Rassegna stampa 17 dicembre

 

Giustizia: un "mostro" agonizzante, ma la riforma non parte!

di Daniele Memola

 

L’Opinione, 17 dicembre 2008

 

A poter inventare una classifica stile top ten delle parole più usate (e abusate) dalla più recente fase politica italiana, sicuramente sarebbero due gli "idiom" più in voga usati tra gli scanni del Transatlantico e nei palazzi del potere: "Condivisione" e "giustizia".

Chi è del mestiere ma anche chiunque possegga a casa una televisione, una radio o sfogli pure distrattamente una pagina di un quotidiano, sicuramente si sarà accorto che, mai come ad oggi, lo scontro (o lo pseudo incontro) su un tema così rilevante come quello di una giustizia disastrata ha conquistato gli allori della cronaca. Fare un’analisi è un’impresa ardua, perché è tale la confusione che regna tra maggioranza ed opposizione, che tirare le fila diventa quantomeno ostico. Allo stesso modo di pretendere di sbrogliare la matassa delle ancora imprecisate aperture che da entrambi gli schieramenti, un giorno ci sono, quello successivo scompaiono magicamente.

Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano è da questa estate che chiede di dare più peso ad Equitalia Giustizia Spa per fare del recupero delle spese di giustizia anticipate dallo Stato una questione di non eterna sofferenza e di sbloccare i "conti dormienti"; di estendere il successo nella giustizia minorile della "messa alla prova" anche per gli adulti (per reati minori puniti fino a 2 anni); di costruire nuovi carceri o ampliare/recuperare le strutture esistenti anche con l’aiuto dei privati (visto che le Casse del ministero languono); di dare a processo civile e penale una versione più online e meno "faldoniana" (a suon cioè di carte impolverate e di difficile gestione); di razionalizzare i tempi processuali dei processi amministrativi (qualcuno ogni tanto si ricorda del sogno ricorrente della giustizia in 5 anni?); di rivedere (distinguendole) le funzioni tra pm e giudici e di riformare lo stesso Csm; di fermare le guerre tra toghe e Procure (qualcuno qui ha dimenticato troppo in fretta il caso De Magistris).

In pratica, riformare un colosso Giustizia che perde pezzi da anni (15?), e continua a scardinarsi ad ogni scossone, senza che nessun muova un dito. Quasi come se fosse una "creatura" partorita male, imbruttitasi nel tempo e che fa troppa paura oggi per provare a dargli una sembianza "umana" (almeno negli intenti dei padri costituzionalisti e nei diritti che essa si propone di salvaguardare).

La "Creatura" fa ribrezzo, si deve andare a tentoni per non scottarsi, ed è sicuramente più conveniente tenerla impantanata tra i dicktat che riportarla a nuova luce. Di appelli inascoltati per "salvarla" ne sono stati fatti a iosa negli anni; se ne continuano a fare ogni giorno a tutti i livelli istituzionali ma poi si ritorna nell’illusione di una riforma, che a parole, tutti vogliono. A quel senso di frustrazione provocato da un sistema politico incapace di produrre vere riforme e restituire ai cittadini una giustizia seria ed efficiente, in grado di dare garanzie di corretto funzionamento.

A Natale, con ogni probabilità, non arriveranno tutti quei grossi cambiamenti che tutti speravano, figuriamoci quelli costituzionali che qualcuno invoca. Non è più un mistero, che la "Creatura" non piaccia a nessuno, di qualsiasi schieramento politico provenga o abbia militato. E non c’è nessuna commissione di Veltroniana memoria che possa segnare una svolta. Nessuna apertura che non si dica stravolta autonomia e indipendenza della magistratura, nessun equilibrio tra i poteri dello Stato e nessuna certezza della pena. Per ora siamo alle solite scaramucce tra i Poli.

Ai "freni" che vengono da una parte e dall’altra, ai se ai tanti ma. A quello stancante, asfissiante e denigrante braccio di ferro che offende l’intelligenza di qualsiasi elettorato. La "Casta" ha solo una cosa di "condiviso" a quanto pare: lasciare che il mostro continui ad agonizzare, pregando però che non colassi più di tanto.

Giustizia: 5 miliardi di euro per i tribunali e 2 per i penitenziari

di Domenico Marchetta

 

www.lavoce.info, 17 dicembre 2008

 

La spesa per giustizia ha un’incidenza relativamente modesta sul bilancio dello Stato, ma un rilevante impatto sul sistema economico. In questo comparto, una corretta azione di spesa pubblica deve perseguire contemporaneamente obiettivi di risparmio e di miglioramento dei risultati. E l’elenco degli interventi possibili comprende razionalizzazione organizzativa del settore, revisione della geografia giudiziaria, riduzione degli oneri sulle intercettazioni, processo telematico, sistema a forfait per l’onorario degli avvocati.

Secondo il Budget dello Stato 2009 appena pubblicato dalla Ragioneria generale, la spesa per l’esercizio della funzione giudiziaria civile e penale, quasi 5 miliardi di euro, rappresenta circa l’1,3 per cento del totale generale dei costi dello Stato; si arriva a circa il 2 per cento se si include la spesa per i penitenziari (2 miliardi di euro). La spesa per giustizia ha un’incidenza relativamente modesta sul bilancio dello Stato, ma un rilevante impatto sul sistema economico.

Gli effetti negativi che l’inefficienza della giustizia può produrre sull’economia sono molti: compromettere la crescita dimensionale delle imprese, impedire lo sviluppo dei mercati finanziari, distorcere il mercato del credito e quello del prodotto, ostacolare la crescita dell’economia.

Una corretta azione di spesa pubblica, volta a sostenere crescita e risanamento della nostra economia, deve pertanto perseguire, per il comparto giustizia, sia obiettivi di risparmio, sia obiettivi di miglioramento dei risultati, attualmente molto modesti.

È possibile farlo impostando un percorso di riforma che non si occupi solo delle grandi questioni di principio, su cui è in atto un aspro confronto politico. Ma preveda anche un massiccio intervento su una serie di profili minori, che tuttavia svolgono un ruolo decisivo per l’efficienza complessiva del sistema, come dimostrano le analisi della soppressa Commissione tecnica per la finanza pubblica.

Si può stimare che il beneficio derivante dagli interventi attuabili in questi campi sia molto importante in termini di risparmio per il bilancio dello Stato e di riduzione della durata media dei processi. Ecco alcuni dei principali interventi ipotizzabili.

Si tratta, in primo luogo, di avviare la razionalizzazione organizzativa dell’intero settore, con l’introduzione di tecniche e competenze manageriali nella conduzione degli uffici giudiziari, l’ottimizzazione della micro-organizzazione dei tribunali e la semplificazione delle procedure amministrative e di gestione, ivi comprese quelle dei penitenziari. Nella stessa direzione, e con benefici consistenti in termini di efficienza del servizio, si colloca la revisione della geografia giudiziaria, che risponde all’esigenza di sfruttare le economie di scala che si possono ottenere con l’accorpamento dei tribunali minori.

L’onere delle intercettazioni disposte dalle singole procure può essere sensibilmente ridotto dando piena applicazione alle norme, approvate dal Parlamento nel 2005, che prevedono la forfettizazione dei costi unitari giornalieri da imputare al fascicolo dell’indagato e dei costi annuali da corrispondere agli operatori di telecomunicazioni. La Legge finanziaria 2008 ha inoltre istituito il "sistema unico nazionale delle intercettazioni". Il nuovo sistema, secondo una stima effettuata dalla Ctfp, potrebbe assicurare risparmi di circa 250 milioni l’anno, a parità di bersagli intercettati, circa 100mila per anno. Non è però ancora entrato a regime nonostante che l’avvio fosse previsto entro il 31 gennaio 2008. Va ricordato che gli oneri delle intercettazioni, secondo il parere espresso dalla Commissione giustizia del Senato nella precedente legislatura, potrebbero essere praticamente azzerati, imponendo alle società di gestione dei servizi di telefonia la gratuità delle prestazioni, come avviene in Germania. Poiché infatti le società stesse operano in regime di concessione da parte dello Stato, le prestazioni per fini di giustizia potrebbero ben rientrare fra gli oneri di concessione.

Anche con misure minori si potrebbero ottenere risparmi di qualche rilievo. Ad esempio si può intervenire sulle spese postali, con l’introduzione generalizzata della posta elettronica certificata (Pec) e del protocollo informatico e, nel frattempo, affidando con apposita gara il ritiro dagli uffici giudiziari della posta diretta all’amministrazione centrale (63 per cento del totale), con un risparmio stimabile in circa 10 milioni l’anno: per la posta interna non esiste un vincolo di esclusiva a favore della società concessionaria del servizio postale. A una riduzione si presta anche la spesa, circa 50 milioni, per l’assistenza sistemistica agli uffici giudiziari: sarebbe opportuno indire gare nazionali, individuando in modo specifico le prestazioni richieste e limitandole a quelle effettivamente utili e ricorrenti. Il risparmio è stimabile in almeno 10 milioni l’anno.

Per ridurre la durata dei processi civili è essenziale l’attuazione urgente del processo telematico, in grado di accelerare l’iter dei procedimenti e di incentivare la progressiva innovazione delle forme organizzative e delle funzioni svolte dai vari attori del processo. Si tratta di concentrare su questo settore prioritario gli investimenti necessari.

In Italia la formula di determinazione dell’onorario degli avvocati nei processi civili prevede che il difensore sia pagato secondo il numero delle attività svolte nel processo, il cosiddetto compenso "a prestazione". Il sistema incentiva la moltiplicazione degli atti e la complicazione dell’iter della causa ed è uno dei principali fattori che incidono negativamente sull’allungamento dei tempi dei processi. L’introduzione di un sistema di compensi "a forfait" eviterebbe tali inconvenienti, rendendo economicamente vantaggioso per il professionista semplificare le cause e snellire i fascicoli.

Giustizia: politica, affari e manette; quando la storia si ripete!

di Paolo Graldi

 

Il Mattino, 17 dicembre 2008

 

Ce una stretta somiglianza, quasi un’identità strutturale, tra i bollettini del meteo di questi giorni, con le sue ricorrenti catastrofi ambientali, le nevicate che raggelano e sigillano interi paesi, le valanghe che travolgono ogni cosa, i fiumi che esondano, le strade che smottano, e il meteo-giudiziario con le sue liti tra Procure, i rancori e le invidie tra magistrati, lo sbirciare anche nell’intimità famigliare dei Pm nemici e il disseminarsi di arresti per corruzione nei quali i politici (locali, ma non tanto) lasciano le sedi di partito per le celle, in stato d’arresto.

Due film già visti, girati tante volte, con tanti e diversi attori protagonisti, film che rappresentano, come in una metafora di stagione, i diversi aspetti di un unico sfascio generale e generalizzato. Dal tempo, anzi dal maltempo, arrivano a bomba tutti i disastri possibili compreso quello, l’occhio vuole la sua parte, lo spettacolo non si deve fermare mai, di giganteschi barconi che si staccano dai fragili ormeggi e s’incastrano nelle arcate di ponte sant’Angelo, con le statue severe del Bernini che tremano rischiando il salto nel vuoto e il Castello, da dove pure se ne sono viste tante, che osserva inquieto e sbigottito.

Così il centro di Roma, con tutto il resto che porta la piena, rischia d’essere alluvionato dal Tevere perché i barconi alla deriva formano una diga contro il ponte. Roba da matti, se non fosse che qualcuno, facendosene beffa, la prende per un’imprevista e apprezzata attrazione turistica sotto Natale. Sull’altra sceneggiatura scorre, gonfiandosi della pioggia d’accuse, il film della "Nuova questione morale" che va a infangare su vaste aree personalità politiche quasi tutte, questa volta, riconducibili al Partito democratico.

Arrestato il sindaco di Pescara a voto regionale ancora caldo, con le sue dimissioni immediate da dirigente del partito, ecco l’inchiesta popolarsi di attori e comparse e dispensare scene di rilievo anche a interpreti come Carlo Toto, patron dell’Air One, da poco entrata nella Cai, la nuova Alitalia. Cene, macchine e autisti in prestito, biglietti d’aereo gratis, contributi elettorali e favori vari, da specificare. Un piè di lista davvero ricco. A forfait duecentomila euro. Al sindaco D’Alfonso vengono contestati trenta capi d’imputazione. Imbrogli dentro lavori pubblici (comprese aree cimiteriali: non c’è mai pace) e accordi di programma maleodoranti di mazzette.

Queste le accuse, sia ben chiaro, dispiegate con dettagli per ciascuno dei trentacinque indagati. Uno’tsunami giudiziario, un’onda di piena che s’aggiunge allo scandalo delle "stecche" (smentite) che hanno travolto Ottaviano Del Turco togliendolo dall’agone politico e restituendolo alle tele dei suoi quadri. Il poeta direbbe che è tempo di migrare.

All’Abruzzo si aggiungono le inchieste a Firenze, a Genova, a Catanzaro, e ora anche la nuova serie di Potenza, con un’altra clamorosa entrata in scena di Henry John Woodcock, il magistrato già assai noto per aver incarcerato il principe di Savoia e quel Corona che è ancora sotto processo per la sua discussa attività di imprenditore dello scatto proibito. Anche qui, un deputato del Pd colpito dalle accuse: lo vogliono agli arresti domiciliari Salvatore Margiotta (nelle intercettazioni telefoniche e ambientali "Salvato") e lo implicano in una storia di appalti truccati tra imprenditori e la società petrolifera che doveva estrarre gas e petrolio dalla Val d’Angria, una saga texana in salsa materana, Beautiful nostrana, riveduta e corrotta. Anche qui una valanga di manette sul letto di una maxitangente di quindi milioni di euro. E tutto nel giorno in cui nel loft del Pd, all’Aventino, ci si domanda se esiste una questione morale e pochi, anche nei sondaggi dei giornali amici, son disposti a dire che no, son tutti attacchi al segretario "ma anche" al partito.

Come sotto un grande tendone, aperto e tenuto teso su questa materia brulicante (a Napoli, intanto s’aspetta un’altra ondata di piena d’arresti sempre per appalti truccati) c’è la questione giustizia: un macigno fin qui inamovibile, una riforma del processo, dei poteri dei giudici, della separazione tra l’avvocato dell’accusa che deve avere gli stessi poteri dell’avvocato della difesa, di due Consigli superiori della magistratura, con componenti che siano fuori dai giochi e dalle correnti e dai partiti:

E dentro questa questione la questione spinosissima delle intercettazioni che dilagano, che ascoltano, raccolgono sussurri che divengono boati e stanno ovunque tranne che tra le carte processuali, avvolge dall’obbligo del segreto istruttorio che nessuno sembra disposto a rispettare, tanto i rischi stanno a zero. Ogni istruttoria, va da sé, avrà il suo cammino, il suo esito, i suoi incidenti di percorso. Anche questo un film già visto.

Alcune si sfarineranno nel nulla, lasciando sulla propria strada macerie e anche morti e feriti, altre colpiranno nel segno dimostrando che il controllo di legalità è un bene indefettibile e dunque è indispensabile che sia amministrato con cura, saggezza, professionalità. Senza protagonismi da rotocalco, da comparsate televisive tra un Tg, un talk show e un salto all’Isola dei famosi o tra le pezze dei prossimi Grandi fratelli. È già successo, non dovrà ripetersi almeno questa scena penosa.

I sondaggi avvertono: i magistrati, specie dopo le battaglie a suon di perquisizioni domiciliari e di intercettazioni al megafono, sono al minino storico in quanto a popolarità e fiducia presso i cittadini. Milioni dei quali aspettano dalla giustizia un segno tangibile di giustizia. Il quale, se arriva e quando arriva, celebra il suo dodicesimo compleanno. È come se un bambino nascesse nel giorno dell’apertura di un’inchiesta e andasse a dare gli esami di terza media nel giorno dell’ultimo verdetto. Strasburgo lo sa, là siamo famosi e infatti ci condannano. Il quadro d’insieme impone urgenze mai tanto sentite prima. Prima che un’altra ondata di piena (di veleni politici e di sconquassi istituzionali) vada ad intaccare quella creatura fortissima e perciò stesso fragile che si chiama democrazia.

Giustizia: tangenti su petrolio, arresti "eccellenti" in Basilicata

di Francesco Viviano

 

La Repubblica, 17 dicembre 2008

 

Il petrolio, che doveva essere una "grande occasione di sviluppo per tutta la regione", si è invece tradotto "in una occasione di arricchimento di una schiera di soggetti appartenenti al mondo politico e imprenditoriale, espressione di un "comitato d’affari" che, in ragione di interessi personali, ha praticamente "svenduto" la terra della Basilicata e le sue ricchezze a discapito del pubblico interesse". Così scrive nella sua ordinanza di custodia cautelare il pm John Henry Woodcock che ieri ha provocato un terremoto chiedendo l’arresto dell’amministratore delegato della multinazionale petrolifera Total Italia Lionel Levha, di Jean Paul Juguet (attualmente all’estero), responsabile del progetto "Tempa rossa" (così si chiama uno dei più grandi giacimenti petroliferi della Basilicata), di Roberto Pasi, della Total di Potenza, e del suo braccio destro Roberto Francini, del deputato del Pd Salvatore Margiotta, responsabile del partito in Basilicata, del sindaco di Gorgoglione (Matera) Ignazio Tornetta e dell’imprenditore Francesco Ferrara. Per Salvatore Margiotta la misura cautelare potrà essere eseguita solo se la Camera, alla quale sono stati inviati gli atti dell’inchiesta, darà l’approvazione. I reati contestati a vario titolo agli indagati sono associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e alla turbativa d’asta (con riferimento specifico agli appalti dei lavori per le estrazioni petrolifere), corruzione e concussione.

Gli accusati, secondo il pm Woodcock, noto alle cronache per l’inchiesta su "vallettopoli" e per l’arresto di Vittorio Emanuele di Savoia, avrebbero costituito un "comitato d’affari" per spartirsi proventi in nero dell’estrazione del petrolio, per ricevere tangenti e per l’affidamento degli appalti della compagnia petrolifera che sarebbero stati "pilotati e predefiniti" dal comitato d’affari costituito "dal management di Total Italia, da imprenditori, da pubblici ufficiali, da politici e da faccendieri, istituzionalmente deputati a mediare un numero indeterminato di transazioni illecite".

Un patto corruttivo da 15 milioni di euro, sostiene l’accusa, fatto tra i dirigenti della Total, società titolare di concessione petrolifera in Basilicata, gli imprenditori interessati agli appalti per le estrazioni e i politici. A Margiotta, secondo l’accusa, sarebbe stata promessa una tangente di 200 mila euro da Francesco Ferrara, in cambio di un suo interessamento per favorirlo negli appalti. Cosa che Margiotta avrebbe fatto, usando il suo potere e la sua influenza di parlamentare e di leader del Pd in Basilicata.

Il deputato, che era stato già indagato insieme alla moglie Luisa Fasano, ex capo della squadra mobile di Potenza, in altre due inchieste (una di Woodcock, l’altra dell’ex pm di Catanzaro De Magistris) ha negato ogni accusa, sostenendo che dimostrerà la propria innocenza. "Nel frattempo - ha aggiunto Margiotta - poiché non voglio che in alcun modo il Pd, partito in cui milito e che amo, sia coinvolto in questa vicenda, mi autosospendo da tutti gli incarichi di partito a livello nazionale e regionale". "No comment" dalla Total. "L’inchiesta è ancora in corso".

Giustizia: il Sappe ai Tribunali; concedete più misure alternative

 

Il Velino, 17 dicembre 2008

 

Misure alternative alla detenzione e uso del braccialetto elettronico: lettera aperta del Sappe ai Presidenti dei Tribunali di Sorveglianza e dei Tribunali Penali del Paese.

Spiega l’iniziativa Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria: L’idea ci è venuta dopo aver ascoltato, qualche giorno fa, il ministro l’Interno Roberto Maroni, rispondere al question time alla Camera ad una interrogazione parlamentare dell’Udc proprio sull’uso del braccialetto elettronico. Maroni ha sottolineato infatti che lo scarso utilizzo del braccialetto per i detenuti non dipende dal ministro dell’Interno ma dalla magistratura che decide se utilizzare o meno questi strumenti.

Il ministro Maroni ha aggiunto che in Francia, ad esempio, l’uso del braccialetto è massiccio e le evasioni sono praticamente azzerate. Riteniamo dunque di raccogliere le parole del Ministro dell’Interno e ci siamo fatti promotori di questa lettera aperta. Il Sappe infatti, quale Sindacato più rappresentativo del Corpo di Polizia Penitenziaria, si sta impegnando da molto tempo per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sul grave stato di sovraffollamento degli istituti penitenziari (sono attualmente più di 58mila i detenuti presenti) da cui consegue un estremo disagio non solo del personale del Corpo, ma dell’intero sistema giudiziario e dell’esecuzione penale.

A tal proposito, occorre rilevare, innanzitutto, il fallimento di quella politica clemenziale, culminata con l’indulto nell’anno 2006, che ha esaurito i suoi effetti dopo pochi mesi, non senza ripercussioni considerevoli, però, in materia di sicurezza. Questa vicenda ha dimostrato l’inutilità di soluzioni estemporanee e, di contro, la necessità di affrontare la questione in una prospettiva sistematica, volta ad un complessivo ripensamento dell’esecuzione penale. Per quello che ci riguarda, abbiamo la consapevolezza che già l’ordinamento vigente contempla istituti che, se ben valorizzati, possono senz’altro fornire un decisivo contributo nel perseguimento di un assetto della giustizia che contemperi, in maniera equilibrata, le esigenze di sicurezza e di rieducazione del condannato, assicurando, nel contempo, un contenimento della popolazione detenuta entro limiti sostenibili, rispondenti a principi umanitari e tesi alla rieducazione e al recupero del reo; in tal senso il Sappe vuole rappresentare alcuni spunti di riflessione ai Presidenti dei Tribunali di Sorveglianza e dei Tribunali Penali del Paese sperando di fornire un significativo contributo di suggerimenti e di utili indicazioni. In particolare, si reputa necessaria una nuova politica della pena che preveda un ripensamento organico dell’istituzione penitenziaria ed un contestuale maggiore ricorso alle misure alternative alla detenzione, combinate con l’ottimizzazione nell’utilizzo delle procedure di controllo mediante strumenti elettronici o altri dispositivi tecnici che hanno dato, finora, risultati indubbiamente positivi in molti Paesi europei. Analogamente, laddove non ostino specifiche esigenze cautelari e di sicurezza, il ricorso a procedure di controllo mediante strumenti elettronici potrebbe consentire una più vasta applicazione della misura degli arresti domiciliari in luogo della custodia cautelare in carcere.

Le statistiche presentate in diversi convegni sul tema aggiunge Capece hanno dimostrato in maniera chiara ed inequivocabile che le misure alternative sono molto più efficaci nell’abbassamento del grado di recidiva rispetto al carcere, mentre, contrariamente a quanto crede l’opinione pubblica, l’Autorità Giudiziaria è molto rigida nella concessione di queste misure alternative al carcere o degli arresti domiciliari, soprattutto nei periodi in cui si verificano concomitanti gravi episodi criminali (diversi da quelli oggetto della richiesta), che aumentano l’allarme sociale.

Sotto diverso profilo, andrebbe rilanciato l’utilizzo del braccialetto elettronico, il quale potrebbe costituire lo strumento idoneo a rassicurare l’opinione pubblica sulla garanzia di sicurezza nella fruizione delle misure alternative alla detenzione e alla custodia cautelare in carcere. Purtroppo, nel 2001, dopo l’avvio di una fase sperimentale, il processo di perfezionamento e di impiego del nuovo dispositivo si è sostanzialmente bloccato dopo isolati casi di impiego, rarefatti a causa di alcuni inconvenienti più che altro di origine burocratica e/o organizzativa.

Oggi pare, invece, che si siano concretizzate le condizioni favorevoli per un rilancio della funzionalità del braccialetto elettronico allorquando, di recente, in un caso di competenza degli uffici giudiziari di Milano, si è riusciti a superare tutti gli inconvenienti tecnici e ad applicare il dispositivo in parola ad un detenuto ammesso alla detenzione domiciliare.

La vicenda milanese ha dimostrato come sia possibile superare, grazie all’impegno delle diverse Autorità coinvolte, le disfunzioni organizzative che hanno impedito fino ad oggi la piena funzionalità di una misura in grado di assicurare il giusto grado di sicurezza nell’espiazione delle misure alternative o delle custodia cautelare, lasciando intravedere la concreta possibilità di realizzare una nuova politica della pena che concili davvero il decongestionamento delle carceri col perseguimento della finalità costituzionale della rieducazione.

Per tutte queste ragioni, il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe ha inteso rivolgere appello ai Presidenti dei Tribunali di Sorveglianza e dei Tribunali Penali del Paese perché - ciascuna per la parte di propria competenza - vogliano indugiare in una nuova e più attenta riflessione sull’opportunità di ricorrere maggiormente (laddove possibile) a misure alternative alla detenzione e alla custodia cautelare in carcere, così che si restituisca dignità ai luoghi di detenzione e si permetta al personale del Corpo di Polizia Penitenziaria di svolgere il proprio servizio in condizioni di lavoro più umane, che lo mettano al riparo dalle pericolose conseguenze della sindrome da burnout.

Una nuova politica della pena, che preveda un ripensamento organico del carcere e dell’Istituzione penitenziaria con al centro un nuovo ruolo professionale ed operativo della Polizia penitenziaria, è necessaria e indifferibile. Auspichiamo che il ministro Alfano tenga conto che un ampliamento delle misure alternative alla detenzione e dell’area penale esterna con contestuale adozione del braccialetto elettronico di controllo dei soggetti detenuti che vi accedono dovrà necessariamente prevedere un nuovo ruolo della Polizia Penitenziaria, e cioè svolgere in via prioritaria rispetto alle altre forze di Polizia la verifica del rispetto degli obblighi di presenza che sono imposti alle persone ammesse alle misure alternative.

Ci auguriamo quindi che il ministro Alfano incontri quanto prima il Ministro dell’Interno Roberto Maroni per arrivare a definire quel decreto interministeriale Interno e Giustizia, ad oggi incomprensibilmente sospeso, finalizzato a disciplinare il progetto che prevede l’utilizzo della Polizia Penitenziaria all’interno degli Uffici di esecuzione penale esterna (Uepe) per svolgere in via prioritaria rispetto alle altre forze di Polizia proprio la verifica del rispetto degli obblighi di presenza che sono imposti alle persone ammesse alle misure alternative della detenzione domiciliare e dell’affidamento in prova.

Giustizia: querela a Piero Sansonetti, accusò agenti di torture

 

Il Velino, 17 dicembre 2008

 

"È stato depositato presso la procura della Repubblica di Spoleto un esposto denuncia in relazione alle dichiarazioni rese dal direttore di Liberazione Piero Sansonetti nel corso della trasmissione televisiva Anno Zero andata in onda su Rai Due il 4 dicembre in occasione del quale appunto Sansonetti ha pubblicamente denunciato il fatto che i detenuti ergastolani sono torturati nel carcere di Spoleto".

Lo si legge in una nota del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria). "In particolare nell’esposto si fa esplicita richiesta alla competente Autorità giudiziaria di avviare le indagini ritenute necessarie per verificare la veridicità delle dichiarazioni rese pubblicamente dal direttore Sansonetti e, nel caso di mancato riscontro, di procedere penalmente nei suoi confronti per diffamazione nei confronti dell’amministrazione penitenziaria e della Polizia penitenziaria".

Catania: detenuto semilibero di 25 anni, si è impiccato in cella

 

Agi, 17 dicembre 2008

 

Un detenuto semilibero di 25 anni, Gianluca Di Mauro, che stava scontando una condanna a 12 anni e sette mesi di reclusione per diverse rapine, si è suicidato la sera di lunedì scorso nel carcere di massima sicurezza di Bicocca. Il giovane in passato era stato coinvolto nell’inchiesta sull’uso di telefonini nel carcere Pagliarelli di Palermo, adoperati da boss per comunicare per l’esterno, che lui avrebbe invece utilizzato per parlare con parenti. Abitualmente detenuto a Firenze, dove sarebbe rientrato tra pochi mesi, era temporaneamente a Catania con una protezione "media": aveva il divieto di incontro, ma poteva uscire per andare dai propri familiari. La magistratura di Catania ha aperto un fascicolo.

Palermo: arrestato in operazione anti-mafia, 52enne si suicida

 

Ansa, 17 dicembre 2008

 

La Procura della Repubblica di Palermo ha disposto l’autopsia sul corpo del boss Gaetano Lo Presti, 52 anni, che si è suicidato ieri sera nel carcere di Pagliarelli. L’uomo, che già in passato era stato condannato per mafia, era stato fermato ieri mattina dai Carabinieri nell’ambito dell’operazione denominata Perseo, che ha portato in carcere più di 90 persone, accusate di voler rifondare Cosa Nostra. Lo Presti è stato intercettato a lungo e le sue dichiarazioni sono contenute nel provvedimento di fermo che gli era stato notificato. L’uomo racconta, come si legge nelle intercettazioni, molti retroscena che riguardano la creazione della nuova commissione di Cosa Nostra e inconsapevolmente rivela agli investigatori i nomi degli altri boss coinvolti e le strategie che stavano portando avanti.

Ci sono i nuovi capi delle famiglie mafiose di Palermo e provincia tra i 99 fermati dai carabinieri del Comando provinciale. L’operazione Perseo, ordinata dai pm della Dda, ha stroncato sul nascere i progetti criminali dei boss che avevano ricostituito la "commissione provinciale" di Cosa nostra, di cui non era ancora stato deciso il capo. Alcuni centri della provincia di Palermo si sono svegliati "assediati" dai carabinieri, in particolare Bagheria e Belmonte Mezzagno, così pure alcune zone del capoluogo. Le scene del maxiblitz viste stamani all’alba ricordano quelle di vent’anni fa, quando l’allora pool antimafia ordinava retate in seguito alle dichiarazioni dei primi pentiti di mafia. Adesso ad accusare i boss ci sono le intercettazioni. L’inchiesta Perseo è stata coordinata dal procuratore Francesco Messineo e dai sostituti della Dda Maurizio de Lucia, Marzia Sabella, Roberta Buzzolani e Francesco Del Bene. L’indagine dei carabinieri del Reparto operativo di Palermo é durata 9 mesi, insieme ai colleghi del Gruppo di Monreale. Gli investigatori hanno ricostruito i nuovi assetti mafiosi grazie a intercettazioni effettuate nei luoghi in cui i boss si riunivano per discutere affari e nuove strategie.

L’inchiesta sui nuovi boss a capo delle famiglie e dei mandamenti mafiosi di Palermo ha portato ad acquisire elementi che mettono in risalto l’interesse di Cosa nostra nella politica. In particolare, dalle intercettazioni si apprende la strategia messa in atto per appoggiare alle elezioni elettorali candidati che i boss ritengono affidabili. È uno dei punti su cui si basa l’inchiesta Perseo che ha portato ad identificare decine di nuovi "uomini d’onore", ed in particolare coloro che, di fatto, hanno svolto o svolgono un ruolo direttivo dell’attività delle "famiglie" mafiose palermitane di: Corso Calatafimi, Rocca Mezzo Monreale, Resuttana, Acquasanta, Porta Nuova, Altarello, Pagliarelli, Palermo Centro, Borgo Vecchio, Uditore, Borgo Molara Monreale, San Giuseppe Jato, San Cipirello, San Mauro Castelverde e Termini Imerese. I carabinieri hanno pure identificato i presunti responsabili di numerose estorsioni ad attività imprenditoriali e commerciali, confermando ancora l’importanza vitale che il pizzo ha per l’organizzazione. C’é pure l’ennesima conferma sugli interessi della mafia nell’esecuzione di appalti pubblici e privati e sono stati acquisiti elementi che provano l’attuale interesse di Cosa nostra nel traffico internazionale di droga.

Ferrara: carcere nuovo e abbandonato "cattedrale nel deserto"

 

Il Resto del Carlino, 17 dicembre 2008

 

Menegatti: "Monumento allo spreco di denaro. Quattro anni fa vennero il Gabibbo e i parlamentari, ma da allora nulla è stato fatto".

Non è stato sufficiente il rosso Gabibbo. L’interessamento, quattro anni fa, almeno dichiarato con tanto, per alcuni di loro di visita all’interno dei parlamentari, diversi dei quali "ex", Rosella Ottone, Alfredo Sandri, Alberto Balboni, Mauro Fabris, Claudio Petruccioli e Dario Franceschini a trovare una soluzione per il carcere di Codigoro che sempre più esprime, a chi lo vede passandoci di fronte, uno spreco di danaro pubblico incomprensibile.

"Mentre in tutt’Italia - spiega il segretario comunale dell’Udc, Paolo Menegatti - le carceri scoppiano nel nostro comune ne abbiamo uno che non è stato possibile completare ad oltre vent’anni dall’inizio dei lavori. Avevo accompagnato personalmente gli onorevoli i quali avevano espresso il loro interessamento per completare questa cattedrale nel deserto ma, seppur molti di loro oggi rivestano un ruolo di grande prestigio nel panorama nazionale nulla è cambiato".

"Spiace - continua l’esponente politico - che a tutta questa situazione di spreco, senso di abbandono si potrebbero aggiungere una beffa finale a carico del comune di Codigoro per la sentenza di condanna del Tribunale di Ferrara verso l’ente locale che potrebbe dover pagare oltre trecentomila euro, a cui si aggiungerebbero gli interessi, le rivalutazioni e le spese legali, alla ditta che, nel 2001, eseguì stati di avanzamento non riconosciuti dall’allora giunta municipale".

Lo stato di grande vergogna in un momento di contenimento delle spreco di danaro pubblico è suscitato dal vedere, come si evince dalle foto effettuate quattro anni fa, come vi fossero già le cucine pronte, i termosifoni, le porte, gli impianti che stanno miseramente continuando a deteriorarsi. Era stata lanciata anche l’idea, dal ministero, di dare in permuta il carcere di Codigoro alla ditta che avrebbe costruito una nuova struttura in un altro luogo dove il completamento di un carcere era considerato prioritario, ma anche questa strada fallì miseramente.

"Inutile sottolineare che alla luce di tutto questo sembra allontanarsi la prospettiva - conclude Menegatti - di una positiva conclusione riguardo le sorti del manufatto, divenuto oramai solido punto di riferimento nella particolare cartina dei monumenti italiani allo spreco di danaro pubblico e sul quale la parte trasmessa da Striscia la Notizia con Totò che urla e io pago sembra perfetta immagine".

Firenze: Poretti (Radicali); nell’Opg la situazione è intollerabile

di Donatella Poretti

 

Il Tirreno, 17 dicembre 2008

 

Direttamente dall’Opg ci scrivono gli internati con un telegramma: "Caldaia scoppiata, manca acqua calda e riscaldamento da 9 giorni; no cambio lenzuola da 17 giorni; chiedi stufette Protezione Civile. Guasti continui, chiedi inagibilità al Provveditorato, Assessore Rossi, Direttore generale Asl 11 Empoli Dott. Porfido. Responsabile unico disastro Dott. Franco Scarpa. Stiamo congelando. L.G."

Prima è arrivata la denuncia del Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze, Franco Corleone, per lettere ricevute in merito a possibili pestaggi e violenze fisiche da parte di agenti di polizia penitenziaria su alcuni internati nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino (Fi). Poi quelle sui disagi per sovraffollamento o mancanza, per diversi giorni, di acqua calda e riscaldamento. A distanza di diverse settimane è la Asl a certificare la inagibilità della struttura: "Sovraffollamento e precarietà delle condizioni igienico-sanitarie, fattori che rendono difficile, se non impossibile, il pieno svolgimento delle funzioni sanitarie". Queste le ragioni che hanno spinto il direttore dell’Asl 11 di Empoli, Eugenio Porfido, a scrivere una lettera al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria chiedendo di bloccare l’invio di altri detenuti all’Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo.

Attualmente l’Opg ospita circa 190 detenuti-pazienti, mentre la capienza dei reparti è di circa la metà. In molte camere da 4 posti, spiega una nota della Regione Toscana, sono stati sistemati anche 7 o 8 letti, mentre camere singole sono state trasformate in camere doppie. Lavori di ristrutturazione interrotti.

Dopo avere fatto una interrogazione e chiesto una ispezione ministeriale sul mio blog si sono susseguiti interventi e denunce su violenze istituzionali sia negli Opg che nelle carceri più in generale, con testimonianze di ex internati e di medici penitenziari.

Mi auguro che dal caso di Montelupo si abbia la forza per intervenire sulla questione degli OPG, che nonostante il nome rassicurante di ospedali, sono in realtà carceri, dipendono dal Dap, hanno agenti penitenziari e regole come gli istituti penitenziari, in palese contraddizione con la prioritaria salute delle persone internate che, proprio perché ritenute incapaci di intendere, sono fuoriuscite dal sistema giudiziario e dopo esser state ritenute non imputabili, con una perizia psichiatrica che ne attestasse anche la pericolosità sociale, sono state internate.

 

Interrogazione al ministero della Giustizia

 

Premesso che in data 28 novembre veniva resa nota la notizia di una denuncia da parte di Franco Corleone, Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze, di pestaggi e violenze fisiche da parte di agenti di polizia penitenziaria su alcuni internati nell’O.p.g. di Montelupo Fiorentino (Fi), ma anche disagi a causa del sovraffollamento o della mancanza, per diversi giorni, di acqua calda e riscaldamento. Informazioni che Corleone avrebbe appreso tramite lettere a lui indirizzate, in qualità di Garante, da due internati dell’Opg.

lo stesso Corleone non esclude l’interessamento della Magistratura ordinaria su questa vicenda e chiede l’intervento della Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e l’avvio di un’indagine interna.

Si chiede se il ministero è a conoscenza dei fatti e se non intenda aprire una indagine; se il ministero non intenda più in generale intervenire sulla questione degli Opg, che nonostante il nome rassicurante di ospedali sono in realtà carceri, dipendono dal Dap, hanno agenti penitenziari e regole degli istituti penitenziari, in palese contraddizione con la prioritaria salute delle persone internate che proprio perché ritenute incapaci di intendere sono fuoriuscite dal sistema giudiziario e dopo esser state ritenute non imputabili, con una perizia psichiatrica che ne attestasse anche la pericolosità sociale sono state internate.

Sassari: morì soffocato in cella di isolamento, chiusa l'inchiesta

 

La Nuova Sardegna, 17 dicembre 2008

 

Della sua fine in una cella di isolamento si era occupata anche l’associazione Antigone, che si batte per i diritti dei detenuti, chiedendo che la magistratura facesse chiarezza al più presto. Un anno dopo arriva la risposta: non c’è nessun mistero dietro la morte di Marco Erittu. "Asfissia meccanica prodotta mediante impiccamento incompleto compatibile con una dinamica suicidiaria". Questo il responso del medico legale che un anno fa eseguì l’autopsia.

Un parere che, unito alle numerose testimonianze, ha convinto il sostituto procuratore Giovanni Porcheddu a chiedere al Gup di archiviare l’inchiesta senza indagati aperta, il 18 novembre 2007, dopo il ritrovamento del corpo senza vita di Erittu in una cella di isolamento priva di suppellettili e dotata solo di due coperte.

Fine misteriosa di un personaggio, il quarantenne sassarese Marco Erittu, dalla vita turbolenta e protagonista di clamorosi annunci. Il suo nome era entrato anche nella inchiesta sulla scomparsa del ventenne di Ossi Giuseppe Sechi. Erittu aveva detto di conoscere la soluzione del giallo, ma non aveva aggiunto niente di interessante. Logico, da parte della magistratura, sospettare che qualcuno potesse aver pianificato la sua eliminazione. Da qui l’inchiesta. Era stata soprattutto la posizione del corpo ad attirare l’attenzione degli inquirenti. Erittu era disteso in posizione supina sul pavimento: un lembo della coperta gli avvolgeva il capo, leggermente sollevato rispetto al corpo, mentre l’altro capo era legato alla spalliera del letto.

L’uomo aveva la bocca piena di brandelli di una delle due coperte che gli erano state date, nel pomeriggio, dagli agenti per proteggersi dal freddo. Marco Erittu era in una cella di isolamento perché si era procurato numerose ferite superficiali con una lametta. Era successo spesso, in passato, che il detenuto si facesse male di proposito e anche che tentasse il suicidio. Gesti che venivano considerati solo dimostrativi.

La decisione di chiuderlo in una "cella di contenzione" era stata presa dalla polizia penitenziaria per prevenire nuovi gesti di autolesionismo. Impossibile quindi, per i compagni di detenzione, raggiungere Erittu in quel locale. Il sostituto procuratore ha scritto al Gup che la pista della vendetta interna non ha trovato conferme né riscontri. Quando venne soccorso dagli agenti in servizio, il detenuto sassarese era agonizzante.

Il pm ha escluso omissioni o distrazioni da parte della polizia penitenziaria. I collaboratori del magistrato hanno infatti accertato che quel giorno, preoccupati per le condizioni di nervosismo del detenuto, gli agenti di turno controllavano ogni quindici minuti che Marco Erittu stesse bene. Ma i controlli erano stati intensificati dopo che, nel tardo pomeriggio, Marco Erittu aveva scagliato i contenitori della cena fuori dalla cella. Secondo il magistrato, il detenuto potrebbe avere tentato l’ennesimo atto dimostrativo di autolesionismo ma sarebbe soffocato per le sue precarie condizioni fisiche. La richiesta di archiviazione è ora all’esame del gip che deve decidere se accoglierla o meno.

Pordenone: ex caserma esercito può diventare il nuovo carcere

 

Messaggero Veneto, 17 dicembre 2008

 

Dopo la presa di posizione a favore dell’ex caserma Dall’Armi di San Vito come sede del carcere provinciale da parte del presidente del consiglio regionale, il leghista Edouard Ballaman, arriva a sostegno di questa soluzione un’altra voce autorevole, ma dalla sponda politica opposta, quella del ministro-ombra della Giustizia del Pd, Lanfranco Tenaglia.

Il deputato è intervenuto ieri alla conferenza "Giustizia: un servizio per il cittadino, un’infrastruttura per il paese", organizzata dal circolo sanvitese del Pd. Al centro del dibattito le proposte in campo per le riforme sulla giustizia, sfiorando però anche le questioni locali. Parlando del sistema carcerario ("Essenziale che funzioni per l’effettività della pena, vanno aumentati i fondi per costruire nuove carceri"), non ha mancato di indicare la Dall’Armi come "un’opportunità che il ministro Alfano deve cogliere".

A margine dell’incontro ha poi rimarcato come l’iniziativa del Comune di San Vito di mettere a disposizione questa struttura sia "importante e dev’essere ripresa dal ministro, perché consentirebbe allo stesso tempo un carcere moderno e una soluzione più economica di quella di Pordenone". Su come organizzarlo, infatti, Tenaglia si era espresso per il modello "carcere-recinto", indicato quindi anche per un’eventuale scelta sanvitese, al contrario del "carcere-fortino": in sostanza di una struttura che comprenda, oltre a quelli di reclusione (le celle), anche spazi in comune dove i detenuti possano svolgere attività di recupero a favore del reinserimento sociale. Su questo tema l’assessore Antonio Di Bisceglie ha ricordato "la disponibilità offerta dal Comune per la soluzione di un problema di carattere provinciale, con l’invito al ministero a prenderla in considerazione".

Il ministro-ombra ha tessuto le lodi della sezione staccata del tribunale di Pordenone, presente a San Vito dal 1998, visitata nel pomeriggio. "Un modello organizzativo che mi ha colpito e che va esportato - ha osservato - in quanto risponde alle esigenze dei cittadini. È tra le realtà positive che vanno diffuse".

Durante l’incontro, Tenaglia si è soffermato in particolare sul "conflitto d’interessi del premier, la ragione del mancato ammodernamento in tutti questi anni", e sul "bullismo dilagante della maggioranza: non accetteremo mai soluzioni alle quali non abbiamo contribuito con un confronto alla luce del sole in Parlamento". Attenzione, ancora, ad aspetti come equilibrio dei poteri, organismi di controllo, tempistica dei processi, collaborazione e rispetto tra istituzioni. Un dialogo tra tutte le parti è condizione necessaria, secondo Tenaglia, per apportare le modifiche alla giustizia o consolidare quelle già avvenute negli ultimi anni.

Massa: i detenuti lavorano come falegnami, sarti e carpentieri

 

Secolo XIX, 17 dicembre 2008

 

È un carcere controcorrente in cui i detenuti trascorrono ore lavorando come falegnami, carpentieri in ferro, sarti, dove si fila il cotone e la lana per ricavarne lenzuola, coperte, accappatoi destinati alle altre case di reclusione italiane. È un carcere speciale ma non nel senso che il codice di procedura penale gli attribuisce, intendendo strutture dedicate ai detenuti a più alto contenuto di pericolosità criminale.

È speciale, il carcere di Massa, perché il direttore, Salvatore Iodice, crede fermamente nel recupero dei condannati e nella funzione riabilitante del lavoro. I cinquemila metri quadrati di capannoni all’interno della cinta carceraria sono stati trasformarti a officine e laboratori dove, accanto ai detenuti operano talvolta anche soggetti liberi, e persino ditte che hanno accettato di impiantare la loro produzione all’interno del carcere, che risale al lontano 1939 - dunque al culmine del consenso popolare al regime fascista - ed evidentemente fu concepito traguardando a qualcosa di diverso dal semplice reclusorio. Non fosse per la costruzione di un edificio carcerario bloccato da un irrisorio stanziamento non erogato (una delle ordinarie storie italiane di burocrazia) si potrebbe parlare di carcere modello.

Quando sarà agibile il nuovo padiglione altri cento posti si aggiungeranno agli attuali 150. La casa di reclusione rientra nella giurisdizione del distretto della corte d’Appello di Genova e dunque è un carcere "ligure", seppur collocato in territorio toscano. Lunedì, il designatore arbitrale Pierluigi Collina è stato ospite della struttura e ha parlato di calcio e passione, ricordando come il rispetto delle regole sia essenziale, dentro e fuori dal mondo dello sport.

Salvatore Iodice, il direttore, sostiene che l’invocata e promessa riforma della giustizia risulterebbe monca se non affondasse il bisturi anche nel sistema carcerario. E ci mette il carico da undici. "Costruire nuove carceri? Non sono d’accordo. Si dovrebbe, semmai, incarcerare meno, utilizzare il sistema repressivo come ultima ratio e studiare misure alternative alla detenzione.

L’indulto? Acqua che non toglie la sete. Era un provvedimento necessario ma adesso siamo punto e daccapo. Le carceri italiane sono stracolme, non si può invocare il rispetto della dignità delle persone e poi stivarle come sardine nelle celle. Il carcere in Italia è e rimane un’istituzione destinata ai poveri. Il nostro codice è garantista ma solo per chi ha i soldi per pagarsi dei buoni avvocati".

Ascolta la sua accorata perorazione Roberto Cassinelli il deputato genovese del Pdl che prosegue col Secolo XIX la visita delle carceri liguri. "Indubbiamente occorre studiare misure diverse per coloro che entrano ed escono dal carcere. - osserva Cassinelli - Col sistema odierno, fatalmente il numero dei detenuti è destinato a crescere, facendo scoppiare gli istituti di pena. Il ministro Alfano ne ha discusso a varie riprese con la commissione Giustizia della Camera di cui faccio parte. Ritengo abbia allo studio soluzioni per risolvere il problema".

Padova: i detenuti al Due Palazzi producono 30mila panettoni

 

Il Mattino di Padova, 17 dicembre 2008

 

Al carcere Due Palazzi decine di detenuti vorrebbero lavorare nel laboratorio di pasticceria, oppure nel call-center, o anche nel reparto di valigeria e gioielleria gestiti dal Consorzio Rebus. Ma i posti sono limitati, e per entrare la selezione è dura.

Non è sufficiente rigare dritto e avere le carte in regola, bisogna anche partecipare ai corsi di formazione ed essere pronti a lavorare sodo. Solo quest’anno sono stati circa 170 i colloqui con i reclusi e 71 i detenuti coinvolti nei corsi di ristorazione e giardinaggio, la porta principale per mettere piede nei laboratori ormai famosi in tutta Italia e, una volta usciti di cella, avere la chance di un lavoro stabile.

"Chi esce dalla prigione senza aver lavorato, nel 90% dei casi torna a delinquere", spiega Nicola Boscoletto, presidente del Consorzio Rebus "fra chi invece affronta un lavoro vero i recidivi sono appena l’1%. Certo che in tutta Italia i detenuti che lavorano con le cooperative sono 747, su un totale di oltre 53 mila. Una goccia, che sta comunque crescendo, visto che un anno fa i lavoratori-detenuti erano 647.

E Padova si conferma leader, con 20 nuovi inserimenti solo quest’anno e circa un centinaio di persone impegnate tutti i giorni, di cui il 59% sono stranieri, divisi fra 20 nazionalità diverse. Ma siamo solo all’inizio". Gli affari vanno a gonfie vele, nonostante la crisi si sia fatta sentire costringendo il consorzio a chiudere il reparto di assemblaggio dei manichini. "Siamo un’impresa sociale che deve fare i conti con il mercato", continua Boscoletto "e quando i conti non tornano bisogna chiudere.

Il settore pasticceria invece sta conoscendo un boom: solo con i panettoni abbiamo superato quota 30 mila dai 13.500 dello scorso anno. Poi abbiamo avviato un’interessante collaborazione con Infocert per la lavorazione delle "pen drive" con la firma digitale. Infine, è partita la sperimentazione delle ruote in gomma, sulle quali crediamo molto". E come regalo di Natale decine di detenuti hanno assistito, giovedì, al concerto di Lou Marini, sassofonista dei Blues Brother che, come nel mitico film, si è esibito dietro le sbarre. Stavolta per davvero.

Vicenza: l’Ulss si fa carico dell’assistenza sanitaria ai detenuti

di Franco Pepe

 

Giornale di Vicenza, 17 dicembre 2008

 

Si gira pagina. Passa all’Ulss 6 l’assistenza sanitaria del carcere di S. Pio X. Anche i detenuti diventano utenti del Servizio Sanitario Nazionale.

La Casa Circondariale di Vicenza, sotto l’aspetto sanitario, è ora un reparto extraospedaliero, un servizio territoriale alle dipendenze del coordinamento dei distretti. La sua sigla è Uosp, che significa Unità operativa di sanità penitenziaria. Ad essa compete la gestione del personale e delle attività all’interno dell’istituto di pena.

Il passaggio di competenze e consegne è avvenuto il primo di ottobre, in base a un decreto del presidente del consiglio, che, in pratica, ha posto la parola fine alle funzioni sanitarie del dipartimento carcerario per girarle alle Regioni, le quali, a loro volta, si avvolgono, dal punto di vista operativo, delle aziende sanitarie nel cui territorio si trovano le case di reclusioni. All’Ulss 6 è, quindi, transitata tutta l’organizzazione prima in mano all’amministrazione penitenziaria, a cominciare dal personale che lavora a S. Pio X, ora trasferito d’ufficio all’azienda vicentina, la quale avrà tempo un anno, dopo questa prima fase di "assestamento", per assumerlo nei ruoli del Ssn.

Il discorso riguarda il responsabile sanitario del carcere Salvatore Di Prima e i 7 medici di guardia prima dipendenti del ministero della giustizia con contratti a tempo determinato, che assicurano l’assistenza medica 24 ore su 24 per 7 giorni la settimana.

Ma ci sono anche gli specialisti convenzionati - vale a dire un cardiologo, uno psichiatra, un oculista, un cardiologo, un ortopedico e un chirurgo-, che operano come liberi professionisti in ambulatori interni. E c’è poi l’assistenza infermieristica, effettuata durante la giornata, da una cooperativa.

L’Ulss dovrà non solo sistemare e pagare medici e infermieri, ma anche gestire i locali e le attrezzature per l’assistenza dei detenuti all’interno di S. Pio X, e comprare farmaci, presìdi sanitari, materiale per le medicazioni. Di tutta questa non semplice operazione si sta interessando il coordinatore dei distretti Giovanni Crestanello, in presa diretta con il direttore generale Alessandri e il direttore sanitario Fantuz. Di fatto si conclude una fase sperimentale iniziata, in ambito nazionale, nel 2001.

La stessa Ulss 6 operava da tempo nel carcere di S. Pio X con il Sert, il servizio per le tossicodipendenze diretto da Vincenzo Balestra, e con alcune consulenze specialistiche. Adesso, però, si lavorerà a 360 gradi, anche se l’adeguamento, per forze di cose, sarà progressivo. "Fino a che la Regione non ci darà altre indicazioni - spiega Crestanello - manterremo le modalità di assistenza in atto, che sono per lo più diversi da quelli comunemente assicurati dal Ssn, come sono diversi gli aspetti clinici e medico-legali rispetto agli utenti normali". Con una difficoltà in più: il problema aperto è il sovraffollamento della casa circondariale di Vicenza, che ospita 320 detenuti, un numero che dilata la soglia di attenzione igienica, aggrava i problemi psichiatrica, e moltiplica il pericolo di infezioni.

Napoli: tangenti; industriale in carcere e 2 assessori agli arresti

 

Ansa, 17 dicembre 2008

 

È in carcere l’imprenditore Alfredo Romeo, coinvolto nell’indagine sulla delibera Global service, approvata dal Comune di Napoli. Altre 12 persone sono invece agli arresti domiciliari: tra essi due assessori della giunta comunale di Napoli, due ex loro colleghi e un ex provveditore alle opere pubbliche. Ci sono anche due parlamentari in carica tra le persone coinvolte.

Secondo quanto appreso, i parlamentari coinvolti, nei confronti dei quali saranno presentate alla Camera di appartenenza eventuali richieste da parte della Procura, sono uno di maggioranza e uno di opposizione.

L’operazione è stata condotta dalla Dia e dai Carabinieri di Caserta, che hanno eseguito le ordinanze cautelari firmate dal Gip di Napoli, che ha accolto le richieste della Direzione distrettuale antimafia napoletana, guidata dal procuratore Franco Roberti.

Tutte le persone raggiunte dalle misure cautelari sono accusate, a vario titolo, di associazione per delinquere finalizzata alla turbativa degli appalti, abuso d’ufficio e corruzione. Nel provvedimento Global service era compreso l’affidamento di appalti relativo a manutenzione delle strade e del patrimonio pubblico, nonché la gestione di mense scolastiche.

Como: Olindo Romano e Rosa Bazzi trasferiti, separatamente

di Felice Manti

 

Il Giornale, 17 dicembre 2008

 

Separati. Lontani, lontanissimi. Lei a Vercelli, Piemonte. Lui a Piacenza, Emilia-Romagna. Olindo Romano e Rosa Bazzi, condannati per la strage di Erba all’ergastolo con isolamento diurno dal Tribunale di Como non si vedranno più, almeno per un bel po’. Lo ha deciso la Direzione generale detenuti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) guidata da Sebastiano Ardita, "investita" del caso dopo che il provveditore regionale del Dap lombardo, Luigi Pagano, non ha trovato un carcere adatto nonostante le ipotesi circolate nei giorni scorsi (Bollate) e le rassicurazioni sui tempi di trasferimento. E soprattutto a dispetto del parere di psicologi e psichiatri del "Bassone" di Como, secondo i quali i due, separati, sono a rischio suicidio.

"Saranno sorvegliati a vista e avranno il massimo del sostegno psicologico ma - dicono ambienti del Dap - ciò non giustificava trattamenti di favore. Rosa e Olindo continueranno a incontrarsi secondo quanto previsto dall’ordinamento penitenziario". Non più una volta a settimana, come succedeva ogni giovedì a Como, ma "circa una volta al mese". Sono le stesse regole, precisa il Dap, valide per centinaia di coniugi detenuti.

Una spiegazione che non va giù agli avvocati difensori di Olindo e Rosa. Fabio Schembri parla di "situazione machiavellica all’italiana". "Non capisco - ha spiegato - per quale ragione siano stati trasferiti. Vero è che il diritto di colloquio è costituzionalmente assicurato, ma non vorrei che sorgessero dei problemi riguardo a chi debba portarli da un carcere all’altro".

È andato giù duro invece Enzo Pacia: "È un provvedimento disumano, sconsiderato e pericoloso per l’incolumità dei coniugi - dice al Giornale - manca solo che qualcuno approfitti della situazione per estorcere l’ennesima confessione, da pubblicare su qualche giornale. Porterò la vicenda alla Corte europea di Giustizia". Secondo il legale comasco, che cita un passaggio della Bibbia scritta in carcere da Olindo, "l’uno o l’altro volerà volontariamente nel regno dei morti".

La coppia non ha saputo della separazione fino all’arrivo nei due penitenziari. Quando intorno alle 13 i due sono saliti separatamente su due furgoni della polizia penitenziaria non hanno né pianto, né urlato. Convinti, probabilmente, che si sarebbero rivisti di lì a poco. Una volta giunta al carcere di Vercelli intorno alle 15, però, Rosa, da quanto si apprende, non vedendo il cellulare con il marito, avrebbe chiesto: "Dov’è l’Olindo? Quando potrò vederlo?". Una domanda che sarebbe stata ripetuta in "maniera ossessiva" agli agenti del penitenziario piemontese, famoso negli anni ‘70 per aver "ospitato" (insieme) Doretta Graneris e Guido Badini, i "fidanzati maledetti" di Vercelli che nel ‘75 sterminarono cinque persone per un’eredità. La risposta le verrà data oggi dal direttore del carcere Antonino Raineri "con tutte le cautele del caso per evitare qualsiasi contraccolpo psicologico".

Rosa sarebbe già stata visitata dal medico dell’istituto e a giorni incontrerà psicologici e psichiatri. È rinchiusa in una cella singola, guardata a vista dalle guardie, isolata dalle altre detenute. Ignare del suo arrivo, seppure per poche ore. Nell’altra ala del carcere, ironia della sorte, c’è anche il fratello di Azouz Marzouk, il tunisino cognato di Raffaella Castagna e zio di Youssef, due delle quattro vittime della strage di Erba. Anche lui, oggi, verrà trasferito in un altro carcere. Perché tra le sbarre le notizie viaggiano velocissime.

Medio Oriente: liberati 227 detenuti palestinesi, ma non basta

di Enrico Campofreda

 

Aprile on-line, 17 dicembre 2008

 

227 palestinesi rimessi in libertà dal governo d’Israele non sono pochi, eppure non sono sufficienti. L’isolamento di Gaza resta immutato e da situazioni esplosive non possono che scaturire nuove deflagrazioni

Duecentoventisette liberazioni non sono poche anche se nelle carceri d’Israele restano oltre diecimila palestinesi militanti di Fatah e Hamas. Perciò se da una parte il ministro Ashraf al Ajrami ha salutato il ritorno a casa di tanti giovani, dall’altra ha sottolineato che queste sono iniziative unilaterali d’Israele che ignora le domande dei rappresentanti palestinesi.

Il governo di Gerusalemme non crea insomma un dialogo per concertare le liberazioni che tutt’al più piovono dall’alto, come le troppe incarcerazioni e detenzioni assolutamente arbitrarie, avvenute senza incriminazioni o prove relative a fatti di sangue. Del resto quella di ieri, che naturalmente è stata accolta in maniera festosa nelle città e nei villaggi della Cisgiordania, è l’ennesima apertura di Israele - con supervisione statunitense - verso Abu Mazen ora che s’avvicina la fine d’un mandato (il 9 gennaio prossimo) che lui vorrebbe proseguire per l’intero anno venturo per preparare le future elezioni.

Invece Hamas inizia a lanciare avvertimenti sulla necessità di regolarizzare le rappresentanze e dopo aver festeggiato domenica a Gaza il 21° anniversario della sua fondazione (avvenuta durante la prima Intifada) con una manifestazione di massa militante e armata, tramite di suoi esponenti di spicco ha ricordato che non intende rinnovare la tregua nella Striscia di Gaza. Lo hanno dichiarato Khaled Mechaal dall’esilio di Damasco e Ismail Haniyeh dal territorio controllato da Hamas, anche se quest’ultimo ha soprattutto sottolineato come il nemico israeliano prosegue la sua linea aggressiva verso i palestinesi. Il problema primario per il milione e mezzo di palestinesi di Gaza restano gli approvvigionamenti, dopo il vergognoso embargo operato da Unione Europea e Stati Uniti e la chiusura dei passaggi ufficiali verso l’Egitto (che portarono nel gennaio scorso al gesto clamoroso dello sfondamento della frontiera di Rafah da parte di decine di migliaia di persone affamate), la vita nei 360 km quadrati di Gaza resta difficilissima. Le emergenze igienico-sanitarie e alimentari sono all’ordine del giorno.

Sul futuro di quel territorio l’attuale governo israeliano è diviso e contraddittorio. Per un ministro degli esteri come la purista della razza Livni, che dichiara di non poter accettare che Gaza resti sotto il controllo di Hamas, c’è un Barak (ministro della difesa) molto più pacato sapendo che interventi militari comportano altissimi rischi sul piano politico. Lo stesso Olmert vorrebbe che la situazione pacifica (seppure a novembre ci siano stati lanci di razzi Qassam verso Israele ma senza vittime) potesse proseguire gettando acqua sul fuoco di chi accusa l’Iran di servirsi di Hamas e dell’esplosiva situazione a Gaza per inserire lì direttive e orientamenti propri. Sulla tregua Hamas nelle passate settimane era stata perentoria: poteva proseguire solo se la morsa che stritola quella terra fosse cessata. Invece l’isolamento di Gaza resta immutato e da situazioni esplosive non possono che scaturire nuove deflagrazioni.

Sulle condizioni di vita del popolo palestinese e sullo stato di reclusione di troppi suoi rappresentanti passa un pezzo di rapporti fra le varie componenti. Un punto che ammorbidirebbe Hamas - che non ha mai escluso a priori trattative - può essere il rilascio di propri militanti incarcerati. È una questione su cui lo Stato ebraico non recede considerando quei resistenti dei terroristi inseriti nelle "liste nere" lanciate dalla politica estera del Pentagono. Prigionieri restano anche quaranta parlamentari palestinesi come Abdel Aziz Dweik e leader carismatici del calibro di Marwan Barghouti e Ahamad Sàadat.

Soprattutto Barghouti, 49 anni, undici trascorsi finora in galera in due tranche, arrestato nel 1978 e poi nel 2002 col blitz dei Servizi a Ramallah (uno dei più illustri episodi di sequestro, che fra l’altro getta ombre sulla stessa Anp) è un politico acculturato e capace. Appartiene alla componente laica che dialoga con gli islamici ed è da loro ascoltato. La sua figura sarebbe stata certamente prestigiosa per il dopo Arafat già nelle elezioni di quattro anni or sono, ma è un uomo scomodo per i giochi pro Israele che da sempre gli Stati Uniti attuano nella martoriata regione Mediorientale.

L’integerrima campagna sostenuta dal capo dei Tanzim a metà anni Novanta contro la crescente corruzione di Fatah (che lo aveva visto in polemica contrapposizione anche al capo storico) e di smascheramento degli accordi di Oslo, lo hanno caratterizzato agli occhi dell’Occidente parasionista come un elemento pericoloso. Invece lui con ragionamenti del tipo: "Abbiamo tentato la strada dell’Intifada per sette anni, senza negoziare; poi abbiamo negoziato per sette anni, senza Intifada. Ora, forse, dobbiamo tentarle entrambe contemporaneamente" ha acquistato credito e popolarità enormi. Anche per questo la sua dipartita politica è piaciuta a Gerusalemme e probabilmente anche a Ramallah.

Israele lo accusa di cinque omicidi, un alibi perfetto per farlo invecchiare in galera. Eppure il governo Olmert, o chi a febbraio lo sostituirà, e il nuovo corso di Obama dovranno considerare che lo spazio per nuovi acquiescenti Abu Mazen si restringono sempre più. E poiché i palestinesi eleggono i leader di Hamas, e i pronunciamenti elettorali le democrazie borghesi si vantano di rispettarli, dovranno interloquire coi tanto demonizzati Khaled Mechaal. O rimettere in gioco uomini come Barghouti. Forse per il dialogo tertium non datur.

Senegal: condannati a due anni di carcere perché omosessuali

 

www.sabatoseraonline.it, 17 dicembre 2008

 

"Quando la polizia ha fatto irruzione ho pensato ad un’aggressione. Sono entrati urlando e accusandomi di pedofilia, hanno perquisito gli armadi e i cassetti, cercando foto compromettenti ma non hanno trovato nulla. Poi hanno trovato i documenti di Moustapha in cui vi era scritto "sposato con Richard L".

Questo li ha resi euforici, era la prova che cercavano, Ci hanno ammanettati davanti a tutto il vicinato. Siamo rimasti nelle celle del commissariato per quattro giorni, senza mangiare, senza poterci lavare, sdraiati sul pavimento tra scarafaggi e zanzare. Di notte sparavano la musica a tutto volume per non farci dormire. Ad agosto, in un caldo infernale".

Questo il racconto di Richard da Bruxelles, dove sta cercando di riprendersi dopo quattro mesi di detenzione nelle carceri senegalesi. Condannato in quanto omosessuale. Tutto era iniziato quando Richard, 61 anni, e Moustapha, 63, erano tornati dal Belgio dopo il matrimonio e la dolorosa operazione di Richard.

"Tornati da Bruxelles ci siamo accorti che il ragazzo che doveva prendersi cura della nostra casa di Dakar l’aveva trasformata in un sorta di night club. Per questo l’ho licenziato e lui, per ripicca, è corso alla polizia della Medina per comunicare che il suo padrone era una checca".

Al termine del quarto giorno, i due sono finalmente stati interrogati. "I poliziotti hanno modificato i dati al computer per mostrare che non fossero passate più di 72 ore dal nostro arresto e hanno incominciato a chiederci quanti rapporti omosessuali avevamo consumato. Io ho provato a spiegarli che non era fisicamente possibile che avessimo avuto rapporti dal nostro ritorno dal Belgio, perché ero appena stato operato ai testicoli, ma la cosa non li ha minimamente turbati".

Nella lettera Richard descrive nei dettagli i problemi di salute che gli hanno impedito di avere rapporti sessuali tra il giorno del loro ritorno in Senegal, il 19 luglio e il loro arresto del 15 agosto. Ve li risparmiamo, ma come ha brillantemente sintetizzato Richard "niente sesso, né davanti né di dietro". I due sono stati quindi rinviati a giudizio. "Il mio avvocato ha fatto notare che le procedure di arresto non erano legali, ma il giudice non l’ha fatto neanche finire. Ha scherzato durante tutta l’udienza facendosi grasse risate chiedendo chi era l’uomo e chi la donna tra me e Moustapha. Il mio avvocato ha provato a spiegare che non c’erano prove, testimoni, nulla di nulla, ma non è stato ascoltato. "Se vi siete sposati in Belgio siete omosessuali e quindi avete compiuto l’atto sessuale. Se l’avete compiuto siete colpevoli. Due anni di carcere, si passi al prossimo caso". Fine della farsa".

Moustapha e Richard sono così finiti in carcere a Rebeuss. "Io sono stato messo in quarantena mentre Tapha è stata messo in una cella collettiva, a convivere con gli scherzi e gli insulti degli altri detenuti. Ha dovuto cambiare cella più volte, fino a che non ho protestato con il direttore che si è limitato a rifilarmi un discorso moralizzatore: "Lo sapete, nella nostra religione è considerato un crimine molto grave etc.". Intanto nella sezione dove mi trovavo io un cretino di imam non smetteva di aizzare tutti contro di me, per fortuna ho fatto amicizia con un francese che se ne fregava e divideva con me il suo lauto pasto".

Successivamente, l’avvocato è riuscito a trasferire i due in un carcere con migliori condizioni detentive. Inizialmente Richard non ha ottenuto grande collaborazione dall’Ambasciata belga, ma non appena si sono mosse le organizzazioni per la difesa dei diritti umani, hanno accettato di andarlo a visitare in carcere e portargli del cibo. "Ho dovuto imporre che si occupassero anche di Moustapha. Non volevano farlo in quanto cittadino senegalese. Gli ho urlato che essendo sposato ad un belga non poteva fare finta di niente. Per cui, che trovassero il modo di fare arrivare anche a lui qualcosa da mangiare. Hanno accettato e improvvisamente Tapha ha trovato qualcuno desideroso di dividere il pasto con lui".

Richard, invece, ha iniziato a rifiutare il cibo dell’ambasciata e si è alimentato solo con quanto passato dalla direzione del carcere. Così ha perso 16 kg in due mesi, passando da 76 kg a 60. "Alla fine sono stati costretti a trasferirmi nel reparto penitenziario dell’ospedale Aristide le Dantec. Non è stato un grande miglioramento. Non avevo un letto, eravamo ammassati per terra, sempre tra gli scarafaggi. Una notte è morta la persona che dormiva nel letto vicino a me. il solo commento degli infermieri è stato "sei fortunato straniero, da domani avrai un letto anche tu".

Intanto avvocati, ambasciata e Ong premevano sulle autorità senegalesi perché liberassero Richard e Moustapha. Per fortuna il 6 dicembre era prevista la visita in Senegal della principessa Matilde, moglie del principe ereditario belga e le autorità hanno garantito che i due sarebbero stati liberati prima di quella data.

Così il 24 novembre i due sono stati rimessi in libertà dopo più di quattro mesi di carcere. "Appena liberi abbiamo chiamato amici e parenti e abbiamo finalmente mangiato un pasto decente. L’ambasciata ci aveva prenotato anche due stanze in un albergo, ma io l’ho fatta cambiare in una sola. Io e Tapha avevamo molte cose da discutere".

Richard ha quindi preso il primo aereo disponibile per il Belgio, mentre Moustapha è rimasto in Senegal per festeggiare la festa del Montone dell’8 dicembre. Attualmente Richard si trova ancora nella capitale belga, ma aspetta il primo volo economico per tornare da Moustapha in Senegal.

"Nonostante i timori dell’ambasciata, i vicini di casa senegalesi ci hanno accolto bene, ho potuto ristabilire la verità dei fatti e non ci hanno né lapidato né bruciato vivi. Devo ammettere, però, che il Senegal mi ha stufato. Di colpo mi è venuta voglia di fare un giro in Guinea Bissau. Questo mi permetterebbe di traslocare tutti i miei mobili in camion, senza perdere tutto. Ma bon, questa è un’altra storia".

Iran: impiccato 27enne; almeno 228 esecuzioni da inizio anno

 

Ansa, 17 dicembre 2008

 

Ieri un uomo di 27 anni è stato impiccato in Iran essendo stato riconosciuto colpevole di due omicidi. Lo rende noto il quotidiano Qods. Il condannato aveva ucciso un altro giovane 2 anni fa durante una rissa a Mashhad, nell’est del Paese. Una volta arrestato, aveva confessato un altro omicidio commesso in precedenza. Nel 2008 sono state messe a morte almeno 228 persone. Amnesty International fa sapere che nel 2007 ci sono state in Iran 317 esecuzioni capitali.

 

 

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