Rassegna stampa 28 ottobre

 

Giustizia: con il "pacchetto sicurezza" una odiosa continuità

di Francesco Maisto (Sostituto Procuratore Generale di Milano)

 

Fuoriluogo, 28 ottobre 2007

 

Ricordate la famosa scena di Super Totò in cui il grande artista si muove mettendo insieme movimenti disarticolati delle braccia e delle gambe? Ecco, questa è l’impressione che si ricava dalla lettura della bozza del cosiddetto "pacchetto sicurezza": scelte scoordinate, assemblaggio di norme di grande rilievo (come quelle antimafia e di tutela dei minorenni e di protezione dell’ambiente) con norme semplicemente e solamente repressive, dannose per i giovani e i deboli.

Nella scia del primo "fatale" pacchetto sicurezza del 26 marzo del 2001 (del precedente governo di centro-sinistra), aumenta l’elenco dei delitti per cui è obbligatorio l’arresto ed è obbligatoria la custodia cautelare in carcere (anche dopo la sentenza di appello), mentre sono vietate la scarcerazione e la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva, introdotta dalla legge Simeone - Saraceni approvata all’unanimità dal Parlamento nel 1998.

Ora però, "l’assolutizzazione" del penale, a seguito di preoccupazioni per la sicurezza comprensibili, ma deliberatamente stimolate ed amplificate fino a divenire "ossessioni securitarie", si innesta - senza discontinuità ed anzi con un’azione di rinforzo - su quelle leggi "odiose" della maggioranza di centro-destra, come la Fini - Giovanardi e la ex - Cirielli (già ritenuta illegittima dalla Corte Costituzionale in due punti), che questo governo si era impegnato a superare: si erano viste le prime avvisaglie positive col disegno di legge Mastella di modifica del Codice di Procedura Penale e con la bozza di Codice Penale, elaborata dalla Commissione ministeriale presieduta da Giuliano Pisapia.

A titolo di esempio, è sufficiente evidenziare che il pacchetto sicurezza, pur non modificando esplicitamente la normativa sulla droga, è destinato ugualmente ad aggravarne il danno penale: tanto per le minime condotte predatorie commesse da tossicodipendenti al pari di altri giovani "devianti"; quanto per le condotte illecite di cessione e di traditio (passaggio di sostanze non a fine di lucro) previste dalla Fini-Giovanardi, commesse anche da chi è da poco maggiorenne nei confronti del quasi coetaneo minorenne (col richiamo indiscriminato alle aggravanti previste dall’art. 80 del Testo Unico sugli stupefacenti).

Ad esempio un ragazzo di 18 anni che cede uno spinello ad un gruppo di amici, fra cui un minorenne, andrà immediatamente in carcere dopo l’arresto. Aumenteranno dunque le carcerazioni, e saranno più difficili le scarcerazioni e la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva, sì che la custodia cautelare in carcere segnerà l’inversione cronologica tra colpa e pena.

Si realizza così quella "…logica anticipatoria della pena insita nel trattamento peggiore per l’imputato di reato più grave…" mentre si cancella "un nuovo spazio entro il quale il giudice poteva tener conto delle esigenze effettivamente connesse all’andamento del processo…", come insegnava il prof. Giuliano Amato nel Commentario alla Costituzione.

Il paventato intervento legislativo, dunque, appare più un vicolo cieco che una manovra risolutiva. Facendo affidamento sulla fragile e disintegrata (ma in sé preziosa) risorsa penale anche per queste tipologie di condotte devianti, il pacchetto sicurezza è destinato non solo all’insuccesso, ma anche a creare l’illusione che l’intervento penale sia in grado di ridurre la realtà e la percezione dell’insicurezza. La promessa strutturalmente inattuabile si tramuterà in delusione cocente e quindi, in nuove richieste, come in una spirale perversa, in cui chi perde è il bugiardo.

Giustizia: un paese intollerante è sempre un paese meno sicuro

di Francesco Piobbichi (Responsabile politiche sulle droghe Prc)

 

Liberazione, 28 ottobre 2007

 

Aldo Bianzino viveva vicino a dove sono nato, Aldo è morto in circostanze sospette dopo essere finito in carcere perché accusato di coltivare marijuana. Sembra che queste notizie comincino a diventare normalità in un paese che fra giri di vite e pacchetti sicurezza sta lentamente scivolando verso una forma di autoritarismo di cui non si conosce la fine.

Sembra quasi che stia rinascendo una zona d’ombra nella nostra democrazia, generata dall’intreccio tra retoriche securitarie e piano simbolico, tra guerra al povero e disprezzo per la diversità.

Né "Repubblica" né "Il Corriere" hanno scritto una riga sulla vicenda, impegnati come sono a mobilitare il ventre molle del nostro paese contro il capro espiatorio di turno. Per loro la morte di un cittadino pacifista che finisce in galera per coltivazione di marijuana e che in una cella d’isolamento trova la morte (sembrerebbe per le botte prese) non fa notizia.

Si dirà che i giudici hanno da subito aperto un’indagine, si dirà che in un paese di diritto queste cose vanno subito chiarite e che verrà fatta giustizia, si dirà questo e tanto altro. Quello che non si dice però è che la vicenda di Aldo Bianzino sembra simile a quella di altri, come quella di Giuseppe Ales, di Federico Aldrovandi, di Alberto Mercuriali, caduti uno dietro l’altro dentro il buco nero della nostra democrazia, un fossato scavato nel tempo, con gli arnesi della stigmatizzazione mediatica e dell’etichettamento, con il lavoro costante degli imprenditori politici della paura, rafforzato con il mantra della zero tolleranza.

Un pozzo senza luce dove in fondò si trova la repressione senza mediazioni, fisica o psicologica che sia poco importa. Che sia il titolo di un giornale ad uccidere un ragazzo o una manganellata, quello che emerge è il carico di violenza spaventoso che pervade queste storie. Storie d’innocenti che avevano la sola colpa di avere uno stile di vita alternativo, di essere sospettati di utilizzare sostanze o di fumarsi una canna in un parco, di girare senza documenti o di coltivare marijuana per uso personale in un paese che invece dei trafficanti persegue i consumatori.

Come non accorgersi che queste vicende, che non a caso accadono nella provincia "comunitaria" sono molto simili a quelle dove la violenza viene agita direttamente dalla società dei "normali". In fin dei conti un filo rosso lega le coltellate a Renato Biagetti, considerato da un fascista una zecca da colpire solo perché ascoltava musica reggae fino a tardi, alle prese in giro che portano minori a togliersi la vita, gettandosi dal terzo piano perché considerati gay.

Sembra che ci sia nel nostro paese una sorta di "spontaneismo intollerante" che agisce violentemente, psicologicamente e fisicamente contro la diversità generalmente intesa. Un fenomeno che trova sponda, accoglienza e legittimazione nell’idea di una società tradizionale messa sotto assedio. La nostra società non è più in grado di metabolizzare i fenomeni delegando all’apparato repressivo la risoluzione di tutte le contraddizioni dalla modernità che va difesa a tutti i costi, una dinamica che viene alimentata quotidianamente nel discorso pubblico utilizzando la logica del capro espiatorio che condensa in sé tutta l’ansia sociale.

Altro che "la sicurezza non è di destra né di sinistra", se uno come Amato non ha mai fatto caso che se sul piano dei linguaggi e dei segni legittimando la tolleranza zero si finisce al tempo stesso per legittimare l’intolleranza vuol dire che sul piano della cultura politica c’è uno smottamento senza precedenti.

Una deriva questa che produce i suoi effetti travolgendo sia il rispetto dei diritti e delle garanzie costituzionali, ma anche e soprattutto l’idea stessa di società moderna. Io penso che questi segnali ci dicano che è arrivato il punto limite, e che c’è la necessità di dare una risposta immediata sia sul livello normativo che su quello dell’egemonia culturale.

Sembra insomma che la nostra società non sia più in grado di metabolizzare i fenomeni che l’attraversano, e che stia delegando all’apparato repressivo la risoluzione di tutte le sue contraddizioni; perché questo avvenga è sicuramente il frutto di dinamiche complesse e multifattoriali, sulle quali occorre riflettere seriamente.

Quello che è certo però è che questa deriva va contrastata a fondo, senza cedimenti, per questo rivolgo un appello per organizzare al più presto, in una modalità tale da permettere la massima convergenza di tutte le forze che ritengono utile impegnarsi in questo senso, un grande appuntamento nazionale contro l’intolleranza, perché un paese intollerante è tutto tranne che un paese sicuro.

Giustizia: "democrazia" è anche avere il Garante dei detenuti

di Franco Corleone (Garante dei detenuti di Firenze)

 

Il Manifesto, 28 ottobre 2007

 

Ricordo le difficoltà per aprire il nuovo carcere a Perugia, i lavori interrotti per conflitti con l’impresa costruttrice e un mio sopralluogo come sottosegretario alla giustizia con delega al Dap per individuare soluzioni che garantissero la vivibilità e il rispetto delle norme definite nel Regolamento. Il mio timore allora era che il nuovo Istituto fosse "freddo" rispetto alla vecchia struttura nel centro della città.

La morte di Aldo Bianzino mi ha colpito in modo particolare perché mette in luce il fatto che le carceri non possono essere dei contenitori di corpi con muri che nascondono alla società la sofferenza. Il carcere richiede un progetto che rispetti il dettato costituzionale rifiutando la logica autoreferenziale del corpo separato.

Il carcere non può essere una zona franca con regole proprie e con omertà intollerabili. Noi ancora non sappiamo che cosa è successo a una persona mite, arrestata per un reato senza vittima, per la coltivazione di piante di marijuana. O meglio non sappiamo perché l’arresto in carcere che solo una legge criminogena e proibizionista può prevedere, da dramma è divenuto tragedia. Ma sappiamo che come accade molto spesso, troppo spesso, si è tentato di archiviare il caso come morte naturale o accidentale.

Quanto è accaduto a Perugia deve costituire un monito per gli apprendisti stregoni che chiedono più carcere in nome della sicurezza. Il carcere non può ridursi a discarica sociale dove confinare immigrati, tossicodipendenti, disturbatori della quiete pubblica e soggetti refrattari alle regole della buona società. Soprattutto il carcere deve essere un luogo in cui vengono garantiti i diritti fondamentali previsti dalla Costituzione, in primo luogo il diritto alla salute. E ancora prima i diritti umani e innanzitutto il diritto alla vita.

Ricordo nella mia esperienza di governo due casi che mi turbarono e mi impegnarono per fare luce e non coprire responsabilità. La morte di Marco Ciuffreda e il massacro avvenuto nel carcere di Sassari. La vicenda kafkiana di Ciuffreda la ricostruii anche grazie alla sollecitazione puntigliosa dell’allora senatore Manconi. Sono sicuro, e il sottosegretario già ha pubblicamente confermato la determinazione a non consentire coperture o minimizzazioni, che l’indagine amministrativa dell’ispettorato del Dap farà emergere la verità e diraderà le ombre contestualmente all’inchiesta giudiziaria.

Questo evento luttuoso deve spingere a richiedere il massimo di trasparenza in tutte le istituzioni totali che per loro natura sono un luogo di potere e talora di violenza. È quindi grave che l’istituzione del Garante dei diritti dei detenuti sia bloccata da sei mesi al Senato e altrettanto grave che in Umbria dopo un anno dall’approvazione della legge istitutiva del Garante regionale il Consiglio non sia riuscito ancora a designare la persona destinata a ricoprire tale ruolo per ostruzionismi e boicottaggi assolutamente incomprensibili.

È ovvio che la presenza del garante non avrebbe con sicurezza salvato la vita a Aldo Bianzino, ma certamente avrebbe svelato la realtà dei rapporti di potere all’interno del carcere, avrebbe fatto conoscere il clima esistente e avrebbe attivato i controlli propri di una autorità indipendente. È troppo chiedere che prima di varare il pacchetto sicurezza che produrrà una pericolosa spirale di tolleranza zero, si approvi la legge contro la tortura e l’istituzione del Garante dei più deboli, dei senza voce?

Giustizia: il Parlamento approvi ora la legge contro la tortura

di Patrizio Gonnella (Presidente Associazione Antigone)

 

Fuoriluogo, 28 ottobre 2007

 

La tortura non è ancora reato. E chissà ancora per quanto non lo sarà. Il 2006 si era concluso con la rapida approvazione alla Camera di una proposta di legge che, pur non contenendo la migliore formulazione possibile, comunque consentiva l’incriminazione del torturatore. Dopo lunghi mesi di stallo parlamentare, in estate, la Commissione giustizia del Senato ha licenziato il disegno di legge, che presentava miglioramenti rispetto a quello approvato a Montecitorio.

La tortura tornava così ad essere un reato proprio, punito in modo severo, definito più o meno allo stesso modo di quanto previsto dalla Convenzione dell’Onu del 1984. A settembre, però, ricomincia la melina. Alleanza Nazionale smentisce il proprio senatore Buccico, relatore del provvedimento in Commissione, e insieme a Lega e Forza Italia riempie l’Aula di una valanga di emendamenti fortemente peggiorativi dei contenuti del testo allo scopo evidente di interrompere il corso del disegno di legge.

Ora voci parlamentari dicono che tutto è bloccato, che settori dell’Unione non amano più il provvedimento, che si andrà a discuterlo subito dopo la Finanziaria. Tutto ciò è sconcertante. La tortura è un crimine contro l’umanità. Non lo dicono Antigone o Amnesty International. Lo dicono le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa. Eppure da vent’anni l’inadempienza italiana si perpetua. Nel frattempo il centrosinistra ha trovato il tempo e le energie per scagliarsi contro lavavetri, prostitute, accattoni, ambulanti, rumeni. Non ha trovato il tempo per criminalizzare quei pubblici ufficiali che infliggono sofferenze fisiche o psichiche al fine di estorcere confessioni o di umiliare le persone custodite.

L’introduzione del delitto di tortura nel codice penale dovrebbe essere una tipica azione legislativa bipartisan. È un tema che attiene ai diritti umani, che caratterizza la buona salute di un sistema democratico. Vorremmo che la destra nostrana - e alcuni settori del centrosinistra - fossero meno furbescamente interessati ai diritti umani nel quarto e quinto mondo e fossero più onestamente coinvolti da ciò che riguarda il nostro Paese. Ci appelliamo al Presidente del Senato Franco Marini affinché faccia uscire il provvedimento dalle sabbie mobili dove è stato colpevolmente lasciato.

Basterebbe un guizzo di buona volontà per approvarlo a novembre tra un passaggio e l’altro della Finanziaria tra Senato e Camera. Successivamente alla Camera potrebbe essere definitivamente approvato in sede legislativa dalla Commissione giustizia. Non è troppo chiedere a un Senato sempre in bilico di concentrarsi su un provvedimento di respiro universale. Non è troppo chiedere alle destre di dimostrare la loro lontananza da antiche radici illiberali. Non è troppo chiedere all’Unione di ritrovare la propria unità su una questione che concerne direttamente i diritti fondamentali della persona. La speranza è che qualcuno a destra e a sinistra legga questo articolo e che si ricordi che l’Italia siede da poco nel Consiglio sui diritti umani dell’Onu. Un posto che bisogna pur saper meritare.

Giustizia: avanti con la "legge di Lynch"... a furor di popolo

di Sergio Segio (Società INFormazione)

 

Fuoriluogo, 28 ottobre 2007

 

Pare diventato lo sport preferito da certi politici: sparare sulla Croce Rossa, bastonare il can che affoga. Così il manganello si abbatte di volta in volta, o assieme, su lavavetri, rom, tossici, poveracci in genere. I tecnici la chiamano incapacitazione selettiva, ma è una sorta di pulizia etnica. Prima li si manda in galera, poi si cerca di buttare via la chiave.

Un obiettivo sempre meno lontano, dato che la legge Gozzini, ora sotto attacco, è già stata progressivamente amputata, polemica dopo polemica. Varata nel 1986, da subito era cominciato lo stillicidio. Un po’ come per il recente indulto, disconosciuto da chi pure lo aveva votato il giorno prima. Memore dell’esperienza, questa volta il ministro Mastella pare disponibile a discutere un giro di vite.

Una vite, per la verità, arrivata quasi a fine corsa, dopo i tanti ritocchi. Come quel regalo di Natale che il governo fece ai detenuti nel 1990: il blocco della Gozzini per 5 anni, per giunta retroattivo. Ammise imbarazzato un galantuomo come l’allora Guardasigilli Giuliano Vassalli: "Questo voleva l’opinione pubblica e questo gli è stato dato". Nella Prima Repubblica queste spinte erano comunque frenate da una classe politica di diverso spessore, da una sinistra non ancora corrosa dal virus securitario e da associazioni combattive.

In quell’occasione si levarono pronte e alte le proteste, con una predominanza di quelle cattoliche: dal presidente della Cei, cardinal Poletti, al cardinal Martini. Da allora, attacchi e restrizioni alla Gozzini hanno visto una cadenza pressoché annuale. Ormai, più che cambiarla, tanto vale introdurne una nuova: la legge di Lynch. Avrebbe certo consensi a furor di popolo.

Giustizia: dall'Anm solidarietà a De Magistris... ma non cieca

 

www.radiocarcere.com, 28 ottobre 2007

 

Roma, 26 ottobre - Se l’Associazione Nazionale Magistrati parlasse di ciò che non conosce "violerebbe un’elementare regola di moralità intellettuale" e dimostrerebbe di orientarsi secondo una "una cieca solidarietà corporativa che non ci appartiene e non servirebbe a nulla se non a screditarci". A sottolinearlo è il segretario dell’Anm Nello Rossi replicando alle dichiarazioni rese dal pm di Catanzaro Luigi De Magistris giovedì sera nel corso della trasmissione "Anno zero".

Rossi sottolinea che l’Anm ha dato al pm catanzarese "l’utile e doverosa solidarietà della ragione sui profili della vicenda di pubblico dominio, per salvaguardare principi e valori che trascendono ogni singolo magistrato. Sui contenuti dei procedimenti di De Magistris dei quali egli stesso giustamente tace - aggiunge Rossi - l’Anm non ha detto nulla perché non li conosce o ne ha ricevuto solo indiscrezioni confuse e spesso contrastanti".

Il segretario del sindacato delle toghe prosegue sottolineando che l’Anm "ha difeso e difenderà sempre il diritto di ogni magistrato di partecipare al discorso pubblico con l’unica eccezione del silenzio da serbare sui propri procedimenti, a meno di non dover difendere indipendenza e credibilità della funzione giudiziaria".

Giustizia: Lussana (Lega Nord); la pena si sconta in carcere

 

Ansa, 28 ottobre 2007

 

Per la deputata della Lega Nord Carolina Lussana la vicenda del rom responsabile dell’incidente stradale in cui morirono quattro ragazzi di Appignano del Tronto, "induce a chiedersi se esista ancora un senso di giustizia in questo Paese". "Nessuno - afferma la Lussana - vuole una giustizia sommaria, ma non è possibile che dopo aver spezzato quattro giovani vite questa persona goda ancora, in attesa della pendenza in Cassazione, degli arresti domiciliari, fra l’altro in un residence turistico".

"Al di là dei bisticci giudiziari tra accusa e difesa, e dei rimpalli tra tribunali del riesame e ricorsi in Cassazione - afferma la parlamentare leghista - chi è condannato per un reato del genere, anche se ad una pena non misurata alla gravità del fatto commesso, dovrebbe almeno scontarla fino in fondo e in carcere, anche se in attesa di giudizio definitivo". La Lega Nord invoca la revisione "di tutta la legislazione premiale sui benefici penitenziari previsti dalla legge Gozzini.

Giustizia: dal Viminale il Rapporto 2007 sul terrorismo interno

 

Sesto Potere, 28 ottobre 2007

 

Pubblicata la relazione della Direzione Investigativa Antimafia sul contrasto alla criminalità organizzata durante i primi 6 mesi del 2007. Il rapporto mette in evidenza, oltre ai fenomeni criminali di associazione mafiosa dello scenario italiano, anche il consolidamento dei gruppi criminali a livello internazionale. Nella presentazione sono illustrate tutte le operazioni di polizia divise per provincia e la descrizione delle strategie di prevenzione e contrasto ai fenomeni di globalizzazione criminale a livello internazionale. Forniti anche i dati sul terrorismo interno. Il bilancio?

Un duro colpo alle spinte eversivo - terroristiche è stato inferto a seguito della disarticolazione della neo-formazione brigatista denominata "Partito Comunista Politico Militare" (PCPM), attestata ideologicamente sulle posizioni espresse storicamente dall’ala partitica o movimentista delle Brigate Rosse (II posizione).

La relativa operazione di polizia, denominata "Tramonto", ha infatti consentito l’arresto di 17 militanti (15 eseguiti nel mese di febbraio e 2 nel mese di giugno) accusati dei reati di associazione sovversiva e banda armata e altri reati comuni. Sono state così vanificate pericolose progettualità terroristiche anche contro obiettivi istituzionali.

Resta comunque alto il "livello di guardia" e la conseguente attenzione con cui le Forze di Polizia seguono vicende e iniziative riconducibili all’area antagonista radicale. In considerazione, in particolare, dell’esistenza di fiancheggiatori pronti ad entrare in azione, del particolare attivismo di alcuni brigatisti irriducibili recentemente scarcerati, delle numerose attestazioni di solidarietà espresse nei confronti degli arrestati, anche a livello internazionale, soprattutto dal sodalizio "Soccorso Rosso Internazionale".

Grande attenzione viene riservata al contenuto di alcuni documenti di matrice eversiva di recente produzione, tra cui quelli elaborati da Alfredo Davanzo, noto ideologo del "Partito Comunista Politico Militare" arrestato lo scorso 12 febbraio. Tali testi, infatti, incitano a intraprendere e a sviluppare il percorso rivoluzionario, a coltivare progettualità eversive incentrate sulla "guerriglia come strategia adeguata nelle metropoli imperialiste", a lottare contro la repressione dello Stato e, in particolare, contro il sistema carcerario. In tale contesto si inserisce la recente lettera del detenuto Vincenzo Sisi, altro militante di rilievo del Partito Comunista Politico Militare, diffusa sui siti internet del noto centro sociale padovano "Gramigna", che nel mese di luglio è stato sgomberato. Con tale documento il Sisi incita i comunisti e le masse ad unirsi nella "lotta di classe per il potere", proponendo la costituzione di un Partito Comunista indipendente rivoluzionario.

In questo contesto assume rilievo il documento "Quattro anni… dicembre 2006", firmato dal cartello "Fai - Federazione Anarchica Informale" che fa riferimento alla propaganda armata, sostenendo l’eventualità di innalzare il livello dello scontro passando "all’attacco anche a rischio di giocarsi la vita", utilizzando "mezzi più selettivi, pistole non esplosivo", con la ribadita intenzione di procurarsi armi da fuoco "e di iniziare ad usarle".

Nella strategia di attacco, propugnata con questo documento, si inquadra l’attentato verificatosi lo scorso 5 marzo a Torino e rivendicato con la sigla "Rat (Rivolta Anonima Tremenda)". Nella circostanza si verificò una triplice esplosione ritardata, avente lo scopo di colpire gli operatori di polizia, richiamati dal primo scoppio.

Nell’ambito della propaganda armata caratterizzata da azioni eversive di basso profilo, ma di rilevante impatto, si inquadra la rivendicazione, da parte di un sedicente gruppo "Antimperialista Team", di un attentato perpetrato lo scorso 5 luglio in località prossima all’aeroporto Dal Molin di Vicenza, ai danni dell’oleodotto che da La Spezia giunge fino alla base di Aviano.

Massima vigilanza è stata anche dedicata alle recenti manifestazioni di solidarietà in favore degli arrestati del 12 febbraio. In particolare sono state promosse riunioni tecniche dal Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo per condividere gli elementi conoscitivi sulle manifestazioni, coordinare le attività in corso e pianificare ulteriori iniziative di carattere preventivo o giudiziario. Ne è emerso che questi ambienti sono ampiamente monitorati dalle Forze di Polizia e di Intelligence e che molti dei 250 manifestanti che hanno partecipato alle iniziative dell’Aquila e di Padova sono ben noti esponenti dell’area antagonista.

Genova: Marassi; 8-9 detenuti per cella, dignità calpestata

 

Secolo XIX, 28 ottobre 2007

 

Il direttore del carcere di Marasasi, Salvatore Mazzeo: "In poche settimane il carcere avrà 600 detenuti con 8-9 persone stipate in una sola stanza".

Dopo l’indulto e le scarcerazioni che ne sono seguite, la situazione nelle carceri genovesi è nuovamente sull’orlo dell’emergenza. E a Marassi il sovraffollamento è tornato ad essere un problema senza via di uscita. Lo ha denunciato ieri il direttore, Salvatore Mazzeo, intervenendo a un convegno organizzato a Palazzo Tursi da Alleanza nazionale sui problemi della sicurezza e della microcriminalità.

"Di fronte a una capienza massima di 450 persone - ha detto - siamo già arrivati a 530 e in poche settimane avremo almeno 600 detenuti. Avere otto o nove detenuti in una cella non ci consente di garantire dignità alla persona". Mazzeo ha spiegato che dopo l’indulto la popolazione di Marassi era scesa a 350 persone "e questo ci ha permesso di respirare un po’".

Poi, lentamente, i benefici del provvedimento di clemenza sono stati annullati dai nuovi ingressi, molti dei quali per recidiva di chi già era stato detenuto. Ma non solo. Secondo il direttore di Marassi, il problema è prima di tutto legislativo. "Quando sento parlare di carcere per lavavetri - ha aggiunto Salvatore Mazzeo - rispondo che la prigione deve essere l’extrema ratio, non si risolvono in problemi della società mettendo le persone in prigione.

Ricordo che il sei per cento della popolazione carceraria in Italia è composta da stranieri che non hanno commesso crimini, ma hanno infranto per due volte l’obbligo di lasciare il Paese". Per il direttore, l’insicurezza sociale (sia quella percepita sia quella reale) si combatte con la prevenzione e il presidio del territorio, oltre che con la lotta alla povertà e all’emarginazione". Mazzeo ha suscitato malumore tra il pubblico del convegno quando ha criticato "certe politiche schizofreniche, fatte in base alle spinte emotive della società" ma ha riscosso anche qualche applauso.

"La città si è trovata impreparata a accogliere i ragazzi e le ragazze uscite per l’indulto - dice invece don Andrea Gallo, anima della comunità San Benedetto al Porto - e il problema è che non si investe abbastanza nel sociale. Noi chiediamo da sempre di poter sedere accanto alle forze dell’ordine durante le riunioni del comitato per la sicurezza in prefettura: non vogliamo assolvere chi ha sbagliato, ma se non si impostano percorsi di lavoro, accoglienza e prevenzione, la repressione e il carcere non bastano: un detenuto costa 300 euro al giorno alla collettività, quei soldi potrebbero essere investiti molto meglio".

Reggio Emilia: al via i corsi di laurea "on-line" per i detenuti

 

Sesto Potere, 28 ottobre 2007

 

I detenuti del carcere di Reggio Emilia hanno la possibilità di conseguire la laurea, grazie alle nuove tecnologie. Nei giorni scorsi, è stata infatti firmata una convenzione tra l’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia e il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Tale convenzione permette a 11 detenuti della casa circondariale di Reggio Emilia, di frequentare, nella modalità a distanza, i corsi per il conseguimento della laurea triennale in Comunicazione e Marketing.

All’interno del penitenziario sono state allestite una biblioteca e un attrezzato laboratorio con 18 computer, ai quali è possibile collegarsi per seguire in differita le lezioni tenute dai docenti dell’Ateneo. I corsi sono offerti attraverso una piattaforma elettronica realizzata e messa a disposizione dal Centro E-Learning d’Ateneo, che, grazie a un collegamento informatico a circuito chiuso, consente agli interessati di seguire le lezioni in videoconferenza. "Il protocollo per il Polo universitario che abbiamo sottoscritto - afferma il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Giovanni Tinebra - è l’espressione più autentica dell’integrazione tra carcere e società. È un atto concreto che guarda al carcere come luogo di opportunità".

"La tendenza all’aumento della criminalità - ha aggiunto il Direttore della Casa Circondariale di Reggio Emilia dott. Gianluca Candiano - non è fatale in una società dove vi sono organizzazioni e risposte, realistiche ed appropriate".

Oltre al progetto di e-learning, la convenzione prevede l’organizzazione di interventi culturali da parte di docenti a favore dei detenuti e l’accoglimento all’interno del carcere di studenti e laureati per lo svolgimento di tirocini didattici dei corsi delle facoltà di Scienze della Comunicazione e dell’Economia, Scienze della Formazione e Ingegneria di Reggio Emilia.

Immigrazione: 10mila in corteo, "delusi" dal centrosinistra

 

Il Manifesto, 28 ottobre 2007

 

Ieri a Brescia oggi a Roma. Anche i migranti tornano in piazza e aggiungono un tassello alla lunga lista dei delusi dal governo Prodi. Modificare la legge Bossi-Fini era uno degli impegni programmatici dell’Unione. Un anno e mezzo dopo il disegno legge Amato-Ferrero è fermo in commissione e, ammesso che il governo non defunga, lì resterà (bloccato dalla virata securitaria dei del centro sinistra e del Pd).

Per questo le associazioni dei migranti hanno deciso di battere un colpo. Ieri in diecimila hanno attraversato le strade di Brescia, capitale del Nord dei migranti. Un corteo allegro, "una festa anche se siamo qui per una disgrazia", dice il marocchino Driss. La "disgrazia" è l’inossidabile Bossi-Fini, appesantita dalla molesta "tassa" sul permesso di soggiorno, i 72 euro che gli immigrati devono pagare alle Poste per il rinnovo del permesso di soggiorno, ricevendo in cambio lunghe attese e un sacco di disguidi.

L’abrogazione del protocollo d’intesa con le Poste, pure questo ereditato dall’era Berlusconi, apriva la piattaforma della manifestazione bresciana, anticipata da tre giorni di presidi di fronte a uffici postali, questura, prefettura. "È una cosa piccola, ma il centrosinistra non ha abrogato neppure quella", spiega Ibraim Niane, della Fillea Cgil, e in provincia di Brescia, dove molti comuni in passato istruivano le pratiche per il rinnovo dei permessi, la differenza in peggio si sente e "brucia parecchio".

I manifestanti stravedono per il ministro Ferrero, "grande amico, ma non ha il potere", e bocciano il ministro Amato. Sanno che dopo Prodi potrebbe tornare Berlusconi. "Ma la vita dei migranti con il centrosinistra non è migliorata. Dobbiamo essere autonomi dal colore del governo, non legarci le mani da soli", dice Driss, che lavora allo sportello migranti della Cgil. Il suo è un linguaggio da sindacalista. La maggior parte dei manifestanti, più semplicemente, si ferma alla "delusione", alla "promessa tradita". Il risultato non cambia: "Governo Prodi, è ora di cambiare la Bossi-Fini".

Pakistani e senegalesi, come sempre a Brescia, erano i più numerosi in un corteo aperto dallo striscione evergreen: "Volevate braccia, sono arrivate persone". Il serpentone colorato, partito da piazza Loggia e li tornato, ha toccato i luoghi di vita e ritrovo dei migranti, ingrossandosi strada facendo: il quartiere del Carmine, la Stazione, i giardinetti dove s’incontrano le badanti dell’Est. In pullman in centinaia erano arrivati dal resto della Lombardia e dalle altre regioni del Nord. Gruppi di famiglia, tanti bambini, un piccolo gruppo di donne migranti era in piazza con un suo striscione (una novità per Brescia). Molte bandiere della Cgil e dell’Sdl. Tante associazioni (impossibile elencarle tutte), Radio Onda d’urto e Magazzino 47 hanno fatto gli onori di casa.

Slogan contro il razzismo è - udite udite - per la sanatoria. Ormai necessaria, anche se nessun politico - neppure il più radical - ha il coraggio di pronunciare la parola. Necessaria perché la Bossi-Fini, legando il permesso di soggiorno al contratto di lavoro, fabbrica a getto continuo irregolari e "clandestini". Un legame che la riforma Amato - Ferrero non spezza. La chiusura "definitiva" dei Cpt era, ovviamente, tra le richieste della manifestazione.

Nelle stesse ore alla Fiera di Milano Veltroni prendeva pieno possesso del Pd. Il partito che si vanta d’aver fatto votare gli immigrati alle primarie, ieri se li è dimenticati.

Immigrazione: "Dossier Caritas", la presentazione il 30 ottobre

 

www.interno.it, 28 ottobre 2007

 

Martedì 30 ottobre, alle ore 10.30, a Roma, presso il Teatro Orione in via Tortona 7, sarà presentato ufficialmente il XVII Dossier Statistico Immigrazione curato da Caritas Italiana, Caritas diocesana di Roma e Fondazione Migrantes.

Più di 100 i redattori che hanno partecipato alla stesura del Rapporto, la cui presentazione avverrà in contemporanea in altre 20 città d’Italia. L’introduzione curata da Caritas e Migrantes ed incentrata sull’importanza dell’incontro tra le culture, apre un lavoro di 512 pagine ricco di analisi e tabelle statistiche ed articolato in cinque sezioni: il contesto internazionale ed europeo; gli stranieri soggiornanti in Italia; l’inserimento socio-culturale; il mondo del lavoro; i contesti regionali.

Per il 2007 la struttura è stata arricchita con approfondimenti sul soggiorno e la residenza degli immigrati, gli indici di integrazione, il collegamento con il mercato del lavoro e una articolata analisi comparativa delle leggi regionali sull’immigrazione. Non di minore importanza, a livello territoriale, la particolare attenzione prestata all’area dell’Europa allargata e ai contesti regionali (cui si aggiunge un approfondimento sulla Capitale), arricchiti da schede e tabelle anche a livello provinciale.

Nell’introduzione, in prospettiva dell’Anno europeo del dialogo interculturale 2008, mons. Vittoria Nozza (Caritas Italiana), mons. Piergiorgio Saviola (Fondazione Migrantes) e mons. Guerino Di Tora (Caritas di Roma) sottolineano che "l’immigrazione è un fenomeno tutt’altro che marginale e si configura come un aspetto innovativo e qualificante della società italiana che si va costruendo, maggiormente imperniata sull’equilibrio delle differenze, delle quali l’Anno europeo del dialogo interculturale sprona a occuparci".

Il "Dossier" è un progetto di ricerca e sensibilizzazione, che fa capo alla Caritas Italiana, alla Fondazione Migrantes e alla Caritas diocesiana di Roma e che si avvale della collaborazione di organizzazioni internazionali, strutture pubbliche nazionali, università, enti locali e organizzazioni sociali che si occupano di immigrazione.

Droghe: la retorica della cura e la realtà della contenzione

di Sandro Margara (Presidente Fondazione Michelucci)

 

Fuoriluogo, 28 ottobre 2007

 

Nella Relazione al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze per il 2006, il ministro per la Solidarietà sociale indica, fra gli altri impegni, "il potenziamento dei percorsi giudiziari e penali, consentendo un più efficace utilizzo delle misure alternative alla detenzione al fine di facilitare i percorsi di cura e di riabilitazione".

Diciamo pure che questo è un proposito sempre dichiarato e sempre inattuato. In linea di massima, la legislazione è stata sempre molto larga nel consentire le misure alternative come strumento "ordinario" per l’esecuzione della custodia cautelare e della pena, ma in carcere sono rimasti sempre numeri ragguardevoli di tossicodipendenti.

Al solito, il problema attuale è innanzitutto quello di liberarci dalla Fini - Giovanardi. La quale ha indicato come sua la scelta delle misure alternative e a riprova porta l’aumento a sei anni della pena detentiva ammissibile all’affidamento in prova in casi particolari. Premesso che questo limite è diminuito a quattro anni, come era prima, per coloro che abbiano fra le pene in concorso anche una sola inflitta per un delitto di cui all’art. 4bis dell’ordinamento penitenziario (che vieta la concessione di benefici per reati di pericolosità sociale), si deve rilevare che lo sbandierato allargamento è fittizio: operazione di propaganda. A dimostrazione di questo vediamo i meccanismi reali della legge.

In primo luogo l’abnorme appesantimento delle pene porterà, in generale, una crescita delle stesse tale da rendere modesto anche l’allargamento del limite di ammissibilità a sei anni. Ma sono i percorsi di ammissione e poi quelli di esecuzione per le misure alternative che rivelano l’aumento delle difficoltà per le alternative al carcere.

Intanto, c’è una generale difficoltà di certificazione della tossicodipendenza e della idoneità del programma terapeutico: prevalgono i criteri di laboratorio (dipendenza fisica) su quelli di valutazione pluri-professionale (che vanno oltre la dipendenza fisica, come necessario). E c’è poi un controllo sulla esecuzione, attraverso gli obblighi di segnalazione degli inconvenienti nello svolgimento del programma, che sposta sempre più la valutazione della rilevanza degli stessi sull’organo giudiziario, anziché su quello di gestione del programma (programma che è inevitabilmente segnato da momenti di difficoltà).

Ancora sulla ammissione alle misure alternative in esecuzione pena: nel sistema precedente, il controllo del Pm sulle istanze e la conseguente sospensione della esecuzione (salvo le eventuali forzature di ruolo da parte di questo organo), erano di sola legittimità; ora, attraverso il nuovo testo della norma, la possibilità di un accertamento nel merito sono aumentate e, inoltre, nel caso di istanza avanzata dal carcere, la competenza passa al magistrato di sorveglianza con una verifica, per vari e rilevanti aspetti, proprio di merito (come il riferimento "al grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione" o come la necessità di escludere "il pericolo di fuga").

La conclusione è chiara: l’ammissione alle misure alternative per esecuzione della pena non è affatto più facile (era, almeno teoricamente, automatica, in precedenza), ma assai più difficile, legata alla discrezionalità del giudice che, di questi tempi, non promette nulla di buono, con l’aria securitaria che tira.

E va aggiunto che, nel precedente sistema, la custodia cautelare in carcere doveva essere esclusa, salvo alcuni limiti, quando si prospettava la esecuzione di un programma terapeutico: ora, comunque, al carcere sono necessariamente sostituiti gli arresti domiciliari, in alcuni casi in comunità residenziale: il che significa, non accettando, la gran parte delle comunità, persone agli arresti domiciliari, che tali persone resteranno in carcere.

Altro è l’impegno del progetto Boato (di cui si avvia la discussione alla Commissione giustizia della Camera). Le pene sono generalmente ridotte e in particolare per i tossicodipendenti. Sono inserite nuove misure (esclusione della condanna per irrilevanza del fatto; messa alla prova durante il processo, il cui esito positivo estingue il reato) e per l’affidamento in prova per lo svolgimento di un programma terapeutico sono tolti i limiti massimi di ammissibilità, per cui la misura vale per tutte le pene da eseguire, ma la ammissione deve essere inizialmente in comunità residenziale.

Il progetto riprendeva, si noti, le proposte della Commissione La Greca presso il ministero della Giustizia, istituita per la redazione di un disegno di legge che traducesse le conclusioni della Conferenza nazionale per le tossicodipendenze di Napoli del 1997. Certo, chi voleva migliorare la legislazione sugli stupefacenti non è stato molto veloce. Chi voleva peggiorarla è stato, invece, fulmineo. E ora la Fini - Giovanardi continua ad essere legge.

Questo non toglie che, tra gli argomenti della prossima Conferenza Nazionale, il tema delle alternative alla detenzione vada affrontato in modo concreto: devono essere diminuiti i tossici in carcere e va definito un progetto perché questo avvenga.

E qui viene subito fuori una difficoltà: quella della insufficienza della rilevazione del funzionamento - o disfunzionamento - del sistema. Le statistiche su cui si basa la relazione (nel testo e negli allegati) non mi persuadono affatto: anzi, più esattamente, sono sbagliate.

Le misure alternative, compresa la semiliberta, che è la minore, erano 49.500 al 31.12.2005 (dati Dap). Per il 2003, i soli affidati risultavano essere 30.417 (sempre fonti Dap), di cui 23.584 per affidamenti ordinari e 6.833 per affidamenti ex art. 94.

Nella tabella a pag. 178 della Relazione, gli affidati nel 2003 risultavano essere 16.000 circa. Cosa è successo, si tratta di numeri in libertà? Nella stessa tabella della Relazione, nel 2005, gli affidamenti erano ancora circa 16.000 (32.000 in base ai dati Dap) e a fine 2006, con effetto indulto, erano diventati 4.290, se si segue la tavola 3/04bis degli allegati o 11.653, se si segue la Relazione a pag. 178 e la relativa tabella.

L’attendibilità dei dati è scoraggiante. Se, comunque, ci si vuole guardare dentro, lo scoramento cresce. È possibile che, in Lombardia siano stati concessi 3.080 affidamenti - ordinari e in casi particolari - e, nel Lazio solo 232? Concludo, per sapere cosa fare bisogna partire da una conoscenza precisa di cosa è stato fatto.

Droghe: tra le grida sicuritarie... e la tutela della salute

di Franco Marcomini e Tiziana Codenotti

 

Fuoriluogo, 28 ottobre 2007

 

La campagna mediatica sugli ubriachi al volante e le nuove norme sulla sicurezza stradale. Tutti i giorni la cronaca ci informa che avvengono incidenti mortali o con esiti di gravi lesioni che vedono protagonisti guidatori in stato di ebbrezza o intossicati dalle sostanze stupefacenti. Ed ogni giorno i cultori della sicurezza (o del terrore?) si stracciano le vesti perché le leggi sono troppo permissive: il ragazzo, rom, che ha ucciso quattro coetanei ha avuto una condanna di soli sei anni ed addirittura è agli arresti domiciliari, con vista mare; i pirati della strada sono scarcerati, gli omicidi volontari vengono derubricati al rango di colposi con pene scarne, i guidatori con patenti ripetutamente ritirate continuano a scorazzare facendo vittime.

È un’ecatombe senza precedenti - si dice - che necessita di risposte forti e repressive. La strategia culturale è quella di ridurre i margini di garanzia dello stato di diritto foraggiando nell’opinione pubblica la convinzione che proibire è molto meglio che educare e che le pene devono avere uno scopo di deterrenza piuttosto che rappresentare un’occasione per riprendere, attraverso la consapevolezza e l’elaborazione della colpa, un cammino nella propria comunità. Ma che cosa accade realmente sul piano dei fatti e non dell’enfasi retorica dei media?

Oggi, gli incidenti sono attribuibili, per una quota che oscilla tra il 30 ed il 50%, all’alcol, alle droghe illegali ed alle sostanze psicotrope, nonché ai tranquillanti che la popolazione utilizza grazie alla disinvoltura prescrittiva dei medici. La prima causa di morte nella fascia di età compresa tra i 15 ed i 29 anni è l’incidente della strada per alcol, il 25% dell’intera mortalità in questa età. A questo si deve aggiungere il costo esorbitante dei danni alle persone coinvolte negli incidenti. Ma l’emergenza attuale non è diversa dalla situazione degli ultimi dieci anni. L’unica differenza è rappresentata dal silenzio dei media negli anni scorsi su quanto gli epidemiologi evidenziavano. Vi è dunque il legittimo sospetto che più che risolvere un problema, si voglia cavalcare il dramma per dare forza alla strategia repressivo/sicuritaria, sempre più grottescamente trasversale.

Veniamo alle misure della legge del 3 ottobre (legge 160/2007) sulla sicurezza nella strada. Negli articoli che riguardano alcol e droga viene stabilita per la guida in stato di ebbrezza una gradualità di sanzioni pecuniarie, da 500 a 6000 euro, dalla sospensione, da tre mesi a due anni, alla revoca della patente, fino all’arresto, per un massimo di sei mesi, in funzione del tasso alcolico diviso in tre fasce di gravità; da 0,5 a 0,8; da 0,8 a 1,5; maggiore di 1,5 (grammi per litro). Ulteriore aggravante è l’essere autisti di autobus o di mezzi pesanti. In taluni casi è previsto anche il sequestro del mezzo. In caso d’incidente provocato le sanzioni sono raddoppiate. Se si rifiuta il controllo, il costo va da 2.500 a 12.000 euro con misure di sospensione e revoca della patente ed eventuale sequestro del mezzo. L’intero quadro è completato dalle sanzioni relative all’uso di stupefacenti e di sostanze psicotrope, che non prevedono alcuna gradualità nei consumi, ma l’unico criterio è la presenza o l’assenza di tracce.

Permane dunque l’antico pregiudizio che salva l’alcol e condanna le altre droghe, senza alcun criterio scientifico. Così come le ragioni della scienza sono ignorate nella graduazione delle sanzioni per l’alcol contenuta nel provvedimento: basti pensare che tra 0,1 e 0,5 di alcolemia una falsa sicurezza spinge ad essere più temerari e quindi più pericolosi, con buona pace del legislatore. Il quadro normativo è poi completato dalla responsabilizzazione dei gestori dei locali che devono informare, mettere a disposizione etilometri ed obbedire al divieto di somministrare bevande alcoliche tra le 2 e le 7 del mattino. Contemporaneamente due decreti entrano nel merito della sobrietà nei luoghi di lavoro.

Tutte queste misure non sono in sé proibizioniste, ma per evitare che lo diventino si debbono depenalizzare i consumi nei contesti privati. In concreto si abroghi subito la legge Fini Giovanardi e la legge sulla sicurezza stradale potrà assumere il volto della tutela pubblica della salute, anziché dell’amplificazione delle grida sicuritarie. Anche una minore indulgenza nei confronti dell’alcol potrebbe liberare il campo da un eccesso di stigmatizzazione nei confronti delle altre droghe.

Usa: nozze gay in carcere, otto guardie perdono il posto

 

Stati Uniti, 28 ottobre 2007

 

Due detenuti si sono sposati nel penitenziario di Lowell, in Florida, grazie al permesso concesso da un gruppo di guardie carcerarie. Ma i matrimoni gay sono proibiti dalla legge di questo Stato americano. Così sei guardie sono state sospese, una è stata licenziata e un’altra ha lasciato volontariamente il carcere. Lo ha reso noto il dipartimento responsabile delle carceri dello Stato.

Iran: impiccati tre detenuti colpevoli di traffico di droghe

 

Ansa, 28 ottobre 2007

 

Tre detenuti, condannati per traffico di droga, sono stati impiccati nella provincia di Yazd, Iran centrale. Lo ha reso noto l’agenzia di Stato iraniana Irna. I tre uomini erano stati giudicati colpevoli di "traffico e possesso di oppio": uno è stato impiccato nel carcere di Ardekan e gli altri due nel penitenziario del capoluogo Yazd.

Le ultime esecuzioni fanno salire a 235 il numero di impiccagioni dall’inizio dell’anno, secondo un conteggio dell’agenzia France Presse. Un dato in crescita, stando alle stime di Amnesty International, che ha registrato 177 impiccagioni nei dodici mesi del 2006. In Iran l’omicidio, la violenza sessuale, ma anche reati minori come la rapina a mano armata, il traffico di droga e l’adulterio sono puniti con la pena capitale.

 

 

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