Rassegna stampa 6 dicembre

 

Giustizia: per Natale Consiglio dei Ministri dedicato a riforme

 

Ansa, 6 dicembre 2008

 

Un "pacchetto" di riforme incentrato sull’accelerazione del processo penale e su misure per trovare nuovi posti nelle sovraffollate carceri italiane: al Consiglio dei Ministri che precederà le festività natalizie, probabilmente del 19 dicembre prossimo, il ministro della Giustizia non presenterà le riforme costituzionali che, dopo la vicenda della "guerra" tra le procure di Catanzaro e di Salerno, ha individuato come "terapia" per un sistema malato che in questi giorni è "imploso".

Bisognerà quindi attendere il 2009 per quelle modifiche alla Carta che più allarmano le "toghe" e su cui il ministro invita il Pd a confrontarsi: separazione giudici-pm (con l’ipotesi di concorsi diversi oppure con scelta definitiva su quale carriera intraprendere al momento dell’ingresso in magistratura; doppio Csm (uno per i pm e l’altro per i giudici, con una quota di "toghe" minoritaria in entrambi e forse nessuno dei due presieduto dal Capo dello Stato); azione penale non più obbligatoria per tutti i reati (probabilmente indirizzata dal ministro della Giustizia e dal Parlamento in base a delle priorità).

Al momento - secondo quanto si è appreso in ambienti del ministero della Giustizia - i tecnici sono al lavoro per mettere a punto una serie di modifiche al Codice di Procedura Penale (prima fra tutte quella per dare più autonomia investigativa alla polizia giudiziaria rispetto al pubblico ministero) su cui la maggioranza dovrà trovare una "quadra" entro i prossimi 15 giorni. Alfano non ha infatti alcuna intenzione di subire un secondo altolà da Lega e An dopo quello dei giorni scorsi sul ddl che, tra l’altro, introduceva anche la messa in prova per chi è accusato di reati punibili fino a quattro anni.

Non è escluso che la misura venga riproposta con un limite di pena più basso (due anni, ad esempio), sempre che Lega e An non continuino a ritenere la misura una sorta di "amnistia" in controtendenza con la politica di contrasto alla criminalità.

Giustizia: i magistrati scoprono il potere delle donne di mafia

di Giovanni Bianconi

 

Corriere della Sera, 6 dicembre 2008

 

L’ultima l’hanno arrestata la scorsa settimana, accusata di partecipazione a Cosa Nostra. È Mariangela Di Trapani, 40 anni, "donna di mafia" a pieno titolo. Al di là dei presunti reati per i quali sarà giudicata, infatti, Mariangela è figlia e sorella di due uomini d’onore, nonché moglie di Salvino Madonia, ergastolano per vari delitti tra cui l’omicidio dell’imprenditore antiracket Libero Grassi, e perciò nuora e cognata rispettivamente del vecchio capomafia Francesco Madonia (morto l’anno scorso nel carcere dove stava scontando la condanna a vita) e dei fratelli Nino, Giuseppe e Aldo Madonia, tutti in galera per associazione mafiosa.

In un colloquio intercettato, suo fratello Nicolò Di Trapani raccontava che "Mariangela ha sofferto da picciridda" perché ai tempi in cui lui e suo padre erano latitanti "a scuola non c’è più andata per amore di mio padre e di me... perché se ne è voluta venire con noi". Eppure, ricorda, "era brava a scuola... ci voleva andare..."; per questo "ha sofferto da bambina".

Ora che è donna fatta e madre di un figlio avuto dal marito detenuto grazie alla fecondazione artificiale, i magistrati della Procura di Palermo hanno spedito in prigione anche lei. L’accusano di aver tenuto i contatti con i fratelli mafiosi costretti al "carcere duro" previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, facendo la spola tra i diversi istituti di pena e riferendo all’uno quello che l’altro diceva con linguaggi cifrati e sotterfugi vari.

In più, riceveva e smistava i soldi della cosca, gestendo anche un patrimonio immobiliare occulto di notevole entità. Mariangela Di Trapani in Madonia è dunque finita in cella, ma è solo l’ultima in ordine di tempo. Una delle tante donne accusate di mafia.

Nella stessa inchiesta compare anche sua suocera, Emanuela Gelardi, che a novembre ha compiuto 84 anni, rimasta libera proprio a causa dell’età. Probabilmente detiene il record d’anzianità tra gli inquisiti per partecipazione a Cosa Nostra, certamente tra le femmine: nell’indagine affidata ai carabinieri del Ros chiamata "Rebus" ce ne sono altre 25, tutte indagate per "trasferimento fraudolento di valori aggravato" dall’aver favorito l’associazione mafiosa. In pratica facevano da prestanome dei beni immobili della cosca.

Sono tutte a piede libero, ma molte altre - come Mariangela - sono in carcere. "Donne d’onore" affiliate a Cosa Nostra, alla camorra napoletana, alla ‘ndrangheta calabrese e altre bande criminali organizzate. Secondo i dati del ministero della Giustizia, al 30 giugno scorso le donne detenute per violazione dell’articolo 41 bis del codice penale (l’associazione mafiosa, appunto) erano 84: 47 ancora in attesa di giudizio, 11 condannate in primo grado, una in appello e 25 con pena definitiva. Ma da allora ne sono state arrestate altre. In Calabria, ad esempio, hanno preso due donne della famiglia Mole, una delle cosche più importanti della piana di Gioia Tauro. E a Casal di Principe è finita la moglie del ca-poclan dei Casalesi Francesco Schiavone detto "Sandokan", seppure per un reato diverso: ricettazione aggravata, ma in un ovvio contesto camorristico.

Se alle detenute per 41 bis si aggiungono le 47 in prigione (dati aggiornati al 28 novembre) per reati aggravati dall’aver favorito l’associazione mafiosa, si arriva a superare largamente la cifra delle cento "donne di mafia" rinchiuse nelle carceri italiane, a fronte di oltre seimila uomini detenuti con accuse dello stesso tipo.

A quattro di loro, due napoletane e due calabresi, è imposto anche il "41 bis". Sull’eventuale colpevolezza di molte appartenenti a questa schiera si dovranno naturalmente pronunciare i tribunali, ma intanto viene fuori uno spaccato di mafia al femminile molto più ampio rispetto a quello immaginabile solo poco tempo fa, quando le "donne d’onore" erano una rarità e finivano sulle prime pagine dei giornali.

Ancora nel 1999 l’arresto di Nunzia Graviano, esponente femminile della famiglia mafiosa del quartiere palermitano di Brancaccio, mise in luce la novità della donna "reggente" in sostituzione dei fratelli detenuti di cui rappresentava "l’alter ego in grado di gestire un vero patrimonio", scriveva il giudice; si diceva che seguisse l’andamento della Borsa sul Sole 24 ore e sui bollettini del televideo per orientare gli investimenti della famiglia. Non solo di sangue.

"Ma non si deve immaginare che Cosa Nostra abbia avviato una politica di "pari opportunità" per le donne-avverte Gaetano Paci, uno dei pubblici ministeri titolari dell’indagine "Rebus"; la mafia era e resta un universo maschilista, ma ha bisogno di risorse femminili dopo che gli uomini sono finiti quasi tutti in galera". Per di più con le limitazioni del "41 bis", di cui gli inquirenti di Palermo denunciano un "progressivo svuotamento" che si evince proprio dall’indagine su Mariangela Di Trapani Madonia, "monitorata" nei suoi spostamenti da un carcere all’altro della penisola per parlare coi fratelli. Utilizzando aerei e macchine pagati in virtù di "fonti economiche di certa natura illecita". Cioè mafiosa. In più ci sono le lettere criptate e i colloqui telefonici concessi all’unico Madonia risparmiato dal "carcere duro".

Quello dei capimafia che continuano a comandare dalle rispettive celle "è un problema che non può non porsi chiunque abbia a cuore la sicurezza" del Paese, hanno scritto i magistrati nel provvedimento d’arresto. "Certamente non può sostenersi - hanno aggiunto - che sia necessario sopportare che pericolosi mafiosi possano gestire, influenzare, determinare o comunque interagire con il contesto associativo impegnato all’esterno in attività criminose". Spesso grazie alle donne di famiglia. Che curano i contatti con i detenuti, ma a volte pure con la latitanza dei loro uomini.

In estate, a Reggio Calabria, è stata arrestata la moglie del capo ‘ndrangheta Girolamo Mole anche perché, durante un colloquio in carcere, l’uomo discuteva con la donna di "un codice alfanumerico utilizzando il romanzo "Lo Zahir" di Paulo Coelho, probabilmente per eventuali messaggi da inviare all’esterno". E quando due settimane fa la polizia ha catturato in Olanda il latitante Giuseppe Nirta, coinvolto nella faida di San Luca, con lui c’erano la moglie e due sorelle.

Michele Prestipino, oggi procuratore aggiunto di Reggio Calabria, quando lavorava nell’antimafia palermitana s’è trovato di fronte a parecchie "donne d’onore", alcune delle quali - dopo l’arresto - hanno deciso di collaborare con la giustizia. E commenta: "Un tempo le donne erano custodi del potere mafioso all’interno delle mura domestiche, mentre mariti e fratelli lo esercitavano all’esterno; oggi, per via delle lunghe detenzioni imposte agli uomini, lo garantiscono anche fuori di casa, mantenendo i collegamenti col carcere e la presenza sul territorio".

Giustizia: il tempo dell’impunità per amore è finito, una svolta

di Cristina Marrone

 

Corriere della Sera, 6 dicembre 2008

 

Donne custodi di codici culturali mafiosi a cui è affidato il compito di educare i figli ai disvalori: l’onore, la vendetta, l’omertà. Mogli vivandiere che si prendono cura dei propri uomini latitanti. Sorelle che si trasformano in postine, portando pizzini da un carcere all’altro. I classici compiti affidati alle signore della mafia non sono tramontati.

"Ma oggi le donne sono sempre più impegnate in attività imprenditoriali e finanziarie nel "sistema" e giocano un ruolo fondamentale. Lo dimostrano anche le tante boss in gonnella arrestate negli ultimi anni con l’accusa di associazione mafiosa" spiega Teresa Pricipato, da quattro anni alla Procura nazionale antimafia e ora in partenza per tornare a Palermo come Procuratore Aggiunto.

Per molto tempo è sopravvissuto lo stereotipo di "donna invisibile", appiattita sulle figure degli uomini della famiglia. E le conseguenze, gravi, ce le spiega Teresa Principato: "L’effetto diretto è stato l’impunità. Per anni le donne di mafia sono state considerate anche dai magistrati persone sottomesse, silenziose, ignare degli affari dei mariti e incapaci di un’autonomia decisionale.

Per almeno un ventennio i giudici hanno ritenuto non configurabile a loro il delitto di associazione mafiosa. In sostanza essere donna e magari innamorata era sufficiente per ottenere l’impunità. Si pensava che agissero illegalmente solo perché spinte dai loro uomini. Ma il favoreggiamento personale, se c’è il vincolo di parentela, non è contemplato dal nostro codice penale".

Uno dei tanti casi è quello di Saveria Benedetta Palazzolo, compagna di Bernardo Provenzano, che fu assolta dall’associazione mafiosa nonostante nel corso degli anni avesse acquistato beni per centinaia di milioni. "Dobbiamo attendere il 25 settembre 1999 - spiega Principato - per leggere una sentenza storica della Cassazione, che finalmente supera i pregiudizi e per la prima volta riconosce l’associazione mafiosa per tre donne del clan Mammoliti".

Dopo le stragi del ‘92, di fronte al "tradimento" di tanti uomini d’onore che decidono di collaborare, Cosa Nostra affida alle donne le "pubbliche relazioni". "A loro per la prima volta viene concessa visibilità. Prendono la parola e scomunicano pubblicamente i parenti che decidono di collaborare. "Ci dissociamo da quegli infami. Per noi sono morti" urlano tante donne nelle aule di giustizia e davanti ai microfoni.

Da allora non sono più invisibili e con l’aumento degli arresti e delle latitanze degli uomini d’onore, Cosa Nostra ha ritenuto più opportuno ricorrere alle donne della famiglia, più affidabili e conservatrici, piuttosto che a estranei "fiancheggiatori", incaricandole dell’assistenza dei latitanti e della trasmissione dei bigliettini".

Per arrivare a ricoprire incarichi di potere occorrono però requisiti indispensabili: "Appartenere a una famiglia mafiosa. Le donne sono sempre figlie di, mogli di, e non emergono autonomamente. Inoltre assumono ruoli da leader, soprattutto nella gestione finanziaria dell’organizzazione nel momento in cui l’uomo di famiglia finisce in carcere. Ottengono così una delega temporanea. In Cosa Nostra il caso più eclatante è quello di Giusy Vitale, prima donna ad aver ricoperto il ruolo di capo mandamento a Partinico, condannata per associazione mafiosa e omicidio".

Più nello specifico, nella camorra, dove la struttura è orizzontale, le donne hanno sempre avuto più spazio e un ruolo riconosciuto: "Nella camorra non esiste un rito significativo come la "combinazione", a cui le donne di Cosa Nostra non sono ammesse. È invece premiata la loro personalità e l’autorevolezza che guadagnano sul campo.

Non dimentichiamoci di personaggi carismatici e ormai storici come Rosetta Cutolo, Pupetta Maresca o la vedova Moccia e guardiamo alle nuove leve di oggi. Anche loro sono state leader di riflesso, ma le mafie riflettono gli andamenti della società civile, possiamo aspettarci nuove sorprese"

Giustizia: Alfano; il caso De Magistris sintomo malattia sistema

 

Ansa, 6 dicembre 2008

 

"Riguardo allo scontro tra le Procure di Salerno e Catanzaro, senza entrare nel merito perché non ho la pretesa di sapere chi ha torto e chi ha ragione, non c’è bisogno di portare il malato giustizia dal radiologo perché la radiografia è chiara: il sistema giustizia è malato". Lo ha affermato il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, nel suo intervento al convegno "Etica, politica e giustizia nell’Italia che cambia", questo pomeriggio al Centro Congressi Marconi di Alcamo (Trapani). "Occorre fare delle riforme che rimettano in efficienza il sistema giustizia - ha continuato Alfano - perché il conto non lo pagano i ricchi ma lo paga chi non si potrà difendere in 12 anni di giudizio. Ho detto anche al Partito democratico che sul terreno della giustizia ha la possibilità di smarcarsi da una linea iper-giustizialista".

Il ministro ha ricordato che "ci sono ancora oltre 4 milioni di processi pendenti, carceri sovraffollate con circa 30 mila detenuti in attesa di giudizio e circa il 30 per cento di detenuti stranieri" e ha parlato di uno "stato della giustizia che necessita di atti di rifondazione del sistema". Alfano ha fatto al riguardo un paragone musicale: "Come in un pianoforte, non si può suonare sempre lo stesso tasto, ma tutti i tasti per riformare il sistema in modo armonico".

Giustizia: Bongiorno; il nostro è un sistema ormai semidefunto

di Giancarla Rondinelli

 

Il Tempo, 6 dicembre 2008

 

"Chi ha mosso critiche al Presidente Napolitano forse non ricorda che è il garante del buon funzionamento delle istituzioni, il suo intervento non è stato affatto una ingerenza nel merito dei procedimenti ma una manifestazione di attenzione di fronte ad uno scontro tra magistrati che ha già determinato danni irreparabili alla giustizia".

Giulia Bongiorno, presidente della Commissione Giustizia della Camera torna a parlare di una materia a lei cara, la riforma della giustizia. Una materia sulla quale lei più volte si è espressa, mettendo in luce le penombre del nostro sistema giudiziario e, da "esperta su campo", avanzando anche qualche proposta. Intanto, secondo l’avvocato Bongiorno esiste un "imperativo categorico", vale a dire "quello di fare riforme che non siano destinate ad essere cancellate da una diversa maggioranza. Anche per questa ragione è necessaria la condivisione. Proporrei di ritagliare subito dall’ampia area di interventi possibili quelli che trovano, nella sostanza, il consenso anche del Pd".

 

A proposito di Pd, dopo le ultime vicende giudiziarie riguardanti l’opposizione, ora anche tra loro qualcuno sottolinea la necessità di intervenire su un "sistema malato". Forse ora sarà più facile avere un dialogo tra le parti.

"Le riforme devono essere frutto di una analisi lucida del sistema e non devono invece scaturire dalla reazione ad un singolo episodio. Sarebbero frutto dell’emotività, nulla di peggio di un legislatore emotivo. Che il sistema sia malato lo pensavo anni fa. Ora temo sia semidefunto".

 

Semidefunto, appunto. Dunque, da parlamentare ma soprattutto da avvocato pensa che ormai siamo davanti ad una giungla senza regole e senza tutele?

"Magari fosse un problema di regole! Il vero problema è che non sempre le norme sono attuate. A volte si fanno leggi per fare applicare alcune norme che già esistono. Ad esempio il codice prevede che le intercettazioni si facciano solo quando indispensabili ed invece vengono disposte anche quando è soltanto comodo per raggiungere un risultato investigativo che si potrebbe raggiungere diversamente. Posso fare un altro esempio?"

 

Prego.

"La legge prevede che un processo abbia durata "ragionevole", ma non vi è nulla di ragionevole in processi che durano in media 8 anni".

 

Quale potrebbe essere il punto di partenza per cambiare questa situazione?

"La priorità è l’efficienza. Servono nuove risorse e nuovi modelli organizzativi. Mi sembra significativo che da alcune Procure e Tribunali è stato dato esempio di quanto la buona volontà dei singoli magistrati può in parte sopperire anche alla mancanza di risorse. Ma servono anche riforme che riguardano la magistratura. Credo che si dovrebbe intervenire sul sistema di accesso alla magistratura, i criteri attuali di selezione sono inadeguati.

Serve assolutamente che il giovane laureato faccia un periodo di tirocinio sotto il controllo di un magistrato che abbia già maturato un certa esperienza. Questo periodo di tirocinio lo ritengo davvero indispensabile. Forse si limiterebbe l’accesso alla magistratura di soggetti non idonei a svolgere una funzione cosi delicata".

 

Sembra fiduciosa. Magari questo potrebbe essere un campo in cui è possibile trovare delle intese con il Pd.

"Sarebbe molto importante se si trovasse un accordo per modificare nel senso che ho detto la selezione dei magistrati".

 

Quanto secondo lei c’è bisogno di una valutazione più rigida e selettiva verso il lavoro dei magistrati?

"Alcuni magistrati lavorano il sabato e la domenica, altri sono troppo spesso assenti. Esistono dislivelli di produttività che derivano in parte anche dalla mancanza di adeguati controlli. I controlli sulla produttività sono indispensabili e devono essere rigorosissimi. Altrimenti i migliori sono penalizzati".

 

Cosa ne pensa della vicenda De Magistris?

"La maggior parte della magistratura in Italia è corretta ma una vicenda così grave come quella di cui sono protagoniste le Procure di Salerno e Catanzaro credo che noccia all’immagine di tutta la categoria e che faccia nascere dubbi sull’intera magistratura. Capisco che ci possano essere dei conflitti tra politici, ma tra magistrati scontri del genere non sono davvero accettabili".

Giustizia: non schierarsi, ma fermare la guerra tra le Procure

 

www.radiocarcere.com, 6 dicembre 2008

 

2 dicembre. La Procura di Salerno indaga alcuni magistrati della Procura di Catanzaro. Il procuratore capo di Salerno e due sostituti perquisiscono i colleghi della Procura e della Procura generale e sequestrano diversa documentazione dei procedimenti "Why not" e "Poseidone"

4 dicembre. Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, chiede al Procuratore capo di Salerno copia degli atti relativi all’indagine intrapresa nei confronti dei magistrati della Procura di Catanzaro.

4 dicembre. La Procura di Catanzaro apre un’indagine sui magistrati della Procura di Salerno che li avevano indagati. Il procuratore generale di Catanzaro sequestra gli atti che erano stati sequestrati dalla Procura di Salerno. Avvisi di garanzia vengono inviati dai magistrati di Catanzaro a quelli di Salerno.

4 dicembre. Il Presidente della Repubblica chiede gli atti anche al Procuratore Capo di Catanzaro e Salerno. Una guerra tra Procure. Una guerra combattuta con armi non convenzionali: indagini, avvisi di garanzia, perquisizioni e sequestri. Difficile capire quali magistrati abbiano sbagliato e quali no. Chi abbia agito in modo legittimo e chi no. Difficile e, in effetti, irrilevante. Irrilevante perché a questo punto non interessa più.

Il vero danno infatti è la guerra stessa e l’uso improprio della Giurisdizione, la sua delegittimazione, che questa guerra determina. Chi ha a cuore la Giustizia non si schiera con l’uno o l’altro dei contendenti. Chi tiene alla Giustizia interrompe questa squallida guerra. Cambia i capi delle Procure e i sostituti. Interviene con fermezza non solo a Catanzaro e a Salerno ma anche in altre Procure con problemi analoghi come Potenza, Matera e dintorni.

Giustizia: "Mai dire mai", campagna per abolizione ergastolo

 

Comunicato stampa, 6 dicembre 2008

 

Domenica 7 dicembre, ore 15, presidio solidale davanti a Sollicciano. Il 1 dicembre in numerose carceri di tutta Italia, ha avuto inizio uno sciopero della fame promosso da centinaia di ergastolani per ottenere l’abolizione dell’ ergastolo.

Vogliamo esprimere solidarietà ed appoggio a questa lotta in quanto nata dalla volontà dei detenuti stessi di lottare in prima persona e di ribellarsi ad una realtà che li vuole sottomessi, automi, morti viventi senza più neanche la consapevolezza di essere vivi. Molti prigionieri oggi si sono riconosciuti nella loro condizione comune, come non più isolati, come invece li vorrebbe la struttura carceraria, e hanno deciso di lottare uniti, come sta succedendo in Spagna ed in Grecia e come già successo in Germania.

Crediamo che questa lotta sia importante per tutti e tutte perché aldilà di anni di privazioni, soprusi, lontananza dai propri affetti e aldilà dei continui tentativi da parte del carcere, con le sue regole premiali, di soffocare ogni istinto di libertà e di ribellione, questi prigionieri ci dimostrano come sia possibile lottare contro ciò che sembra già scritto e definitivo, senza perdere la volontà di combattere, con tenacia e determinazione.

Speriamo che questo possa essere un passo per sviluppare ulteriori lotte che se pur parziali, potrebbero determinare un rafforzamento di istanze di opposizione più radicali e capaci di coinvolgere più prigionieri.

Del resto già alcuni propongono, insieme all’ abolizione dell’ ergastolo di lottare contro il disegno di legge Berselli, contro la detenzione dei bambini, per la libertà immediata per i detenuti da oltre 26 anni imprigionati, per abolire ogni forma di tortura, per l’abolizione del 41-bis (e le sue restrizioni) contro l’Eiv, l’As, il 14-bis e il 4-bis.

Con questa lotta i prigionieri escono fuori dai muri spessi del carcere nel tentativo di trovare un contatto e un coordinamento con l’esterno, rompendo di fatto l’isolamento prerogativa del carcere e quindi già scardinando e abbattendo uno dei tanti meccanismi di questa istituzione. Il 7 dicembre saremo davanti al carcere di Sollicciano per salutare e sostenere i prigionieri in lotta. Ma questo non può bastare perché la solidarietà deve essere accompagnata dalla lotta e la nostra opposizione a questo mondo fatto di cemento e sbarre deve essere quotidiana.

 

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Valle D’Aosta: il bilancio del Protocollo tra Ministero e Regione

 

Ansa, 6 dicembre 2008

 

Un primo bilancio delle attività realizzate sulla base del Protocollo d’intesa tra il Ministero della Giustizia e la Regione Valle d’Aosta, riguardante la gestione dei rapporti tra Amministrazione penitenziaria e Regione. Di questo si è discusso ieri pomeriggio ad Aosta durante la riunione dell’Osservatorio per la verifica dell’applicazione del Protocollo tra Regione e Ministero della Giustizia.

Altro argomento in agenda era l’individuazione di progetti prioritari da perseguire con una metodologia efficace, affinché sia possibile arrivare nel breve-medio periodo a risultati concreti. "Il protocollo d’intesa tra il Ministero della Giustizia e la Regione Autonoma Valle d’Aosta - spiega in una nota il presidente della Regione, Augusto Rollandin - è la conclusione di un percorso rivolto a creare sinergie tra i diversi attori, istituzionali e del terzo settore, che concorrono e che devono concorrere alla realizzazione di politiche e di azioni rivolte ad assicurare la dignità delle persone in esecuzione penale, la loro rieducazione e soprattutto il loro reinserimento".

Sono quattro i grandi assi di intervento: la territorializzazione della pena; l’assistenza sanitaria e socio-riabilitativa; l’istruzione, le attività ricreative, culturali e sportive; la formazione professionale all’interno dell’Istituto e per i soggetti in esecuzione penale esterna. Rollandin ha infine sottolineato "l’importanza del ruolo del volontariato, quale attore precipuamente impegnato nell’attuazione del Protocollo; nonché del ruolo del Difensore civico regionale".

Padova: presto due stanze per i detenuti ricoverati in ospedale

 

Padova News, 6 dicembre 2008

 

Il Prefetto di Padova Michele Lepri Gallerano si è impegnato ad individuare una soluzione al problema dei detenuti in precarie condizioni di salute disseminati nei vari reparti dell’ospedale. È l’esito del vertice in Prefettura cui hanno preso parte i direttori generali dell’Azienda ospedaliera Adriano Cestrone e dell’Ulss 16 Fortunato Rao e i dirigenti dell’amministrazione penitenziaria, guidati dal comandante della polizia del Due Palazzi Fausto Mungioli e dalla direttrice del carcere Antonella Reale.

Due le decisioni assunte nel corso dell’incontro. Il Prefetto eserciterà forti pressioni sulla Regione Veneto per ottenere i finanziamenti necessari al completamento dei lavori di ristrutturazione del reparto bunker chiuso dal lontano 2001. Lepri Gallerano ha strappato ai direttori generali di Azienda ospedaliera e Ulss 16 l’impegno a reperire all’interno dell’ospedale due locali idonei ad ospitare in via transitoria i detenuti, in attesa della riapertura del reparto bunker. Le parti si ritroveranno in Prefettura a gennaio per formalizzare le scelte.

"Quest’incontro è frutto della nostra mobilitazione - osserva Bernardo Diana, responsabile della polizia penitenziaria della Cisl-Fp - da tempo chiedevamo l’apertura di un tavolo di confronto tra le due amministrazioni. Sono ormai sette anni che il reparto bunker è chiuso a causa di gravi carenze di natura igienico-sanitaria. Il problema doveva essere risolto nel giro di pochi mesi. In realtà mancavano i fondi necessari alla ristrutturazione e non è mai stato chiarito quale ente dovesse farsi carico della spesa. Ecco perché - conclude Diana - la riapertura del reparto continua a slittare".

"Ci sembra una soluzione di buon senso - aggiunge Franco Gargiulo, della segreteria della Cisl Funzione Pubblica - individuare locali adatti ad ospitare tutti i detenuti ricoverati, molti dei quali sono ad elevato indice di vigilanza. Un’area protetta garantirebbe un alto livello di sicurezza, a tutela dei malati in stato di arresto. Nello stesso tempo non si violerebbe la privacy degli altri degenti, fin qui obbligati a condividere le stanze con detenuti e con scorte armate.

"Dalla riapertura di un reparto ad hoc - prosegue il sindacalista - trarrebbero un indubbio vantaggio pure gli agenti di polizia penitenziaria, oggi costretti a garantire assistenza e sorveglianza ad individui in custodia cautelare, dislocati ovunque in cliniche e reparti dell’Azienda ospedaliera. Raccoglierli e dislocarli in un’unica area significherebbe produrre un enorme risparmio di risorse. Un elevato numero di agenti potrebbe essere utilizzato per altri servizi. Sarebbe un’autentica boccata d’ossigeno - conclude Gargiulo - per un organico come quello della polizia penitenziaria, oggi ridotto al 40-50% degli effettivi previsti. Ci auguriamo che le amministrazioni ospedaliera e penitenziaria siano in grado di individuare una soluzione percorribile ed attuabile in tempi ragionevolmente brevi".

Ferrara: Uil; con più di 400 detenuti, il carcere è in emergenza

 

La Nuova Ferrara, 6 dicembre 2008

 

"Oramai siamo nelle condizioni di dover chiedere i bollettini sanitari ogni giorno per fare la conta degli aggrediti e dei feriti tra i nostri colleghi". Così Domenico Maldarizzi, del Coordinamento Regionale della Uil-Pa Penitenziari, si esprime dopo l’aggressione subita da tre poliziotti penitenziari nella Casa Circondariale di Ferrara.

"Ormai è vera emergenza penitenziaria in Emilia Romagna - continua Domenico Maldarizzi - gli istituti della Regione scoppiano e a Ferrara sono presenti 418 detenuti a fronte dei 256 previsti. Tutto ciò pare non interessare a nessuno e a pagarne un caro prezzo sono gli operatori penitenziari, lasciati soli a fronteggiare le aggressioni e le emergenza socio-sanitarie". La Uil con le altre sigle sindacali il 28 novembre è scesa in piazza per protestare "contro il provveditore regionale.

E - afferma il coordinatore regionale della Uil Pa Penitenziari - ormai siamo stufi sia delle inutili mediazioni dei vertici romani, vogliamo che alle parole seguano fatti consequenziali se vi sono, come vi sono, delle responsabilità occorre agire". "Non è concepibile - continua Maldarizzi - che uno Stato civile consenta l’ammasso di detenuti in celle inidonee e spazi angusti, con l’aggravio di condizioni igienico-sanitarie da terzo mondo.

Anche le croniche, gravi carenze organiche contribuiscono al collasso del sistema oramai incapace di attendere ai compiti istituzionali. Basti pensare che solo a Ferrara la carenza d’organico è del 25% sulla pianta organica prevista. Chissà se il personale potrà trascorrere in famiglia, almeno in parte, le prossime festività natalizie".

Livorno: una terza consulenza per la morte di Marcello Lonzi

 

Il Tirreno, 6 dicembre 2008

 

Va avanti l’indagine della Procura della Repubblica sul caso della morte di Marcello Lonzi, avvenuta in carcere nel luglio del 2003. Tre gli iscritti sul registro degli indagati (un detenuto e due agenti di polizia penitenziaria, l’ipotesi di reato è omicidio colposo) e soprattutto una nuova consulenza tecnica della quale la magistratura livornese sta attendendo gli esiti prima di effettuare altri passi.

È stato, infatti, affidato un incarico per una ulteriore consulenza di carattere medico-legale, attraverso la quale gli inquirenti sperano di capire come siano andati realmente i fatti all’interno del penitenziario di Livorno. Per lungo tempo Maria Ciuffi, la madre di Lonzi, si è battuta per ottenere la riapertura di un caso che ha fatto discutere tantissimo a livello nazionale, soprattutto negli ambienti antagonisti e in coloro che osservano da vicino e studiano la realtà carceraria, quella della nostra città e non solo. Un caso che in un primo momento era stato archiviato dalla Procura come una morte per cause naturali: infarto, fu la prima ipotesi. Di tutt’altro avviso la madre della vittima, che ha sempre sostenuto l’esistenza di precise responsabilità del personale del penitenziario.

Vigevano: evade dopo aver saputo di gravi problemi in famiglia

 

La Provincia Pavese, 6 dicembre 2008

 

Un problema famigliare da risolvere personalmente, e subito. È forse questa la causa dell’evasione dal carcere dei Piccolini. Kebir Sahri, 36 anni, marocchino, è scappato mentre lavorava all’esterno - come è consentito ai detenuti modello - pulendo il campo da calcio degli agenti, a pochi metri dalle mura del carcere.

Per Sahri, in cella da due anni e mezzo per spaccio di cocaina e hashish, la fine pena - calcolando gli sconti di legge - era prevista a maggio 2009. In patria ha moglie e figli. Adesso rischia almeno altri sei mesi di cella (pena minima per evasione) e la perdita di ogni beneficio. La fuga quindi secondo i vertici del carcere sarebbe più un colpo di testa, che un piano organizzato.

Spiega il direttore reggente della casa circondariale, Davide Pisapia: "Sahri a quanto pare aveva ricevuto di recente brutte notizie di carattere famigliare. E ancora, non aveva preso bene la notizia del mancato riconoscimento dello sconto di un mese e mezzo di pena, per ogni semestre di buona condotta". Ma è solo una questione burocratica: "Lo sconto sarebbe arrivato cumulativamente con il primo semestre 2009. Quindi entro l’estate sarebbe uscito".

Assurdo quindi rischiare una nuova condanna per evitare pochi mesi di cella. "A meno di un motivo che lui riteneva gravissimo". Comunque: Sahri era uno detenuto cosiddetto "affidabile", cui è permesso cioè di lavorare retribuito per l’amministrazione carceraria, eseguendo lavori di manutenzione all’interno e all’esterno delle mura del carcere. Con questi orari di massima: dalle 8.15 alle 11.30 circa, e dopo il pranzo dalle 13.30 alle 15.30.

Sahri era uscito con due guardie verso le 11, per iniziare la manutenzione del terreno di gioco. "In quella situazione, gli agenti non avevano l’obbligo di controllarlo a vista, ma solo ogni dieci minuti", spiega il direttore. Al primo controllo era al suo posto, al secondo non più. Si è allontanato a piedi nelle campagne - il carcere è alla frazione Piccolini - e ha fatto magari l’autostop. Almeno teoricamente, senza un soldo in tasca né cellulare. È partito l’ordine di ricerca a tutte le forze dell’ordine.

Israele: governo cambia idea; no a rilascio detenuti palestinesi

 

Apcom, 6 dicembre 2008

 

Israele non libererà nei prossimi giorni, come aveva promesso il premier Ehud Olmert, 250 detenuti palestinesi per rafforzare la posizione del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) Abu Mazen. Lo hanno riferito stamani a un gruppo di giornalisti palestinesi fonti ufficiali dell’Anp che hanno chiesto di rimanere anonime.

Secondo le fonti, Abu Mazen ha ricevuto una comunicazione dall’ufficio di Olmert in cui si spiega che il premier israeliano è sottoposto "a forti pressioni politiche" affinché non rilasci alcun detenuto palestinese sino a quando non verrà liberato il caporale israeliano Ghilad Shalit, catturato nel giugno 2006 da un commando palestinese e da allora tenuto in ostaggio a Gaza. Le pressioni, hanno aggiunto le fonti, sono giunte anche da esponenti del governo Olmert e nascono anche da considerazioni di opportunità politica legate alle elezioni legislative israeliane previste il prossimo 10 febbraio.

I 250 prigionieri palestinesi dovevano essere liberati in occasione della festa islamica dell’Adha, che chiude il pellegrinaggio alla Mecca, uno dei principali doveri per i musulmani. In Israele sono detenuti circa 11mila palestinesi per motivi politici.

Afghanistan: scontri nel carcere di Kabul, otto detenuti morti

 

Associated Press, 6 dicembre 2008

 

Otto detenuti del carcere più grande di Kabul, Pol-I-Charki, sono morti in seguito a scontri tra guardie e prigionieri. Il viceministro alla Giustizia Mohammad Qassim Hashimzai ha spiegato che nel corso della settimana le guardie della prigione avevano tentato di perquisire le celle dei detenuti alla ricerca di armi e telefoni cellulari, dopo che erano emerse prove di contatti tra i prigionieri e gruppi militanti, tra cui talebani e al-Qaida, per tentare di organizzare un attacco al penitenziario e permettere l’evasione dei detenuti. Lo scontro è finito in tragedia con i prigionieri che hanno opposto resistenza appiccando fuoco ai materassi e ai cuscini. Hashimzai ha spiegato che le guardie hanno aperto il fuoco contro i prigionieri uccidendone otto e ferendone altri dieci. Ferite anche tre guardie.

 

 

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