Rassegna stampa 19 settembre

 

Giustizia: questa sinistra che sta aprendo la strada alla destra

di Gianfranco Bettin (Sociologo e prosindaco di Venezia-Mestre)

 

Il Manifesto, 19 settembre 2007

 

Forte con i deboli e debole con i forti. Bisogna pensare questo, adesso, di Sergio Cofferati, che non ha esitato a cacciare qualche nomade e a perseguire, da pioniere, i lavavetri, che cita a ogni passo l’indomito Tex Willer, ma che, sotto pressioni di ben più forti soggetti, ha sospeso la delibera che prevedeva la realizzazione di una moschea? Che cosa gli ha fatto cambiare idea, almeno per ora? Le pressioni dei forti, appunto, da quelle discrete e sottovento a quelle oscene di Calderoli? Ma non lo sapeva prima, che ci sarebbero state? Oppure è vero quello che ufficialmente il sindaco dice, e cioè che la delibera è sospesa per "coinvolgere in un percorso partecipativo" i residenti della zona dove la moschea dovrebbe sorgere?

Se si tratta di discutere aspetti logistici, urbanistici et similia, è ovvio che ogni scelta va discussa con i residenti e Cofferati ha sbagliato se non lo aveva già fatto prima di deliberare. La questione di fondo, però, e cioè la libertà di culto, non è negoziabile negli stessi termini.

La libertà di culto un sindaco, e uno stato, la garantiscono a tutti, con i mezzi rispettivi. Ad esempio, nel caso di un comune, con i mezzi previsti nella delibera bolognese per ora sospesa. Quanto allo stato, dovrebbe fornire la cornice generale, il quadro di sicurezza e di legittimità, che dà a tutti ogni garanzia. Garantendo, cioè, a chi chiede un luogo di culto la possibilità di averlo e a chi chiede trasparenza in quel luogo che trasparenza vi sia.

Questo è l'abc della democrazia. Per un sindaco è l'abc della gestione corrente della cosa pubblica.

Forse è troppo poco - ma in realtà forse è troppo - per chi si sente, con ogni evidenza, in missione salvifica. Cofferati sembra essersi dato il compito di emancipare la sinistra italiana da quella che deve considerare una specie di prigione ideologica e culturale che la condannerebbe all’inanità di fronte al crimine e al degrado sociale. In realtà, egli è solo l’importatore nella sinistra (o quel che tale era) di vecchi e fallimentari modelli securitari elaborati a destra. Il bisogno, reale, di ridefinire in questi tempi cangianti e inquieti le politiche della sicurezza, non ha niente a che fare con quei modelli né con la caccia ai lavavetri, ai writers e con la ghettizzazione delle pratiche religiose diverse o la loro umiliante subordinazione alle compatibilità politiche.

La convivenza e la sicurezza comuni non hanno nulla da guadagnare da questi logori e biechi modelli che la destra può agevolmente brandire, amplificando paure e pregiudizi, proprio perché di paure e pregiudizi campa e prospera. La sinistra, il centrosinistra, quando scimmiottano toni, argomenti e ricette della destra, alla destra non possono che aprire la strada. Riconoscere che la sicurezza è un bene comune inalienabile non significa riconoscere che la destra, con le sue risposte storiche, ha ragione. Soprattutto non significa riconoscere nell’altro qualcuno di cui diffidare comunque, come accade in questa vicenda di Bologna.

Giustizia: qualcuno si ricorda ancora della difesa degli ultimi?

di Luigi Nieri (Assessore al Bilancio della Regione Lazio)

 

Il Manifesto, 19 settembre 2007

 

Sono bastate poche settimane per mettere in crisi i fondamenti della cultura di sinistra. È bastata un’ordinanza proposta dall’assessore-sceriffo della giunta fiorentina per cancellare l’ultima certezza sulla quale in questi anni si è mantenuta in piedi l’esistenza di un blocco sociale: la difesa degli ultimi e l’equità sociale.

Da quel giorno la rincorsa a destra sul tema della sicurezza ha generato svariate mostruosità e lo smarrimento del buon senso. Tutti si sono sentiti autorizzati a fornire la propria ricetta legalitaria in barba a deleghe e al principio di rappresentatività. Sindaci piddiellini che si sono improvvisati prefetti e vigili urbani che si sono appropriati di funzioni di polizia giudiziaria.

Poi è arrivata la decisione del procuratore di Firenze Nannucci. L’attività di lavavetri può essere eventualmente punita solo con una sanzione amministrativa. Bisognerà restituire soldi e spazzoloni ai loro legittimi proprietari. Ai sostenitori della "tolleranza zero" non resta che un pugno di mosche. Una vicenda paradossale che sarà derubricata a boutade estiva ma che lascia macerie al suolo.

La costruzione del Partito democratico sta in questi giorni egemonizzando il dibattito politico. E lo ha fatto mettendo in discussione punto per punto il programma dell’attuale coalizione di centrosinistra. Oggi in Italia esistono due maggioranze. Una che prosegue, a fatica, nell’azione di governo. L’altra che per argomenti e temi trattati ha deciso di sposare la linea repubblicana di Bush e Rudolph Giuliani. In altri tempi avremmo detto una linea fascista. Quelli del Pd vogliono rassicurare la middle class italiana e, come un tempo, addossare sul capro espiatorio i peccati delle comunità con il compito di portarli al di fuori delle proprie mura. Una scelta che lascia un vuoto enorme a sinistra.

C’è bisogno di dare una risposta unitaria alla follia securitaria. E la risposta non è rincorrere l’emergenza con argomentazione uguali e contrarie. Sulla prostituzione, ad esempio, l’unica soluzione non può che essere la completa decriminalizzazione della vita quotidiana delle prostitute. È su queste battaglie che i partiti di sinistra devono ritrovare una convergenza stabile e forme unitarie di azione politica. La manifestazione del 20 ottobre è un’occasione per mobilitarsi anche sulla questione dei diritti civili e della cittadinanza.

Va ricordato lì che sono necessarie nuove leggi sulle droghe e sull’immigrazione. Noi insieme a alcuni amministratori locali abbiamo deciso di cominciare a ragionarci su. Per il prossimo 27 settembre, infatti, l’associazione Link ha promosso un dibattito pubblico su "sinistra e sicurezza". Un’occasione per coinvolgere i rappresentanti di quella sinistra che, pur in un momento così importante, stenta a trovare coesione. A partire dalla questione della sicurezza la sinistra deve ritrovare la sua unità. D’altronde il Pd ha deciso di parlare alla pancia degli elettori. Una sinistra consapevole del proprio ruolo deve saper parlare all’intelletto e all’anima delle persone.

Giustizia: proposte del Cnca per "produrre sicurezza sociale"

 

Redattore Sociale, 19 settembre 2007

 

Tavoli nazionali e locali in grado di ripensare un nuovo progetto di città più vicini alle persone, più aperte alla partecipazione attiva.

Aumentare il benessere sociale, non lasciare sole le persone, accrescere la partecipazione e la convivenza pacifica, assicurare mediazione dei conflitti, sviluppare processi virtuosi grazie ai quali i cittadini si riconoscano nel territorio in cui vivono e si battano per migliorarne le condizioni di vita: è questo il volto che dovrebbero avere le nuove città secondo il Cnca, che ha avanzato una piattaforma di proposte per "produrre sicurezza sociale".

Un obiettivo perseguibile attraverso tavoli nazionali di coordinamento e tavoli locali che, coinvolgendo i diversi attori politici, economici e sociali e integrando politiche economiche, urbanistiche, ambientali, sociali, dell’istruzione e del lavoro, siano in grado di ripensare un nuovo progetto di città.

"Ci rendiamo ben conto che questo approccio non appare, in termini di comunicazione, particolarmente appeal: - commenta il Coordinamento - la stampa, la comunicazione politica vogliono risposte semplici, semplificanti, che siano da tutti riconosciute e che diano l"impressione - spesso del tutto infondata - che si stia facendo qualcosa per "contenere" i problemi. Tuttavia, non vogliamo cadere anche noi nella trappola delle battute ad effetto, facendo finta che la sicurezza si crei colpendo qualche emarginato e organizzando un paio di progetti di intervento sociale. Non servono spot, ma un lavoro serio sulle cause dell’insicurezza sociale".

"La sicurezza sociale - prosegue - si costruisce riqualificando la normalità e strutturando relazioni positive negli abituali contesti di vita e tra coloro che vi abitano - dai singoli alle istituzioni, ai soggetti collettivi -, attraverso azioni concrete di carattere politico, strategico, interventi strutturali e non occasionali. Si tratta, cioè, di investire - anche economicamente - su politiche di medio/lungo periodo a sostegno di programmi ed azioni stabili, non episodici, senza lasciar determinare priorità, contenuti e modi dall’onda dello "scandalo" o dell’emergenza. Se non si assume un nuovo orientamento nel governo delle città, la violenza, la frammentazione sociale e le paure cresceranno irrimediabilmente".

Giustizia: garante privacy; sulla banca del Dna ho molti dubbi

 

Liberazione, 19 settembre 2007

 

"La mia sensazione è che in questo momento il rispetto dei diritti non sia molto di moda neanche a sinistra". Stefano Rodotà, già garante delle privacy e riferimento della sinistra italiana non ha dubbi: "Banca dati del Dna, questioni lavavetri... mi pare che ultimamente sia la destra a dettare l´agenda politica con la sinistra che insegue su un terreno che io considero perdente".

 

Professore, sembra proprio che il vicepremier Rutelli faccia sul serio:dice di aver trovato gli 11 milioni euro necessari alla costituzione di una banca dati del DNA dei "criminali"...

Io non voglio demonizzare la banca dati del Dna in quanto tale, né come strumento di lotta alla criminalità. Vorrei però che si capisse la portata di questo strumento onde evitare situazioni di privazione dei diritti. La mia sensazione è che in questo momento assistiamo ad una progressiva disattenzione per il tema dei diritti in generale. Una disattenzione che avviene nel segno della sicurezza. Proprio in questi giorni, in Senato, è in discussione un decreto, credo all´interno della seconda lenzuolata del decreto Bersani, che riduce fortemente la protezione dei dati personali raccolti dalle aziende.

 

Quali sono pericoli di una banca dati del genere?

Intanto vorrei che si tenesse a mente la presenza di due articoli della Costituzione: il 32 che riguarda le modalità dei trattamenti sanitari ed il 13 sulla responsabilità personale. Due articoli che rischiano seriamente di essere violati. Non c´è dubbio infatti che il prelievo coatto dei miei capelli o del mio sangue rappresenta una restrizione oggettiva della mia libertà personale. Senza contare che una sentenza del ´96, in cui la Corte costituzionale deliberava sul caso di un prelievo di sangue di un imputato, parlava proprio di restrizione della libertà personale del cittadino. Altri problemi nascono dalla conservazione di dati così sensibili e dalla tipologia di reati che "meritano" questa archiviazione. Voglio dire che da un lato non ha alcun senso inserire alcuni crimini; e dall´altro ribadire la necessità di un utilizzo molto attento e fortemente controllato di questi dati. Non dimentichiamo che dal DNA si può risalire ad una miriade di informazioni di un individuo. Informazioni che devono essere salvaguardate.

 

In effetti qualcuno parla del rischi del cosiddetto "family search", la possibilità di utilizzare i dati del presunto colpevole per risalire all´intero gruppo famigliare...

Certo, è una preoccupazione assolutamente legittima, Dal Dna di una persona che ha commesso un reato posso infatti risalire alla sua famiglia trasferendo il sospetto su tutta i componenti.

 

E sulla gestione dei dati? In Inghilterra se ne occupano agenzie private...

No, la gestione e l´archiviazione deve essere assolutamente pubblica. Non solo, bisogna prendere in considerazione la possibilità, assolutamente ordinaria, che ci si trovi di fronte ad una persona che alla fine dell´iter giudiziario risulti innocente...

 

Che ne facciamo del suo Dna?

Esatto, che ne facciamo? I suoi dati devono essere assolutamente distrutti.

 

Peraltro è facile immaginare che già oggi alcuni reparti delle forze dell´ordine abbiamo una banca dati del Dna degli indiziati...

Certo, di qui la necessità di una legge chiara e rigorosa. Oggi, che utilizzo si fa di questi dati?

 

Insomma, un far west che deve essere normato...

Sì, è inevitabile che alcuni dati siano già a disposizione degli inquirenti. A questo punto noi dobbiamo fare in modo che vengano utilizzati in modo corretto, noi dobbiamo vigilare contro la possibilità di una "schedatura genetica di massa".

 

Polizia e magistratura sostengono che un archivio del genere faciliterebbe la soluzione di molti casi...

Il discorso è: quanto è compatibile col sistema democratico? Voglio dire, anche la tortura sarebbe utilissima per trovare i colpevoli, ma è incompatibile con il nostro sistema di diritti.

 

Eppure sembra proprio che a sinistra il tema della sicurezza sia diventato ben più importante di quello dei diritti...

E´ vero, è dal 2000 che c´è stata un´inversione di tendenza verso il tema sicurezza. Su questo la sinistra segue l´agenda politica dettata dalla destra. Una scelta perdente. E´ evidente che il problema sicurezza riguarda sia la destra che la sinistra. La differenza, casomai, è sulle modalità con le quali si affronta questo problema. E´ indubbio infatti che la missione storica della sinistra sia quella di contrastare ogni forma di discriminazione e di rispettare la civiltà giuridica e la democrazia.

Giustizia: pedofilia; perché diciamo "no" alla castrazione...

di Luigi Manconi e Federica Resta

 

L’Unità, 19 settembre 2007

 

Il sillogismo è semplice e infallibile. Tutte le volte che il richiamo a mezzi forti e norme speciali, provvedimenti d’eccezione e misure drastiche non è accompagnato da rigorosi (meglio se preventivi) test sulla loro reale efficacia, lì si ha demagogia. Vale per le norme sulla violenza negli stadi come per l’emersione del lavoro nero.

E vale - forse ancor più - per quanto riguarda gli strumenti destinati a intervenire su quell’inestricabile groviglio che è l’intreccio tra psicopatologia e criminalità. Appena qualche settimana fa, sull’onda di una notizia proveniente dalla Francia, per due giorni si è ripreso a chiacchierare, all’interno del dibattito politico-giornalistico, di "castrazione dei pedofili". È un tema ricorrente.

Pressappoco come quello della scomparsa delle stagioni e della dieta punti. In questo caso, la futilità dell’approccio è resa più grottesca dal fatto che la questione rimanda a problemi tragici e la cui soluzione è, a dir poco, impervia. Cessato il clamore, vale la pena tuttavia di riprendere il discorso perché la ferita - quella dei minori abusati e degli adulti pedofili, spesso a loro volta abusati quando bambini - rimane aperta e dolente. Si dovrebbe partire, pertanto, da una rigorosissima distinzione tra i diversi trattamenti (terapia psicologica o farmacologia), tra i differenti protocolli (terapia scelta o imposta) e dalla attenta valutazione delle esperienze già realizzate e farne tesoro. Accade raramente in Italia.

Non accadde ad esempio quando, nel luglio 2003, l’allora ministro della Giustizia, Roberto Castelli, in risposta a un’interrogazione alla Camera dei Deputati, preannunciò - un disegno di legge che affidasse "coattivamente all’uso di ritrovati farmacologici la possibilità di impedire la reiterazione del reato nei soggetti già condannati". Era, palesemente, non più che un messaggio ideologico: e tale rimase.

Eppure, qualche mese prima, il Comitato nazionale di bioetica aveva già espresso un parere negativo sulla proposta, avanzata dal Procuratore generale presso la Cassazione, di "introdurre un trattamento obbligatorio successivo alla espiazione della pena, modellato sullo schema della misura di sicurezza". Il Comitato nazionale di bioetica auspicava, invece, che il legislatore non prendesse "in considerazione l’ipotesi di introdurre nel nostro sistema un trattamento sanitario obbligatorio e permanente nei confronti delle persone con tendenza pedofiliache: istanze bioetiche fondamentali (...) inducono a ritenere che tale trattamento - anche se fosse capace di estinguere le pulsioni pedofile nel soggetto (il che è ben lungi dall’essere dimostrabile scientificamente) - acquisterebbe il carattere di una indebita violenza, tanto più grave in quanto moti-vabile (...) a partire da ragioni di difesa sociale e di equilibrio del sistema penale e non da una attenta considerazione del bene oggettivo delle persone umane che verrebbero coattivamente sottoposte al trattamento".

Nonostante ciò, forse anche per l’allarme suscitato dalla vicenda di Rignano Flaminio, in Italia, e da analoghi casi, in Francia, oggi si torna a discutere di "castrazione" per chi abusi sessualmente di minori. Questione che non può non dividere, opponendo chi invoca la "tolleranza zero" per quanti si macchino di reati così gravi (connotati, peraltro, da un alto tasso di recidiva, che con la castrazione si vorrebbe scongiurare) e chi osserva come, in una democrazia, la pena non debba mai arrivare al punto da incidere in maniera tanto profonda sul corpo, la vita, l’integrità e la personalità del condannato (cosa che avverrebbe se si precludesse irreversibilmente una funzione vitale come quella sessuale). Tanto più in un’epoca in cui, come dice Foucault, "la pena, da ‘arte di sensazioni insopportabili’, ha progressivamente reciso i suoi legami con il corpo e la vita, per farsi economia di diritti sospesi".

Dalla castrazione fisica, dunque, alla sospensione fisica del diritto alla sessualità. Ma queste

potrebbero apparire come "sofisticherie" di fronte al dramma irrisarcibile di un minore abusato. Pertanto, della pedofilia e della sua prevenzione (e repressione) si deve discutere, senza preclusioni e tabù, consapevoli che si tratta di uno dei problemi "più difficili del mondo". Che riguarda una forma particolare di devianza (quella sessuale), ma anche e soprattutto quel rapporto tra le generazioni, adulti e bambini, che Freud avrebbe potuto definire il vero "disagio della civiltà". Di questo "disagio" parlano i fatti di cronaca ma anche le leggi, mai come in questa materia, tanto frequenti quanto, troppo spesso, inefficaci.

E il tema della "castrazione" è quanto mai delicato. Non solo perché, come spiega Lino Rossi, da un lato, essa provoca un temporaneo abbassamento del desiderio sessuale e, dall’altro, rende il soggetto più aggressivo (cosa già di per sé meritevole di attentissima considerazione per i pericoli che comporta): anche perché chi abusa esprime un disturbo psicologico e non patologico-organico. La pedofilia non è una malattia psichiatrica da potersi curare facilmente con rimedi farmacologici; secondo la più accreditata letteratura scientifica, è piuttosto "parafilia", ovvero disturbo della personalità o del comportamento, qualificata dalla deviazione dell’interesse sessuale verso i minori.

Si spiega così (oltre che sulla base di ragioni giuridico-costituzionali, relative all’indisponibilità dei diritti fondamentali) perché, rispetto alla soluzione farmacologica, prevalga (almeno nei paesi europei) il modello della terapia psicologica. Il condannato, per potere fruire dei benefici penitenziari o comunque a titolo di misura di sicurezza, è sottoposto a terapia psicologica, individuale o di gruppo, negli "istituti di terapia sociale".

La prima condizione di questo trattamento è che per ridurre la recidiva (per essere, cioè, efficace) presuppone la volontaria adesione del condannato al programma riabilitativo.

Questo spiega perché nella maggior parte dei paesi (ad esempio, Finlandia, Spagna, Belgio, e molti stati nordamericani) la "castrazione" è prevista come esclusivamente volontaria. Invece, i sostenitori della legge tedesca, che ha previsto la terapia psicologica come obbligatoria, affermano che anche i condannati restii o contrari, dopo un primo periodo di terapia, superano le resistenze e portano a termine il percorso riabilitativo con buoni risultati (si stima una riduzione fino al 50% del tasso di recidiva, ma i dati sono decisamente contraddittori).

Discorso diverso richiede la "castrazione chimica" volontaria, prevista in Germania, Svezia, Norvegia, California e Canada. In Danimarca, poi, dove i violentatori possono scegliere fra lo scontare interamente la condanna in carcere o accettare di seguire un trattamento medico, beneficiando così di una liberazione anticipata, la terapia sembra aver dato risultati efficaci; i casi trattati (25 dal 1989 al 2005) non hanno registrato recidiva. E, tuttavia, questo non consente di eludere alcune domande di fondo. Di fronte al pericolo di ulteriori violenze sui minori, qual è il limite del diritto e della pena?

Fino a che punto si può accettare di comprimere i diritti fondamentali dell’imputato, in nome della protezione di un’infanzia indifesa? Qual è il limite oltre il quale il bisogno di tutelare i bambini non può impone deroghe alle forme ordinarie e garantiste del diritto penale? Difficile rispondere. Ad aiutarci è quella stessa mozione del Comitato nazionale di bioetica prima ricordata. Essa non corrisponde solo ed esclusivamente a una sacrosanta affermazione di principi inviolabili: in un breve inciso è contenuto un argomento formidabile, e da troppi - irresponsabilmente - trascurato.

L’efficacia della "castrazione chimica", anche "se fosse capace di estinguere le pulsioni pedofile", è "ben lungi dall’essere dimostrabile scientificamente". Ecco il passaggio cruciale da tenere ben presente. Non disponiamo per ora di ricerche su campioni sufficientemente rappresentativi per trarre un bilancio definitivo, e definitivamente attendibile, dei risultati della "castrazione chimica". I dati sono spesso controversi: e, tuttavia, alcuni devono farci seriamente riflettere.

Consideriamo ancora una ricerca, quella condotta nel 1991 in California, che ha dimostrato come nel 7,4 % dei casi, neppure la "castrazione chimica" ha potuto impedire la commissio-ne di abusi sessuali nei cinque anni successivi al trattamento. La "castrazione chimica" rischia quindi di essere quindi non soltanto una misura di dubbia legittimità (giuridica, morale, politica), ma anche inefficace, proprio perché non garantisce la prevenzione della recidiva. Se questa ultima ricerca fosse generalizzabile e, dunque, la adottassimo come parametro incontrovertibile dell’efficacia del trattamento in questione, le conseguenze sarebbero obbligate. L’argomento più diffuso e "popolare" contro le preoccupazioni garantiste e la tutela dei diritti fondamentali dell’autore del reato - che cos’è la violazione di quei diritti di fronte allo scempio di un bambino? - perde la gran parte della sua forza.

Quella percentuale di fallimento tende a vanificare l’argomento prima citato. I diritti in alternativa - quello alla tutela del bambino e quello all’integralità del suo abusatore - risultano inconciliabili e portano, inevitabilmente, a privilegiare il primo quando la deroga al secondo dimostri la sua assoluta necessità (e utilità).

Ma se nel 7,4% dei casi non è così, quel 92,6% di successo non è sufficiente a motivare la rinuncia a un diritto per definizione irrinunciabile. E impone, piuttosto, la ricerca di soluzioni diverse, la cui efficacia sia maggiore e la cui capacità di ledere diritti fondamentali sia minore. Tutto ciò - lo sappiamo bene - è opinabile, ma ci sembra consentire un approccio più corretto e produttivo al problema. Problema che si conferma, come dicevamo, tra i "più difficili del mondo".

Forse perché, come scrive Theodor W. Adorno, "il tabù più forte di tutti (...) è oggi quello che va sotto la voce di "minorenne" (...) Il sentimento di colpa, universale e motivato, del mondo degli adulti non può fare a meno di ciò che essi definiscono l’innocenza dei bambini, come della sua immagine speculare e del suo rifugio, ed ogni mezzo per difenderla per loro va bene".

Polizia Penitenziaria negli Uepe: comunicato della Fp-Cgil

 

Blog di Solidarietà, 19 settembre 2007

 

Ieri, 17 settembre 2007, è ripreso il confronto con l’Amministrazione sulla bozza di decreto interministeriale (Giustizia e Interni) che prevede la sperimentazione - presso alcuni Uepe - dell’inserimento della Polizia Penitenziaria con l’istituzione dei Nuclei di verifica e controllo.

La Fp-Cgil, pur riconoscendo all’Amministrazione di aver manifestato una adeguata capacità di ascolto rispetto alle numerose istanze sindacali pervenute nel merito durante gli incontri che si sono svolti, ha evidenziato il permanere delle perplessità che già erano state ampiamente rappresentate.

In particolare, ci riferiamo: alla richiesta di una adeguata valutazione circa la natura del controllo prevista sulla misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, rispetto alla quale da più parti sono state avanzate forti perplessità, al carattere scientifico entro cui si connota la sperimentazione e alla attenta valutazione dell’impatto organizzativo che la stessa comporta. È su tali questioni che la Fp Cgil, alla luce della nuova stesura del decreto in questione, ha focalizzato le sue osservazioni.

Seppure apprezzabile, infatti, l’individuazione di compiti di controllo più chiari e di garanzia per la stessa Polizia Penitenziaria - ci riferiamo all’assolvimento da parte della P.P. del controllo sulla detenzione domiciliare e sulla semilibertà - non abbiamo condiviso, ravvisando anche una certa ambiguità nel merito e nella forma, la scelta di affidare al Magistrato di sorveglianza se rimettere o meno alla Polizia Penitenziaria il controllo dell’affidamento in prova, ritenendo tale intento inopportuno in quanto connotato di una discrezionalità che potrebbe avere risvolti molto discutibili per gli aspetti discriminanti, in termini di sicurezza e controllo, che ne potrebbero conseguire.

Rispetto al carattere scientifico della sperimentazione, la Fp Cgil ha espresso ancora forti perplessità, in quanto risultano ancora incerti i criteri e gli indicatori necessari per la valutazione finale della sperimentazione. Abbiamo ribadito, quindi, l’opportunità di prevedere che la valutazione dei risultati, in virtù del carattere scientifico della questione, e a garanzia della imparzialità, fosse affidata ad un ente terzo rispetto al Dap.

Infine, questa O.S. ha ribadito le osservazioni già avanzate riguardo l’impatto negativo che tale sperimentazione - così come viene delineata nell’ipotesi prospettata - rischia di determinare sia dal punto di vista funzionale - ci riferiamo alla collocazione logistica e funzionale dei nuclei presso gli Uepe -, e sia riguardo le risorse, umane, economiche e strutturali che risultano allo stato assolutamente esigue.

Rispetto al primo punto, considerato che la sperimentazione del controllo partecipata prevede di concentrarsi sulla semilibertà e sulla detenzione domiciliare, misure che meno caratterizzano l’attività istituzionale degli Uepe, abbiamo rappresentato l’opportunità di collocare i nuclei in questione in altre strutture (ad esempio i Prap o i Nuclei di Traduzione e Piantonamento) a garanzia dell’autonomia professionale della Polizia penitenziaria e degli Assistenti sociali.

Riguardo il secondo punto, la Fp Cgil ha contestato l’assenza di una reale ed obiettiva stima delle risorse necessarie all’avvio della sperimentazione e ha ribadito che allo stato enormi sono le difficoltà che si riscontrano in termini soprattutto di carenza organico su tutto il territorio nazionale, difficoltà che inficerebbero, mettendone in discussione la credibilità, l’iniziativa concepita.

L’Amministrazione, alla luce delle osservazioni esposte, anche da alcune altre OO.SS., ha ritenuto opportuno rinviare l’incontro per assumere ulteriori elementi, necessari affinché la sperimentazione sia avviata nel miglior modo possibile e assuma credibilità e condivisione.

Alcune riflessioni sulla questione, a questo punto, ci sembra necessario proporle e condividerle con i lavoratori: la fase iniziale della discussione e del confronto riguardo il tema in questione è stata caratterizzata da una forte chiusura dell’Amministrazione, orientata a chiudere nel più breve tempo il confronto e senza fornire alle OO.SS. alcuna delle garanzie richieste nei precedenti incontri.

Una chiusura allarmante non solo per i lavoratori e gli addetti e/o esperti del settore ma anche per la Fp Cgil che, senza falsa modestia, ha saputo ascoltare le istanze dei lavoratori facendosene carico e che con coerenza e determinatezza ha rappresentato nel corso degli incontri.

Il cammino non è ancora terminato, è vero, ma se ad oggi, dopo circa sei mesi, ci troviamo ancora e giustamente a discuterne, possiamo senz’altro affermare che il ruolo di una O.S. risulta rafforzato e determinante quando sussiste il sostegno dei lavoratori e quando il sostegno orienta la discussione verso un percorso condiviso, caratterizzato dalla peculiarità dei suoi contenuti e non dalla facile demagogia.

La Fp Cgil sul tema ha deciso fin dall’inizio di esserci, e continuerà con i lavoratori il percorso intrapreso.

Polizia Penitenziaria negli Uepe: scrive un assistente sociale

 

Blog di Solidarietà, 19 settembre 2007

 

Sono un assistente sociale dell’Amministrazione penitenziaria con uno stato di servizio ventennale e mi inserisco per la prima volta nel dibattito sull’ampliamento dei compiti della Polizia Penitenziaria: l’ipotesi di integrare le funzioni di quella forza di polizia con le prerogative attribuite agli Uffici di Esecuzione Penale Esterna originariamente destinate al servizio sociale professionale. Il dibattito e le scelte hanno assunto una configurazione complessa, controversa, irrituale, finanche incomprensibile. Una ragione che si dice essere il motivo dell’ampliamento sta nella necessità che si eserciti più "controllo" sulla esecuzione delle pene alternative alla detenzione perché sia data più sicurezza al cittadino e perché ci sia più certezza della pena.

È sempre più evidente che né la gran parte del personale di Servizio Sociale né la gran parte del personale di Polizia Penitenziaria vogliono che le due professioni - e le due funzioni che esse esprimono - si contaminino tra loro. Vale la pena spendere ancora qualche riga, tra le migliaia che sono già state scritte, per continuare a riflettere a quali idee ed a quali princìpi dovremmo ispirarci.

Il contesto del dibattito e delle scelte in corso è il "modo in cui uno Stato democratico intende che le pene vengano eseguite e le condanne scontate nei casi in cui si sia ritenuto di non limitare la libertà personale con il carcere". Questo assunto, ritengo non contestabile, ha a che fare non solo con l’imposizione al cittadino oggetto di un provvedimento giurisdizionale penale di un perimetro di regole (le prescrizioni) che fanno le veci del perimetro di cemento armato di un carcere. È altresì vero, e questo sì che potrebbe essere un punto trascurato da parte di alcuni, che al di sopra e all’interno di questo assunto di esigenza penale c’è il principio di legalità.

Tanto sbandierato quanto misconosciuto, il principio di legalità è a fondamento della convivenza civile e, in misura maggiormente evidente, è sovrano in un sistema penitenziario che vuole i protagonisti tutti in atteggiamento funambolico tra l’imposizione di regole, l’esercizio di diritti, l’assolvimento di doveri, la tutela della sicurezza collettiva, la prevenzione e la repressione dei delitti, il sempre negletto e ostico monito pedagogico del ventisettesimo paradigma dei Padri costituenti.

Per farla breve. Qui, con questa querelle sulla Polizia Penitenziaria negli UEPE la collettività nazionale si gioca più di quello che sembra. Essa appare un dissidio di campanile tra chi ha la divisa e chi no oppure una svirgolata di un esecutivo benemerito o miope; appare una delle tante partite tra reazionari e progressisti oppure un impiccio tutto interno ad una enclave amministrativa di uno Stato affaccendato in ben altre faccende. Credo invece che ci sia più di quello che sembra. Credo che la vicenda PP/UEPE sia assolutamente emblematica perché terreno di esercizio della democrazia sostanziale. Di realizzazione di un postulato democratico nella realtà del concorso di tutti a prendere parte nelle decisioni collettive. Dibattere sui poliziotti negli UEPE "sì" e poliziotti negli UEPE "no" vuole dire assumersi la responsabilità di dare senso, sostanza alla forma democratica di quelle organizzazioni periferiche dello Stato che si chiamano UEPE.

Alcuni stanno decidendo che in tali organizzazioni l’esecuzione delle misure giurisdizionali penali e il principio di legalità saranno garantiti da una forma (l’inserimento di un organo di polizia) che esclude, dopo decenni di riforma dell’ordinamento penitenziario, che un avamposto di assistenti sociali, di figure professionali dedicate alla definizione dei bisogni singoli e collettivi ed alla valorizzazione delle risorse singole e collettive, sia sufficiente a sostenere - insieme ad altre componenti esterne, facenti parte o no del sistema penitenziario - esecuzione certa delle misure e principio di legalità.

Non esiste un modello perfetto di ordinamento, tanto più in un ambito così variegato come quello di contrasto alla violazione delle regole penali. Ed è vero che è un errore storico, specialmente nel moto perpetuo della ricerca imperfetta di democrazia, chiudersi a nuove esperienze, a sperimentazioni. I processi della storia di una democrazia sono sempre aperti per definizione. E, per quello che ci riguarda, chi ha la responsabilità ultima di decidere per la Polizia Penitenziaria negli UEPE lo deve fare essendo convinto che sia effettivamente tenuto in debito conto il parere della maggioranza quantomeno dei lavoratori che dovranno mettere in pratica la riforma, maggioranza che a me sembra, per ragioni diverse, contraria. Con il rischio concreto che la riforma fallisca.

Ma c’è qualcuno che possa aiutarmi a capire perché l’ampliamento dei compiti di una polizia specializzata nella gestione del recluso all’interno degli istituti penitenziari della Repubblica sia per definizione dovuto e benefico sul territorio libero della Repubblica stessa? C’è qualcuno che sa rispondere al perché certuni siano così sicuri che un corpo di polizia, così degno di apprezzamenti per l’evoluzione che lo ha contraddistinto durante gli ultimi lustri, sia l’unica via di riforma di quell’avamposto organizzativo dello Stato che sono gli UEPE?

Una polizia, nell’accezione originaria del termine, controlla, previene, reprime. Il potere simbolico di una divisa genera timore, rispetto, protezione. Questi verbi e questi sostantivi sono da lungo tempo amplificati da altri significati che vengono attribuiti ad un dipendente dello Stato in divisa di polizia: costui sempre più diventa "di prossimità", di aiuto "umano" e di sostegno morale per il cittadino, diventa un nuovo competente in campi dello scibile, da quello scientifico a quello assistenziale. Caratteristiche erose ad altre professioni, ad altrui competenze (e si rifletta sul fatto che i nostri poliziotti penitenziari sono offesi oppure terrorizzati dal venire subordinati o equiparati agli assistenti sociali).

Io dico che confidare in via prioritaria nel ruolo di polizia perché controllo e legalità siano garantiti è un segno di ingenuità ma, peggio, è un sentore di debolezza per una democrazia. Parlamentare per giunta. È un alibi offerto all’incapacità dell’essere cittadini rappresentati e rappresentanti (soprattutto coloro a cui è demandato il governo della cosa pubblica).

Bisogna differenziare - e pochi lo fanno - le tipologie di persone sottoposte a provvedimenti giurisdizionali penali. Nel caso di dette tipologie attualmente ricadenti sotto la competenza degli UEPE la maggioranza dei soggetti propone delitti che di grave e abietto hanno in proporzione all’allarme sociale percepito e indotto, che di per sé risentono di una recrudescenza per cause ben definibili. Che comunque giungono al territorio libero per decisione giudicante. L’opinione pubblica o l’amministratore poco attento non si chiedono chi siano gli utenti territoriali degli UEPE, non si chiedono quale sia il loro grado di pericolosità (ma un requisito per accedere alle misure alternative et similia non è l’assenza di pericolosità?), non si rendono conto di quali siano le esigenze "di rieducazione". L’evidenza della tipologia del gran numero di casi non richiede espressamente l’esercizio di un potere di polizia specializzata. Ancorché "attenuata". La divisa, in detti casi, non è un requisito di rieducazione. Perché è molto più pervasivo e dinamico il controllo sociale indotto da figure sociali civili che quello agito da figure sociali di polizia. E perché, come la mia esperienza di lavoro mi insegna, è proprio l’intervento che oggi le forze dell’ordine eseguono, in detti casi, a procurare una inutile attenzione allarmata vuoi in un condomino vuoi in un datore di lavoro. Il punto dirimente di tutta la nostra questione è "l’accertamento della violazione di una prescrizione": ma perché la capacità operativa di accertamento e di trattamento della violazione di un poliziotto penitenziario dovrebbe garantire più di quella di un assistente sociale? Perché non si confida sui compiti ordinari di polizia attivi in ambito extrapenitenziario?

Detto ciò, io tengo aperta la questione del rispetto del perimetro delle regole imposte (delle prescrizioni) e dell’attenzione massima al principio di legalità in ambito di esecuzione alternativa delle pene e delle misure di sicurezza non detentive.

Sono convinto che l’efficacia del servizio sociale penitenziario richieda maggior rigore nonostante il confortante valore dei dati statistici. Sono convinto che, per molteplici ragioni - da declinare magari in altra sede -, abbia ragione chi affermi che quell’avamposto innovativo dello Stato che una volta si chiamava, con enfasi riformatrice, Centro di Servizio Sociale per Adulti e che oggi si chiama, con enfasi peregrina di extraterritorialità carceraria, Ufficio Locale di Esecuzione Penale Esterna sia diventato un’attestazione per difetto di capacità rieducativa. Nulla togliendo, beninteso, alla valenza specialistica (esperienziale e cognitiva) degli assistenti sociali ivi operanti. Esiste il rapporto diadico UEPE - territorio più o meno difficile; esiste una difficoltosa caratterizzazione dell’UEPE quale agenzia dedicata in un determinato territorio, mi si passi il termine, alla riconversione personale e sociale di un cittadino estremo.

Sono convinto che se si vuole dare veramente senso, sostanza alla forma democratica di quel processo di riconversione al fianco di tutte le altre agenzie sociali che rendono possibile ai cittadini ed ai cittadini estremi il perseguimento del benessere, scevro da comportamenti illeciti, in quest’Italia euromediterranea, si debba anche riformare l’UEPE con serietà. Non percorrendo ipotesi e scelte di ibridazione con la Polizia Penitenziaria. La quale ha da assolvere, con altrettanta serietà e competenza, altri compiti di onere diverso.

Io sono per un rafforzamento e per una diversificazione delle prerogative degli UEPE. Dirette sì alla integrazione in essi di altre figure sociali civili ed all’incremento di dotazioni organiche e strumentali. Dirette sì alla promozione di politiche per il penitenziario. Dirette anche, in senso evolutivo, all’attribuzione di capacità d’indagine, di verifica, di analisi - intrinseca e in concorso con altre agenzie - di una miriade di elementi sintomatici del rispetto del principio di legalità che oggi non vengono all’attenzione nella gestione dei singoli casi trattati o all’attenzione delle attuali relazioni di rete degli UEPE stessi. Qualcosa di più della prevista riforma che rassetta solo l’esistente. E un presupposto fondamentale per tale cambiamento sta proprio in quel mandato che nei decenni è stato reso concreto dal servizio sociale penitenziario; quella funzione che è parsa e pare a molti anacronistica e irrealizzabile nel coniugare il processo di cambiamento della persona con il chiedergli conto dei suoi comportamenti; quella originale facoltà degli assistenti sociali di utilizzare il controllo come uno strumento di aiuto. Una generale politica di contrasto e di prevenzione dei delitti e degli illeciti non può liquidare quella funzione - propria del momento rieducativo - abdicando alla presunta e scontata maggiore efficienza di una forza di polizia la soluzione di un problema "sicurezza" che problema non è. La sicurezza sociale, data la presenza su di un territorio di cittadini ai quali è stata data una possibilità di "rieducazione", si persegue semmai razionalizzando i compiti ordinari delle forze di polizia e consentendo ad un UEPE riformato la separazione funzionale da esse perché si rafforzi l’immagine di uno Stato che, nel trattare le misure giurisdizionali penali, sappia presentarsi con volti ben distinti. Distintamente concorrenti a storicizzare la valenza del dettato costituzionale.

Una politica dell’esecuzione delle misure giurisdizionali penali non può eludere - proprio perché in permanente correlazione con l’universo dei fenomeni sociali - l’interesse, per esempio, per il rispetto della legislazione fiscale oppure della legislazione del lavoro oppure del rispetto delle norme civilistiche quando interviene nella trattazione del singolo caso del "soggetto penale in rieducazione". E ciò non con fare meramente inquisitorio o, per altri versi, strumentale per il solo rispetto irrinunciabile della legalità. Perché ciò è deputato ad altre agenzie. Le finalità che la legge conferisce agli UEPE verrebbero direttamente orientate al rispetto della legalità nella più ampia platea dei soggetti impegnati in azioni di pedagogia della legalità.

Ci ritroviamo in un Paese in cui sempre più la vulnerabilità penale di cittadini deboli o indeboliti da politiche sociali deficitarie è alta. È diffuso il senso di liceità dell’illegalità che assolve chi è forte e mortifica la repressione di comportamenti penalmente rilevanti commessi da chi debole non è. Ecco che il contrasto al crimine pone tutti su un crinale che non ammette distrazioni. Richiede competenza civile nel distinguere sempre tra repressione e rieducazione.

Ci deve pur essere un luogo in cui lo Stato si riserva uno spazio esclusivo di autorevolezza nei confronti di quei cittadini già passati al vaglio dell’Autorità giudiziaria, giudicati meritevoli di esecuzione territoriale senza bisogno di irrobustirsi a tutti i costi con prerogative di polizia illusoriamente innovative. Uno spazio che gli UEPE occupano, forse inconsapevolmente, dal 1975. Alla mancanza di lavoro, alla mancanza di assistenza, alla malafede, alla recidiva, alle malattie che predispongono al delitto, alla propensione al reato, a una seria intenzione di recupero, ai micro conflitti di una società, all’ignoranza non si risponde con l’aumento o con la distrazione di organici di polizia. Si risponde anche con la riforma di una risorsa che lo Stato già possiede mantenendone integre le prerogative e non stravolgendole.

La fibrillazione in atto sul destino del servizio sociale penitenziario non può attestarsi sulla difesa dell’esistente o sul solo richiamo ad una specificità che è stata sinora mortificata. La richiesta del rispetto della dignità del lavoro del servizio sociale penitenziario è al tempo stesso la richiesta di tutela dell’interesse collettivo. La convinzione di essere, noi fautori del rifiuto della ibridazione voluta a tutti i costi ormai non so più da chi veramente, ci deve dare la stura perché noi per primi si riesca a proporre scenari nuovi.

 

Paolo Volontè

Medicina: infermieri Sai su riforma della sanità penitenziaria

 

Ristretti Orizzonti, 19 settembre 2007

 

Siamo in perfetta sintonia con L’Amapi per quanto riguarda le perplessità espresse dal Prof. Ceraudo: Ancora una volta altri spesso non addetti e ignoranti di quanto e cosa voglia dire medicina penitenziaria fanno le loro scelte politico organizzative a spese del servizio sanitario nelle carceri.

Mai possibile che i sindacati veri, quelli di frontiera come il nostro e l’Amapi, al di la delle nostre divergenze, mai e dico mai vengono ascoltati in maniera preventiva: pensando e a torto che essendo sindacati pensiamo solo agli interessi degli iscritti ed è vero ma non come interesse esclusivo che in realtà è la salute dei detenuti. Il nostro obiettivo e anni di azioni e di proteste lo hanno sempre dimostrato.

I nostri sindacati sono fatti da dirigenti e iscritti che da anni lavorano nella medicina penitenziaria: spesso, se non sempre, calpestati nella loro dignità di uomini e professionisti ma in silenzio comunque sempre portano la loro professionalità e il loro spirito di sacrificio a disposizione dello stato, dei pazienti e con abnegazione mai tentennata nel fare questo. Solo i miopi o gli uomini in malafede possono disconoscere questo partorire decreti attuativi del passaggio così in maniera sbagliata catastrofica e ancora una volta non tenendo conto di nessuno di noi.

Noi veniamo chiamati, se ne abbiamo la fortuna, solo per comunicarci cosa hanno fatto non interessandosi minimamente di cosa avrebbero potuto fare con il conforto e la grande capacità professionale che avremmo potuto mettere sul tavolo più per loro che per noi. Questo non vuole dire che io parlo a nome dell’Amapi certo, ci mancherebbe altro, ma a nome di quei tanti operatori che ancora una volta si vedono minacciati nel loro posto di lavoro, depauperati con arroganza anche dai loro ruoli organizzativi in nome di non si sa cosa.

L’Italia non ha memoria chi come me ha fatto la psichiatria, quella che viene da lontano, che viene da lontano si ricorda molto bene che la 180 fallì, perché di fallimento si parla, per due motivi furono lasciati fuori gli infermieri e mai fu finanziata. Questo si prepara per il futuro della medicina penitenziaria. Ma questa volta non assisteremo supini a tali accadimenti la nostra protesta la si farà sentire e forte.

E poi vorrei anche dire ai politici che ogni giorno si sciacquano la bocca con la lotta al precariato che le carceri sono piene di professionisti capaci che ormai non sono più giovani precari ma vecchi precari. Darle la sanatoria sarebbe un gesto di alta civiltà di alta democrazia ma sopratutto di giustizia me credo che i nostri politici di qualsiasi schieramento non hanno un profilo così alto da riconoscere questo. Ancora una volta il nostro motto sarà resistere resistere resistere aggiungendo lottare lottare lottare.

 

Marco Poggi, Segretario Nazionale del SAI

Avellino: il detenuto morto per infarto aveva assunto droghe

 

Irpinia News, 19 settembre 2007

 

Il giovane di Torella dei Lombardi, morto nella notte tra sabato e domenica nel carcere di Ariano Irpino, aveva ingerito una quantità notevole di droga, che sarebbe stata la causa o la concausa del sopravvenuto arresto cardiocircolatorio. Questo il risultato dell’autopsia sul suo corpo, anche se per la conferma definitiva occorre attendere il verdetto delle indagini tossicologiche. Il giovane, Raffaele Iuorio, si è sentito male alcune ore dopo l’arresto, pertanto l’ipotesi più probabile, sempre che la presenza di droga nel suo organismo venga confermata, è che l’abbia assunta prima di essere fermato dalle forze dell’ordine.

Pisa: la sicurezza è la principale preoccupazione dei cittadini

 

Redattore Sociale, 19 settembre 2007

 

Indagine dell’Osservatorio sui punti di vista degli amministratori locali. Insicurezza alimentata più dalla rottura dei legami sociali che dalla dimensione oggettiva del fenomeno. Se ne parla domani in un convegno.

Prevenire la marginalità sociale, rafforzare la legalità, arginare il degrado urbano: queste alcune direzioni fondamentali secondo cui le politiche per la sicurezza dei territori dovrebbero oggi orientarsi. L’Osservatorio per la sicurezza urbana - costituito presso la Provincia di Pisa come sezione dell’Osservatorio per le politiche sociali sulla base di un protocollo d’intesa con la Giunta della Regione Toscana siglato nel 2004 - sta portando avanti un lavoro di indagine in questo ambito con l’obiettivo di fornire ai Comuni della Provincia un concreto strumento conoscitivo utile alla programmazione degli interventi. La prima fase dell’attività ha portato alla raccolta di un’ampia documentazione statistica sull’utilizzo da parte dei Comuni delle risorse assegnate dalla Regione Toscana in virtù della legge regionale 38/2001 ("Interventi regionali a favore delle politiche locali per la sicurezza della comunità toscana"). Domani a Pisa, in un convegno presso la sala del Consiglio provinciale (ore 9.30, P.zza Vittorio Emanuele II, 14), vengono presentati i risultati della seconda fase dell’indagine - "Aspetti della Sicurezza Urbana in Provincia di Pisa. Le valutazioni dei sindaci e l’utilizzo della legge regionale 38/2001"- realizzata in collaborazione con il Dipartimento di Statistica e Matematica applicata all’Economia dell’Università di Pisa.

Questa seconda indagine, svolta tra aprile e maggio scorsi, ha coperto l’intero territorio provinciale (39 comuni) intervistando 37 sindaci, due vice-sindaci e un assessore delegato.

Obiettivo, cogliere il punto di vista degli amministratori sulla situazione della sicurezza nei loro territori, venire a conoscenza delle esigenze, favorire l’informazione, promuovendo azioni di raccordo tra gli enti e tra tutti i soggetti che giornalmente si occupano di garantire la sicurezza ai cittadini. Emerge un’immagine nel complesso positiva della sicurezza del territorio, insieme però all’idea che questa rappresenti la preoccupazione principale dei cittadini, alimentata sempre meno dalla dimensione oggettiva del fenomeno, e sempre più dalla rottura dei legami sociali. Le situazioni di problematicità individuate dagli amministratori coinvolgono soprattutto il traffico e gli incidenti stradali, l’inciviltà e il vandalismo, la criminalità predatoria, lo spaccio di stupefacenti, l’illegalità connessa alla tossicodipendenza e la sicurezza sul lavoro, segnali di malessere concentrati soprattutto nei comuni della fascia più densamente popolata del Valdarno e della Valdera.

Secondo le indicazioni dei sindaci le richieste dei cittadini sono orientate prevalentemente a misure rivolte al controllo diretto del territorio, alla tempestività degli interventi delle Forze dell’Ordine e al contrasto di fenomeni di inciviltà (ad esempio attraverso sorveglianza diurna e notturna delle strade, tutela della sicurezza stradale, controllo degli atti vandalici). Alcuni sindaci hanno installato sul territorio telecamere per sorvegliare l’ordine pubblico e contrastare i reati ambientali, fiduciosi in questi strumenti di controllo, ma alcuni di loro, durante le interviste, hanno anche sottolineato di essersi dovuti ricredere sull’efficacia di questi strumenti:l’installazione di videocamere in alcuni punti ha avuto come conseguenza la "mobilità" dei reati verso zone non video-sorvegliate, che hanno assunto così il ruolo di zone franche.

Quali allora le strategie locali? Gli interventi più citati dai sindaci indicano il coordinamento delle Forze dell’Ordine, l’educazione alla legalità nelle scuole e il coordinamento istituzionale per un miglior controllo del territorio. Per approfondimenti sull’indagine contattare la coordinatrice delle attività emergono dunque dall’indagine tutti i nodi problematici che caratterizzano oggi il dibattito sulla sicurezza e sui quali anche l’Osservatorio è chiamato a svolgere un ruolo importante: la richiesta da parte dei cittadini di un forte controllo del territorio, i limiti di politiche e azioni orientate esclusivamente alla sorveglianza ed alla repressione - a cui devono accompagnarsi la valorizzazione del concetto di legalità, la prevenzione del disagio e della marginalità sociale - l’importanza dell’integrazione e del coordinamento tra tutti i soggetti istituzionali e non.

Padova: il sindaco Zanonato; sceriffo io? ma se aiuto la gente

 

Famiglia Cristiana, 19 settembre 2007

 

Nella lista dei sindaci di Sinistra "sceriffi", dov’è entrato buon ultimo il collega di Firenze Leonardo Domenici, lui c’è da tempo. Flavio Zanonato, 57 anni, Ds, primo cittadino di Padova, l’etichetta di sindaco a "tolleranza zero" se l’era già conquistata l’anno scorso, quando sgomberò il ghetto di via Anelli erigendo il cosiddetto "muro" antispaccio; riconfermata con la chiusura dello storico centro sociale "Gramigna", simbolo dell’Autonomia padovana e luogo che ospitava componenti delle nuove Br; ribadita definitivamente dopo l’ormai famosa ordinanza antilucciole di qualche mese fa che multa i clienti.

Ma Zanonato, famiglia cattolica, entrato nel ‘68, a 18 anni, nella Fgci (Federazione giovanile del Pci), perciò "revisionista fin da ragazzo", come auto-ironizza, una carriera politica nel Pci e nei Ds, prima di diventare il primo cittadino di Padova nel ‘93, poi nel ‘95 e infine nel 2004, non teme le definizioni a effetto dei giornalisti e tira dritto per la sua strada, convinto che sia più importante avere il consenso della gente: "Di fronte al cittadino che protesta, perché sicurezza significa qualità della vita, non puoi far finta di nulla. Devi farti carico del problema, anche se le soluzioni di un sindaco non possono che essere parziali".

Ma ci tiene a sgomberare il campo dall’equivoco: "Non ho mai immaginato che i molti problemi della sicurezza si risolvano solo con misure repressive. Le radici di questi fenomeni sono sociali e vanno affrontati con le politiche adeguate. Il fatto è che a fare notizia è solo la repressione".

 

Come il "muro" di via Anelli?

"Esatto. Ma nessuno parla delle 270 famiglie che da un tugurio abbiamo riportato in una casa normale evitando di riconcentrarle in un quartiere-ghetto dove pagavano 600 euro per 28 metri quadrati. Un lavoro immenso realizzato con accompagnatori e la mobilitazione dei servizi sociali".

 

Lo stesso si è ripetuto con l’ordinanza antiprostitute...

"Sì, eppure noi, utilizzando la legge sull’immigrazione, abbiamo inserito più di trecento donne liberatesi dal racket della prostituzione in percorsi di integrazione. Ci sono voluti anni per realizzare tutto ciò; è stata la parte più difficile. Ma nessuno ne parla. L’ordinanza, invece, l’ho fatta in pochi minuti. La mia idea è: lotta dura contro i delinquenti e lotta dura contro le cause del crimine".

 

E che risultati ha sortito il provvedimento?

"C’è stato un ridimensionamento importante del fenomeno, tant’è che i padovani hanno apprezzato l’iniziativa. So bene che è una soluzione parziale, ma qualsiasi politica di un sindaco può offrire soluzioni modeste. Noi tamponiamo assenze dello Stato".

 

Allude a una legge ad hoc?

"In questo caso una legge semplicissima che dicesse: prostituirsi lungo le strade non è consentito; è un illecito punito con un’ammenda che va pagata dal cliente e dalla prostituta. Che non significa tornare ad aprire le case chiuse, intendiamoci. Prostituirsi non è un reato, ma farlo lungo le strade non è consentito in molti Paesi. Le organizzazioni criminose che sfruttano la prostituzione vengono in Italia, perché altrove non lo possono fare. Non fingiamo di non capire".

 

Le dà fastidio essere considerato un sindaco di Sinistra che usa metodi di Destra?

"Se una signora anziana esce dall’ufficio postale e le rubano la pensione, difenderla è di Destra? A me pare di no: è doveroso e basta. Anzi, aggiungerei che, in base al senso di giustizia che è collegato ai nostri valori, è pure di Sinistra. E poi: il degrado urbano e l’insicurezza sono avvertiti maggiormente dai ceti popolari e dalla povera gente che si difendono con più difficoltà e che hanno bisogno dell’intervento di un’autorità pubblica".

 

Che ne pensa dell’iniziativa contro i lavavetri del collega Domenici?

"Che la questione numerica è fondamentale, cioè che la dimensione di un fenomeno ne cambia radicalmente la qualità. Se a ogni semaforo arriva uno che alza il tergicristallo, diventa un problema reale. Anche il caso di Firenze è stato enfatizzato".

 

Ma da Sinistra sono piovute dure critiche. Asor Rosa ha minacciato di dimettersi da intellettuale di Sinistra...

"Ma s’è accorto Asor Rosa che si sono già dimessi migliaia di elettori della Sinistra? Non siamo in sintonia col Paese. Se sei un intellettuale, allora, cerca di capire perché perdi il consenso della gente su una questione vera. O pensi forse che i cittadini siano tutti visionari?".

 

Le stesse critiche le ha ricevute pochi giorni fa il ministro Amato all’annuncio del "pacchetto" sulla sicurezza.

"La cultura della Sinistra tende a cer-care la radice del fenomeno per modifi-carlo. Ed è giusto. Ma aver capito le ragioni socioeconomiche dell’immigrazione clandestina, per esempio, non mi consente di fare il passaggio logico di accettare il fenomeno, come fosse una giusta compensazione. È un cortocircuito logico pericoloso e una risposta illusoria di parte della Sinistra italiana".

 

Perciò Amato fa bene a procedere?

"Certamente. Non credo però che una delle soluzioni sia potenziare il numero di poliziotti e carabinieri. Quattrocentomila unità sono più che sufficienti. Il problema è ridistribuirne le mansioni, modificando le normative".

 

Si spara a zero anche sull’indulto...

"Penso, col senno di poi, che sia stato un errore. Si è lanciato un messaggio sbagliato. Ricordo però che lo ha votato anche il Centrodestra".

Spoleto: detenuti in sciopero della fame contro l’ergastolo

 

Associazione Pantagruel, 19 settembre 2007

 

Dal carcere di Spoleto è partito un appello per iniziare uno sciopero della fame il 1° dicembre 2007 per chiedere l’abolizione dell’ergastolo. Sono più di 500 gli ergastolani che ad oggi hanno risposto sì, ma le adesioni continuano ad arrivare. E accanto agli ergastolani per solidarietà con la loro lotta pacifica si stanno schierando numerosi compagni detenuti e familiari. Se la maggioranza farà lo sciopero della fame per uno/due giorni, già una ventina di detenuti hanno dichiarato che invece lo porteranno avanti ad oltranza fino a che non avranno delle risposte politiche.

Dall’appello degli ergastolani del carcere di Spoleto: "L’ergastolano non può guardare in faccia il futuro può solo guardare il tempo che va via. Gli ergastolani non hanno futuro, tirano a fare sera e a fare mattino. Gli ergastolani più fortunati riescano a sognare: i nostri sogni sono le uniche certezze della nostra vita e spesso sogniamo di riuscire ad avere un fine pena. Molti di noi se potessero scegliere preferirebbero morire subito, adesso, in questo momento, piuttosto che nel modo orribile, progressivamente e infinitamente spaventoso di morire tutti i giorni. Numerosi ergastolani hanno deciso, dal primo di dicembre di non mangiare, non lasciateci soli, abbiamo bisogno della tua solidarietà.

Dove vogliamo arrivare? Pretendiamo che siano rispettate le regole dello Stato di diritto e della democrazia: Rifondazione Comunista, partito che sostiene questo governo, ha presentato due disegni di legge per l’abolizione dell’ergastolo, uno alla Camera e uno al Senato, ebbene vogliamo che questi due disegni di legge siano discussi. In maniera trasparente, mostrando le nostre facce ed il nostro dolore abbiamo deciso, nonostante tutto e tutti, di vivere lottando pur rischiando di morire".

Cosa chiediamo a tutti quelli che ci leggono: 1. un’adesione alla campagna "Mai dire Mai" e quindi un’adesione all’abrogazione dell’ergastolo; 2. per chi se la sente un’adesione allo sciopero della fame almeno per il primo giorno che è stato fissato nel 1° dicembre 2007. Vi chiediamo di farcelo sapere; 3. il far girare nei propri contatti questo breve appello per coinvolgere altre migliaia di cittadini; 4. se fate parte di un’associazione, di una comunità, di un circolo, aderire anche con questo soggetto collettivo. 5. contribuire alle spese sostenute e che dovremo sostenere inviando qualche francobollo o un piccolo versamento di 10 € sul nostro conto corrente postale n. 10019511 intestato a: Associazione Pantagruel - Firenze.

Roma: il Garante Marroni dona libri all’Ipm di Casal del Marmo

 

Comunicato stampa, 19 settembre 2007

 

Investire sul futuro dei giovani dell’Istituto Penale Minorile di Casal del Marmo curando, oltre che la loro formazione professionale, anche quella culturale. È questo il principio che ha ispirato la donazione di decine di libri alla biblioteca dell’Istituto da parte del Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti Angiolo Marroni.

I libri sono stati acquistati dall’Ufficio del Garante dei Detenuti da una casa editrice di Roma: si tratta di volumi "interculturali" che raccontano storie e tradizioni di realtà diverse e lontane da quella italiana come, ad esempio, le fiabe dell’area del magreb o i racconti della cultura tradizionale romena. Alcuni di questi libri - illustrati da foto e disegni - sono in italiano, altri sono scritti in lingua con traduzione in italiano. I libri sono stati acquistati tenendo conto delle etnie maggiormente rappresentate all’interno di Casal del Marmo: indù, rumena, polacca e cinese.

Consegnando i volumi il Garante dei Diritti dei Detenuti Angiolo Marroni ha sottolineato l’impegno che il suo Ufficio sta profondendo per l’Istituto Minorile di Casal del Marmo dove, fra l’altro, sono stati donati alcuni computer che hanno consentito l’attivazione di diversi corsi di alfabetizzazione informatica.

"Questa è una operazione che non ha solo una valenza culturale - ha detto Marroni - Dobbiamo avere il coraggio di puntare su questi giovani non facendoli sentire isolati ma, al contrario, favorendone l’integrazione partendo proprio dalla conoscenza della lingua italiana. Oltre alla formazione professionale, vorrei che questi ragazzi utilizzassero parte del tempo a Casal del Marmo per leggere un libro perché credo che investire sulla cultura possa servire a garantire loro un futuro migliore".

 

 

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