Rassegna stampa 28 agosto

 

Giustizia: Ucpi appoggia Alfano; bozza riforma a Berlusconi

 

Il Velino, 28 agosto 2008

 

La maggioranza difende i capisaldi della riforma della giustizia anticipata dal Guardasigilli Angelino Alfano, mentre le forze di opposizione - capeggiate dai dipietristi di Italia dei Valori - bollano come "sterili annunci" quelli fatti martedì dal ministro davanti alla platea di Cl a Rimini e in un’intervista al Giornale.

Prosegue dunque il dibattito sul provvedimento che dovrebbe cambiare volto agli organi giudiziari italiani. Il governo, lo ha ripetuto lo stesso Alfano, è aperto al dialogo, ma vuole procedere spedito e in tempi brevi. Senza intralciare, ovviamente, le altre priorità autunnali, come il federalismo fiscale. Oggi il premier Berlusconi dovrebbe avere la bozza della riforma sulla scrivania. Si tratta di un unico disegno di legge costituzionale, che spazia dalla riforma del Csm, prevedendo l’estrazione a sorte dei magistrati destinati a farne parte, alla gestione dei processi, fino ad arrivare a una nuova regolamentazione che consenta di ridurre - o meglio ancora eliminare - gli sprechi di risorse migliorando le situazioni nei centri di detenzione. Sono "i primi lineamenti di una grande riforma liberale della giustizia, che l’Italia attende da lustri" commenta Daniele Capezzone, portavoce di Forza Italia, che invita il Partito democratico a non "perdere il treno", altrimenti dovrà "spiegare agli italiani che, per sterili ragioni di contrapposizione, non avrà voluto concorrere a un grande cambiamento".

Soddisfatto il Presidente dell’Unione delle camere penali, Oreste Dominioni: "Si tratta di iniziative che vanno nella direzione delle storiche battaglie dei penalisti italiani, che le auspicano da decenni. È importante, inoltre, che non si voglia intaccare l’indipendenza della magistratura, che è primario interesse degli avvocati". Nessuna novità sulla possibilità di introdurre l’elezione diretta dei giudici. Si potrebbe, spiega l’ex presidente della Consulta, Antonio Baldassarre, non sarebbe in contrasto con la Costituzione, ma è preferibile non farlo.

Giustizia: l’Anm boccia Alfano; pensi piuttosto alla sicurezza

 

La Repubblica, 28 agosto 2008

 

Il governo promette più sicurezza ai cittadini, ma pensa solo alla separazione delle carriere dei magistrati e non fa per nulla per la riforma del processo penale. Giuseppe Cascini, segretario dell’Associazione Nazionale Magistrati, boccia la riforma del sistema giudiziario che sta preparando il Guardasigilli Angelino Alfano.

Riforma che il ministro ha anticipato in un lunga intervista al Giornale e che dovrebbe illustrare oggi a Silvio Berlusconi a margine del Consiglio dei ministri. Il Cavaliere è rientrato nella capitale ieri sera e ha subito dato il via agli incontri per fare il punto sulla situazione. I primi a incontrare il premier a Palazzo Grazioli sono stati Gianni Letta, Umberto Bossi, Roberto Calderoli e il sottosegretario alle riforme Aldo Brancher. Probabile oggetto dell’incontro il federalismo fiscale e il suo percorso parlamentare.

In attesa del federalismo, le polemiche toccano il nodo della giustizia. Cascini, aspettando i testi per ragionare nel merito, attacca Alfano e osserva che "ad onta delle reiterate dichiarazioni di impegno del governo in materia di sicurezza, non si prevede alcun intervento per il funzionamento del processo penale, che invece è l’unico strumento utile per realizzare efficienza della giustizia e sicurezza". Il segretario dell’Anm è molto critico sulle finalità del governo. "L’unico argomento indicato dal governo - spiega Cascini - è la separazione della carriere tra giudice e pubblico ministero, intervento che ovviamente non potrà in nessun modo incidere sulla durata dei processi e sulla certezza della pena".

Dunque l’Anm non cede di un centimetro nelle critiche ai progetti governativi. Le toghe trovano anche l’appoggio di Oscar Luigi Scalfaro. "Parlo da magistrato: devo dire che la magistratura deve fare dei ripensamenti, ma non si può procedere a una riforma che abbia come principio l’ostilità nei confronti della legge e della giustizia" dice il presidente emerito della Repubblica.

L’elezione dei magistrati fa però discutere il centrodestra. Gaetano Pecorella è favorevole, il giudice emerito costituzionale Antonio Baldassarre contrario. E si litiga anche sull’indulto. Per il Guardasigilli è stato "un fallimento totale". Ma Niccolò Ghedini, forzista e avvocato del premier, fa sapere: "Io l’indulto l’ho votato e in quella situazione lo rivoterei, perché il carcere non è vendetta, ma anche rieducazione".

Giustizia: l’opposizione; ma Alfano fa politica di annunci sterili

 

Ansa, 28 agosto 2008

 

Dalla riforma del Csm alla semplificazione del processo civile. E poi, ancora, terzietà del giudice e obbligatorietà dell’azione penale, gestione della spesa, espulsione dei detenuti condannati a pene inferiori ai due anni, che attualmente sono 4.200. Sono alcuni dei punti in agenda per la riforma della Giustizia che il ministro Angelino Alfano sottoporrà al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Dialogo ma anche decisione, sottolinea Alfano: "Vedremo la capacità del Pd di essere autonomo rispetto alle posizioni dei magistrati", dice.

Braccialetto elettronico. Non si placano, intanto, le polemiche sull’utilizzo del braccialetto elettronico come alternativa alla detenzione in carcere: uno dei punti del "piano per le carceri" del Guardasigilli, che punta a decongestionare i sovraffollati istituti penitenziari.

Tenaglia (Pd): da Alfano sterili annunci. Il ministro ombra della giustizia del Pd Lanfranco Tenaglia considera invece la proposta di Alfano "sterile" e critica il progetto di riforma: "Continua da parte del centrodestra la politica degli annunci sterili sulla riforma della giustizia - afferma - senza specificare cosa e come si vuole riformare, che serve solo a mascherare le profonde divisioni nella maggioranza e a distogliere l’attenzione dai problemi veri del Paese. Nei primi mesi di legislatura - ricorda Tenaglia - il centrodestra si è occupato, con la norma blocca-processi e il lodo Alfano, solo di risolvere i problemi giudiziari del premier e non ha minimamente affrontato le ragioni vere della crisi della giustizia, che necessita di una riforma che le restituisca efficienza e rapidità nelle decisioni. Da questo occorre partire. Il Pd le sue proposte di riforma della giustizia le ha da tempo depositate in Parlamento - sottolinea Tenaglia - comprese quelle dirette a garantire l’effettività della pena e un trattamento carcerario più umano, e su queste invitiamo la maggioranza a confrontarsi senza imporre un metodo che prevede solo l’accettazione, senza condizioni, delle proposte che avanzerà la maggioranza di governo".

Donadi (Idv): riforma punitiva e su misura. Critico nei confronti della Riforma proposta da Alfano anche il capogruppo dell’Idv alla Camera, Massimo Donadi: "Nessun dialogo su una riforma della giustizia punitiva nei confronti della magistratura - dichiara - L’unica cosa che conta e che interessa ai cittadini è velocizzare i tempi dei processi, tutto il resto è su misura di Berlusconi e del Pdl. La riforma della giustizia - aggiunge Donadi - è troppo importante, incide sull’equilibrio tra poteri dello Stato ed approvarla senza un largo consenso sarebbe un colpo di mano contro i principi della democrazia. Faremo un’opposizione durissima per impedire lo scempio della giustizia italiana".

Giustizia: Moretti (Ugl); apprezziamo agenda ministro Alfano

 

Comunicato stampa, 28 agosto 2008

 

"Apprezziamo alcuni punti del programma sulla giustizia illustrato dal ministro Alfano perché si trovano in linea con le nostre proposte presentate in occasione di un incontro avvenuto a fine luglio". Lo sostiene il segretario nazionale dell’Ugl Polizia penitenziaria, Giuseppe Moretti, riferendosi in particolare "alla sperimentazione del braccialetto elettronico per i soggetti condannati a pene brevi e con scarsa pericolosità sociale" e "alla possibilità di riportare nelle carceri del Paese d’origine i condannati che devono scontare una pena definitiva". Secondo il sindacalista "la nazionalizzazione della detenzione per gli stranieri comunitari può rappresentare un passo decisivo per il superamento di problemi cronici.

Basti sapere che la loro presenza nelle carceri italiane supera il 40 per cento e che il sovraffollamento ha di nuovo raggiunto livelli da pre-indulto con ben 55.000 detenuti. Di conseguenza la Polizia Penitenziaria è sempre più esposta al rischio aggressione diventando più che mai indispensabili le iniziative che il governo intenderà adottare".

"La sicurezza del nostro Paese potrebbe senza ombra di dubbio migliorare, sebbene fortemente compromessa dall’indulto, con la conferma nei fatti di una riforma della Giustizia - conclude il sindacalista - che coinvolga anche la Polizia Penitenziaria, consentendole di adempiere alle funzioni indicate dall’articolo 27 della Costituzione sul recupero del reo".

Giustizia: riforma che non inciderà su problema dell’efficienza

di Vittorio Grevi (Ordinario di diritto penale a Pavia)

 

Corriere della Sera, 28 agosto 2008

 

Le polemiche riaccese periodicamente da più o meno estemporanee esternazioni del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, in materia di "riforme della giustizia" (intese come grandi riforme di struttura, coinvolgenti addirittura il quadro costituzionale), alimentano lo scontro politico e, fatalmente, irrigidiscono le posizioni dei diversi interlocutori. Col risultato di allontanare il momento in cui governo e Parlamento sapranno occuparsi dei problemi che davvero interessano ai cittadini, cioè ai primi fruitori del "servizio giustizia".

Tali sono, anzitutto, i problemi legati alla efficienza e al buon funzionamento della macchina giudiziaria, con particolare riferimento all’esigenza di favorire un più rapido svolgimento dei processi, in linea con il principio costituzionale che ne assicura la "ragionevole durata".

Un’esigenza ovviamente molto avvertita nel settore penale (anche per via delle legittime attese dell’opinione pubblica e delle stesse vittime, soprattutto in rapporto a certi reati, affinché sia "fatta giustizia" entro tempi brevi), ma ben presente altresì nel settore civile (rispetto al quale si accredita ogni giorno di più la sensazione che la eccessiva lentezza nella soluzione delle controversie rientri tra i principali ostacoli allo sviluppo economico ed alla capacità del nostro Paese di acquisire investimenti dall’estero).

Bisogna allora dire con molta chiarezza che, rispetto a quest’esigenza, le proposte di cui si è tanto parlato ancora negli ultimi giorni non presentano alcun rapporto di mezzo a scopo, sul piano delle cose da fare per elevare i troppo modesti livelli di efficienza dei meccanismi processuali. Non si vede, per esempio, come a tale scopo potrebbe giovare l’eventuale separazione delle carriere tra giudici e magistrati del pubblico ministero, che oltretutto rischierebbe di trasformare questi ultimi (al di là della netta distinzione di funzioni già oggi realizzata) in veri e propri "avvocati dell’accusa": dunque inducendoli ad assumere una mentalità sempre più vicina a quella degli organi di polizia, e così allontanandoli dall’imperso-nare il ruolo di un "organo di giustizia" obiettivo, seppur investito del compito accusatorio. E questo anche prescindendo dal rischio di una successiva attrazione del pubblico ministero (una volta "separato") sotto l’influenza del potere politico, per non parlare poi dell’ipotesi per noi improponibile di un pubblico ministero elettivo.

Allo stesso modo, non si vede quali vantaggi per la funzionalità dei processi potrebbero derivare dall’eventuale superamento del principio di obbligatorietà dell’azione penale, che è baluardo dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, oltre che della stessa indipendenza del pubblico ministero. Altre e ben note sono, infatti, le vie da percorrere (sul terreno organizzativo, oltre che su quello normativo) per dare effettività a tale principio, senza concedere pericolosi margini di discrezionalità all’organo dell’accusa.

Inutile dire, poi, che risulta del tutto estraneo a realistiche prospettive di efficienza processuale il tema di un’eventuale riforma del Consiglio Superiore della Magistratura (salvo, semmai, per quanto concerne i congegni relativi ai procedimenti disciplinari), essendo tra l’altro paradossale che, per ovviare a certi eccessi di politicizzazione dello stesso Csm, si prospetti un aumento dei suoi membri di nomina politica.

Sarebbe bene, allora, che da un lato si accantonassero simili proposte di riforma, per loro natura destinate ad alimentare frizioni sempre più aspre tra maggioranza e opposizione, anche perché incidenti sugli assetti dell’ordinamento giurisdizionale fissati nella Costituzione (quindi, come tali, bisognose per essere approvate di una legge costituzionale).

E che, dall’altro, ci si concentrasse su quelle, riforme settoriali, che soprattutto appaiono necessarie per abbreviare i tempi di durata dei processi, civili e penali: snellendone i meccanismi, alleggerendone molti inutili formalismi e sfruttando al meglio le risorse del sistema (a cominciare dalla revisione delle circoscrizioni giudiziarie), salvo comunque il rispetto delle imprescindibili garanzie. È questa la vera priorità sulla quale ci si augura voglia puntare il ministro Alfano, tenendo conto anche dei suggerimenti provenienti dal "ministro ombra" Tenaglia, attraverso la elaborazione di progetti concreti e mirati sui nodi più urgenti da risolvere in entrambi i processi.

Ma, allo scopo, è necessario individuare soluzioni condivise (cosa non difficile, quando si tratti di questioni di tecnica processuale, se comune è la finalità dell’efficienza), dunque, al riparo dalle polemiche e dalle tensioni, che inevitabilmente circondano, anche per il loro forte connotato ideologico, certe iniziative unilaterali volte a modificare gli equilibri costituzionali.

Giustizia: dal carcere al "braccialetto"? favorevoli e contrari

di Riccardo Bianchi

 

Vita, 28 agosto 2008

 

La proposta del Sindacato di Polizia per alleggerire l’affollamento delle carceri accolte dal ministro. Volontari contrari. Invece Luigi Pagano è favorevole. Braccialetto elettronico ed espulsioni per smaltire il sovraffollamento delle carceri. Le due proposte del Sindacato di Polizia Penitenziaria, riportate qualche giorno fa da Vita in un’intervista con il segretario nazionale, Donato Capece, sono state riprese dal ministro della giustizia, Angelino Alfano, che sembra volerle mettere in pratica al più presto.

Le due idee non dispiacciono a Luigi Pagano, provveditore regionale della Lombardia, il quale ricorda che la legge già prevede la possibilità di mettere in pratica entrambe le opzioni: "L’uso del braccialetto non è un problema, anche se la questione più seria è quella degli stranieri. Sono troppi, in Lombardia sono il 70% dei carcerati. Le espulsioni sono necessarie".

Secondo Pagano il costo della detenzione è troppo alto per recludere chi ha commesse pene di piccola entità. "Anche sul lato umano è meglio evitare" e precisa: "Se non sbaglio Alfano ha parlato anche di agenzie del lavoro. Sarebbero utili, sia per far lavorare i detenuti mentre sono ancora in prigione, che per trovare un’occupazione quando escono".

Il provveditore insiste sulla necessità di coinvolgere la società civile: "Non basta la volontà del ministro per evitare che si torni, come numeri, a prima dell’indulto. Servono le regioni, gli enti locali, i volontari. C’è bisogno della collaborazione di tutti".

Chi invece non è molto convinto delle soluzioni proposte è Claudio Messina, presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia: "Noi preferiamo le misure alternative" dice "il carcerato deve essere seguito, per valutarne la capacità di reinserirsi nella società. Non può essere considerato un semplice oggetto da localizzare".

Messina propone anche una depenalizzazione dei reati minori perché "in troppi entrano in carcere per rimanere solo qualche giorno. Chi commette furtarelli o scippi di piccola entità non merita dovrebbe finire in prigione. Per loro sarebbero meglio le misure alternative, come i domiciliari o i lavori socialmente utili".

Infine critica il decisionismo di Alfano e del Sappe: "Il sindacato è forte, e se preme molto, alla fine viene accontentato. Il ministro si è appena insediato e ora deve dimostrare di essere un uomo "che fa". Ma questo stile trionfalistico non serve a niente. Fino ad oggi il problema è sempre stato affrontato con scelte ad effetto. Ma una riforma seria non è mai stata pensata".

Giustizia: Osapp; il "braccialetto" è come un marchio di infamia

 

Apcom, 28 agosto 2008

 

"Il braccialetto elettronico per i carcerati è un palliativo costoso e oneroso per la Polizia e potrebbe trasformarsi in un marchio di infamia per il detenuto". Ribadisce così i propri dubbi l’organizzazione sindacale autonoma della Polizia Penitenziaria (Osapp).

"Doveva essere una misura detentiva alternativa alla cella, come in Gran Bretagna o negli Stati Uniti - dice il segretario Osapp, Leo Beneduci, all’indomani delle dichiarazioni rese dal Ministro della Giustizia, Angelino Alfano al convegno di Comunione e Liberazione - nei primi due anni di sperimentazione il provvedimento, fortemente voluto dall’ex ministro dell’Interno Enzo Bianco, si è dimostrato fallimentare, sia dal punto di vista operativo che da quello economico".

Il provvedimento è in vigore in cinque città, ma non sono nemmeno un centinaio i detenuti che ne usufruiscono e, secondo i dati dell’Osapp, dall’ottobre del 2001, da quando la convenzione con il Viminale è scaduta, i gestori del servizio hanno aperto un contenzioso per la riscossione dei servizi offerti. Oltre ai rischi e ai costi elevati, per l’Osapp, sono da valutare "i possibili falsi allarmi e gli eventuali ricorsi per danni sanitari. Da alcuni osservatori sono stati, inoltre, sollevati molti dubbi sull’eticità di questo provvedimento. Si aggiungano a ciò le critiche, appunto, su una possibile emarginazione sociale imputabile al braccialetto", conclude Beneduci.

Giustizia: Poretti (Pd); con Alfano, su madri detenute e bimbi

 

Agi, 28 agosto 2008

 

A fronte delle dichiarazioni del ministro della Giustizia, Angelino Alfano, di costruire strutture idonee ad ospitare le madri detenute con i loro figli e di porre fine allo scempio dei bimbi in carcere, posso solo fargli i nostri complimenti e dichiararmi fin d’ora al suo fianco su questa iniziativa. È quanto sostiene Donatella Poretti, parlamentare Radicale - Partito Democratico.

Solo pochi giorni fa con il senatore Marco Perduca - prosegue - avevamo indirizzato al Guardasigilli e alla Ministra per le Pari Opportunità una interrogazione parlamentare per cercare di capire come risolvere la questione, preannunciando anche la presentazione di un disegno di legge. In occasione delle visite di Radicali Italiani il giorno di ferragosto in alcuni Istituti Penitenziari, avevamo verificato la presenza di detenute madri e dei loro figli, come i due bimbi presenti nel nido di Sollicciano/Firenze, rispettivamente di 6 e 14 mesi.

Dai dati emersi dal "V Rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia", redatto dall’Associazione Antigone, sarebbero 2.385 le donne detenute, di cui 68 madri con 70 bimbi con meno di tre anni reclusi con loro, mentre altre 23 detenute risultavano in gravidanza. In Europa i bambini con genitori detenuti sono 800.000, 43.000 dei quali italiani. Una situazione intollerabile, che contraddice la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, e che doveva essere risolta con la legge Finocchiaro (40/2001): misure per evitare la pena detentiva carceraria alle donne con figli minori di 10 anni (e quindi ai loro bimbi sotto i tre anni); per fruirne, la mancanza di pericoli di commettere ulteriori delitti. La maggior parte delle detenute-madri sono in carcere per stupefacenti e prostituzione, reati con alto tasso di recidiva e che, quindi, le terrebbero fuori dai benefici della legge.

Più in generale la normativa è stata disapplicata e presenta questi limiti, soprattutto per chi è in attesa di giudizio. Le straniere, inoltre, non avendo spesso un’abitazione dove scontare gli arresti domiciliari, sono costrette a tenere i bimbi in carcere fino al compimento dei tre anni, per poi soffrire del trauma della separazione. Bimbi innocenti, prima reclusi in carcere, e poi -in molti casi- "reclusi" in orfanotrofio.

Giustizia: associazioni; ok proposta di Alfano su madri detenute

 

Vita, 28 agosto 2008

 

L’associazione commenta positivamente le dichiarazioni del Guardasigilli. Sono tra 50 e i 70 i bambini che vivono nelle strutture penitenziarie.

"È quello che noi stiamo chiedendo da anni. Evidentemente le richieste avanzate nella recente audizione che abbiamo avuto alla Camera a luglio sono state recepite". È il commento della responsabile dell’associazione "Bambinisenzasbarre", Lia Sacerdote alle parole del ministro della Giustizia Angelino Alfano che al meeting di Rimini ha affermato "mai più bimbi nelle carceri" avanzando la proposta di utilizzare i beni confiscati alla mafia per farne delle case-famiglia protette senza sbarre e senza agenti in divisa.

"Oscilla tra i 50 e i 70 - spiega Sacerdote - il numero di bambini che trascorrono insieme alle madri detenute i loro primi tre anni d’infanzia nelle aree nido delle strutture penitenziarie italiane. Per l’80% sono figli di rom. Se il ministro Alfano - continua la responsabile di "Bambinisenzasbarre", - pensa ci siano le risorse necessarie la situazione cambia qualitativamente. Ma ci chiediamo se esse saranno gestite dal ministero della Giustizia o dagli enti locali.

Se la legge Finocchiaro fosse modificata allora si potrebbe arrivare ai domiciliari speciali ad oggi concessi solo alle donne con una pena definitiva e che ne abbiano scontato un terzo. Una legge comunque molto importante, unica in Europa - sottolinea Sacerdote - che testimonia una preoccupazione riguardo a questo problema".

"Sono in maggioranza figli di nomadi - spiega - i bambini nelle carceri italiane. Circa l’80% del totale". Perché difficilmente le madri rom hanno un domicilio dove poter scontare la pena detentiva. "Ricordo solo due casi in dieci anni - continua - di concessione dei domiciliari presso un campo nomadi". Insieme all’associazione "Aromainsieme", da anni in prima linea per porre fine alla presenza dei bambini nelle carceri, "Bambinisenzasbarre", si preoccupa di andare a prendere e portare in giro i piccoli inquilini dei penitenziari per far loro assaggiare, almeno una volta ogni tanto, la vita fuori dalla cella.

"Era ora - dice la presidente di "Aromainsieme" Leda Colombini - Finalmente dopo 15 anni che portiamo i bambini di Rebibbia fuori tutti i sabati e presentiamo proposte di legge al Parlamento in collaborazione con le altre associazioni che operano nello stesso campo, arriva una mossa dal Governo". La vita dei piccoli carcerati si svolge tutta all’interno delle aree nido di cui alcune strutture penitenziarie sono dotate. Luoghi il più possibile lontani dalla realtà delle carceri ma comunque interni ad essi, con le sbarre e gli uomini in divisa.

L’unico modo, finora, per permettere ai figli delle detenute di vivere la prima infanzia insieme alle madri. Fa eccezione l’Icam di Milano (istituto carcerario a custodia attenuata per le mamme). "Un luogo bellissimo", dice Sacerdote, gestito dal carcere di San Vittore ma separato da esso. "Possono starci 12 donne coi loro bambini. Ci sono agenti in divisa ma anche educatori degli enti locali coinvolti e l’apparenza è quella di una grande casa-famiglia.

Non ha niente del carcere. Se la soluzione del ministro Alfano andasse in questa direzione saremmo davanti a un passo importante, anche se il problema dei bimbi in carcere è solo il più appariscente - conclude Sacerdote - Non bisogna dimenticare i 700mila bambini con più di tre anni che hanno genitori detenuti". Anche loro chiedono aiuto.

Giustizia: la testimonianza; mia figlia in cella non parlava mai

 

La Repubblica, 27 agosto 2008

 

La storia di una donna condannata per furto, detenuta insieme alla bimba: "È un’assoluta crudeltà".

"Mia figlia è entrata in carcere a cinque mesi. Con me, che avevo fatto qualche furto. Ne è uscita a quasi tre anni. Mai, non una volta in tutto quel tempo mi ha chiamata mamma. Non parlava. Ha cominciato a farlo solo quando siamo uscite". La chiameremo Maria, ha 33 anni, è di etnia rom. Sa cosa vuol dire svezzare, allevare un figlio in cella. Oggi, che di figli ne ha cinque, lavora, si è integrata e viene indicata dagli esperti come esempio di recupero dietro le sbarre. Eppure è convinta che adesso sia sua figlia "a pagare".

 

Francesca ha undici anni, cosa ricorda del carcere?

"Tutto. A volte si ferma e mi dice: mamma, ci pensi?... lei aveva paura delle divise, ogni volta che si avvicinava una guardia strillava. Non riuscivamo a fermarla. Lei aveva paura del rumore dei cancelli quando si chiudevano sbattendo. Capiva di non essere in una casa ma in una cella, dove le luci si spengono al tramonto e anche mia figlia, come tutti i bambini, aveva paura del buio".

 

Non le lasciavano accendere un lumicino?

"Potevo tenere una lucetta, fino a mezzanotte. Solo una mamma può capire cosa vuol dire raggiungere l’alba con un neonato che piange e ti guarda impaurito. Ma questo è solo un dettaglio. I medici che ho consultato dentro e fuori Rebibbia hanno stabilito che la bambina non parlava solo perché rifiutava il carcere".

 

A quanti anni Francesca ha cominciato a parlare?

"A sei anni. Prima qualche parola, frasi interrotte. È stato un incubo, un lungo percorso, terapia su terapia, ma ce l’abbiamo fatta. Ora fa la prima media e a scuola va bene. Anche se a volte mi sembra che la mia piccolina che ha solo due anni conosca più parole della sorella maggiore. Francesca parla ma il silenzio rimane un rifugio".

 

Se un neonato si ammala in carcere rischia di stare senza mamma.

"Un’assoluta crudeltà. Ovviamente è successo anche a noi. Francesca prendeva solo il mio latte, non voleva altro. Lo svezzamento è stato difficilissimo. Rifiutava le pappine del carcere. E una volta è finita all’ospedale per uno shock anafilattico. Quindici giorni da sola. Non aveva neppure un anno. Il giudice non si fidava di me e non mi dava il permesso di stare con lei. Mi hanno detto che mia figlia non ha mai smesso di piangere, finché non mi ha rivista".

Giustizia: in due anni è tornato in carcere il 36% degli indultati 

 

La Repubblica, 28 agosto 2008

 

A beneficiare dell’atto di clemenza votato nel luglio di due anni fa da due terzi del Parlamento sono stati, sino ad oggi, 27.472 detenuti, di cui 9.875, circa il 36%, è tornato in carcere. L’effetto che l’indulto ha avuto sui sovraffollati penitenziari italiani è stato immediato (si era arrivati a un picco di 60.710 detenuti. contro i circa 43 mila posti regolamentari) ma di breve durata.

Lo dimostrano gli ultimi dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), secondo cui le 205 carceri italiane sono tornate a riempirsi. Attualmente ci sono 55.369 detenuti, contro un tetto regolamentare di 42.992 posti e un limite tollerabile di 63.423.

Un precedente studio, commissionato dal Dap all’Università di Torino all’epoca in cui ministro della Giustizia era Clemente Mastella, stimava nel 60% il tasso di recidiva "ordinario" (vale a dire di coloro che sono tornati a delinquere dopo aver scontato la pena per intero) nei cinque anni successivi all’uscita dal carcere.

Giustizia: la legittima difesa non autorizza... il tiro al bersaglio

di Ennio Fortuna (Procuratore Generale della Repubblica a Venezia)

 

Italia Oggi, 28 agosto 2008

 

Ad Aprilia l’ennesimo fatto di cronaca suggerisce qualche riflessione sulle norme che riordinano l’istituto della difesa legittima. Come è noto, il testo abolisce l’esigenza della proporzione tra il patrimonio della vittima e la vita dell’aggressore. Traducendo in linguaggio comune il gergo necessariamente tecnico del testo, si ha difesa legittima. e quindi si può sparare senza alcun rischio di condanna, se anche si colpisce a morte un ladro inerme, a condizione che si usi un’arma legittimamente posseduta e il fatto si verifichi nella propria casa o pertinenze. Non basta però. Perché la legge esige anche che l’aggressore non abbia desistito dalla sua iniziativa offensiva. In altri termini, si può sparare al ladro disarmato, ma non più se questi, avvertito e intimato tempestivamente. manifesti chiaramente l’intenzione di desistere, fermandosi, o addirittura fuggendo.

Ad Aprilia un tabaccaio, più volte vittima di furti, ha sparato dal balcone della sua abitazione colpendo a morte alle spalle un ladruncolo in fuga e disarmato. Il magistrato inquirente lo ha iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio volontario, anche se non ne ha convalidato l’arresto. Molti hanno protestato, sottolineando che con la legge in vigore, appena sintetizzata, il tabaccaio dovesse essere subito sollevato da ogni accusa o al massimo essere indagato per omicidio colposo per eccesso. Personalmente non sono affatto d’accordo con questa tesi.

Effettivamente la nuova legge amplia i confini della legittima difesa cancellando ogni esigenza di proporzione tra i due beni in conflitto. Ma occorre anche che il ladro non si sia fermato, cioè non abbia ubbidito alla rituale intimazione "Fermati o sparo!". Se però il ladro desiste, e nel caso di Aprilia era già in fuga, tanto è vero che è stato colpito alle spalle, non può più parlarsi di legittima difesa effettiva.

L’istruttoria stabilirà se il derubato abbia ragionevolmente percepito un grave pericolo di attuale offesa personale (era a buio e i ladri erano tre) e in tale eventualità se possa parlarsi di difesa legittima putativa. Purtroppo la nuova legge è stata percepita come autorizzazione implicita a ogni tipo di reazione. Non è così. Ma c’è il rischio che la malavita, temendo tale tipo di reazione, si armi a sua volta preventivamente e faccia uso di armi da fuoco mettendo a repentaglio la stessa vita del proprietario e dei suoi familiari. Sono i risultati di una legge malfatta, che non mette al sicuro il derubato dal rischio del processo penale, e lo espone, anche più di prima, all’opzione della criminalità.

Napoli: emergenza carceri alle porte, servono strategie decise

 

Il Denaro, 28 agosto 2008

 

"L’emergenza carceri è alle porte, è necessaria una seria strategia di interventi". Così il parere del presidente dell’associazione Città Invisibile, Samuele Ciambriello, e del portavoce di Antigone Campania, Dario Stefano Dell’Aquila.

Emergenza carceri da arginare. Bisogna correre ai ripari. La pensano così il presidente dell’Associazione Città Invisibile, Samuele Ciambriello, e il portavoce di Antigone Campania, Dario Stefano Dell’Aquila. "L’indulto non può essere un alibi. Anzi - dicono- senza l’approvazione dell’indulto oggi ci troveremmo in una situazione ingestibile. Che gli effetti di quel provvedimento siano terminati è un fatto che andiamo segnalando da tempo: basti pensare che in Campania vi sono 6 mila 700 detenuti circa su una capienza di 5 mila 400 posti. A Poggioreale, ad esempio, vi sono più detenuti adesso (2 mila 200) che nel 2006. Il problema non è semplicemente la recidiva, ma le centinaia di nuovi ingressi per la legislazione repressiva in tema di tossicodipendenza e immigrazione". "A nostro avviso - continuano - da un lato è indispensabile investire all’interno degli istituti, aumentando il numero degli educatori e degli operatori sociali, dall’altro è necessario ridurre la sfera dell’intervento penale, riservando il carcere ai reati più gravi".

"Non ci sembra - sostengono poi gli esponenti del mondo delle associazioni- che questa maggioranza che pure ha numeri più solidi della precedente, sia indirizzata su questa strada. Anzi, osserviamo che le prime norme ad essere approvate, nei primi mesi di legislatura, sono state quelle relative alla sospensione dei processi alle alte cariche dello Stato per l’inasprimento delle pene per gli immigrati. Mentre sul piano economico si prospettano tagli alla spesa sociale.

"Oggi - concludono Ciambriello e Dell’Aquila - le carceri italiane sono piene di tossicodipendenti e immigrati. Le politiche di sicurezza del Governo si concentrano su fasce deboli, mentre non notiamo altrettanto vigore nelle politiche di contrasto alle organizzazioni mafiose. A breve torneremo ad una situazione di sovraffollamento negli istituti penitenziari". "Si chiede una strategia di intervento che non sia fatta solo di buoni propositi estivi e che si traduca in atti concreti".

Genova: il giudice Sansa; sì a rieducazione, ma senza lassismo

 

Secolo XIX, 28 agosto 2008

 

"Io ritengo che il problema principale sia rappresentato dall’eccesso di detenuti e dall’impossibilità di non applicare anche altrove un modello fondato sul reinserimento. È chiaro che bisogna evitare qualsiasi forma di lassismo, ma la carcerazione è disciplinata da leggi. Se quelle disposizioni vengono rispettate, e il recluso risponde al progetto di rieducazione beh, credo che si debba proseguire nel percorso".

Il Presidente del Tribunale per i Minorenni Adriano Sansa, Sindaco di Genova fra il 1993 e il 1997, accetta di commentare il servizio pubblicato ieri mattina dal Secolo XIX nel quale viene descritta la detenzione di Edgar Bianchi, il maniaco dell’ascensore protagonista di 25 aggressioni a danno di ragazzine genovesi fra il marzo 2004 e il settembre 2006, arrestato e condannato con rito abbreviato a 14 anni e otto mesi.

Bianchi è da sempre detenuto nella sezione protetta del penitenziario di Chiavari, un’ala speciale composta da venti persone, in gran parte ex poliziotti o ex carabinieri. Si tratta d’un reparto particolare, in cui il "mostro" ha la possibilità di studiare e di andare in palestra. La pubblicazione di alcuni dettagli del suo regime carcerario - necessariamente incompleti- hanno indignato molti lettori del nostro giornale, e per questo abbiamo deciso di interpellare due fra i magistrati più importanti nella storia giudiziaria genovese.

 

Sansa, leggendo della nuova vita di Edgar Bianchi dietro le sbarre, più persone hanno avuto un moto di disappunto, soprattutto ricordando i mesi da incubo vissuti dalle studentesse genovesi quando colpiva da una parte all’altra della città.

"In questi casi bisogna andare con i piedi di piombo; conoscere la realtà d’un penitenziario non è facile e lo si può fare soltanto con una visita approfondita, o ascoltando un resoconto ufficiale da parte della direzione".

 

Però è un fatto che la situazione là dentro sia perlomeno favorevole: poche persone, compagni disciplinati, possibilità inimmaginabili altrove...

"Io non userei il termine "favorevole" nel senso che la legge è, o dovrebbe, essere uguale per tutti e applicata nello stesso modo ovunque, non certo ad personam. Semmai occorre quasi ribaltare il ragionamento. E cioè: pur essendo presenti nel nostro Paese norme estremamente civili, molto spesso non sono applicabili ed è questo il vero flagello, la distonia che poi innesca il senso di iniquità".

 

Perché?

"Chiavari non dovrebbe rappresentare un’anomalia sebbene, ripeto, non abbia elementi certi per pronunciarmi. Il vero vulnus, le autentiche difficoltà si registrano negli istituti dove non è possibile applicare alcun tipo di trattamento rieducativo. E il buco nero del nostro sistema carcerario è rappresentato dal sovraffollamento. Perciò sulla carta abbiamo una serie di norme che ci permetterebbero d’essere parecchio all’avanguardia, ma alla fine non accade. Come si fa, per esempio, a verificare sul campo i progressi di un recluso o gli eventuali passi indietro, se non si ha la possibilità di instaurare un vero rapporto quotidiano? Com’è possibile capire in quale forma modulare le misure restrittive, se non si ha costantemente il polso della situazione?".

 

Ex compagni del maniaco lo descrivono "sfrontato", altri raccontano che in cella, ovvero nel luogo dove dovrebbe espiare la pena, sta diventando una specie di leader.

"Sono dettagli che non posso conoscere, sui quali azzarderei. E comunque mi pare strano. La "Gozzini" (la legge del 1986 che ha riformato l’ordinamento penitenziario, cercando di renderlo più vicino ai principi contenuti all’articolo 27 della Costituzione in cui si dice che le pene "non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato") e il Tribunale di Sorveglianza mettono paletti fondamentali, non sono cose da poco.

L’importante è che ci sia la certezza della carcerazione per i crimini gravi, e del suo prolungamento. Come detto nessun lassismo, ma il percorso rieducativo è un principio cardine fissato dalla carta costituzionale e non si può certo abbandonare. Semmai, occorre correggere le anomalie affinché sia sempre possibile seguirlo senza sbavature".

Lecce: Sappe; in carcere sanità inadeguata, esposto a Procura

 

Gazzetta del Mezzogiorno, 28 agosto 2008

 

Il Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria, il maggiore di categoria, ha trasmesso alla Procura della Repubblica di Lecce e al Magistrato di sorveglianza una denuncia sull’attuale situazione all’interno del penitenziario salentino. Lo annuncia direttamente il segretario nazionale del sindacato, Federico Pilagatti.

Si tratta della prima richiesta di intervento della magistratura in merito alla situazione della sanità nelle carceri, giudicata a dir poco esplosiva da chi lavora a stretto contatto con i detenuti. Nel ricorso il Sappe sostiene che il diritto alla salute delle persone che a Borgo San Nicola stanno scontando la loro pena, spesso sarebbe negato a causa del fatto che non sarebbero esaudite le richieste visite mediche.

Motivo: carenza del personale sanitario, se non addirittura di somministrazione dei farmaci che - si denuncia alla Procura - avverrebbe in maniera molto frammentaria per lo stesso motivo, ovvero l’esiguo numero di infermieri.

Il Sappe aveva già sollevato la questione nei giorni scorsi, chiamando in causa le autorità e polemizzando in particolare con le istituzioni regionali. "Un dato emblematico - spiega il sindacato della polizia penitenziaria - riguarda l’attuale situazione in cui a circa 1200 detenuti, con centinaia di tossicodipendenti, portatori di patologie infettive anche serie, patologie psichiatriche anche importanti, e via dicendo, si risponde nelle ore notturne con un solo infermiere e un medico di guardia".

Il Sappe riteneva già a suo tempo ad alto rischio il passaggio della sanità penitenziaria a quella pubblica, sostenendo che la delicatezza della materia avrebbe richiesto un approccio molto cauto da parte delle Asl, dato che si va "ad intervenire su un nodo scoperto quale è la salute, che all’interno dei penitenziari diventa ancora più sensibile proprio perché le condizioni di intervento sono totalmente diverse".

Sotto accusa è l’Asl di Lecce, in particolare, che, spiegano i sindacalisti, "a differenza di altre Asl della Regione che stanno ancora approfondendo una serie di aspetti della normativa, cercando di non creare traumi pericolosi, sta applicando la normativa a pieno regime".

Nel carcere di Borgo San Nicola, secondo i racconti delle guardie penitenziarie, sarebbero quindi sorte situazioni che avrebbero creato disorientamento tra gli operatori, primi tra tutti gli stessi agenti. "Situazioni imbarazzanti - si legge nella nota di Pilagatti - che sono state risolte proprio grazie alla professionalità ed alla preparazione della Polizia penitenziaria che ha sempre evitato che il malessere degenerasse.

Ora invece non è più possibile andare avanti - prosegue - poiché quello che sta accadendo all’interno del penitenziario leccese sta mettendo a dura prova il lavoro dei poliziotti penitenziari nonché la sicurezza del carcere, senza considerare i rischi alla salute dei detenuti". E si tratta di una "situazione che sta diventando ogni giorno più esplosiva - conclude -, che potrebbe coinvolgere in maniera diretta i poliziotti penitenziari contro cui i detenuti scaricherebbero la rabbia per la mancata assistenza". Da qui, la richiesta d’intervento della magistratura "per sopperire alle gravi incongruenze delle leggi".

Lecce: sanità in carcere, replica l’assessore regionale Tedesco

 

Gazzetta del Mezzogiorno, 28 agosto 2008


Nessuna emergenza sanitaria nelle carceri secondo l’assessore regionale alla salute Tedesco, che replica all’allarme lanciato dal sindacato Sappe, preoccupato perché il lavoro di medici e infermieri all’interno degli istituti fra pochissimi giorni, cioè dal 1 settembre passerà attraverso le decisioni dei dirigenti delle Asl e non più dei direttori degli stessi istituti. I sindacati, che temono che i detenuti potrebbero rimanere privi di assistenza sanitaria, hanno chiesto l’intervento della Regione Puglia, affinché il passaggio avvenga senza creare problemi. Tedesco chiarisce innanzitutto che il cambio non avverrà il 1 settembre ma il 1 ottobre perché fino al 30 settembre il personale resterà in carico al Ministero della Giustizia.

Poi, dal 1 ottobre passerà alle Asl. La Puglia, secondo Tedesco, è una delle poche regioni italiane ad aver esaurito tutti gli adempimenti. Sono state avviate le verifiche sull’efficienza delle attrezzature, si stanno verificando i locali e gli aspetti giuridico-contrattuali dei rapporti di lavoro del personale che transiterà alle Asl. E al carcere di Foggia sei infermieri in servizio passeranno alle dipendenze della Asl.

A preoccupare, la decisione presa dalla Asl di chiudere per manutenzione il reparto presso gli Ospedali Riuniti, - tre stanze con sei posti letto - che consentiva di piantonare i delinquenti più pericolosi. Negli ultimi tre mesi, solo dal penitenziario di Foggia sono stati ricoverati oltre 60 detenuti. E ora che il reparto è chiuso, i detenuti vengono trasportati in ospedale e controllati nelle corsie, a stretto contatto con altri ricoverati. Tedesco garantisce comunque la massima attenzione per un’operazione che la stessa natura degli assistiti rende alquanto complessa.

Spoleto: il Teatro Lirico Sperimentale attiva scuola nel carcere

 

www.tuttoggi.info, 28 agosto 2008

 

Si può parlare di una vera e propria "occupazione" quella che il Teatro Lirico Sperimentale sta operando nella Casa di Reclusione di Spoleto. Una presenza costante da circa due mesi, infatti, grazie al Progetto "La Musica dei Colori Spettacolo Umbria 2008", l’iniziativa di grande respiro che ormai da circa due anni segue il suo percorso progettuale grazie alla grande sensibilità dell’Assessore alla Cultura della Provincia di Perugia, Pier Luigi Neri e grazie alla disponibilità e operatività di tutti i funzionari dello stesso Assessorato.

Un progetto che vedrà quest’anno la sua piena realizzazione con l’anteprima straordinaria il 10 settembre al Teatro Nuovo di Spoleto del Rigoletto di Giuseppe Verdi, per la direzione d’orchestra di Carlo Palleschi e la regia di Marco Carniti.

E indescrivibile è l’entusiasmo e l’impegno con cui il nutrito gruppo di detenuti ha dimostrato e sta continuando a dimostrare nei confronti dell’iniziativa, partecipando attivamente a tutti i corsi tenuti dai docenti del Lirico che dopo una parte propedeutica di inquadramento e studio storico e musicale dell’opera verdiana, hanno subito affrontato quella operativa.

Divisi in sezioni per competenze, (i detenuti sono per la maggior parte laureati o laureandi nelle più disparate discipline e tutti diplomati all’Istituto d’Arte), i carcerati, dopo aver studiato approfonditamente, con la docente Annalisa Rinaldi l’opera, il libretto, le diverse ipotesi di messa in scena (con la visione in dvd dei più disparati allestimenti del Rigoletto dei maggiori teatri di tutto il mondo), sono passati alla realizzazione del materiale editoriale Infatti è stato disegnato e approntato il manifesto della recita straordinaria del 10 settembre, il programma di sala, con testi scritti dai detenuti e un giornale dal titolo Rigoletto News, che contiene tra gli altri interventi, sempre inerenti al Rigoletto, tutti scritti dai detenuti, una intervista al regista Marco Carniti, un lungo racconto originale ispirato al dramma di Victor Hugo. Giovedì 28 agosto, Moreno Cerquetelli, redattore della Rai Tg3 nazionale, terrà nel carcere di Spoleto ai detenuti una lezione sulle tecniche giornalistiche di realizzazione di trasmissioni televisive dedicate allo spettacolo.

Oristano: 9 anni di carcere, ma il separatista non si è fermato

 

La Stampa, 28 agosto 2008

 

Salvatore Meloni, detto Doddore, nato a Ittìri, residente a Terralba (Oristano), ha due baffi bianchi molto esplosivi che solo su quelli si potrebbero aprire un paio di parentesi. Separatista e leader indipendentista. Sulla schiena e sotto la suola delle scarpe una serie incalcolabile di cicatrici, storie di piccoli e grandi blitz a favore della causa, l’indipendenza della Sardegna. Cofondatore della cooperativa agricola "Patria sarda" di Cabras, Salvatore Meloni è uno che non scherza, è uno di quelli che si presentano regolarmente agli appuntamenti. Sempre presente, allora a metà degli Anni Ottanta decidono di fermarlo.

Allora succede che inciampa nella tagliola messa lì da un giudice che gliel’ha giurata. E si fa male Meloni. Lo processano, lo riconoscono colpevole, lo disinnescano con l’articolo con cui Papalia qualche tempo fa provò a incastrare Umberto Bossi, lo condannano a nove anni di carcere per cospirazione contro lo Stato.

Ma Salvatore Meloni, noto Doddore, non è uno qualsiasi. Il carcere è una prova dura, ma dall’abisso delle sbarre esce più anfetaminico di prima. Forse più di una prova dura il carcere è una schifezza vera. Una volta fuori lui ha molto bisogno di respirare. Dopo aver salutato l’ultima guardia fa un paio di salti per aria, un chilometro

a piedi, due chilometri, tre, quattro, perché quando esce di galera più ti muovi e più è difficile fermarsi. Cerca il mare, lo trova, anzi lo ritrova, è un bel mare ventoso, lo fissa per qualche minuto, si ricarica a pallettoni, come ai bei tempi. Ora Doddore è tutta una compressione di furori e nostalgia.

I primi fotogrammi del dopo-isolamento lo ritraggono clamorosamente vivo, intenso, clamorosamente attivo, la galera non l’ha sterilizzato, non l’ha immalinconito, vista da dentro era un intralcio ma vista da fuori è una rampa di lancio. Parola d’ordine di Meloni il separatista: recuperare il tempo perduto. Del resto cos’ha da spartire con la malinconia un anarchico, del resto un indipendentista ha sempre da regolare qualche conto con qualcuno.

Per i cospiratori politici un vecchio articolo del Codice Rocco prevedeva la pena capitale. "La pena di morte l’hanno abolita - diceva lui tempo fa - ma il reato è rimasto". È rimasto, ma solo per lui, e luì c’ha il dente avvelenato, brutto e velenoso come un insetto. E c’ha anche un’altra cosa Meloni, la sensazione netta che la legge non è uguale per tutti.

Perché l’unico condannato della Repubblica, non è uno dei Nar, non sono i grandi corruttori, i mammasantissima mafiosi, i brigatisti rossi, quelli della Rosa dei Venti. L’unico condannato della Repubblica è lui, Salvatore Meloni nato a Izziri e residente a Terralba.

Meloni da almeno vent’anni ha un tarlo in testa, un chiodo, un punto fermo che nell’Oristanese traducono come una grande intuizione. Davanti a Oristano c’è un isolotto, qualcosa in più di un’ottantina di ettari, una visione pazzesca in quanto a bellezza, si chiama Mal di Ventre. Richiamandosi al principio di autodeterminazione dei popoli, sancito dalla Carta di San Francisco, Meloni dice che Mal di Ventre un giorno si chiamerà "Repubblica indipendente di Malu Ventu". Attraverso il suo legale, Maria Vitalia Annedda, Meloni sostiene che lui nell’isola, (dal 1972 Mal di Ventre risulta di proprietà della "Turistica Cabras", una s.r.l. napoletana), ci ha messo piede la prima volta nel luglio del 1974, e che insieme a un gruppo di compagni indipendentisti nell’isola trascorre gran parte della sua giornata. Meloni dice che Mal di Ventre tornerà al popolo sardo. Per usucapione. E quando lo dice non tradisce nessuna reazione emotiva, perché l’emozione di Malu Ventu è il mare, e il mare è una metafora di vita, perchè è come Tiscali o Serra Orrios, simbolicamente Male Ventu rappresenta la millenaria resistenza nuragica. Per rafforzare il concetto Meloni ha partecipato il progetto alle Nazioni Unite e ha interessato del caso anche Berlusconi.

Per non lasciare nulla al caso, in carta bollata, tempo fa il separatista ha anche richiesto al Comune di Cabras la residenza a Mal di Ventre. Efisio Trincas, fino a qualche mese fa sindaco del piccolo paese costiero, se gli accenni la questione dicono tiri le tende e si rintani in un bunker, oppure fa lo gnorri Trincas, oppure manifesta stupore. E se non fa lo gnorri e non manifesta stupore, dicono faccia professione di scetticismo. "L’usucapione? Mah, non ci sono gli estremi". Ma Meloni ha un arsenale di idee è il suo punto fermo. E se ne frega di Trincas e dei suoi estremi, Meloni va avanti, la causa civile è alle porte.

Milano: anche laureati e lavoratori tra i poveri in fila per il pane

di Elena Lisa

 

La Repubblica, 28 agosto 2008

 

"La mia famiglia è di Cosenza. Non è ricca ma nemmeno povera. Mi aiuta con le spese per l’affitto, per tutto il resto me la devo cavare da sola. Arrivare con la laurea in una città come Milano credevo fosse la soluzione per vivere meglio, ma ho scoperto che la vita, oltre che dura, è anche molto costosa. Con quello che ho non ce la faccio, perciò vengo qua". A parlare è una ragazza che si fa chiamare Maria. Anche lei è in coda, alle otto e trenta del mattino, davanti alla sede di "Pane Quotidiano", associazione che ogni giorno distribuisce pane, latte e altri viveri.

Maria sta ai cancelli di viale Toscana 28, periferia della città; l’altra sede è in viale Monza 335, e ciò che ultimamente accade, dicono increduli gli stessi volontari, è "sconvolgente". Più di 1.500 persone in settimana e oltre 3.000 soltanto il sabato, si mettono in coda, aprono il loro sacchetto e aspettano che venga riempito: a volte con il pane ci sono formaggi e yogurt, altre volte frutta e verdura, altre ancora un chilo di pasta.

In coda ci sono molti immigrati in difficoltà e qualche sbandato, ma almeno un terzo è rappresentato dall’"esercito italiano dei nuovi poveri". Persone assolutamente normali, come Maria, trent’anni, ha un aspetto curato, labbra lucide di rossetto e occhiali da sole sulla testa. Come lei, anche gli altri italiani non vogliono dire come si chiamano: temono di essere riconosciuti, come se non farcela fosse una vergogna privata da nascondere. Abitano in case dignitose, indossano abiti puliti, hanno figli che lavorano all’estero oppure si barcamenano tra un contratto interinale e l’altro. Mangiano a pranzo e a cena, ma per continuare a farlo hanno bisogno di assistenza. C’è chi chiede aiuto da anni. Altri lo fanno da alcuni mesi, da quando i prezzi dei prodotti alimentari sono esplosi, pane e pasta in testa.

Come Antonio che pronuncia il nome a fatica e forse se lo inventa. Jeans, una polo, fresco di barba, arriva e parla con la testa bassa: "Ho 24 anni e vivo da solo da quando ne ho 20. Da quando i miei hanno divorziato mi mantengo facendo lavori saltuari. Non vengo qui volentieri ma non ho alternative. Con quello che mi danno riesco a risparmiare anche cinque euro al giorno. Quei soldi mi servono, devo ricaricare il cellulare, altrimenti come faccio a parlare con l’agenzia che mi propone il lavoro?".

Più di 10 quintali di pane, oltre mille litri di latte, dalle 2 mila alle 3 mila confezioni di formaggio, e altrettante di yogurt: questa la distribuzione giornaliera della onlus che, con 60 volontari, dà aiuto a chi è in difficoltà "senza chiedere nome e pretendere informazioni". È la prima regola dello statuto. "Sto qui da 13 anni - racconta il coordinatore dei volontari, Saverio Rebecca, 80 anni -. Apriamo i cancelli alle 9 e chiudiamo alle 11. Quelli che arrivano ormai li conosciamo. Negli ultimi mesi però qualche cosa è cambiato".

Saverio, mentre parla non smette di infilare quarti di toscano e formaggio a fette nelle buste di chi arriva davanti allo sportello: ci sono sempre più italiani. I giovani ancora si contano sulla punta delle dita, non sono moltissimi, ma riusciamo a distinguerli anche se non parlano e ci fanno a stento un sorriso. Non è così per i pensionati che sono tanti già da un bel po’.

Alle dieci passate al cancello si avvicina un anziano alto con berretto e occhiali scuri che cammina con un bastone: davanti a lui un africano con il figlio in braccio. Dietro due donne arabe con il velo. Indossa un camiciotto che sembra appena stirato, pantaloni bianchi e lindi: "Facevo l’autista e ho dovuto smettere per un incidente. Ho la pensione minima, quasi 500 euro al mese. La casa è mia, ma a fine mese non riesco ad arrivarci. Acqua, gas, luce. Io e mia moglie dove troviamo i soldi per mangiare? I miei figli lavorano in Germania e in Francia, nemmeno immaginano come stiamo noi in Italia e non vogliamo farglielo sapere. Nome, foto sul giornale? No grazie, mia moglie si vergognerebbe".

Nonostante l’orario per i rifornimenti sia scaduto da quasi tre quarti d’ora, i volontari continuano: impilano scatoloni, mettono il cibo nel frigorifero e riempiono altre buste: "Sono quelle speciali, per chi ha più bisogno. C’è chi ha perso il lavoro per una malattia e chi ha una famiglia da mantenere". Come Rosa, un marito appena licenziato da una ditta di pulizie fallita, un figlio impiegato, l’altro che distribuisce pizze e l’ultimo che studia alle medie: "Non avrei mai pensato di ritrovarmi così, credevo che a 50 anni i binari della mia vita fossero già tracciati. Invece basta un imprevisto, ti gira storta e bisogna ricominciare tutto daccapo".

Immigrazione: ricerca; stranieri non aumentano tasso crimine

 

Il Sole 24 Ore, 28 agosto 2008

 

Ieri uno dei paper presentati a Milano, nel corso del Convegno internazionale organizzato alla Bocconi, ha portato un ulteriore elemento nel dibattito sulla sicurezza. L’immigrazione non aumenta il tasso di criminalità nel nostro Paese: è quanto emerge da una ricerca realizzata da Paolo Buonanno, dell’Università di Bergamo, con la collaborazione di Milo Bianchi, della Paris School of Economics, e Paolo Pinotti, della Banca d’Italia.

Anche se l’arco temporale considerato non è recentissimo, lo studio ha comunque cercato di ancorare la discussione a elementi fattuali certi. Infatti, ha preso in considerazione i dati sul numero di immigrati sia legali sia illegali (in questo caso si tratta di clandestini che sono poi stati regolarizzati) e sul numero dei reati commessi nelle province italiane nel periodo che va dal 1996 al 2003.

Come ha spiegato Paolo Buonanno, "attraverso l’uso di tecniche econometriche, abbiamo notato che tra il fenomeno dell’immigrazione e la criminalità non c’è alcun nesso causale ma una correlazione dovuta a un terzo fenomeno che può essere, per esempio, la ricchezza".

Con gli strumenti dell’econometria, dunque, è stato dimostrato che i cittadini provenienti da altri Paesi sono attirati da quei territori dove si trovano maggiori opportunità di lavoro. Quindi, le province più prospere. E proprio queste zone sono le stesse mete della delinquenza, attirata dalla ricchezza degli abitanti.

Ecco che i due elementi sarebbero vicini ma non sono necessariamente interconnessi. "Abbiamo notato - conclude Buonanno - che, contrariamente alla percezione generale, in linea teorica non c’è stato un aumento diretto della criminalità in seguito alle ondate di immigrazione in nessuno dei reati che abbiamo preso in considerazione, ossia reati contro la persona, contro il patrimonio e traffico di droga". Dalla ricerca emerge anche che circa l’80% dei crimini attribuiti agli immigrati viene commessa da chi è presente irregolarmente in Italia.

Immigrazione: tragedia a Malta; affonda barcone, 70 dispersi

 

La Repubblica, 28 agosto 2008

 

Erano partiti in 78 dall’inferno di Al Zuwara, il quartier generale dei trafficanti di uomini in Libia. Erano partiti sul solito gommone malandato. Non sono arrivati neanche a Malta, perché il motore è caduto presto in acqua. Per una settimana sono rimasti in balie delle onde, senza più cibo: alcuni sono morti di stenti, gli altri sono stati travolti dal mare forza sei. È di 70 vittime l’ultima tragedia nel Canale di Sicilia, così hanno raccontato gli otto naufraghi salvati dal moto-pesca maltese "Madonna di Pompei", sudanesi ed eritrei, trovati aggrappati a ciò che restava del gommone. Fra loro, c’è anche un ragazzo di 15 anni.

L’allarme è scattato ieri, nel primo pomeriggio, a 40 miglia a Sud di Malta. "C’erano quattro donne con noi, tre erano incinte", hanno spiegato i naufraghi al responsabile di zona dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, Neil Falzon. Di più non si sa sulle vittime. I pescatori del "Madonna di Pompei" hanno comunicato a gesti con gli otto superstiti. Inizialmente, avevano riferito via radio alle autorità maltesi che i dispersi erano 10. Qualche ora più tardi, su una motovedetta, un interprete ha compreso la reale portata della tragedia. E così è scattato un nuovo allarme. A 40 miglia a Sud di Malta è arrivato anche un aereo per la ricerca dei dispersi.

"Stiamo facendo il possibile per trovarli - diceva ieri sera il capo delle forze armate de La Valletta, il generale Carmelo Vassallo - abbiamo risposto subito alla chiamata di soccorso lanciata dall’equipaggio del peschereccio. Una motovedetta è stata inviata per intercettare i superstiti e portarli verso terra. Ma non è stato possibile capire dove esattamente il gommone abbia cominciato a imbarcare acqua e dove i migranti siano caduti in mare. I superstiti non sono marinai - dice ancora il generale Vassallo - non hanno potuto indicare il luogo preciso. E cercare senza direzioni è come cercare alla cieca".

Nel racconto degli otto superstiti, ancora frammentario e per alcuni versi confuso, si affollano i volti e le storie dei 71 compagni di viaggio. "Siamo partiti da Al Zuwara giovedì scorso", spiegano. Quella località, a 56 chilometri dal confine tunisino, ritorna spesso nei racconti dei sopravvissuti ai poliziotti e ai volontari del centro di prima accoglienza di Lampedusa. È ad Al Zuwara che si ritrovano i migranti provenienti da Magreb, Medio Oriente, Ciad, Sudan, Somalia e Iraq. E lì che si paga e si viene caricati su un barcone. "Ci siamo subito resi conto che quel gommone non sarebbe andato lontano - così prosegue il racconto dei sopravvissuti ai militari maltesi - il mare in tempesta ha staccato presto il motore". Dopo due giorni di navigazione sono finite le riserve di acqua e cibo: "Qualcuno è morto di stenti, poi il mare grosso ha fatto il resto, sbalzando in acqua chi era rimasto". Dice il responsabile dell’Unhcr a Malta: "I sopravvissuti sono in condizioni drammatiche. Uno ha perso la moglie nel naufragio. Un altro la madre. Hanno bisogno di supporto medico e psicologico, mentre al momento sono nel centro di detenzione di Safì".

Intanto, il racconto è al vaglio delle autorità maltesi, che manterrebbero ancora qualche riserva su alcuni punti della ricostruzione. I superstiti non avrebbero raccontato tutto, forse per paura. Da Al Zuwara, i 79 potrebbero essere partiti su un’altra imbarcazione, guidata da uno scafista dell’organizzazione di trafficanti. A bordo, c’erano anche ghanesi e somali. Al largo delle coste libiche, sarebbe avvenuto il passaggio sul gommone della tragedia. Adesso, a La Valletta, è stata avviata un’indagine per ricostruire esattamente i retroscena di quest’ultimo viaggio della speranza finito nel peggio dei modi. Le ricerche delle motovedette libiche sono proseguite sino a tarda sera, ma dei corpi dei migranti non è stata trovata alcuna traccia.

Libia: graziati più di 3mila detenuti per anniversario rivoluzione

 

Apcom, 28 agosto 2008

 

La più alta istanza giuridica della Libia ha graziato oltre tremila detenuti in occasione dell’anniversario della rivoluzione avvenuta il 1 settembre 1969 e che portò al potere il colonnello Muammar Gheddafi. Lo rende noto il ministero della Giustizia libico in un comunicato. Dell’amnistia, decisa dal Consiglio superiore delle istanze giudiziarie, che dipende direttamente dal ministero della Giustizia, hanno approfittato 2.017 libici e 1.062 "arabi, africani ed europei". La grazia è stata pronunciata a favore di detenuti che hanno già scontato la metà della pena e che hanno mostrato una buona condotta durante la detenzione, secondo la fonte.

Iran: impiccate 5 persone; nel 2008 giustiziati più 180 detenuti

 

Ansa, 28 agosto 2008

 

Cinque persone, fra le quali una donna, riconosciute colpevoli di omicidio, sono state impiccate ieri nella prigione di Evine, a Teheran. Le ultime cinque impiccagioni portano ad almeno 180 il numero di persone giustiziate in Iran dall'inizio dell'anno. Secondo Amnesty International, 317 persone sono state impiccate in Iran nel 2007, cosa questa che pone il paese al secondo posto al mondo dopo la Cina nella classifica degli stati dove la pena di morte trova maggiore applicazione.

 

 

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