Rassegna stampa 9 dicembre

 

Giustizia: dichiarazione dei diritti umani, 60 anni portati male

 

Il Tirreno, 9 dicembre 2008

 

Sessant’anni portati male. Sono quelli che festeggerà il 10 dicembre la "Dichiarazione universale dei diritti umani", firmata a Parigi nel 1948, il cui primo articolo (di trenta) recita: "Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza".

Un documento, oggi più che mai di fondamentale importanza, sia da un punto di vista storico che etico, anche se, dopo più di mezzo secolo, la strada da percorrere per concretizzarne i contenuti è ancora lunga. Ne abbiamo estrapolato alcuni articoli, facendoli commentare a chi opera quotidianamente perché non rimangano solo sulla carta.

 

Non discriminare - Vittorio Pineschi, presidente dell’Arci Piombino, Val di Cornia e Elba.

"La Dichiarazione universale dei diritti umani, è ancora oggi disattesa, perché troppo sconosciuta e in troppe parti del mondo smentita e calpestata. La crisi o l’implosione di interi sistemi socio economici, le abiezioni dell’animo umano o semplicemente la paura del diverso o dell’immigrato possono certamente prospettarci una fondata risposta ai quesiti, che tuttavia restano lì a interrogarci anche quando, nel nostro quotidiano, facciamo finta di non vedere o tolleriamo che i diritti vengano negati ai diversi o agli immigrati".

"La gradualità dei fenomeni migratori che caratterizzano la Val di Cornia ha facilitato una pacifica convivenza con quelli che ormai sono i nuovi concittadini. Ma ci ha aiutato anche la forte e radicata cultura del lavoro. Un patrimonio che credo abbia fornito al sindacato gli strumenti idonei per gestire con efficacia, solidarietà e intelligenza la profonda crisi produttiva che ha colpito le nostre grandi fabbriche, cercando di non discriminare nessuno. In occasione dell’anniversario della Dichiarazione, perciò, mi piace leggere questo accordo sindacale come una concreta messa in atto dei principi contenuti nella stessa e una spinta salutare, per continuare a guardare con fiducia coloro che i diritti ancora non li hanno".

 

Diritto alla vita - Fabrizio Callaioli, avvocato, membro del Direttivo dell’associazione "Ruggero Toffolutti" per la sicurezza sul lavoro.

"Il diritto alla vita e alla sicurezza della propria persona, sancito dall’articolo 3 della Dichiarazione, ha faticato ad affermarsi anche nel posto di lavoro, quando pareva che l’unico obbligo dell’imprenditore fosse quello di corrispondere una retribuzione, dimenticando la sicurezza e le condizioni in cui si trovavano i dipendenti. Purtroppo oggi in molte parti del mondo, l’uomo è privato dei più elementari diritti e della dignità, costretto a lavorare in condizioni ai limiti dell’umanità e senza alcuna tutela". "E, come succede in Colombia, i sindacalisti che si battono per difendere questi diritti vengono uccisi a decine ogni anno. Anche in Europa il numero degli infortuni e delle morti sul lavoro non tende a diminuire e sempre più spesso emergono responsabilità di imprese che risparmiano sulle misure di sicurezza e sul personale. Se potrà esserci un’inversione di tendenza? Solo se si avrà un’autentica consapevolezza del valore dell’essere umano, concependo la vita e la sicurezza delle persone come più importanti del profitto".

 

Libertà di movimento - Akram Telawe, regista, sceneggiatore, attore palestinese, trapiantato a Suverto.

"Nel leggere questi due articoli della Dichiarazione dei diritti umani provo la stessa sensazione di quando leggo "Ali dagli occhi azzurri" di Pasolini, scritta nel 1964, il mio anno di nascita. E penso a molti miei familiari che, privati di questi diritti, non posso vedere: una parte di loro è in Libano, una parte in Siria. E a me, palestinese, con passaporto israeliano, che ho il divieto di entrare nei paesi arabi e in quelli dell’area del Golfo Persico e che ho difficoltà perfino a raggiungere Gaza, a 50 chilometri da Taebeh, la mia città". "Come si può accettare che, nel 2008, esistano delle città prigioni, dalle quali chi vi abita non può uscire, perché non ha il diritto di muoversi liberamente? E accettare che moltitudini di uomini debbano scappare dalla propria terra, viaggiando per terra e per mare, e spesso morire a causa di diritti negati?". "La Carta non è rispettata e io provo rabbia e sfiducia nei confronti della politica mondiale e della frase che spesso sento dire: "Il mondo sta diventando un villaggio". Credo invece che il mondo stia trasformandosi sempre di più in un’enorme città con le sbarre, sullo stile di Guantanamo e Abu Graib. Non esiste più il beduino nomade, che erra per i deserti, non esiste più la via della seta, ma la voglia disperata di gridare il diritto elementare alla vita, e di far capire che la terra è di tutti coloro che la abitano. Le "ali" dovrebbero essere l’unico passaporto dell’essere umano, che invece troppo spesso è costretto a legare la sua libertà di uscire dai propri confini a un libretto che abbia impressa sulle pagine l’autorizzazione a muoversi".

 

Nessuna detenzione ingiusta - Roberto Giannoni, un anno recluso da innocente - ha raccontato la sua esperienza nel libro "Hotel Sollicciano" - oggi è assistente volontario nel carcere di Porto Azzurro.

"Avendolo provato sulla mia pelle, dico che dopo sessant’anni nulla è cambiato, anzi, si sono trovate "le formule" perché i 30 articoli della Dichiarazione dei diritti umani siano disattesi e addirittura, in alcuni casi, calpestati. Si arresta con facilità incredibile, bastano le poche parole rilasciate anche da persone pluricondannate e, senza cercare riscontri a queste dichiarazioni, si sbatte in carcere un cittadino con la formula della custodia cautelare. E durante questa "custodia" chi viene incarcerato si "gode" gli stessi trattamenti di detenuti che stanno scontando pesantissime pene per aver commesso atroci delitti". "Non esiste parità tra accusa e difesa: gli atti dell’accusa sono quasi sempre, coperti per intere paginate dagli "omississ" (passi di indagine che vengono deliberatamente omessi per non dare modo alle difese di attingere argomenti difensivi) e il sospetto diventa l’anticamera della colpevolezza: anche se sai di essere innocente, ti fanno sentire condannato, prima che si sia arrivati al termine di tutti i gradi di giudizio".

 

Un letto e cibo per tutti - Claudio Messina, presidente del consiglio centrale interprovinciale di Livorno e Grosseto della San Vincenzo de Paoli.

"Se rileggiamo l’articolo 25 ci accorgiamo di quanto grande sia il divario tra il sancire principi e leggi e la loro applicazione reale. Le organizzazioni spontanee di cittadini impegnati nel soccorrere i bisognosi nascono molto prima del 1948, la San Vincenzo de Paoli, per esempio è nata nel 1833, eppure non hanno ancora esaurito la loro missione, anzi oggi sono chiamate a fronteggiare quella che nuovamente sta diventando un’emergenza vera: la povertà". "Senza contare che l’impoverimento economico non viene mai da solo, ma si accompagna spesso a forme di povertà che hanno radici culturali, ancora più dure da estirpare. In una società multietnica, come la nostra, è inutile alzare barriere e fare discriminazioni, ma è invece necessario puntare sull’inclusione e sull’integrazione, promuovendo una cultura della legalità mentre si fa accoglienza e insieme agli stranieri sono sempre di più i nostri concittadini che chiedono sostegno".

 

Diritti dei lavoratori - Claudio Valacchi, operaio e coordinatore della Fiom Cgil di Arcelor Mittal a Piombino.

"Parole amare quelle dell’articolo a difesa dei lavoratori. Oggi più che mai il diritto al lavoro è qualcosa per cui lottiamo, ma che purtroppo vede un’enorme discriminazione fra i lavoratori e soprattutto fra quelli giovani. I contratti interinali, quelli precari e di apprendistato fanno di questi giovani un popolo fantasma, che entra ed esce dalle fabbriche, non riesce a costruire una famiglia, ad avere la possibilità di aprire un mutuo, perché il contratto che ha non lo legittima a nessuna sicurezza. Ed è triste vedere quello che accade anche nei nostri luoghi, dove le multinazionali hanno fatto del lavoro non un’identità culturale e sociale dell’individuo, ma solo una speculazione finanziaria. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: si è spinto un certo modello fino all’esasperazione, arrivando alla catastrofe. E a pagare sono sempre i soliti, cioè i lavoratori". "Chi come me ha la fortuna come me di essere in una grande fabbrica, ha gli ammortizzatori sociali, un sindacato che cerca in qualche maniera, pur se con difficoltà, di attutire l’impatto della crisi, come si è fatto in Magona con alcuni accordi aziendali. Ma io penso a tutti quei lavoratori che scompaiono dal mercato del lavoro, agli immigrati, alla Bossi Fini che impone agli immigrati disoccupati di tornare in patria, sapendo che là li aspetta meno di niente". "È un mondo triste e rispetto al grande respiro della Dichiarazione dei diritti umani e il mio rammarico è soprattutto per i giovani. Per quanto riguarda poi il sindacato, credo che oggi abbia gli stessi difetti che ritroviamo nei partiti e in tante associazioni dove c’è solo la voglia di apparire, mentre bisognerebbe andare nelle fabbriche, parlare con la gente".

Giustizia: l'illusione di una riforma che a parole tutti vogliono

di Stefano Folli

 

Il Sole 24 Ore, 9 dicembre 2008

 

È sconcertante, per non dire assurdo, che quindici anni dopo Tangentopoli gli italiani siano ancora di fronte all’intreccio di conflitti irrisolti. Da un lato, lo scontro senza fine, fra politica e magistratura; dall’altro, la guerra intestina alle procure, che ha lasciato allibito anche il presidente della Repubblica. È la storia di un Paese malato. Non tanto per il riemergere della "questione morale" a sinistra, tema su cui sono già corsi fiumi d’inchiostro; quanto per il senso di frustrazione provocato da un sistema politico incapace di produrre vere riforme e di restituire ai cittadini - giusto per fare un esempio - una giustizia seria ed efficiente, in grado di dare garanzie di corretto funzionamento.

Si è detto che l’ordine giudiziario ha perso credibilità e che il conflitto fra Salerno e Catanzaro, arricchito dall’attacco al Csm (nella persona di un uomo dabbene come il vicepresidente Nicola Mancino), è la pietra tombale calata sull’antico prestigio. È vero, purché si riconosca che quel prestigio si era già smarrito nel corso degli anni: e in forme drammatiche. Troppe volte i magistrati - salvo importanti eccezioni, s’intende - hanno dato l’impressione di essere una casta autoreferenziale, assai lontana dalle esigenze del cittadino.

E non è un caso se oggi un uomo di sinistra come l’ex presidente della Camera Luciano Violante, uno che se ne intende, usa nei loro confronti parole molto dure: fra l’altro sostiene che proprio la politica debole "ha fatto crescere a dismisura il potere della magistratura". E quando il potere è abnorme "diventa condizionamento dei fatti politici". O indebita intrusione.

Difficile non essere d’accordo con Violante sul punto politico della sua intervista al "Corriere": una riforma della giustizia, al punto cui siamo arrivati, non è "un favore" che il centrosinistra fa a Silvio Berlusconi. Semmai sarebbe un gesto di saggezza da parte dell’opposizione, perché la riforma dovrà essere immaginata non per colpire o punire i magistrati, bensì per restaurare un grado più alto di etica pubblica. E, aggiungiamo, per restituire sia alla magistratura sia alla politica un po’ della credibilità perduta. Ma è probabile che si tratti dell’ennesima illusione. Per la buona ragione che il rinnovamento, per essere serio, deve poggiare su tre presupposti della cui solidità è lecito dubitare.

Il primo è che il Governo sia davvero determinato e compatto al suo interno. Non è proprio così: il ministro Alfano svolge la sua parte, ma i dubbi della Lega sono tutt’altro che irrilevanti. Umberto Bossi insiste per dare la priorità a quel federalismo il cui appuntamento con la storia arriva nel momento sbagliato. La crisi economica rende complicato prevedere, proprio nel 2009, una riforma epocale e di sicuro molto costosa come sarà il nuovo assetto dello Stato. Si dirà che a tutto c’è rimedio: il federalismo potrà prendere corpo nelle sue linee generali, così da accontentare Bossi, rinviando l’attuazione pratica della riforma agli anni futuri. In ogni caso la maggioranza non dà l’idea di voler affrontare il tema giustizia con la convinzione necessaria.

Qualcuno non ha ancora compreso la differenza che passa tra una riforma istituzionale e una rissa con la magistratura. Per attuare la prima ed evitare la seconda, è consigliabile un confronto serio con il Partito Democratico e magari anche con l’Udc. Sia D’Alema sia Violante hanno offerto disponibilità e il "no" alla separazione delle carriere, pronunciato ancora l’altro giorno da Anna Finocchiaro, sembra essere un punto di partenza più che un approdo della trattativa.

Di certo, nessun confronto può svilupparsi se ognuno resta ancorato alle pregiudiziali. Ma il dubbio è se questo confronto sia realistico. Per motivi diversi, né il Pdl né il Pd sembrano in grado oggi di sedersi intorno a un tavolo e negoziare seriamente i termini della riforma. Ognuno ha le sue remore. Quelle di Berlusconi nascono dalla convinzione che la maggioranza è autosufficiente e che non ci sia nulla da discutere con gli "altri".

Quelle del Pd hanno un nome e un cognome: Antonio Di Pietro, il paladino delle toghe. Eppure, senza un accordo parlamentare avremo soltanto un lungo scontro con la magistratura. E le solite macerie. Un film già visto. E infatti il terzo presupposto è che anche il potere giudiziario capisca che è ora di parlare un linguaggio nuovo. A certe condizioni, la riforma non danneggia i magistrati, ma contribuisce nella sostanza a ricostruire il castello del loro prestigio perduto. Forse non è facile comprenderlo, ma gli organi rappresentativi della magistratura potrebbero fare opera di persuasione. È bene essere scettici sull’intero percorso. I tre protagonisti dello psicodramma - maggioranza, opposizione e magistrati - seguono ciascuno la propria logica. Le voci ragionevoli sono poche. Ma i fatti dimostrano che il livello di guardia è stato superato da un pezzo.

Giustizia: il vero obiettivo del Cavaliere? "governare" le leggi

di Giuseppe D’Avanzo

 

La Repubblica, 9 dicembre 2008

 

Berlusconi non ha alcuna voglia di riformare subito la giustizia. Perché dovrebbe averne? Si è personalmente protetto con l’immunità (la "legge Alfano") e non teme più i giudici.

Può essere paziente, può non avere fretta, può attendere. C’è il tempo di una legislatura per preparare e realizzare il colpo finale (dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo). Con sapienza, è sufficiente al premier tenere alto il fuoco sotto la pentola e cuocere magistratura, riformisti democratici, opinione pubblica con sfide, provocazioni, affondi incrociati. Sempre inconciliabili. Tipo: "Nella sinistra c’è una questione morale", dice. Che ovviamente suggerito da un piduista, con un avvocato corruttore di giudici (Previti) e un braccio destro amico di mafiosi (Dell’Utri), fuori pericolo per amnistie e prescrizioni, scampato per un conflitto di interessi che gli ha permesso di approvarsi leggi ad personam, irrita gli animi e provoca un irrigidimento politico. Che subito dopo Berlusconi massaggia da "statista" con un invito a discutere insieme la riforma della giustizia.

Un’offerta politica che, presa in considerazione per qualche ora, provoca all’istante nell’opposizione divisioni e malanimo che l’egoarca aggrava lasciando dire, un attimo dopo, che "in ogni caso, il governo la riforma la farà per conto suo" alla pattuglia di sherpa più partisan che ha a disposizione - Alfano (suo segretario personale e ora ministro virtuale), Ghedini (suo avvocato personale e ministro di fatto), Cicchitto (fratello di loggia).

Bisogna mettersi nei panni di Berlusconi. L’unica forza che teme davvero è la Lega Nord e Bossi non vuole sentir parlare di giustizia prima di avere in tasca il federalismo e, se il premier s’azzarda a capovolgere l’ordine delle priorità, gli toccherà subire gran brutti scherzi in aula. E poi perché procurarsi delle rogne quando i suoi avversari si fabbricano guai da soli?

I magistrati si mangiano vivi come scorpioni in una bottiglia screditando irresponsabilmente la stessa funzione giudiziaria. Il Consiglio superiore della magistratura, costretto ad affrontare la crisi calabro-campana per la mossa inconsueta di Napolitano, è pronto già da oggi a ritornare ai tempi lunghi, al gioco di squadra correntizio, alla protezione corporativa incapace di trovare risposta al perché magistrati così palesemente inadeguati debbano ottenere un incarico direttivo. È questa la qualità della magistratura italiana o è questo il mediocre merito che piace ai "kingmaker" delle correnti?

D’altronde, è anche vero che, per le toghe più spregiudicate, una buona visibilità mediatica rimedia a qualsiasi abbaglio professionale se si posa a vittima, se si strepita contro l’arroganza del potere e i baratti politici sotto banco: quel che non si è stati capaci di mettere insieme rispettando le regole del processo penale, lo si ottiene come condanna morale pubblica da un’opinione pubblica, disinformata con maestria, che attende l’Angelo vendicatore e l’inchiesta catartica.

Il quadro sarebbe però incompleto se si trascurasse quel che più conta, la moderna originalità del Berlusconi IV (novità che la miopia autoreferenziale di opposizione e magistratura neppure sembra scorgere). Oggi il bersaglio del signore di Arcore (impunito per legge) non concerne più la magistratura (avversario secondario), ma lo stesso sistema di legalità (obiettivo primario).

Non l’ordine o il potere giudiziario, ma le leggi, quella "formulazione generale e astratta che distingue le leggi da ogni altra manifestazione di volontà dello Stato". Berlusconi rivendica la legittimità del suo comando e non vuole che esso sia determinato dalle norme, ma lo esige orientato dalla necessità concreta, dallo stato delle cose, dalla forza della situazione. Vuole dare un taglio netto alle "dispute avvocatesche" che accompagnano lo Stato dove i giudici interpretano la legge. Vuole liquidare "le discussioni senza fine" dello Stato legislativo-parlamentare. Vuole e pretende una decisione eseguita con prontezza senza che né i giudici né il Parlamento ci mettano il becco.

Questa è la "partita" che vede la magistratura e il riformismo democratico confusi nel difendere forme, identità e routine che le mosse di Berlusconi spingono costantemente in fuori gioco. Converrà allora abbandonare l’idea di discutere e dividersi per una riforma della giustizia che non ci sarà per il momento (ci saranno soltanto maligne e pericolose modifiche di procedure e codici). È più utile rendersi presto "presentabili" per difendere con qualche prestigio dinanzi all’opinione pubblica un’architettura dello Stato dove "legittimo" e "autorità" valgono solo come espressione della legalità.

Il riformismo democratico ha molto lavoro, e doloroso, davanti a sé. È ferito, in qualche caso sfigurato, dalle collusioni con il malaffare, dal clientelismo, dall’avidità, da "sistemi di potere" chiusi e inaccessibili. Non riesce a prendere atto, anche nei sindaci più integri come Domenici e Iervolino, che la sconfitta dell’etica pubblica nelle loro amministrazioni è un fallimento politico e quindi una loro diretta, esclusiva responsabilità di cui devono dar conto. Prima che affare dei giudici, quella caduta è uno sfregio alla fiducia ottenuta dagli elettori. Le proteste per la propria, personale correttezza non gliela restituirà e non la restituirà al centro-sinistra. La discussione severa nel campo dei riformisti dovrà ricordare allora che non può esserci autorità al di fuori di legalità.

Soltanto il rispetto della legalità può rendere legittimo e autorevole il comando a meno di non volersi incamminare lungo la strada aperta da Berlusconi. La magistratura si muove nello stesso angolo stretto. Così ubriaca di se stessa da non accorgersi di ballare su un Titanic prossimo alla catastrofe, in alcune agguerrite falangi, inalbera le prerogative costituzionali di autonomia e indipendenza come se fossero un lasciapassare per l’irresponsabilità. La magistratura deve mostrare di essere in grado di rimuovere, con i propri poteri amministrativi, le toghe sporche, le toghe immature, le toghe oziose, le toghe incapaci, gli inetti volenterosi, i vanitosi cacciatori di titoli. "La ricreazione è finita", è stato detto sabato scorso al Csm durante le audizioni dei capi degli uffici di Salerno e Catanzaro. "La ricreazione" deve finire davvero, se la giustizia vuole essere ancora custode e garante del diritto in uno Stato giurisdizionale.

Soltanto questo doppio esame critico consentirà di affrontare, quando sarà, una riforma della giustizia che abbia non soltanto un uomo al comando, con i numeri insuperabili delle sue truppe, ma almeno un protagonista politico (il Pd) e un attore istituzionale (la magistratura) che possono far pesare nel Paese la loro credibilità, un indiscusso credito. Non è molto, ma è la sola moneta che si può spendere oggi.

Giustizia: altolà di Bossi alla riforma; prima viene il federalismo

 

La Stampa, 9 dicembre 2008

 

La riforma sulla giustizia sembra di nuovo in salita, sia per le divisioni nella maggioranza, sia per i molti paletti che sono stati piantati oggi dal Pd. Nella maggioranza è Umberto Bossi a ricordare che la Lega non è entusiasta del provvedimento e che, comunque, prima bisogna condurre in porto la riforma federalista dello Stato.

Dal Pd, dopo i segnali di disponibilità dei giorni scorsi (e ancora questa mattina ribaditi da Luciano Violante), arriva uno stop dal portavoce del partito Andrea Orlando. Il tutto mentre domani il Csm proseguirà le audizioni dei procuratori di Catanzaro e di Salerno coinvolti nello scontro sui fascicoli di De Magistris. Bossi parla al Tg1, dopo che molti esponenti del centrodestra avevano incalzato il Pd, a cominciare dal ministro della Giustizia Angelino Alfano. "Siamo pronti a fare da soli", aveva avvertito il ministro. Ma il leader della Lega chiarisce che il sì del Carroccio è condizionato: "Berlusconi è il presidente del Consiglio, se lui vuole la riforma si fa", dice di fatto attribuendo tutta la responsabilità della riforma al premier. Rincara la dose il Presidente dei deputati leghisti Roberto Cota che chiede ad Alfano di andare a riferire in Parlamento "per farci conoscere la sua posizione".

Il Guardasigilli, nonostante i paletti della Lega e l’altolà dei giudici all’ipotesi di riforma, detta la linea: la giustizia va riformata "se possibile con un’ampia maggioranza" ma "se necessario le approveremo da soli". Il ministro della Giustizia, in un’intervista al Messaggero pone tre questioni di fondo. La prima è la giustizia civile, la cui riforma è stata approvata dalla Camera e ora è all’esame del Senato. Poi, "sul processo penale occorrerà attuare pienamente l’articolo 111 della Costituzione che parla del giusto processo". Terzo punto, per il Guardasigilli, sono le riforme ordinamentali. "Vogliamo intervenire sulla Costituzione per far sì che la parità tra accusa e difesa non sia un auspicio ma la realtà. Dobbiamo far sì che il giudice, per essere equo e imparziale, sia tanto distante dall’avvocato quanto dal pubblico ministero".

Ma i paletti di Bossi non ammettono fraintendimenti: "Prima si deve fare il federalismo", dice il Senatùr. Un messaggio chiaro, al quale replica il ministro della Difesa Ignazio La Russa: "Le due cose non sono inconciliabili. I tempi del federalismo li abbiamo già fissati e non subiranno rallentamenti, ma le Camere sono due e a gennaio si può iniziare l’uno e l’altro, se fosse necessario. Quindi Bossi non tema". Ma il tema giustizia è anche al centro del confronto tra maggioranza e opposizione. Pier Ferdinando Casini ha chiesto al Pd di prendere le distanze da Antonio Di Pietro, ma l’ex pm ha subito replicato avvertendo che è pronto ad altre "cento e mille piazza Navona" per difendere la giustizia da quella che chiama la "pseudo-riforma" di Berlusconi. E il Pd mostra posizioni diverse al proprio interno.

Se nei giorni scorsi erano arrivati segnali di disponibilità al dialogo sulla riforma, da Massimo D’Alema ad Anna Finocchiaro, fino al Violante di stamattina, oggi è il portavoce del partito Andrea Orlando a gelare gli entusiasmi: "Il bullismo del Pdl è come sempre il peggior viatico a qualsiasi tipo di confronto serio con il Partito democratico", dice, polemizzando con gli esponenti del centrodestra che hanno chiesto al Pd di prendere le distanze da Di Pietro. "Gli esponenti della maggioranza, che anche oggi non hanno fatto mancare la solita dose di minacciosi ultimatum, si mettano l’animo in pace: il Partito democratico non accetterà mai di ratificare decisioni del governo alla cui stesura non abbia contribuito concretamente con le sue proposte le sue idee".

Del resto, Veltroni in questi giorni ha assunto un atteggiamento che certo non è quello di chi grida al complotto delle procure: il segretario del Pd, anzi, sta sferzando il suo partito, chiedendo un ricambio dei gruppi dirigenti responsabili di comportamenti "poco trasparenti". La riforma della giustizia, insomma, per Veltroni va anche fatta ma "con tutti gli attori coinvolti" e non "contro" la magistratura.

Giustizia: firmata l’intesa tra Procure di Salerno e Catanzaro

 

Corriere della Sera, 9 dicembre 2008

 

Tra le Procure di Salerno e Catanzaro è scesa la pace. I due uffici giudiziari - dopo lo scontro sui fascicoli "Why Not" e "Poseidon" finito al Csm - hanno firmato un’intesa che "ha consentito il ripristino, mediante idonee iniziative processuali, delle condizioni per il pieno esercizio della giurisdizione". Lo sottolinea il procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, in una nota trasmessa al presidente Giorgio Napolitano e i cui contenuti sono stati riferiti dal segretario della Procura generale della Cassazione, Pasquale Ciccolo. Esposito richiama l’"alto auspicio", espresso nel comunicato del Quirinale del 4 dicembre a proposito dello scontro tra le Procure di Salerno e Catanzaro sull’inchiesta De Magistris, affinché "gli organi di vertice dell’ordine giudiziario volessero assumere specifiche iniziative dirette a superare la paralisi processuale".

Il giorno successivo i procuratori generali di Catanzaro e Salerno sono andati nell’ufficio del Procuratore generale della Corte di Cassazione: "Entrambi - si riferisce nella nota inviata al presidente della Repubblica -, consapevoli della estrema delicatezza e gravità della situazione venutasi a determinare, hanno raggiunto, con grande senso di responsabilità istituzionale, una intesa per superare tale situazione. L’intesa si è poi concretizzata in un incontro a Salerno tra i magistrati dei due uffici requirenti, che ha consentito il ripristino, mediante idonee iniziative processuali, delle condizioni per il pieno esercizio della giurisdizione".

Giustizia: Fini; riforma condivisa, per l’efficienza del Sistema

 

Ansa, 9 dicembre 2008

 

"È necessaria una riforma che abbia un obiettivo condiviso, ciò che è auspicato da tutte le forze politiche: l’efficienza del sistema giudiziario": lo ha detto il presidente della Camera Gianfranco Fini conversando con i cronisti in Transatlantico.

"Al di la delle ricorrenti polemiche e strumentalizzazioni - spiega il presidente della Camera - è innegabile che allo stato attuale la durata dei processi precluda la tutela dei diritti dei cittadini. E ciò è davvero inaccettabile. Credo che in quest’ottica sia doveroso, ferma restando la indipendenza e l’autonomia, riflettere anche sull’assetto della magistratura se davvero si vuole che essa sia all’altezza delle proprie funzioni costituzionali".

Giustizia: sulle pene alternative un "nulla di fatto" per Alfano

di Desi Bruno

 

Il Domani, 9 dicembre 2008

 

Nei giorni scorsi un progetto di legge presentato nel Consiglio dei Ministri dal Guardasigilli Angelino Alfano si è imbattuto nella ferma opposizione di una parte della maggioranza. Il progetto, tra le altre cose, prevede l’introduzione nel codice penale dell’istituto della sospensione del processo con messa alla prova, la cui origine storica è da rinvenirsi nei sistemi di diritto penale anglo - americani. Tale istituto, mutuato dalla disciplina del processo penale minorile, era già stato previsto, fra le cause di estinzione del reato in caso di esito positivo della prova, nella riforma del codice penale approntata, e non approvata, dalla Commissione Pisapia nella passata legislatura.

Il progetto della Commissione Pisapia prevede che l’esito positivo della messa alla prova produca l’estinzione del reato nei procedimenti relativi a reati puniti con pena diversa da quella detentiva oppure con pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni, sola o congiunta con altra pena non detentiva. Ricorrendo tali presupposti il giudice può disporre, con il consenso o su richiesta dell’imputato, la sospensione del processo con messa alla prova, disciplinando modalità di espletamento della prova. Il progetto prevede che non si posso beneficiare dell’istituto per più di due volte. Nel processo penale minorile tale istituto trova già applicazione e i risultati ottenuti sono decisamente soddisfacenti.

In questo modo si ha la sottrazione del minorenne dal circuito giudiziario con il suo affidamento ad organi assistenziali e per questa via si contemperano sia l’esigenza di dare una risposta punitiva ad un soggetto che ha commesso un reato, sia l’esigenza di risocializzare, funzionando, in via principale, come offerta di un programma di trattamento individualizzato che possa facilitare il recupero del minorenne. Interviene nel corso del processo comportandone la sospensione allo scopo di consentire al giudice di valutare la personalità del minorenne all’esito della prova. L’adempimento delle prescrizioni imposte dal giudice comporta l’estinzione del reato se la valutazione della prova risulta essere positiva.

La proposta del ministro Alfano prevede che chi, incensurato, sia sottoposto ad un processo penale con l’accusa di aver commesso un reato punito con una pena non superiore, nel massimo, a quattro anni di reclusione, possa chiedere di essere "messo alla prova" con l’obbligo di prestazione di lavoro utile non retribuito per un periodo determinato. Nel caso in cui intervenga tale richiesta il processo può essere sospeso e la "messa in prova" concessa. Si approderà all’estinzione del reato nel caso in cui, durante il periodo stabilito, il soggetto messo alla prova non commetta altri reati e non disattenda gli adempimenti previsti. È previsto che non possa essere chiesta una seconda volta.

La ratio di questa proposta risponde a precise esigenze di deflazione processuale e di accelerazione del processo penale, che già erano state evidenziate dal passato Governo, e la valutazione circa un progetto di legge orientato in questo senso non può che essere di opportunità. Il senso è quello di un’apertura nei confronti delle sanzioni alternative alla detenzione individuando, in controtendenza rispetto al pan-penalismo imperante, risposte statuali altre al cospetto della violazione di una norma penale, con un accesso al circuito carcerario che venga a caratterizzarsi sempre più come extrema ratio piuttosto che come unica e privilegiata forma di esecuzione penale.

All’esigenza di sicurezza che proviene, sempre più pressante, dalla società si tende a dare risposte che, invece, paiono andare in una direzione opposta a quella indicata da questo progetto di legge con una pena detentiva che viene considerata, in maniera miope, come indiscriminata e sempre valida soluzione. Certo è che il sistema della pena in Italia necessiterebbe, come da più tempo vanno sostenendo coloro che si occupano di diritto, di un’organica e complessiva riforma, non essendo sufficienti interventi settoriali ed episodici.

Giustizia: Sappe; quasi 59mila detenuti, riforma indifferibile

 

Agi, 9 dicembre 2008

 

Una riforma organica del sistema giustizia del Paese sembra ormai non più rinviabile. In tale contesto, un ruolo fondamentale dovrà essere dedicato alla rivisitazione delle politiche penitenziarie italiane, che necessitano di riforme strutturali non più rinviabili. Il nostro auspicio è che una riforma della giustizia e del sistema penitenziario nazionale avvenga con il contributo sinergico di maggioranza ed opposizione parlamentare, atteso che su queste priorità le formazioni politiche devono far prevalere gli interessi del Paese agli schematismi ideologici di parte.

È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione di Categoria. Svanito l’effetto indulto, le carceri italiane sono tornate a riempirsi. Ed è di nuovo emergenza, visto che è stata già ampiamente superata la soglia dei 58mila detenuti. Ben oltre il livello di massima capienza, con una media di 113 presenze per 100 posti.

Fisiologico dunque che, con questo ritmo, alla fine dell’anno ci ritroveremo al punto di partenza, alla vigilia dell’approvazione della legge sull’indulto, quando le carceri scoppiavano con 60mila reclusi. Il fallimento delle politiche penitenziarie del Paese è ben evidente nei numeri attuali. Sono infatti ormai quasi 59mila i detenuti presenti nei 205 penitenziari italiani (Case circondariali, di reclusione, istituti per le misure di sicurezza) a fronte di una capienza regolamentare di circa 43mila posti.

E anche sul fronte Personale che lavora nelle carceri i dati sono altrettanto allarmanti. La differenza tra il Personale di Polizia Penitenziaria effettivamente in forza e quello previsto registra una carenza di 4.425 Agenti uomini e 335 Agenti donne. Le carenze di Baschi Azzurri più consistenti si registrano in Lombardia (circa 1.200 unità), Piemonte (900) Emilia Romagna, Toscana, Veneto e Liguria. Anche il Personale amministrativo e tecnico è fortemente sotto organico di ben 2.300 unita. È quindi evidente come la mancata adozione di provvedimenti strutturali da parte di Governo e Parlamento per modificare il sistema penitenziario contestualmente all’approvazione dell’indulto abbia riportato le carceri italiane a livelli di sovraffollamento insostenibili.

Il Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione sindacale della Polizia Penitenziaria, rinnova quindi l’invito (già formulato in più occasioni) a Governo e Parlamento di porre la questione penitenziaria tra le priorità d’intervento della riforma della giustizia, prevedendo una modifica del sistema penale - sostanziale e processuale - che renda stabili le detenzioni dei soggetti pericolosi affidando a misure alternative al carcere la punibilità dei fatti che non manifestano pericolosità sociale. Che si trovino soluzioni concrete al problema degli stranieri detenuti (che rappresentano oggi circa il 40% della popolazione carceraria) mediante accordi internazionali che consentano concretamente l’espiazione delle pene nei Paesi di origine. Ma soprattutto che si impegnino ad assumere almeno 3.000 nuovi poliziotti penitenziari, stante la grave carenza di Personale che si registra nel Paese.

Capece sottolinea che se la strada del Governo sembra essere quella di affidare a privati la costruzione di nuove carceri vorremmo capire come ci si intende muovere, fermo restando che la gestione dei penitenziari deve restare un compito dello Stato affidato al Corpo di Polizia penitenziaria. Costruire nuovi carceri vuol dire assumere nuovo Personale, di Polizia e del Comparto Ministeri (oggi entrambi nettamente sotto organico), vuol dire stanziare fondi e risorse. Vorremmo sapere come il Governo intende muoversi, visto che è addirittura previsto, nella Finanziaria approvata quest’estate, una netta riduzione ai fondi riservati all’Amministrazione penitenziaria.

La questione generale del sovraffollamento, infatti, non può trovare esclusiva risposta nello sviluppo dell’edilizia penitenziaria. Ciò non solo per la mancanza di risorse economiche proporzionate alle esigenze e per i tempi lunghi di esecuzione dei lavori, ma anche per la carenza di risorse umane, specificamente Polizia penitenziaria e personale del Comparto ministeri, necessarie per la gestione delle nuove strutture. Se, quindi, le attuali dotazioni organiche sono già insufficienti per le esigenze relative all’epoca della loro individuazione, non vi è dubbio che la situazione sia andata ancor di più aggravandosi a seguito dell’apertura, dopo il 2000, di nuove strutture penitenziarie, della realizzazione dei nuovi padiglioni detentivi e della ristrutturazione di sezioni detentive inutilizzate.

L’auspicio del Sappe conclude Capece è una espansione dell’esecuzione penale esterna, ossia il sistema delle misure alternative, che può essere incentivata offrendo garanzie di sicurezza credibili sia dal giudice che le dispone, sia dalla stessa collettività. Sto parlando di un controllo permanente, cioè di una verifica puntuale di dove il condannato si trovi e di che cosa faccia coinvolgendo sempre di più la Polizia penitenziaria. Altro impulso allo sviluppo dell’area dell’esecuzione penale esterna potrebbe essere dato anche avvalendosi di sistemi di controllo tecnologici come, ad esempio, il braccialetto elettronico.

Sulmona: infermieri carcere; Asl garantisce stipendi arretrati

 

Il Centro, 9 dicembre 2008

 

"Da domani ed entro 24 ore saranno liquidate le somme dovute a infermieri e medici del carcere di Sulmona". A garantirlo è Franco Ventura, dirigente amministrativo della Asl Avezzano-Sulmona. "Nonostante l’impegno dell’azienda sanitaria e della direzione del carcere", sottolinea Ventura, "qualche meccanismo si è inceppato e si è determinata questa situazione spiacevole, di cui non ero al corrente, ma che sarà risolta in tempi rapidissimi". Nei mesi scorsi, il servizio sanitario all’interno del carcere è passato dalla competenza dell’amministrazione penitenziaria alla Asl.

In via Lamaccio gli infermieri sono 12, i medici una decina e dal momento del passaggio (avvenuto a ottobre) non percepiscono denaro per le prestazioni. "I medici e parte degli infermieri", aggiunge Ventura, "lavorano a fatturazione. Quindi è improprio affermare che non percepiscono lo stipendio. Certo è che non hanno ricevuto i soldi dovuti e comprendo bene le difficoltà che, in questi casi, devono fronteggiare i lavoratori alle prese con pagamenti e mutui. Per chi lavora a fatturazione, per il momento, si farà riferimento alle retribuzioni storiche salvo eventuale reintegro al momento della presentazione delle fatture".

Venerdì scorso, Ventura ha dato mandato per la liquidazione delle somme, ma considerati i giorni di festa per il ponte dell’Immacolata, domani emanerà un altro provvedimento per sanare definitivamente la posizione della Asl. Per fronteggiare i disagi determinati dal passaggio di competenza, nei mesi scorsi, l’azienda ha costituito un gruppo di lavoro formato da 5 dipendenti. La protesta del personale medico e paramedico in servizio in via Lamaccio è scoppiata nei giorni scorsi. Nella struttura di via Lamaccio sono reclusi 400 detenuti, alcuni dei quali con problemi psichici.

Ivrea: la Guida con informazioni utili per chi esce dal carcere

 

La Sentinella, 9 dicembre 2008

 

È stato dedicato a Tino Beiletti, indimenticato volontario, il libro tascabile "Dove mangiare? Dove dormire? Dove cercare lavoro? E altre informazioni utili per chi esce dal carcere". Uno strumento utile a quanti vengono dimessi dal carcere, dopo aver scontato la propria pena, e non dispongono di alcun riferimento familiare o amicale.

Spesso il detenuto, una volta libero scopre di essere prigioniero di una serie di limiti che vanno dal non saper dove andare all’ignorare la direzione in cui muoversi per affrontare una nuova quotidianità .Due anni di intenso lavoro si celano dietro questa pubblicazione alla cui realizzazione hanno concorso Asl TO/4, associazione Volontari penitenziari, consorzio Inrete, fondazione Ruffini e Cfpp Casa di Carità (con il patrocinio e il sostegno di Regione, Provincia, Comune e ministero della Difesa).

Pubblicazione a cui si affianca un cd informativo e che si traduce in una guida di facile consultazione dove reperire indirizzi e recapiti telefonici di vari servizi pubblici presenti nelle maggiori città di Piemonte e Valle d’Aosta e in quelle sede di carcere. La presentazione, cui hanno preso parte l’assessore, Paolo Dallan, e i rappresentanti di enti e delle associazioni, è stata anche l’occasione per conoscere Maria Isabella De Gennaro, nuovo dirigente della Casa Circondariale eporediese.

Lucca: mostra "Una vita trascorsa fra le mura del manicomio"

 

Secolo XIX, 9 dicembre 2008

 

La Fondazione intitolata allo psichiatra e scrittore Mario Tobino, oppositore di Basaglia, promuove una mostra documentaria.

"La psichiatria è la scienza che serve al potere per controllare la persona emarginata". Così scriveva nel 1978 Franco Basaglia, "padre" della legge che portò alla chiusura dei manicomi, rispondendo a Mario Tobino, psichiatra e scrittore, che si trovava su posizioni opposte. Tobino non discuteva la bontà della battaglia per la liberalizzazione degli ospedali psichiatrici, ma partiva da un presupposto totalmente diverso: "Io credo che la follia esista e Basaglia invece mi pare che sia convinto che, chiuso il manicomio, svanisca la cupa malinconia, l’architettura della paranoia, la catena delle ossessioni".

Tobino visse e lavorò per quarant’anni all’interno del manicomio di Maggiano, a Lucca, il più antico d’Italia, di cui fu anche direttore. Lì dentro, oltre a curare i pazienti, sostenendo la necessità che quell’ambiente fosse "al massimo libero, fraterno, civile, umano", scrisse le sue opere, fra cui "Le libere donne di Magliano" (1953) e "Per le antiche scale" (1972, Premio Campiello), dedicate proprio alla sua esperienza a fianco dei malati. Collocato in pensione a settant’anni, ottenne dalla Provincia di Lucca l’uso delle due stanze di Casa Medici dove aveva trascorso così tanta parte della sua vita. Le sue posizioni erano state sconfitte: nel 1982 affidò le sue riflessioni al libro "Gli ultimi giorni di Magliano".

La Fondazione Mario Tobino ha voluto adesso inaugurare le celebrazioni del centenario della nascita dello scrittore toscano, avvenuta a Viareggio il 16 gennaio 1910 da genitori liguri, con una mostra intitolata "Il turbamento curato. Strumenti medici e scientifici dell’Ospedale psichiatrico di Maggiano", che resterà aperta fino al 14 dicembre nel Palazzo Ducale di Lucca, a cura di Franco Bellato, Gino Fornaciari, Renzo Sabbatini e Marco Natalizi (orario di visita 9-19; informazioni: www.fondazionemariotobino.it).

L’esposizione racconta una storia di oltre duecento anni - i primi diciannove malati, di cui undici fino ad allora detenuti nelle carceri cittadine, arrivarono a Maggiano nel 1773 - caratterizzata da camicie di forza e letti di contenzione, elettroshock, strumenti diagnostici di ogni tipo. Vi sono oggetti che risalgono ai primordi della pratica psichiatrica come la scodella di pane che era il piatto dentro al quale il paziente poteva mangiare senza provocare lesioni a se stesso o agli altri con oggetti metallici, oppure come il chimografo di Helmholtz, che serviva per trasformare in grafico le variazioni di energia dei malati, inventato a metà dell’Ottocento. Non manca una macchina per l’elettroshock, che provocava attacchi convulsivi e veniva impiegata nella cura degli stati depressivi gravi.

L’obiettivo, spiegano i promotori dell’iniziativa, non è sconvolgere il visitatore, "ma piuttosto produrre in lui, senza alcuna concessione alla violenza dello spettacolo del male, quello spaesamento e quel malessere emotivo che induce alla riflessione".

Nel corso del prossimo anno verrà pubblicato il catalogo di tutta la strumentazione medica, prima tappa della costituzione di un museo e di un centro di documentazione e ricerca.

Immigrazione: Fortress Europe; ancora 41 morti alle frontiere…

 

Redattore Sociale - Dire, 9 dicembre 2008

 

Vittime nel deserto algerino, alle Canarie, in Grecia, a Mayotte, e nel Canale di Sicilia, dove i pescatori di Mazara del Vallo hanno salvato la vita a 650 migranti. Reportage esclusivo dalla Libia.

Sono almeno 41 i migranti che hanno perso la vita alle frontiere europee nel mese di novembre, secondo il bollettino mensile diffuso da Fortress Europe e basato su una rassegna stampa internazionale. Otto persone sono annegate nel Canale di Sicilia, tre delle quali vittime di un naufragio fantasma avvenuto al largo di Malta tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre. Quattro persone sono invece morte alle isole Canarie, dopo essere state ricoverate in condizioni critiche di salute a causa dei viaggi sempre più lunghi. In un caso la piroga era partita addirittura dalla Guinea Conakry, a sud del Senegal, per una traversata durata 12 giorni. Due vittime anche in Grecia, mentre un naufragio al largo dell"isola francese di Mayotte, nell’oceano Indiano, ha fatto 21 morti. Nel deserto algerino di Tanezrouft invece sono stati ritrovati i resti di sei migranti.

E il bollettino avrebbe potuto essere ben più grave. Forse disastroso. Lo scorso 27 novembre infatti i marinai di Mazara del Vallo (Trapani) hanno salvato la vita a 650 migranti a bordo di due navi bloccate nel mare in tempesta al largo di Lampedusa. Le condizioni meteo erano talmente proibitive da non permettere alle motovedette della Guardia costiera di lasciare gli ormeggi di Lampedusa. Solo i grandi motopesca di Mazara del Vallo erano in grado di affrontare la burrasca. E lo hanno fatto, rispondendo positivamente alla richiesta del responsabile della Capitaneria di porto, tenente di vascello Achille Selleri. Così durante una notte in mare, gli equipaggi delle navi Ariete, Monastir, Ghibli, Twenty Two e Giulia P.G sono riusciti a trarre in salvo i 650 migranti e ad evitare quella che avrebbe potuto essere una pesantissima strage.

Il bollettino di novembre di Fortress Europe dedica infine un reportage alla Libia. Da anni Amnesty International e Human Rights Watch parlano delle condizioni dei centri di detenzione dei migranti in Libia. Finalmente Fortress Europe è riuscita a visitarne alcuni, e questo mese dedica un lungo racconto - con foto - alla vicenda dei 700 eritrei prigionieri a Misratah. Sono in carcere da due anni. Chi non ha la fortuna di rientrare nei piani di reinsediamento dell’Acnur è obbligato a fuggire. E a tentare di nuovo la via del mare. A suo rischio e pericolo.

Immigrazione: Gradisca; rivolta nel Centro gestito dalle coop

di Roberto Rizzo

 

Corriere della Sera, 9 dicembre 2008

 

L’ultimo episodio domenica sera quando hanno dato fuoco al quadro elettrico del centro per provocare un incendio mentre in sessanta davano il via a un tentativo di rivolta, tra scontri, lacrimogeni e rincorse dei feriti nella campagne.

"Avevano organizzato un’evasione di massa che abbiamo sventato", dicono alla Questura di Gorizia. Mercoledì scorso un altro tentativo di evasione. Mini, erano solo in cinque, ma parzialmente riuscito (due sono stati ripresi). Stessa storia due settimane fa: fuggiti in otto, tre riacciuffati. Ma è più di un anno che va avanti così. Nel settembre 2007, durante uno dei tre tentativi di fuga in meno di un mese, una cinquantina di immigrati egiziani si scontrarono con le forze dell’ordine. Un fumogeno sparato dagli agenti rischiò di colpire una bambina eritrea di pochi mesi. Tragedia sfiorata.

L’ex Cpt, oggi Cie (Centro di identificazione ed espulsione), di Gradisca d’Isonzo doveva essere una struttura modello. Almeno queste erano le intenzioni del governo di centrosinistra guidato da Romano Prodi che, nel 2000, contro il parere di Regione, Provincia e Comune, volle a tutti i costi trasformare l’ex caserma "Polonio" in un centro di permanenza temporanea per immigrati extracomunitari. Nei progetti di costruzione, modellati sulle carceri di massima sicurezza tedesche, erano previsti aria condizionata, personale qualificato, centro sportivo, luogo di culto, "filodiffusione per la musica", riportava il Corriere il 7 marzo 2006, giorno dell’apertura del Cpt.

In più, la gestione affidata alla "rossa" cooperativa "Minerva", iscritta alla Lega delle Cooperative (da marzo è subentrata la coop Connecting People di Trapani). Insomma, non un hotel a cinque stelle, ma nemmeno un lager. Più precisamente il simbolo di una politica dell’immigrazione (del centrosinistra) ferma, ma umana.

Non è stato così e la situazione va peggiorando, n centro di Gradisca è sempre prossimo al

collasso. Ospita circa 400 immigrati, la maggior parte richiedenti d’asilo politico. Arrivano in charter da Lampedusa e, negli ultimi tempi, da Cagliari, dopo essere sbarcati clandestinamente in Italia. Margherita Boniver, presidente della Commissione bicamerale Schengen competente su vigilanza e controllo in materia immigrazione, ha visitato il Cie di Gradisca il mese scorso e ne parla come di un "luogo di disperazione, dove la tensione è evidente. Quando siamo arrivati, un tunisino aveva ingoiato dei pezzi di metallo per attirare l’attenzione".

Il fallimento del progetto Gradisca è arrivato fino al Tar che si pronuncerà nel marzo 2009. Materia del contendere, la gestione del centro. A far ricorso la cooperativa rossa Minerva che nel marzo di quest’anno ha perso la gara d’appalto contro la cooperativa bianca Connecting People che gestisce altri Cpt a Brindisi, Trapani e Cagliari. "Ho sempre detto che questa struttura è una polveriera. È già tanto che fino a oggi non sia successo niente di più grave", dichiara Adriano Ruchini, il presidente della coop Minerva.

"Il cambio di gestione ha peggiorato la situazione. Nei documenti che abbiamo presentato al Tar facciamo notare come ora la manutenzione sanitaria e degli impianti d’allarme sia a livelli molto scarsi e il personale inadeguato. Come è possibile che questa cooperativa abbia presentato i nomi di trenta operatori che contemporaneamente lavorano a Gradisca e nel centro di Trapani?".

"La nostra esperienza è decennale", risponde Osvaldo Micalizzi, presidente di Connecting People. Abbiamo vinto la gara d’appalto con 11 punti sull’esperienza e 10 per il prezzo. Sotto la nostra gestione, ogni immigrato allo Stato costa 45 euro al giorno, prima ne chiedevano 80. E la situazione è sotto controllo".

Chi ha sempre sostenuto che il centro fosse un errore è il sindaco di Gradisca Franco Tommasini, lista civica di centro-sinistra: "Non l’ho mai voluto e con me tutta la cittadinanza. Siamo in 6.700 e dal Cie, ogni giorno, dalle 8 del mattino alle 20 di sera, escono i 250 immigrati richiedenti asilo politico che hanno diritto a trascorrere fuori dal centro le loro giornate. Un impatto devastante. Ora, con tutti questi tentativi di fuga siamo ancora più spaventati".

Egitto: per Festa del Sacrificio concessa la grazia a 649 detenuti

 

Ansa, 9 dicembre 2008

 

In occasione della Festa del Sacrificio, l’Aid al-Adha, l’Egitto ha concesso la grazia a 649 detenuti rinchiusi nelle carceri del Paese. Oggi si festeggia la ricorrenza più importante del calendario islamico, la "Aid al-Adha" o "Festa del sacrificio", che cade nel decimo giorno del mese del pellegrinaggio alla Mecca

In occasione di questa festa l’Egitto ha concesso la grazia a 649 detenuti rinchiusi nelle carceri del Paese. È quanto riferisce l’agenzia di stampa Xinhua, precisando che la direttiva arriva dal ministro dell’Interno Habib Ibrahim el-Adli, in linea con un decreto presidenziale.

Già lo scorso settembre, in occasione dell’Eid el Fitr, la festività che segna la fine del mese sacro di Ramadan, il governo egiziano ha concesso la grazia a 271 prigionieri. La liberazione dei detenuti rientra nella nuova strategia del governo che intende introdurre riforme per il sistema penitenziario che sostengano il reintegro dei prigionieri nella società.

Iran: impiccato "a metà" per vendetta, ha danni irreversibili

 

Ansa, 9 dicembre 2008

 

Un uomo condannato a morte in Iran è stato lasciato pendere a lungo dalla forca prima di essere deposto ancora vivo, ma con probabili danni irreversibili al cervello e alla spina dorsale, per volere dei familiari della persona che aveva ucciso, che hanno accettato denaro per salvarlo solo in extremis. L’episodio è avvenuto domenica a Kazerun, città nel sud del Paese, secondo quanto scrive l’agenzia Irna, che titola la notizia "dolce epilogo di una esecuzione".

Un epilogo arrivato però dopo che il condannato, secondo la stessa agenzia, era rimasto appeso "per alcuni minuti". Un tempo sufficiente per subire danni irreversibili. Il procuratore della Corte rivoluzionaria di Kazerun ha detto che l’uomo è stato ricoverato in ospedale, ma non ha fornito particolari sulle sue condizioni. In un analogo episodio avvenuto lo scorso anno a Bandar Abbas, vicino allo Stretto di Hormuz, il condannato aveva riportato danni irreversibili al cervello, dopo essere stato lasciato appeso per alcuni secondi. Secondo i dettami della legge islamica vigente in Iran, il condannato a morte per omicidio ha salva la vita se i famigliari della vittima gli concedono il "perdono", in cambio di un risarcimento in denaro. I congiunti dell’ucciso che decidono di fermare l’esecuzione lo fanno normalmente nei giorni precedenti, o in alcuni casi fino a pochi istanti prima, quando il condannato è già sul patibolo con la corda al collo. Ma in questo caso, evidentemente, i parenti della vittima hanno voluto assaporare la sofferenza del condannato, prima di fermare l’esecuzione e intascare il denaro.

Stati Uniti: confessione di 5 responsabili attentati 11 settembre

di Mario Calabresi

 

La Repubblica, 9 dicembre 2008

 

Cercano il martirio, si sono dichiarati colpevoli e hanno rinunciato agli avvocati militari. Ieri nel carcere di Guantanamo cinque detenuti accusati di aver organizzato gli attentati dell’11 settembre hanno chiesto a sorpresa al giudice dell’esercito, il colonnello Stephen Henley, di poter confessare e hanno annunciato di aver firmato il 4 novembre scorso un documento in cui si dichiarano colpevoli e rinunciano a qualsiasi azione legale successiva, sfidando così la corte a condannarli alla pena capitale.

"Vogliamo un processo al più presto possibile, per farla finita con questo gioco", ha detto il leader del gruppo, il kuwaitiano-pachistano Khalid Sheikh Mohammed, che da tempo si è autoaccusato di essere il regista dell’attacco all’America e che prima di essere catturato, nel 2003, era considerato il numero 3 di Al Qaeda. Insieme a lui altri quattro presunti terroristi sono comparsi in un’aula di Guantanamo per un’udienza preliminare in vista del processo nel quale rischiano la pena di morte per le 2.973 vittime dell’11 settembre.

La data in cui hanno sottoscritto il documento non è casuale: è il giorno dell’elezione di Barack Obama, e simbolicamente questo sembra voler dire che per loro e per la jihad non cambia nulla anche con l’uscita di scena di George W. Bush. "Non mi fido degli americani - ha aggiunto Mohammed - perché c’è un accordo tra Bush, la Cia, che mi ha torturato, e il tribunale militare di Guantanamo".

Non è chiaro cosa accadrà adesso, la data per il processo con ogni probabilità verrà fissata dopo il 20 gennaio, quando alla Casa Bianca ci sarà già il nuovo presidente. Ma Obama ha criticato le commissioni militari dicendo che i detenuti di Guantanamo dovrebbero essere giudicati da un tribunale federale o da una corte marziale, e ha sempre sostenuto di voler chiudere il carcere. Nella base cubana ci sono ancora 250 prigionieri (erano 750 ma 500 sono stati rilasciati), di cui tre quarti sono considerati un pericolo e una minaccia, e la nuova Amministrazione democratica ora dovrà inventare per loro una nuova sistemazione molto probabilmente all’interno delle carceri militari americane. Sessanta detenuti invece sono in attesa di essere rilasciati in quanto innocenti, ma il loro rimpatrio è bloccato perché rischierebbero - secondo le autorità Usa - di essere arrestati e torturati nei loro paesi d’origine, tra cui ci sono Cina, Libia, Russia, Tunisia e Uzbekistan.

Il giudice per il momento ha accettato la disponibilità a confessare solo di Khalid Sheikh Mohammed, Walid bin Attash e Ali Abdul-Aziz Ali; per gli altri - Mustafà al Hawsawi e Ramzi bin al Shib, che è nipote di Mohammed - ha chiesto una perizia psichiatrica per vedere se sono capaci di intendere e volere. "Noi fratelli - ha detto quest’ultimo, che è accusato di aver organizzato il viaggio dei terroristi della "cellula di Amburgo" - vogliamo tutti presentare le nostre confessioni".

Per la prima volta il Pentagono aveva deciso di permettere a cinque familiari delle vittime degli attentati di assistere all’udienza, ma sono arrivate 115 domande e così nei giorni scorsi si è tenuta una lotteria per estrarre a sorte i nomi di chi avrebbe avuto il diritto di vedere Mohammed in aula. Tra questi c’era Maureen Santora, madre di un vigile del fuoco, Christopher, ucciso nel crollo delle Torri Gemelle, che è arrivata nella base militare portando le foto di altri 30 pompieri vittime dell’attentato.

Catturato nel marzo 2003, Mohammed è stato tre anni nelle carceri segrete della Cia, prima di arrivare a Guantanamo nel settembre del 2006. Un anno e mezzo fa il Pentagono aveva già reso nota una sua confessione di 26 pagine in cui si attribuiva la paternità del primo attentato al World Trade Center del 1993 (per cui sta scontando l’ergastolo suo nipote Ramzi Ahmed Yusef), degli attacchi dell’11 settembre, delle bombe nelle discoteche di Bali, di quelle contro i turisti israeliani in Kenya e della decapitazione del giornalista del Wall Street Journal, Daniel Pearl, nel gennaio del 2002. Mohammed si è rivolto al giudice in inglese, lingua che conosce bene essendosi laureato in agraria in una università della North Carolina nel 1986.

 

 

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