviluppate negli Stati del Sud Europa volte a promuovere l’inclusione attiva e l’integrazione di questi bambini e giovani con forti problemi di esclusione. Sono stati inoltre definiti i punti chiave che contribuiranno alla preparazione delle nuove strategie nazionali 2008-2011 in favore della protezione e dell’inclusione sociale dei bambini di strada ed in particolare nella revisione della Strategia di Lisbona.

Sul tema, Vita ha potuto intervistare uno degli ospiti internazionali più attesi, Reinhold Müller, che è Direttore dell’European Federation for Street Children.

 

Quanti sono i bambini di strada in Europa?

È un dato davvero molto difficile da definire, vista l’eterogeneità dal fenomeno e il numero di Stati coinvolti. Abbiamo una serie di dati che però ci rappresentano la gravità del problema: secondo recenti stime Unicef, ad esempio, in Europa ci sono circa 1.700.000 bambini rom non registrati all’anagrafe. Ancora, secondo altre stime risalenti a 4-5 anni fa, sul territorio europeo ci sarebbero dai 150mila ai 250mila bambini di strada. È proprio per la difficoltà di reperire dati certi e aggiornati, e soprattutto confrontabili tra Stato e Stato, che EFSC intende pubblicare un Rapporto Europeo sui Bambini di Strada, suddiviso a capitoletti per ciascuno Stato membro, in cui sia possibile avere il punto preciso della situazione. C’è un grande sforzo in atto nell’ambito dell’Unione Europea per fronteggiare il problema: questi appuntamenti ci aiutano a trovare il modo di tradurlo in politiche nazionali.

 

Quali interventi si rivelano più efficaci per la reintegrazione di questi minorenni?

È necessario distinguere tra gli interventi in situazioni di emergenza e quelli di integrazione nel medio-lungo termine. Nel primo caso, l’approccio avviene con équipe multidisciplinari che coprono diversi campi: quello medico, quello psicologico, quello sociale degli operatori di strada. Le diverse figure coinvolte sono fondamentali nell’intercettare i bisogni e nel rispondervi adeguatamente. Sul medio-lungo periodo, è molto importante, ad esempio, far leva sulla comunità di appartenenza dei minori e dunque utilizzare social workers della stessa nazionalità dei minori o comunque in grado di effettuare un’efficace mediazione culturale. Inoltre, è necessario realizzare un lavoro preventivo sulle famiglie a rischio e poi puntare alla promozione dell’autostima dei ragazzi, per il recupero di un percorso scolastico o lavorativo attraverso la formazione professionale (da voi in Italia avviene già grazie a progetti come Chance a Napoli o con il lavoro dei Centri don Calabria, ad esempio).

 

In Italia si dibatte molto sull’opportunità del rimpatrio protetto dei minori di strada o comunque sfruttati. Meglio offrire loro una nuova vita nel paese di accoglienza o aiutarli a rientrare a casa?

Siamo ong, non entriamo nel merito di un dibattito politico. Prima di giungere a questo dilemma è necessario muoversi su diversi fronti: il primo è quello della prevenzione nei paesi d’origine, in modo che la dispersione e l’emarginazione dei minori non diventi un fenomeno dilagante. Poi è necessario attivare una politica europea di durissima repressione verso i fenomeni di traffico e le organizzazioni criminali, sul solco di ciò che il vostro ministro Frattini aveva avviato quando era commissario europeo.

Tra gli altri strumenti, bisogna aggiungere una dura lotta alla pornografia infantile e al suo consumo, anche attraverso la collaborazione delle banche che assicurino la tracciabilità dei pagamenti effettuati per questi consumi. Infine c’è un maggior controllo della mobilità interna dei minori non accompagnati nel territorio europeo, che oggi consente di prendere un treno in uno Stato e arrivare facilmente in un altro. Tutto questo, ovviamente, deve essere accompagnato dal lavoro dei social workers dei diversi paesi, che devono scambiarsi conoscenze e informazioni fondamentali per contrastare e aiutare a risolvere il fenomeno.

Israele: da domani inizia il rilascio di 230 detenuti palestinesi

 

Agi, 8 dicembre 2008

 

Inizierà martedì prossimo il rilascio di 230 detenuti palestinesi annunciato ieri dal governo israeliano. Lo ha annunciato l’ufficio di gabinetto del premier Ehud Olmert che in una nota ha fatto sapere che la liberazione dei detenuti - nessuno dei quali condannato o incriminato per atti terroristici - avverrà durante la festa musulmana di Eid al-Adha.

"Si tratta di un gesto di buona volontà, di una misura volta a costruire fiducia", ha commentato Mark Regev, portavoce del primo ministro israeliano, Ehud Olmert. A favore del provvedimento hanno votato 13 ministri; 5 contro. I prigionieri figuravano nella lista degli 11.000 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane e saranno rilasciati in Cisgiordania (territorio controllato da Fatah). Alcuni giorni fa, durante un incontro con Abu Mazen, Olmert aveva promesso che lo Stato ebraico avrebbe liberato un gruppo di detenuti palestinesi. L’ultima iniziativa simile risale ad agosto, quando Israele rilasciò 200 detenuti palestinesi.

Libia: visita al "campo" di Misratah, con i 600 detenuti eritrei

 

Fortress Europe, 8 dicembre 2008

 

(Un ringraziamento speciale a Roman Herzog che ha contribuito alla stesura del pezzo e senza il quale non sarebbe stato possibile questo viaggio).

Di notte, quando cessano il vociare dei prigionieri e gli strilli della polizia, dal cortile del carcere si sente il rumore del mare. Sono le onde del Mediterraneo, che schiumano sulla spiaggia, a un centinaio di metri dal muro di cinta del campo di detenzione. Siamo a Misratah, 210 km a est di Tripoli, in Libia. E i detenuti sono tutti richiedenti asilo politico eritrei, arrestati al largo di Lampedusa o nei quartieri degli immigrati a Tripoli. Vittime collaterali della cooperazione italo libica contro l’immigrazione. Sono più di 600 persone, tra cui 58 donne e diversi bambini e neonati. Sono in carcere da più di due anni, ma nessuno di loro è stato processato. Dormono in camere senza finestre di 4 metri per 5, fino a 20 persone, buttati per terra su stuoini e materassini di gommapiuma. Di giorno si riuniscono nel cortile di 20 metri per 20 su cui si affacciano le camere, sotto lo sguardo vigile della polizia. Sono ragazzi tra i 20 e i 30 anni. La loro colpa? Aver tentato di raggiungere l’Europa per chiedere asilo.

Da anni la diaspora eritrea passa da Lampedusa. Dall’aprile del 2005 almeno 6.000 profughi della ex colonia italiana sono approdati sulle coste siciliane, in fuga dalla dittatura di Isaias Afewerki. La situazione a Asmara continua a essere critica. Amnesty International denuncia continui arresti e vessazioni di oppositori e giornalisti. E la tensione con l’Etiopia resta alta, cosicché almeno 320.000 ragazzi e ragazze sono costretti al servizio militare, a tempo indeterminato, in un paese che conta solo 4,7 milioni di abitanti. Molti disertano e scappano per rifarsi una vita. La maggior parte dei profughi si ferma in Sudan: oltre 130.000 persone. Tuttavia ogni anno migliaia di uomini e donne attraversano il deserto del Sahara per raggiungere la Libia e da lì imbarcarsi clandestinamente per l’Italia.

La prima volta che sentii parlare di Misratah fu nella primavera del 2007, durante un incontro a Roma con il direttore dell’Alto commissariato dei rifugiati a Tripoli, Mohamed al Wash. Pochi mesi dopo, nel luglio del 2007, insieme alla associazione eritrea Agenzia Habeshia, riuscimmo a stabilire un contatto telefonico con un gruppo di prigionieri eritrei che erano riusciti a introdurre un telefono cellulare nel campo. Si lamentavano delle condizioni di sovraffollamento, della scarsa igiene dei bagni, e delle precarie condizioni di salute, specie di donne incinte e neonati. E accusavano gli agenti di polizia di avere molestato sessualmente alcune donne durante le prime settimane di detenzione. Amnesty International si espresse più volte per bloccare il loro rimpatrio. E il 18 settembre 2007 la diaspora eritrea organizzò manifestazioni nelle principali capitali europee.

Il direttore del centro, colonnello Ali Abu Ud, conosce i report internazionali su Misratah, ma respinge le accuse al mittente: "Tutto quello che dicono è falso" dice sicuro di sé seduto alla scrivania, in giacca e cravatta, dietro un mazzo di fiori finti, nel suo ufficio al primo piano. Dalla finestra si vede il cortile dove sono radunati oltre 200 detenuti. Abu Ud ha visitato nel luglio 2008 alcuni centri di prima accoglienza italiani, insieme a una delegazione libica. Parla di Misratah come di un albergo a cinque stelle comparato agli altri centri libici. E probabilmente ha ragione. Il che è tutto un dire. Dopo una lunga insistenza, insieme a un collega della radio tedesca, Roman Herzog, siamo autorizzati a parlare con i rifugiati eritrei. Scendiamo nel cortile. Ci dividiamo. Intervisto F., 28 anni, da 24 mesi chiuso qua dentro. Mentre lui parla mi accorgo che non lo sto ascoltando, in verità provo a mettermi nei suoi panni. Abbiamo grossomodo la stessa età, ma lui i migliori anni della vita li sta buttando via in un carcere, senza un motivo apparente.

Dall’altro lato del cortile, Roman è riuscito a parlare per qualche minuto con un rifugiato sottraendosi al controllo degli agenti della sicurezza che vigilano sul nostro lavoro e riprendono con una telecamera le nostre attività. Si chiama S.. Parla liberamente: "Fratello, siamo in una pessima situazione, siamo torturati, mentalmente e fisicamente. Siamo qui da due anni e non conosciamo quale sarà il nostro futuro. Puoi vederlo da solo, guarda!" Intanto l’interprete li ha raggiunti e traduce tutto al direttore del campo, che interrompe l’intervista e chiede a S. se per caso non vuole ritornare in Eritrea. Lui risponde di no, intanto Roman lo invita ad allontanarsi a passo svelto e a dire tutto quello che può prima che il direttore li interrompa di nuovo. "Siamo qui da più di due anni, senza nessuna speranza. Siamo tutti eritrei. Io sono venuto in Libia nel 2005. Cerchiamo asilo politico, a causa della situazione nel nostro paese. Ma il mondo non si interessa a noi. Non è facile stare due anni in prigione, senza nessuna comodità. Siamo in prigione, non vediamo mai l’esterno. Tutti noi abbiamo bisogno della libertà, ecco di cosa abbiamo bisogno".

La polizia si avvicina nuovamente, Roman chiede a S. di mostrargli la sua stanza. Zigzagando tra la folla nel cortile entrano nel corridoio su cui danno la vista quattro stanze. All’interno, 18 ragazzi siedono su coperte e materassini di gommapiuma stesi sul pavimento. La stanza misura quattro metri per cinque. Al centro, una pentola gorgoglia sopra un fornellino da campeggio. Non ci sono finestre. "Siamo in troppi qui, è sovraffollato - dice S. - non vediamo la luce del sole e non c’è ricambio d’aria. Con il caldo d’estate la gente si ammala. E anche di inverno, fa molto freddo di notte, la gente si ammala". Siamo a fine novembre, e i ragazzi indossano ciabatte da mare e leggeri pullover. La stanza accanto è più grande, ci sono solo donne e bambini, ma sono almeno il doppio.

A quel punto gli uomini della sicurezza interrompono l’intervista e portano Roman fuori dal cortile, dove gli presentano un rifugiato scelto dal direttore... "Sono anche io un prigioniero" gli dice. Ma lui preferisce parlare con J.. Ha 34 anni e dice di essere stato in 13 prigioni diverse in Libia: "Alcuni di noi sono qui da quattro anni. Personalmente sono a Misratah da tre anni. Siamo nella peggiore delle situazioni. Non abbiamo commesso reati, stiamo solo chiedendo asilo politico. E non ci viene concesso. Diteci almeno perché? Visto che nessuno ci informa. Che cosa sta succedendo là fuori? Diteci che cosa sarà di noi! Nemmeno l’Acnur. Non ci dicono mai niente. Non ho più speranza, quando ci vado a parlare nemmeno mi ascoltano. Pesavo 60 kg quando sono entrato, adesso ne peso 48, immagina perché.."

Il colonnello Abu Ud segue la conversazione grazie alla traduzione in arabo dell’interprete, finché non riesce più a trattenersi. "Vuoi ritornare in Eritrea?" chiede a J. interrompendo bruscamente l’intervista. "Preferisco morire - gli risponde - tutti preferirebbero morire. "Se vuoi andare in Eritrea ti rimpatriamo in un solo giorno" minaccia il direttore. "Ci vietano di parlare con te" dice J. a Roman. Il direttore diventa furioso. Gli grida in faccia "Dite loro che li rimpatrieremo tutti!". Poi si avvicina a Roman e con un urlo secco ordina: "Finito!". Roman cerca di protestare, "abbiamo finito" gli ripete Abu Ud mentre gli agenti lo tirano per le braccia verso l’uscita. Intanto il colonnello sale sui gradini e si rivolge a gran voce a tutti i rifugiati che nel frattempo si sono avvicinati per vedere cosa stia accadendo. "Se vi sentite maltrattati qui, organizzeremo il vostro rimpatrio immediatamente. Avete già rifiutato di ritornare nel vostro paese, ecco perché siete in questo posto. Ma ognuno di voi è libero di ritornare in Eritrea! Chi vuole andare in Eritrea?" chiede alla folla. "Nessuno!" gli fanno eco i presenti. Scende e grida al mio collega "Hai visto! Adesso abbiamo veramente finito".

Saliamo di nuovo nell’ufficio del colonnello, che con toni molto nervosi cerca di convincerci del suo impegno. Per ben due volte l’ambasciata eritrea ha inviato dei funzionari per identificare i prigionieri. Ma i rifugiati hanno sempre rifiutato di incontrarli. Hanno addirittura organizzato uno sciopero della fame. Comprensibile, visto che rischiano di essere perseguitati in patria. La Libia dovrebbe averlo capito da un pezzo, visto che il 27 agosto 2004 uno dei voli di rimpatrio per l’Eritrea partiti da Tripoli venne addirittura dirottato in Sudan dagli stessi passeggeri. Ma il concetto di asilo politico sfugge alle autorità libiche. Eritrei o nigeriani, vogliono tutti andare in Europa. E visto che l’Europa chiede di controllare la frontiera, l’unica soluzione sono le deportazioni. E per chi non collabora con le ambasciate - come i rifugiati eritrei - la detenzione diventa a tempo indeterminato. Così per tornare in libertà non rimangono che due possibilità. Avere la fortuna di rientrare nei programmi di reinsediamento all’estero dell’Alto commissariato dei rifugiati (Acnur), oppure provare a scappare.

Haron ha 36 anni. A casa ha lasciato una moglie e due bambini. Dall’Eritrea è scappato dopo 12 anni di servizio militare non retribuito. Dopo due anni di detenzione a Misratah, la Svezia ha accettato la sua richiesta di reinsediamento. È partito tre giorni dopo la nostra visita, il 27 novembre 2008, con un gruppo di altri 26 rifugiati eritrei del campo di Misratah, tra cui molte donne. I posti lasciati vuoti saranno presto riempiti con i nuovi arrestati. Già la settimana scorsa sono arrivate otto donne. I reinsediamenti sono le uniche carte che l’Acnur riesce a giocare, da un anno a questa parte, in Libia. Le prime 34 donne eritree lasciarono il campo di Misratah nel novembre del 2007 e furono accolte dall’Italia, a Cantalice, un piccolo comune nella campagna di Rieti. Per l’Italia fu il primo reinsediamento ufficiale di rifugiati dai tempi della crisi cilena del 1973. Ma l’operazione venne censurata dagli uffici stampa del Ministero dell’Interno, per non sollevare polemiche tra i leghisti. Insieme alle donne arrivarono 5 uomini e una bambina nata pochi giorni prima.

Da allora, circa 200 rifugiati sono stati trasferiti da Misratah in vari paesi. Oltre all’Italia (70), anche in Romania (39), Svezia (27), Canada (17), Norvegia (9) e Svizzera (5). A snocciolarmi i dati è Osama Sadiq. È il coordinatore dei progetti della International organisation for peace care and relief (Iopcr). Una importante Ong libica, che si dichiara non governativa, ma che tanto indipendente non deve essere, visto che ha al suo interno ex funzionari del ministero dell’interno e della sicurezza. E che è talmente influente, che l’Acnur riesce a entrare a Misratah soltanto sotto la sua copertura. Proprio così. In un paese dove transitano ogni anno migliaia di rifugiati eritrei, ma anche sudanesi, somali ed etiopi, l’Acnur conta meno di una ong. Non ha nemmeno un accordo di sede. E non riesce a spendere una parola a livello internazionale per la liberazione dei 600 prigionieri di Misratah. Probabilmente a dettare la linea politica dell’Acnur in Libia sono fragili equilibri diplomatici da non rompere per non rischiare di farsi cacciare da un Paese che non ha nemmeno mai firmato la Convenzione di Ginevra. Eppure la Libia sta conoscendo una importante fase di apertura. E il governo lavora a una nuova legge sull’immigrazione che però - secondo chi ha letto la bozza - non contiene nessun riferimento alla protezione dei rifugiati.

Per quelli che non rientrano nei progetti di reinsediamento dell’Acnur, non rimane che l’ennesima fuga. Koubros è uno di loro. Lo incontriamo sulle scale della chiesa di San Francesco, nel quartiere Dhahra di Tripoli, dopo la messa del venerdì mattina. Un gruppo di eritrei è in fila per lo sportello sociale della Caritas, dove lavora l’infaticabile suor Sherly. A Misratah ha passato un anno. Era stato arrestato a Tripoli durante una retata nel quartiere di Abu Selim. È scappato durante un ricovero in ospedale. Poi però è stato di nuovo arrestato e portato al carcere di Tuaisha, vicino all’aeroporto di Tripoli. Dove è riuscito a corrompere un poliziotto facendosi inviare 300 dollari dagli amici eritrei in città. Siede vicino a Tadrous. Anche lui eritreo, anche lui disertore in fuga dal suo paese. È uscito due settimane fa dal carcere di Surman. Era stato condannato a cinque mesi di galera dopo essere stato trovato in mare con altri 90 passeggeri, a Zuwarah. In carcere si è preso la scabbia. Gli chiediamo di accompagnarci nel quartiere di Gurgi, dove vivono gli eritrei pronti a partire per l’Italia. Dice che è pericoloso. Gli eritrei vivono nascosti. La nostra presenza potrebbe allertare la polizia e provocare una retata. Yosief però la pensa diversamente, vive in una zona diversa. Lo seguiamo.

Scendiamo in una traversa sterrata di Shar’a Ahad Ashara, l’undicesima strada, a Gurgi. Qui vivono molti immigrati africani. L’appartamento è di proprietà di una famiglia chadiana, che ha affittato a sette eritrei le due piccole stanze sul terrazzo. Ci togliamo le scarpe per entrare. I pavimenti sono coperti di tappeti e coperte. Ci dormono in cinque ragazzi. La televisione, collegata alla grande parabola montata sul terrazzo, manda in onda videoclip in tigrigno di cantanti eritrei. È un posto sicuro, dicono, perché l’ingresso della casa passa dall’appartamento della famiglia chadiana, che è a posto coi documenti. Si sono trasferiti qui da poco, dopo le ultime retate a Shar’a Ashara. Adesso quando sentono la sirena della polizia non ci fanno più caso. Prima si correvano a nascondere. Ci offrono cioccolata, una salsa di patate e pomodoro con del pane, 7-Up e succo di pera.

Continuiamo a parlare delle loro esperienze nelle carceri libiche. Ognuno di loro è stato arrestato almeno una volta. E tutti sono usciti grazie alla corruzione. Basta pagare la polizia, da 200 a 500 dollari, per scappare o per non essere arrestati. I soldi arrivano con Western Union, grazie a una rete di solidarietà tra gli eritrei della diaspora, in Europa e in America.

Anche Robel è stato a Misratah. C’ha passato un anno. Ci mostra il certificato di richiedente asilo rilasciato dall’Acnur. Scade l’11 maggio 2009. Ma con quello non si sente al sicuro. "Un mio amico è stato arrestato lo stesso, glielo hanno strappato sotto gli occhi". Durante la detenzione, ha scritto un appello alla comunità internazionale, con un gruppo di sei studenti eritrei.

Sul muro, accanto al poster di Gesù, c’è una foto in bianco e nero di una bambina di pochi anni, con su scritto il suo nome, Delina, con il pennarello. L’ho riconosciuta. È la stessa bambina che giocava sulle scale della chiesa con Tadrous. Anche lei dovrà rischiare la vita in mare. "L’importante è arrivare nelle acque internazionali", dice Yosief. Gli intermediari eritrei (dallala) che organizzano i viaggi, hanno diverse reputazioni. Ci sono intermediari spregiudicati e altri di cui ci si può fidare. Ma il rischio rimane. Non posso non pensarci, mentre sull’aereo di ritorno per Malta, comodamente seduto e un po’ annoiato, sfoglio la mia agenda con i numeri di telefono e le mail dei ragazzi eritrei conosciuti a Tripoli. Prima della mia partenza per la Libia, un amico etiope mi aveva dato il numero di telefono di un suo compagno di viaggio, ancora a Tripoli, un certo Gibril. Ho provato a chiamarlo per tutto il tempo, ma il numero era spento. Nell’orecchio mi risuona ancora l’incomprensibile messaggio vocale in arabo. Speriamo che sia arrivato in Italia, o piuttosto a Misratah. E non in fondo al mare.

 

 

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