Rassegna stampa 16 ottobre

 

Giustizia: 20 Associazioni chiedono di incontrare il Governo

 

Lettera aperta, 16 ottobre 2007

 

Onorevoli ministri Paolo Ferrero, Giuliano Amato, Francesco Rutelli, Barbara Pollastrini, Clemente Mastella, Rosy Bindi, il tema della sicurezza nelle città è assurto alla ribalta del dibattito pubblico e politico e il governo si appresta a varare il cosiddetto "pacchetto sicurezza".

Riteniamo che, volendo intendere il concetto di sicurezza come un processo di costruzione sociale tra le diverse competenze e attori che vivono le città e vi operano e i diversi livelli delle competenze istituzionali sul piano locale e centrale, sia fondamentale che il confronto del governo avvenga anche con le organizzazioni non profit.

Quotidianamente ci misuriamo sul campo con le problematiche relative alla convivenza civile nelle comunità locali, occupandoci dei soggetti vulnerabili spesso considerati unica causa di un malessere percepito e manifestato in determinati contesti cittadini, realizzando interventi di prossimità e di sostegno alle persone in difficoltà ma attivando anche pratiche di mediazione dei conflitti volti a aumentare la vivibilità dei territori e 0 benessere delle comunità locali.

Abbiamo maturato in questi anni un bagaglio di esperienze "sporcandoci le mani", occupandoci di migranti, italiani, donne, uomini, minori, transgender che vivono una condizione di marginalità, di esclusione, spesso di sfruttamento, nelle aree della prostituzione, della mendicità, del disagio giovanile, dei "senza dimora", delle dipendenze, delle culture giovanili, delle situazioni legate alla migrazione.

Occupandoci, molte volte, non solo del disagio ma anche della cosiddetta "normalità", dove spesso sono assai diffuse e nascoste situazioni di sofferenza che determinano tensioni gravi che frequentemente entrano in contatto, e si autoalimentano in una sorta di interazione in negativo, con le aree della vulnerabilità e dell’esclusione.

Un’esperienza declinata in pratiche reali sui territori attraverso l’interazione delle varie componenti che i territori vivono e animano, portando servizi di ascolto e accompagnamento, di riduzione del danno e di prossimità, di promozione della salute e dei diritti, di uscita dalle situazioni di marginalità e sfruttamento, offrendo opportunità di inclusione sociale, lavorando con la cittadinanza e con le istituzioni, contribuendo al contrasto all’illegalità e allo sfruttamento.

Un’esperienza spinta dal rifiuto di qualsiasi semplificazione di fenomeni sociali complessi, dal rifiuto delle scorciatoie securitarie (non solo inefficaci, ma lesive dei diritti degli "ultimi" e della convivenza civile e democratica), dal rifiuto della criminalizzazione e espulsione del "diverso", delle persone già ai margini della nostra società.

Un’esperienza che ci insegna che il binomio repressione/criminalizzazione come unico strumento di intervento sul tema sicurezza e trattamento delle forme di devianza e marginalità estrema non solo non risolve ma, nei fatti, alimenta i fenomeni e gli spazi di illegalità. Gli "indesiderati" vengono spinti verso altri luoghi, spesso in un sommerso dove è più difficile contattare e offrire opportunità alle persone in difficoltà o sfruttate e dove aumenta la spinta all’invischiamento in attività illegali.

Vengono interrotti difficili percorsi di ricostruzione della coesione sociale. Si distolgono le risorse umane e economiche delle forze dell’ordine dall’azione investigativa (lotta ai trafficanti e sfruttatori) verso quella repressiva che sovente solo illusoriamente dà risposte al senso di allarme e alla percezione di insicurezza manifestati dalla cittadinanza.

L’esperienza, spesso condivisa con gli Enti locali e con le Forze dell’ordine, ci insegna come invece la realizzazione di azioni positive a tutela delle fasce marginali e di promozione del benessere nelle comunità, siano la chiave per costruire realmente la sicurezza.

Occorre allora che nei territori vengano attivati Tavoli di concertazione per la costruzione della sicurezza sociale in forma partecipata e concordata. Occorre però che tale meccanismo di concertazione venga sviluppato anche a livello centrale e possa ricadere in termini di linee di indirizzo e proposte a livello locale.

Un recente positivo esempio è costituito dall’Osservatorio sulla prostituzione e sui fenomeni delittuosi ad essa connessi, istituito dal ministero dell’Interno con la partecipazione degli altri ministeri competenti e delle associazioni.

Per queste ragioni, chiediamo con urgenza, la possibilità di incontrarvi per un confronto costruttivo. Certi di un favorevole riscontro, porgiamo distinti saluti.

 

Antigone; Arci; Asgi, Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione; Associazione On the Road; Associazione Tampep onlus; Cantieri Sociali; Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute; Consorzio Drom, consorzio nazionale della cooperazione sociale - Legacoop; Cooperativa Dedalus Fiopsd, Federazione Italiana degli Organismi per le persone senza dimora; Forum Droghe; Gruppo Abele; Lila; Mit, Movimento di Identità Transessuale; Nova, Consorzio per l’innovazione sociale onlus; Save the Children Italia onlus.

Giustizia: perché la Legge Gozzini va difesa

di Desi Bruno (Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Bologna)

 

Comunicato stampa, 16 ottobre 2007

 

Nessuno può sottovalutare la vicenda, recente, della tentata rapina in banca ad opera di Cristoforo Biancone, ex brigatista, che beneficiava della semilibertà dopo 25 anni di carcere.

Il lunghissimo tempo trascorso in carcere, seguito da un reato, è stato percepito dall’opinione pubblica come il fallimento di qualunque progetto rieducativo della pena.

In sostanza, il tempo che passa non può modificare la propensione al delitto, e dunque bisogna cambiare quella legge, la Gozzini, dal nome del senatore, esponente della cultura cattolica, che portò nel 1986 ad una riforma coerente con il principio costituzionale dell’art. 27 co. 3 , che prevede un trattamento penitenziario non disumano e degradante ma orientato a favorire il rientro nella collettività delle persone condannate.

La riforma carceraria era già stata introdotta nel 1975, e aveva portato ad incrinare la concezione puramente vendicativa della pena, ma in un tempo segnato dal terrorismo, dalle rivolte nei penitenziari e da un grado di violenza che rendeva intollerabile la vita in carcere non fu possibile attuarla, mentre si moltiplicarono le carceri speciali.

Undici anni dopo, terminata l’emergenza terrorismo, fu possibile riprenderla ed ampliarla, e da allora, attraverso le misure alternative alla detenzione, affidamento in prova al servizio sociale, semilibertà, lavoro esterno, ecc. , decine di migliaia di persone sono state accompagnate alla vita civile, restituendo speranza e dignità alle persone, e aumentando il livello di sicurezza collettiva.

Oggi si invoca la certezza della sanzione, e si ignora che il principio della flessibilità dell’esecuzione della pena, cioè la possibilità di modularla in relazione ai progressi comportamentali dei singoli detenuti, è l’unica strada perché il carcere non torni ad essere quello che era: un luogo di sopraffazione e di non ritorno, oltre che di reiterazione, questa sì certa, di condotte criminali dentro e fuori e il carcere.

Il caso Biancone, e come questo altri, se pure in numero modesto, non può giustificare il mutamento legislativo, che da più parti si invoca. Il legislatore non deve mai operare su dati di emotività o sull’onda di vicende clamorose, ma isolate, bensì sui risultati complessivi, che invece smentiscono la necessità di rivedere le misure alternative alla detenzione.

Nella singola vicenda andranno accertate le responsabilità, se ci sono, se il magistrato ha sbagliato, se l’osservazione della personalità non era stata sufficiente, se cioè c’erano elementi per non concedere alcun beneficio al detenuto.

Ma i dati statistici evidenziano i risvolti positivi delle misure alternative, che in sintesi sono: notevole risparmio di spesa carceraria, marginale "tasso di evasione", ma soprattutto recidiva notevolmente inferiore a quella dei soggetti dimessi direttamente dal carcere, e tutto questo pure in una situazione di insufficienza di personale preposto all’esecuzione penale . Secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria solo il 20% di chi è in affidamento all’esterno reitera il reato, mentre la recidiva passa al 68 % quando le persone scontano tutta la pena in carcere e si ritrovano in libertà senza un progetto di reinserimento.

Dunque ritornare al passato avrebbe come conseguenza l’aumento a dismisura della popolazione carceraria, che raddoppierebbe, con definitivo collasso del già incrinato equilibrio della fase post-indulto quanto a sovraffollamento, e non una diminuzione dei reati, soprattutto quelli che destano maggiore allarme sociale, ma al contrario una aumento di quelli commessi da chi uscirà solo a pena espiata, a prescindere dalle possibilità di reinserimento ed anzi contro la volontà di cambiamento.

Dunque, quella pena certa che si invoca come garanzia di legalità e sicurezza, rischia di avere effetti criminogeni devastanti, che ad un opinione pubblica sempre più insicura vanno correttamente indicati.

Giustizia: Mastella; "micro" e "macro" criminalità sono uguali

 

Il Gazzettino, 16 ottobre 2007

 

Il ministro della Giustizia, ieri a Bassano del Grappa per inaugurare la rinnovata sede della Procura, ha anticipato alcune linee-guida del piano per lo snellimento della Giustizia e l’irrobustimento della sicurezza che presenterà tra una decina di giorni in Consiglio dei ministri. Non sono mancate frecciate contro l’anti-politica e considerazioni sul Partito democratico.

"Il primo principio - ha attaccato il Guardasigilli - è che non deve esserci differenza fra micro e macro criminalità, fra atti su cui si può "chiudere un occhio" e altri trattati con maggior rigore. Sono tutti reati da perseguire con la medesima serietà e che, se confermati in Tribunale, vanno scontati. I processi, naturalmente, devono essere più rapidi.

Ho in mente degli interventi per semplificare in alcuni casi i passaggi, per esempio saltando il vaglio del Gip, senza negare le garanzie costituzionali. L’obiettivo è giungere a esaurire i procedimenti, al massimo, in 5 anni, due per il primo grado, due per il secondo e uno per la Cassazione. Una volta raggiunto un verdetto, deve sussistere la certezza della pena, sia in termini tecnici, sia in termini fisici e cioè avendo a disposizione un numero adeguato di istituti di detenzione". "Un altro aspetto che stiamo studiando - ha proseguito il ministro - è la punibilità di coloro che hanno fra i 16 e i 18 anni. Se è giusto che i ragazzi di questa fascia votino, non vedo perché non debbano essere considerati responsabili di certe azioni. Ovviamente porremmo delle attenzioni riguardo alle modalità di espiazione delle pene".

In cella subito, adolescenti o no, anche coloro che ammazzano al volante di un’auto o in sella a una moto, magari ubriachi? "Prima di tutto stabiliamo sempre, prima, se si è trattato di un gesto colposo o doloso. Dopo di che discutiamo le norme del Diritto e del Codice della strada. Ma non è più solo materia del ministro della Giustizia".

E gli extracomunitari? "Massima assistenza a chi viene in Italia per lavorare e rispetta le nostre regole. Per tutti gli altri casi dobbiamo trovare soluzioni adeguate. É un grosso problema, ma la legge che lo affronta, oggi, si chiama Bossi-Fini, non "Mastella".

"Ho fatto gli auguri - ha ripreso l’esponente del governo, voltando pagina - ai vertici del nuovo Partito Democratico. Non so se si sono recati alle urne in 2 o 3 milioni, ma sono stati comunque tanti, alla faccia dell’anti-politica, della nausea verso la partecipazione. La dialettica politica-antipolitica è sempre esistita, fin dai tempi dei Greci, l’importante è non perdere di vista il primato della cura della cosa pubblica rispetto agli interessi particolari. La politica è una sorta di vigile urbano che ferma o dà il via libera alle varie istanze, nell’interesse generale". La nascita del Pd sancisce il bipolarismo? "Non credo. Il bipolarismo, a mio avviso, non è nei cromosomi degli italiani. Diciamo che vi sono sistemi con un pianeta e dei satelliti; l’uno non vive senza gli altri e viceversa".

Il neo-Pd altererà gli equilibri tra forze politiche? "Per quanto mi riguarda dipende dai valori che questa nuova entità deciderà di assumere e difendere. In questo momento non sono vicini ai miei, ma è anche vero che le alleanze non sono eterne". In serata il ministro ha incontrato gli industriali, a Vicenza. Un gruppo di leghisti gli ha consegnato un documento di critica sull’indulto.

Giustizia: Di Pietro; il Consiglio dei ministri approvi ddl Amato

 

Ansa, 16 ottobre 2007

 

Antonio Di Pietro chiede una accelerazione in tema di sicurezza e l’approvazione al prossimo Cdm dell’annunciato pacchetto: "Sono contento - dice dal suo blog il ministro delle Infrastrutture - che sia affrontato il problema, sono d’accordo che le norme in discussione siano approvate al più presto e sul fatto che il Governo proponga un suo pacchetto a cui il Parlamento aggiunga norme sia sulla sicurezza sia sul buon funzionamento della macchina della Giustizia. È inutile arrestare le persone la sera e farle uscire la mattina dopo. Noi dell’Italia dei valori, e io come ministro, intendiamo intervenire e intervenire alla "Di Pietro maniera", perché credo sia ora che finisca il tempo dei finti buonisti, di coloro che pensano che sia sempre colpa della società quando qualcuno delinque e commette reati".

Giustizia: gli Usa negano estradizione; il 41-bis è una tortura

 

Corriere della Sera, 16 ottobre 2007

 

Un giudice di Los Angeles, D.D. Sitgraves, ha rifiutato l’estradizione in Italia di un membro del clan dei Gambino citando il rischio che venga sottoposto al regime carcerario imposto dal 41 bis paragonato a una forma di "tortura". Lo rende noto il Los Angeles Times, citando la sentenza emessa l’11 settembre scorso dal giudice per cui "la coercizione" del carcere duro imposto ai detenuti per mafia "non è da considerarsi collegata a nessuna sanzione legalmente imposta o punizione e quindi costituisce una tortura".

"È una questione umanitaria: in questo caso particolare, queste condizioni di detenzioni minaccerebbero e comprometterebbero la vita" del detenuto, ha aggiunto il giudice accogliendo il ricorso dell’avvocato Joseph Sandoval che si è opposto all’estradizione di Rosario Gambino che negli Stati Uniti ha scontato 22 anni per traffico di droga.

Dopo essere stato scarcerato dalla prigione federale, da un anno Gambino è detenuto nel centro di detenzione per immigrati di San Pedro, in attesa appunto dell’ordine di deportazione."Se non fosse stato per il mio nome, sarei stato già libero" ha dichiarato Gambino tramite il suo avvocato che ha definito la sentenza del giudice Sitgraves "al cento per cento corretta" sulla base della Convenzione dell’Onu contro la Tortura, il documento molte volte citato nelle denunce del regime carcerario cui sono sottoposti i detenuti di Guantanamo e degli altri presunti terroristi nelle carceri gestiste dall’amministrazione Usa.

La replica del Guardasigilli al giudice non si è fatta attendere. "Ricordo che c’è una legittimazione del Parlamento italiano per il 41-bis - ha detto Clemente Mastella - Mi sincererò attraverso l’ambasciata e attraverso gli uffici del mio ministero per vedere se è questa la sua risposta, che mi sembra francamente un po’ eclatante. Poi, francamente, che venga da un giudice di un Paese come gli Stati Uniti, che pur rispetto, ma che applica la pena di morte... non so davvero se sia più linea con le norme Onu chi applica la pena di morte o il Paese che utilizza il carcere duro".

 

Il 41 bis, regime per 529 detenuti

 

Rafforzamento delle misure di sicurezza per evitare i contatti tra l’interno del carcere e la criminalità organizzata all’esterno; restrizioni nel numero e nella modalità di svolgimento dei colloqui, limitazione della permanenza all’aperto (cosiddetta ora d’aria), censura della corrispondenza. Sono queste alcune delle misure previste dal regime di "carcere duro", ritenuto un importante strumento di lotta alla criminalità organizzata. Attualmente sono 529 i detenuti in regime di 41 bis, previsto dall’ordinamento penitenziario per i reati di criminalità organizzata e terrorismo.

La maggior parte (180) sono mafiosi di Cosa Nostra (fra cui Bernardo Provenzano, Totò Riina e Leoluca Bagarella), seguiti da camorristi (163), esponenti della ‘ndrangheta (83), della Sacra corona unita (48), di altre mafie anche straniere (27), della Stidda (20). Cinque sono terroristi e uno un criminale comune.

Introdotto nel 1986 nell’ordinamento penitenziario con la cosiddetta legge Gozzini (la norma più nota per i benefici carcerari), il 41bis riguardava all’inizio soltanto le situazioni di rivolta o di grave emergenza. Dopo le strage di Capaci del ‘92, quando la mafia dichiarò guerra allo Stato e uccise il giudice Giovanni Falcone assieme alla moglie e agli uomini della scorta, con un decreto si rese possibile l’applicazione del regime speciale ai detenuti per reati di criminalità organizzata o eversione. Una disposizione valida inizialmente per tre anni, ma successivi interventi legislativi ne hanno prorogato sempre di anno in anno la validità.

Altre successive modifiche al 41 bis hanno consentito l’applicazione del carcere duro anche ai reati di terrorismo, mentre nel 2002 è stata approvata dal Parlamento la legge 279 che ha reso permanente il regime nell’ordinamento penitenziario, senza più bisogno di proroghe annuali o triennali. Nel 2002 sono state introdotte anche alcune norme per rendere meno discrezionale la possibilità di togliere i boss mafiosi dal regime di carcere duro. I detenuti possono godere di 4 ore d’aria e potranno anche socializzare con 5 persone alla volta. La competenza sull’applicabilità o meno dell’art. 41 bis rimane al ministro della Giustizia e resta dunque a tutti gli effetti un atto amministrativo.

Giustizia: Mastella; il regime di 41-bis deve rimanere "duro"

 

Il Campanile, 16 ottobre 2007

 

La situazione delle carceri e la correlazione tra pene e reati, la legge Gozzini e l’indulto, la sicurezza stradale, il 41 bis e i clandestini. Questi i temi toccati ieri dal ministro della Giustizia, Clemente Mastella, nel corso di una visita all’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere in mattinata e di una tappa nel vicentino nel pomeriggio. Negli ultimi mesi il Guardasigilli si è recato in molte carceri e nel complesso la condizione che ha riscontrato è "discreta", anche se potrebbe e dovrebbe essere "migliorata". A partire dall’inserimento di nuovo personale. "Questo è il tentativo che portiamo avanti con molta decisione e determinazione - ha assicurato Mastella - aumentando il personale e dando anche qualche cosa in più". Nega, invece, che ci siano strutture penitenziarie inutilizzate. Anche se "è evidente che ci sia un ingolfamento". Ma, ha sottolineato il Guardasigilli, senza il provvedimento di indulto approvato lo scorso anno dal Parlamento, le problematiche da affrontare sarebbero diventate "drammatiche".

È stato "un atto compiuto con molta serietà", ha ribadito Mastella, puntualizzando per l’ennesima volta che non esiste un nesso tra "sicurezza e indulto, i crimini c’erano prima e ce ne saranno dopo". E per ridurli non basta irrigidire le pene. Sulla base di questa constatazione, il ministro ha confermato la sua disponibilità a discutere, seppur con un certo "dispiacere" essendo "ideologicamente contrario", la norma che prevede l’abbassamento a 16 anni dell’età imputabile. Come pure è disponibile a cambiare la legge Gozzini, purché se ne parli "con serenità". Nessun margine di modifica, invece, per il 41 bis.

Commentando la sentenza di un giudice statunitense che ha negato l’estradizione di un boss della famiglia Gambino sostenendo che il regime del 41 bis è troppo duro, simile alla tortura, il ministro della Giustizia oltre a sottolineare che "esiste una legittimazione del Parlamento italiano", ha replicato: "Guai se fosse un carcere semplice e non duro".

E ha aggiunto: "Mi pare contraddittorio, non so se sia più in linea con la direttiva dell’Onu il Paese che applica la pena di morte o il Paese che applica il carcere duro". Quanto ai clandestini, "c’è una legge che si chiama Bossi-Fini, non Amato-Mastella". In mattinata, terminata la visita all’istituto penitenziario, Mastella ha raggiunto l’ospedale di Nola per incontrare e fare le sue condoglianze all’agente di polizia penitenziaria, Angelo Cucciniello, padre di Francesco Pio, il bambino di 10 mesi morto in seguito ad un incidente d’auto a Marigliano. E proprio di misure per la sicurezza stradale ha parlato a margine della sua tappa vicentina. Pur non potendo "legittimare il fatto che tutti quelli che investono qualcuno alla fine devono essere arrestati", il titolare di Via Arenula, sostenuto dai Popolari-Udeur, promotori di un convegno in programma oggi in cui si discuterà dello spinoso argomento, chiede "misure più forti".

Giustizia: ex pm Gherardo Colombo; non serve solo il carcere

di Lionello Mancini

 

Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2007

 

"Capisco perfettamente la rabbia di chi vede in libertà e con una nuova patente una persona che pochi mesi prima gli ha ucciso un figlio o un fratello guidando ubriaco. Ma attenzione: i problemi cominciano ben prima e finiscono ben dopo il processo". L’ex Pm Gherardo Colombo ha trascorso gli ultimi due anni da magistrato (si è dimesso la primavera scorsa) alla IV sezione della Corte di Cassazione, proprio quella che giudica gli omicidi colposi: morti sul lavoro e incidenti stradali. Dopo tante sentenze scritte su questo tema, Colombo si è formato l’idea che inasprire le pene per i pirati della strada serva a poco: sarebbe molto più efficace riuscire a farli smettere.

 

Cosa c’è "ben prima" e "ben dopo" un processo per omicidio avvenuto in un incidente stradale?

Quanto al "prima" posso dire che nel nostro Paese è sempre mancata una seria finalità di prevenzione, una vera educazione ai valori della convivenza e del rispetto delle regole, quelle stradali comprese. Così come sono forse da rivedere le stesse norme che stanno alla base dei processi su questo tipo di reati. Quanto al "dopo", dobbiamo chiederci se il nostro sistema sanzionatorio sia efficace.

 

Nella valutazione degli incidenti, anche mortali, la normativa sembra di fatto troppo benevola: si tratta spesso di assassini pericolosi e pronti a colpire di nuovo.

La normativa prevede una casistica ampia, dentro la quale conta molto la discrezionalità del giudice. Ed è bene che sia così. Per esempio: a tutti noi può capitare di far male a qualcun altro guidando. Mettersi al volante dopo aver bevuto anche un solo bicchiere di vino in più è un comportamento sbagliato. Ma ancora più grave è il fatto che qualcuno violi abitualmente la legge guidando ubriaco o a folle velocità. La sanzione scatta in entrambi i casi, è ovvio: ma la differenziazione è doverosa.

 

Perché una persona condannata per guida in stato di ebbrezza può continuare a guidare fino a uccidere?

Questo va chiesto a chi fa le regole, non a chi deve verificarne il rispetto. Un magistrato non può inventarsi il ritiro permanente e definitivo della patente, se non c’è una legge che lo consenta; né può arrestare un omicida del volante se questo non è previsto.

 

Però il giudice potrebbe applicare il massimo della pena e questo non lo fa mai o quasi.

È vero, è molto raro, che in questo tipo di processi si applichi il massimo della pena, ma a mio avviso questo non è un comportamento legato alla sottovalutazione dell’omicidio colposo. Solo in casi molto limitati nel nostro sistema giudiziario viene irrogato il massimo della pena. E ciò avviene per diverse ragioni. Comunque il magistrato è tenuto a concedere attenuanti in presenza di un risarcimento pecuniario, come non può ignorare il fatto che un reo sia incensurato o negare il rito abbreviato che comporta automaticamente sconti di pena. Né va dimenticato che un processo di durata normale porterebbe spesso dritti alla prescrizione.

 

Resta che a una condanna non segue mai l’effettiva permanenza del colpevole in cella a scontare la pena e a riflettere su quanto ha fatto.

Qui entriamo in quel "dopo" che, di nuovo, non dipende soltanto dalle scelte di un magistrato. Anche se, per l’opinione pubblica, la faccia ce la mette lui. Sarà impopolare, specie oggi che sembra aver ragione chi suggerisce o predica la punizione più pesante, ma sul nostro sistema di pena occorre avviare una riflessione seria. La realtà attuale, supportata dalle statistiche, è che in prigione si impara a delinquere. Altrimenti non ci sarebbe un tasso di recidiva tanto alto, vicino ai due terzi. Quindi non sarei così sicuro che la soluzione sia costruire più carceri per tenere dentro più gente e più a lungo, aggiungendo all’elenco i pirati della strada.

 

E allora, cosa propone?

Se, come credo, il nostro sistema sanzionatorio va modificato, approfittiamone per cambiarlo veramente: l’omicidio colposo commesso al volante è uno dei classici reati in cui sarebbe più importante puntare sulla rieducazione, per evitare il ripetersi di comportamenti delittuosi. E allora mi chiedo per evitare che un giovane provochi nuovi incidenti mettendosi al volante ubriaco o impasticcato, è più efficace condannarlo a un anno in un ospedale ad assistere le vittime di incidenti stradali, o a un anno di prigione (che comunque non sconterà)?

Giustizia: mai più bambini in carcere

di Gennaro Santoro (Associazione Antigone, Settore carcere Prc)

 

Aprile on-line, 16 ottobre 2007

 

Ormai da più di un anno alla Camera giace un disegno di legge per la tutela del rapporto tra detenute madri e propri figli. Una legge che permetterebbe di porre fine all’aberrante detenzione di piccoli innocenti. Ma l’attuale coalizione di maggioranza sembra essere attenta solo alla propaganda e il 23 ottobre prossimo discuterà il nuovo pacchetto sicurezza.

In un paese che ama definirsi la culla della civiltà giuridica e che pone la famiglia e l’infanzia al primo posto, ci sono ancora circa 40 bambini in carcere di età inferiore ai 3 anni. Bimbi in cella con le loro madri, colpevoli di essere figli di straniere in attesa di giudizio. Persone alle quali non vengono concessi gli arresti domiciliari perché non hanno una fissa dimora e i servizi sociali non sono intervenuti.

Intanto l’estate scorsa a Rebibbia due detenute straniere hanno partorito nell’infermeria del carcere perché la magistratura di sorveglianza non ha fatto in tempo ad autorizzare il trasferimento in ospedale delle gestanti. Attualmente a Rebibbia ci sono venti mamme e rispettivi figli in tre stanze sovraffollate.

Nel frattempo politici di turno affilano pacchetti sicurezza che estendono l’applicazione della custodia cautelare in carcere (già oggi il 60% dei detenuti è ancora in attesa di giudizio) come soluzione dei problemi della comunità. Dimenticando che il vero male della nostra società è il crimine organizzato e che in carcere i detenuti appartenenti alla criminalità organizzata rappresentano soltanto il 2,5% dei condannati.

Dimenticando che i detenuti per crimini contro la pubblica amministrazione rappresentano soltanto il 3,5% del totale, gli stranieri oltre il 35%. Una giustizia dunque su due livelli, debole con i forti, implacabile con i più deboli anche se in attesa di una sentenza definitiva, anche se con prole sotto i 3 anni.

Oggi, più di ieri, viviamo in un paese che dimentica con troppa facilità le pre-regole del gioco democratico, il rispetto della dignità della persona che dovrebbe essere il "meta valore", come insegna Bobbio, di un sistema democratico. Nessuna maggioranza può decidere di uccidere o torturare un uomo. Nessuno dovrebbe costringere un bambino a vivere i primi anni di vita dietro le sbarre. Eppure la prima volta che sono entrato in un nido di un carcere (a Bellizzi Irpino) i bambini sono scoppiati a piangere.

Da rinchiusi non erano abituati a vedere facce nuove e maschili. A Roma, per fortuna, non si è ripetuto lo stesso dramma probabilmente perché i bambini di Rebibbia frequentano l’asilo pubblico e il sabato escono dal carcere accompagnati da volontari. Intanto a Milano è nata una casa famiglia per le madri detenute, senza sbarre e con personale della polizia penitenziaria senza divisa.. Iniziative del genere stanno per prendere luce a Roma, Venezia e Firenze. Ad Avellino, invece, non esiste nessuna convenzione tra carcere e asili pubblici, e i bimbi sono dentro per 360 giorni all’anno perché gli enti locali e la società civile continuano a dormire, nonostante le denunce e i solleciti dell’associazione Antigone.

Così il diritto all’infanzia cambia a seconda che la detenuta madre venga "spedita" a Milano, Roma o Avellino. Il diritto all’infanzia cambia ancora di più se si tratta del figlio di una rom o di una italiana. Nel primo caso si finisce dentro, col proprio piccolo, anche per un tentativo di furto di telefonino (sic!), nel secondo caso, per fortuna, ciò non avviene anche per reati ben più gravi.

Ormai da più di un anno alla Camera giace un disegno di legge per la tutela del rapporto tra detenute madri e propri figli. Una legge che permetterebbe di porre fine all’aberrante detenzione di piccoli innocenti. Ma l’attuale coalizione di maggioranza sembra essere attenta solo alla propaganda e il 23 ottobre prossimo discuterà il nuovo pacchetto sicurezza.

Per questa ragione Rifondazione Comunista il 17 ottobre presenterà alla Camera un documentario sulla detenzione dei bambini in carcere e chiederà pubblicamente che il disegno di legge in questione venga approvato nel più breve tempo possibile. Un modo per arginare la deriva securitaria che sta dilagando. Una deriva culturale che distorce l’analisi dei mali della nostra società e le possibili soluzioni. La nuova Sinistra, tutta ed unita, deve essere consapevole di questo dramma e deve saper trovare gli strumenti per far capire che soltanto un potenziamento delle politiche sociali può garantire (anche) più sicurezza urbana. Altrimenti la deriva americana della tolleranza zero spazzerà quelle conquiste del dopo guerra che sembravano irreversibili e la dignità della persona umana non sarà più il fondamento e la ragion d’essere dello Stato.

Giustizia: baby criminali… sono italiani e sempre più violenti

 

Panorama, 16 ottobre 2007

 

Sono pirati della strada, pali o spacciatori assoldati dalla mafia, bulli passati dalle marachelle a scuola allo stupro di gruppo. Hanno per lo più tra i 14 e i 16 anni, in nove casi su dieci sono maschi. E se è vero che a partire dagli anni Novanta c’è stata l’impennata del numero degli stranieri, negli ultimi tempi gli italiani hanno recuperato terreno: sono poco meno della metà dei minorenni in carcere, ma il 70 per cento di quelli denunciati alle procure. Chi sono, da che famiglie vengono, che delitti compiono, che fine fanno i baby criminali di casa nostra?

Per capirlo, partiamo dagli arresti, dai rapporti di polizia e carabinieri. A Roma e Milano non passa giornata in cui non ci sia tra i fermati un ragazzo con meno di 18 anni. "I minorenni stranieri", spiega Chiara Giacomantonio, responsabile della sezione minori della Direzione centrale anticrimine della polizia, "sono responsabili nella maggior parte dei casi di furti, rapine e spaccio. Mentre gli italiani compiono quelli che prima si potevano chiamare fenomeni di bullismo, ma che ora sono degenerati in atti molto più gravi: violenza privata, lesioni, aggressioni, stupri di gruppo. Un’evoluzione in peggio" continua Giacomantonio "che ha origine nel fatto che i ragazzi sono spesso lasciati soli e trovano nella "banda" la forza di affermarsi, proprio attraverso un atto criminoso. Parliamo infatti per lo più di adolescenti cosiddetti normali, che provengono da famiglie regolari e non necessariamente povere". Ragazzini della porta accanto, insomma, che scelgono come vittime i loro coetanei più deboli, ragazze, compagni isolati, disabili. "Quello che più inquieta quando li ascoltiamo", spiega ancora Chiara Giacomantonio, "è che non si rendono conto del valore negativo di quello che hanno fatto e non si sentono responsabili. Le frasi più ricorrenti sono: "Era solo uno scherzo" oppure "mi servivano i soldi per le scarpe firmate".

I dati del Dipartimento giustizia minorile del Ministero della giustizia confermano le impressioni di chi lavora sul campo. Nel 2006 la presenza media negli Istituti penali per minorenni (Ipm) è stata di 417,6 persone (il 12% in meno rispetto al 2005 per effetto dell’indulto). Di questi, il 54 per cento erano stranieri (per lo più romeni, marocchini, serbi) e il 46 per cento italiani, l’89 per cento maschi e l’11 per cento femmine.

Al Nord e al Centro gli stranieri sono più numerosi, al Sud lo sono gli italiani. Su un totale di 18 Ipm, in 11 i secondi superano i primi. L’età prevalente è 16-17 anni (nel 51% dei casi) e la maggioranza (il 63%) era in attesa del primo giudizio. Al 31 dicembre 2006 erano detenuti per reati legati alla droga 20 italiani e 38 stranieri, per furto 24 e 50, per rapina 63 e 53, per lesioni 19 e 19, per omicidio 17 e 6, per stupro 2 e 6.

In generale, analizza il Dipartimento, i reati contro il patrimonio (furti e rapine) sono più frequenti tra gli stranieri, quelli contro la persona e quelli legati alla droga tra gli italiani. Un altro dato importante: molti minori che entrano in contatto con la giustizia minorile fanno uso di droghe, occasionalmente o abitualmente, per lo più di cannabinoidi e cocaina. Il 70 per cento di questi sono italiani.

L’aumento dei detenuti italiani va letto sotto una lente particolare. Rispetto ai coetanei stranieri infatti, gli italiani finiscono meno spesso in carcere, perché chi ha una famiglia alle spalle e nessun problema di clandestinità ha più possibilità di ricorrere a misure alternative. Di andare nei centri di prima accoglienza o in comunità, di essere affidato ai servizi sociali oppure di scontare la pena ai domiciliari. Il 56 per cento dei ragazzi in comunità è italiano e in queste strutture dal ‘98 al 2006 gli ingressi sono aumentati del 128 per cento.

Nel 2004 (ultimo dato fornito dal Ministero) sono stati denunciati alle Procure presso il Tribunale dei minori 41.529 giovani con meno di 18 anni. Il numero comprende anche i minori di 14 anni, cioè non imputabili, che sono quasi il 30 per cento. Sul totale, gli italiani erano il 71 per cento.

"Fare il ragazzo oggi è un bel casino", dice don Gino Rigoldi, al suo 36esimo anno da cappellano dell’Ipm "Beccaria" di Milano. Il parroco ne ha visti molti, molti ne ha ospitati in casa e nella sua Comunità Nuova e oggi sono proprio gli italiani a richiamare la sua attenzione. "Il loro aumento mi ha sorpreso.

Mi sembra di essere tornato indietro di 35 anni", spiega. "Vedo arrivare ragazzi dalle periferie difficili, con un’educazione povera e famiglie disattente. Ma oggi i giovani hanno qualcosa in meno di allora: gli manca una visione positiva del futuro. Hanno uno sguardo depresso, spento. Non vedono uno sbocco per la propria vita. Nel deserto dei quartieri quello che conta è ciò che devono assolutamente possedere e il furto o la rapina diventano il modo per diventare protagonisti di qualcosa". Gli adolescenti sono lasciati soli, secondo don Gino, anche quando non entrano in contatto con la droga e col carcere: "Milano è una città piena di orfani".

Adolescenti che proprio dietro la porta blindata di una cella o nel campetto da calcetto dell’istituto spesso cercano quello che "fuori" non hanno trovato. "Un adulto che li responsabilizzi, che sappia dire di no e che insegni loro a fare delle scelte", dice Elvira Narducci, operatrice al "Beccaria" da 15 anni e da gennaio vicedirettore. "Parliamo di persone che stanno crescendo", continua, "e che soprattutto trascorreranno ancora la maggior parte della loro vita fuori dalla prigione.

Quello che riusciamo a trasmettergli qui è fondamentale". Per questo tanta attenzione alle attività di orientamento, da quelle professionali, a quelle sportive e scolastiche a quelle creative di cui Paola Prandini è responsabile da otto anni. "Quando escono devono avere qualche strumento in più per affrontare la vita, una competenza lavorativa e una maggiore consapevolezza", spiega. "Qui puntiamo soprattutto sull’integrazione tra le varie etnie, i gruppi di attività sono misti, anche tra maschi e femmine".

"Il rischio di recidiva è alto con i minorenni", avverte Elvira Narducci, "proprio perché si tratta di persone in evoluzione. Per questo il loro percorso non è lineare. Ma proprio per questo con loro una caduta non è mai definitiva e fino all’ultimo c’è una possibilità di recupero. Sempre che si voglia scommettere sulle loro incredibili risorse.

Ultimamente le richieste che ci arrivano dall’esterno sono nella direzione del controllo, della sicurezza, della repressione. E i mezzi impiegati per il reinserimento costruttivo passano in secondo piano". "Con evidente svantaggio per tutti", conclude Paola Prandini. "Questo vale sia in prigione sia fuori. Che fine fa un 14enne rom che ha rubato al supermercato e che non trova una rete sociale che lo sostenga?". Per alcuni ragazzi il carcere è il male minore.

Giustizia: si impicca Piccolo, pentito dell’omicidio Fortugno

 

Ansa, 16 ottobre 2007

 

Suicida uno dei due testi che hanno incastrato gli assassini di Francesco Fortugno. Bruno Piccolo si è impiccato ieri in un appartamento del Nord Italia dove era stato nascosto dalla Direzione distrettuale antimafia per proteggerlo dalle continue minacce che aveva ricevuto da quando aveva deciso di collaborare con la giustizia. A fare la scoperta gli uomini delle forze dell’ordine invitati a far visita nell’appartamento dai parenti del pentito preoccupati perché il loro caro non rispondeva da ore al telefono. La notizia del suicidio giunge proprio oggi in cui ricorre il secondo anniversario della morte dell’ex vicepresidente del consiglio regionale della Calabria ucciso a Locri.

Modena: Cpt; muore un tunisino 23enne, forse si è suicidato

 

Redattore Sociale, 16 ottobre 2007

 

Previsto per oggi un sopralluogo del ministero dell’Interno nella struttura che ha fatto parlare di sé fin dalla sua apertura nel 2002 per alcuni episodi di violenza commessi da agenti di polizia.

Un tunisino di 23 anni è stato trovato morto durante la notte nel Cpt (centro di permanenza temporaneo) di Modena. Secondo i primi accertamenti, sembrerebbe trattarsi di suicidio. Il ministero dell’Interno ha predisposto un sopralluogo nella struttura per oggi. Un funzionario del dipartimento delle libertà civili e immigrazione del Viminale incontrerà il vice prefetto vicario, il questore di Modena e Anna Maria Lombardo, il responsabile del centro gestito dalla Misericordia di Modena. Un Cpt, quello modenese, che fa parlare di sé fin dalla sua apertura nel novembre 2002, e non solo per il fatto che il presidente della Misericordia di Modena, ente gestore del centro, sia il fratello di Carlo Giovanardi, allora Ministro dei rapporti con il Parlamento.

La mattina del 25 dicembre 2004 una donna rumena trattenuta al Cpt nonostante fosse incinta di nove mesi, partoriva una bambina che avrebbe poi chiamato Natalia in ricordo di quel giorno, senza che il personale del centro avvertisse i servizi sociali della città di Modena.

A settembre 2006, una giovane cinese, ospite del CPT modenese, veniva ricoverata a Baggiovara per trauma da percosse. W.F., 26 anni, doveva essere rilasciata proprio il 22 settembre perché alla scadenza del suo sessantesimo giorno di permanenza al Centro, non era stata identificata. Non trovando gli operatori, la ragazza, che non parlava italiano, aveva cominciato ad agitarsi. A quel punto - secondo quanto raccontarono allora le compagne del reparto femminile - sarebbe intervenuto un agente di polizia, di turno al controllo della struttura, che l’avrebbe prima bloccata e poi schiaffeggiata, per poi calciarla una volta caduta a terra. "Abbiamo assistito tutte alla scena, è stata molto violenta, abbiamo sentito le sue urla" dichiararono allora le compagne alla stampa. La giovane, trasportata all’ospedale di Baggiovara, e trattenuta al pronto soccorso venne poi raggiunta dal direttore del Cpt, Giovanni Gargano, insieme al vicedirettore, che promisero di fare chiarezza sulla vicenda. Ma i responsabili non sono mai stati puniti. E qualcosa di simile è accaduto di nuovo recentemente.

Lo scorso 2 settembre 2007 con il pestaggio di un cittadino marocchino nel centro modenese. La vicenda è persino finita in tribunale. L’hanno accusato di resistenza a pubblico ufficiale, ma stranamente è lui che riporta gravi contusioni sulle gambe e sul torace, un occhio pesto ed ematomi su tutto il corpo. Nell’udienza di lunedì 9 in cui veniva chiesto l’arresto e la custodia cautelare in carcere per il cittadino straniero, gli agenti hanno sostenuto che una volta portato nella sala di accettazione il detenuto si sarebbe messo a colpire a testate la parete e un oggetto in ferro lì presente, riportando così le contusioni. Ma l’imputato, ha parlato di un pestaggio. "È stato preso dal tetto di peso, portato in una stanza e poi pestato - dice l’avvocato difensore Vainer Burani -. Ha ricevuto un calcio in faccia all’altezza dell’occhio, come si vede dalla ferita e dal viso tutto gonfio e poi è stato calciato sul braccio dove c’è il segno di uno scarpone, picchiato con i manganelli sulle cosce e con calci sugli stinchi dove ha una serie di contusioni". I referti medici in seguito al ricovero al pronto soccorso riportano "trauma policontusivo per ferite e percosse, dolore in sede cervicale, lombare, toracica e ascellare, dolore su gomito sinistro, anca sinistra e gamba sinistra", confermando il racconto del ragazzo. La prossima udienza si terrà il 30 ottobre, ma l’avvocato Burani teme che la sua espulsione possa avvenire prima. È già successo in casi simili, a Bologna, a Milano, a Torino.

E intanto sulla gestione del centro pende l’ufficializzazione del nome del vincitore del bando per la gestione. Dalla sua apertura, nel 2002, il Cpt è gestito dalla Misericordia di Modena, il cui presidente, Daniele Giovanardi, è fratello di Carlo Giovanardi, che nel 2004 era ministro per i rapporti con il Parlamento. Ma la nuova gestione, secondo indiscrezioni, sarebbe stata affidata alla Cooperativa Albatros 1973, che già gestisce il Cpta di Caltanissetta.

Palermo: una lettera di denuncia dal carcere dell’Ucciardone

 

Giornale di Sicilia, 16 ottobre 2007

 

L’Ucciardone è un istituto che si trascina sulle sue vecchie "ossa" come un Dinosauro di altri tempi. Questa scusa della struttura vecchia diventa una pena aggiuntiva per i Detenuti, sé a questo aggiungiamo il menefreghismo da parte di chi dovrebbe provvedere a ciò che spetta ai Detenuti, primo fra tutti il Direttore Maurizio Veneziano.

L’igiene non è contemplata nella struttura dell’Ucciardone, dai locali docce, dove ci sono interi piani come il 3° ed il 4° piano della 7° sez. , il 3° piano della 6° sez. e fino a ieri il 3° piano della 3° sezione, che non possono essere utilizzate per problemi tecnici, (la pressione dell’acqua non è sufficiente per arrivare fino ai piani) alle sale colloqui dove aspettano i Familiari, alla manutenzione che andrebbe fatta nelle celle dove non esistono i caloriferi, dove i Detenuti sono costretti a vivere il doppio di quelli che realmente le celle sono adibite alla capienza.

Il barbiere nella 6° e 3° sezione non esiste da almeno 1 anno, quindi costretti ad arrangiarsi come si può per rendersi presentabili ai propri familiari ai colloqui; i pacchi dei colloqui arrivano dalla "buca" con i vestiti tutti stropicciati insieme al mangiare, chi non fa i colloqui non può farsi spedire i pacchi per via posta con alcun tipo di genere alimentare. Il servizio sanitario è a dir poco pessimo, Detenuti che si devono segnare a visita medica per 15-20 giorni di fila prima di poter vedere un Medico di Sezione, medicinali che vengono prescritti ma che non vengono mai realmente consegnati, si tampona con farmaci che hanno più o meno lo stesso principio attivo. L’invivibilità è palese, ma molti rinunciano a protestare per non avere ritorsioni.

Chi scrive espone i fatti come realmente sono, senza dare il proprio giudizio e riguardo a questi sulla inefficienza della Direzione, prendo a solo le mie responsabilità, ma leggendo non potrete che concordare con me e con chi è stufo di queste cose, che con l’impegno, che non c’è da parte della Direzione, si potrebbero sistemare molte cose, senza dover scontare una carcerazione ai limiti, se non sotto la decenza è nel rispetto della Dignità Umana.

 

Livio Pintus, dal reparto d’isolamento dell’Ucciardone

Foggia: il Sappe; chiudete subito la "sezione della vergogna"

 

Il Grecale, 16 ottobre 2007

 

"In una stanza di tre metri per 1,50 sono ristretti almeno due detenuti e che gli stessi sono costretti a fare i loro bisogni corporali senza alcuna privacy nella stessa stanza dove mangiano, dormono e passano tutta la maggior parte della loro giornata".

Il Sappe - Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria - maggior sindacato di categoria, nella persona del segretario regionale Federico Pilagatti, ha sollecitato l’amministrazione penitenziaria ad eliminare quella che definiscono la "Vergogna della sezione transito del carcere di Foggia".

"Siamo stati scettici - dicono - sul provvedimento dell’indulto, poiché era svuotato di proposte costruttive che potessero risolvere il problema dell’affollamento delle carceri. Purtroppo i risultati di questa scelta si sono rivelati un rimedio che ha peggiorato la malattia con le carceri che sono tornate a riempirsi, e con tanti reati in più commessi a danno dei cittadini. È giusto - continuano - che chi sbaglia e va in carcere debba pagare in maniera certa il suo conto con la giustizia, ma nel far questo la stato deve anche preoccuparsi di garantire ai detenuti condizioni di vita degne di un essere umano, cosa che non avviene nella sezione transito del carcere di Foggia.

Purtroppo in questa situazione anche la Polizia Penitenziaria è costretta a lavorare in condizioni igienico-sanitarie incredibili. È bene che si sappia che in una stanza di tre metri per 1,50 sono ristretti almeno due detenuti e che gli stessi sono costretti a fare i loro bisogni corporali senza alcuna privacy nella stessa stanza dove mangiano, dormono e passano tutta la maggior parte della loro giornata.

Senza parlare poi della fatiscenza della sezione transito a partire dall’impianto elettrico fuori legge e pericoloso sia per l’incolumità dei detenuti che del personale di Polizia Penitenziaria. Non sarebbe male che qualcuno, a tempo perso, vada a mettere il naso in quel posto per rendersi conto di persona della drammatica situazione". Il Sappe chiede pertanto che la sezione transito del carcere di Foggia venga chiusa immediatamente, anche attraverso l’intervento delle autorità sanitarie o amministrative, poiché "Non è pensabile che in un paese civile si possano consentire condizioni di vita e di lavoro così mortificanti".

Bologna: intervista a Nello Cesari, il Provveditore dell’A.P.

 

www.equalpegaso,net, 16 ottobre 2007

 

Dott. Cesari, sul sito Equalpegaso è on-line uno spazio web dedicato alle attività svolte dal Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria dell’Emilia-Romagna. Si tratta di un importante segnale di apertura verso l’esterno dell’amministrazione penitenziaria emiliano romagnola.

Certamente, anche se l’apertura di questo spazio si inserisce in una lunga tradizione: quella del cosiddetto carcere "campana di vetro" ovvero del carcere inserito nel resto della società. Proprio in tal senso si è voluto aprire questo spazio che vuole essere, non solo, uno strumento di apertura ma anche di lavoro. È molto importante l’accesso alle notizie relative al carcere: perciò ho voluto che all’interno della sezione venissero riportate in primo luogo le funzioni e gli orari dei singoli istituti, in modo che l’utenza possa avere una possibilità di accesso agli stessi documentata e, pertanto, efficace. Quindi questa sezione è prima di tutto un servizio al cittadino, ma, come diceva anche lei, si inserisce in un processo "generale" di apertura alla società.

 

Qual è la sua valutazione di questa collaborazione?

Molto positiva anche perché Equal Pegaso è un progetto integrato che attiva la collaborazione tra più soggetti, che vanno dagli enti locali ad enti istituzionali e non. Pegaso rappresenta in tal senso un modo di concertazione della cosa pubblica, in questo caso dell’esecuzione penale e del reinserimento dei detenuti, estremamente significativo, che va nella direzione giusta se come è vero, i detenuti non sono "soggetti strani", ma figli di questa società. È un bene quindi che le Istituzioni si attivino in un’azione sinergica nei loro confronti. È la strada maestra che noi dovremmo sempre seguire: quella dell’integrazione culturale e della sinergia inter-istituzionale.

 

Questa nuova sezione dimostra un interesse verso l’aspetto "relazionale"? Ossia tende a rafforzare l’idea che ci sia, da parte vostra, una rinnovata attenzione alle politiche penali sotto l’aspetto del reinserimento socio-lavorativo e della formazione?

Certamente. Abbiamo un mandato istituzionale, anzi, vorrei essere più concreto: abbiamo un mandato direttamente dalla Costituzione. Quindi ogni operatore, penitenziario e non, che si accosta a questa materia sa che si muove in un ambito costituzionale molto chiaro, nitido e delimitato, per cui non c’è possibilità di fraintendimento: anche il peggiore dei criminali, per noi, è un soggetto da recuperare, da rieducare e da reinserire nel tessuto sociale. Quindi l’apertura di questa nuova sezione è un fatto estremamente positivo, che si muove in quest’ottica, ma per il resto non parlerei di nessun merito se non quello di adempiere ad un proprio ufficio che ci da quest’obbligo specifico. Occorre sottolineare questo aspetto in quanto, qualche volta, in un discorso perbenistico lo si giudica come una specie di debolezza nei confronti di chi delinque dovuta ad una sorta di iper comprensivismo della posizione dei detenuti: no, non è una scelta soggettiva, è il mandato istituzionale che ci obbliga a dare questo tipo di risposte.

 

Si è fatto spesso riferimento, anche, e soprattutto, all’interno delle istituzioni, al "pianeta carcere" come ad un universo separato, espressione che denota un autorefenzialità del sistema penale. Spesso emerge la difficoltà di cogliere il "bisogno" della popolazione detenuta. Aprire uno spazio web può essere letto come il tentativo di un’apertura del Prap al dialogo e alla collaborazione con chi interviene nell’esecuzione penale e, una volta espiata la pena, nel reinserimento?

Intanto non si tratta di un’ apertura ma della continuazione di un’ apertura precedentemente avviata. Non è che prima come pianeta carcere eravamo chiusi ed ora siamo aperti. Non è vero, anzi, è accertato che noi continuiamo su questa strada utilizzando i mezzi delle nuove tecnologie nello specifico il web che è un portale aperto alla società civile, a tutti coloro che vogliono navigare e che utilizzano i mezzi moderni. Però se dovessimo dire che il pianeta carcere era chiuso ed ora si apre, sarebbe errato: questo è solo un ultimo passo di un lungo percorso già avviato dall’85.

In questa regione l’amministrazione penitenziaria si è aperta alla società civile, come dimostra il "protocollo d’intesa" con gli enti locali siglato nell’87, poi rinnovato nel ‘98, nel quale vengono previsti ambedue i comitati dell’esecuzione penale, la Commissione regionale e i Comitati locali per l’esecuzione penale adulti. I comitati costituiscono degli strumenti già fin da allora introdotti attraverso il principio della sussidiarietà, senza che il Legislatore si muovesse con una norma regolamentare. Noi ci siamo attivati, in assenza di una norma specifica, forti di un’integrazione interistituzionale e di un obiettivo comune. Inoltre, da sempre lavoriamo per predisporre degli strumenti tecnico-operativi che possano monitorare, spingere, propugnare questo rapporto. In quest’ottica si coglie la reale dimensione: oggi, in una società in cui tutto si evolve a ritmi frenetici, la tecnologia web ci permette di utilizzare nuovi spazi e di raggiungere un numero maggiore di soggetti.

 

Secondo lei, quali saranno gli utenti privilegiati di questa sezione?

Tutti. Non vorrei escludere nessuno. Utenti saranno tutti coloro che cominceranno ad accedervi, ivi compresi i parenti dei detenuti. Molto spesso ricevevo, quando ero il direttore di un istituto di pena, le richieste più disparate rivelatrici tutte di un mondo che per troppi anni è rimasto estraneo, non solo alla società civile ma anche ai soggetti. Immagino una madre che deve andare a trovare un figlio in carcere e non sa né come né dove né quando può farlo: il portale va dunque in questa direzione con l’intento di favorire la relazione tra l’amministrazione e il mondo esterno. E poi, certamente, va anche incontro alle esigenze della società civile, del mondo imprenditoriale e del volontariato, che in questo portale mi auguro possano trovare anche uno spazio per potersi inserire e, perché no, portare avanti delle idee o, addirittura, mettersi a disposizione per lavorare in questo settore.

 

Il problema del diritto alla salute all’interno degli Istituti di pena è stato oggetto di un recente accordo di collaborazione tra il Prap e l’assessorato regionale alla salute nel quale vi siete impegnati a trasferire funzioni della medicina specialistica, relative alla psichiatria, all’infettivologia e alla ginecologia, dall’amministrazione penitenziaria alle Aziende Sanitarie Locali. Ritiene che questo passaggio di competenze possa contribuire con efficacia alla tutela del diritto alla salute della popolazione detenuta?

Questo passaggio porta, anche formalmente, il detenuto allo stesso livello di un qualsiasi cittadino. Però con ciò non vorrei sostenere che con questo passaggio di competenze si acquista il diritto all’assistenza: questa, infatti, veniva fornita anche prima secondo le esigenze della popolazione detenuta. È evidente come sia molto cambiata la natura degli interventi realizzati dagli enti locali: prima è stato necessario eliminare le cosiddette mutue, e solo dopo si è raggiunta la parificazione tra l’assistenza sanitaria penitenziaria e quella ordinaria equiparando dunque i detenuti a tutti i cittadini, come previsto dal principio costituzionale. Il carcere non è un’isola diversa, dove c’è un’assistenza diversa: è la medesima riservata a tutti i cittadini. Oggi possiamo dire che, con questo passaggio, nel territorio regionale si fa un passo avanti in questa direzione: ma la nostra non è la prima regione, già altri enti locali si erano mossi in quest’ottica. Ma il significato che mi preme sottolineare è di ordine politico e istituzionale: cioè il detenuto viene curato con tutte le possibilità previste dall’assistenza sanitaria ordinaria che ora, anche all’interno degli istituti di pena, viene assicurata dagli stessi organi, dalle stesse strutture e dai medesimi operatori. Speriamo che conduca a risultati soddisfacenti perché non è detto che tutti i cambiamenti siano sempre positivi anche se, personalmente, sono fiducioso e mi auguro che vada bene.

 

In carcere è in continua crescita il numero dei tossicodipendenti. Molti di questi sono extracomunitari e, in quanto tali, per quanto stabilito dal Testo unico sull’immigrazione, sono impossibilitati ad accedere al programma terapeutico che di norma viene realizzato in carcere dall’equipe del Sert. Quali strade sono percorribili per dare una risposta a problemi come questo?

Intanto non è vero che i tossicodipendenti non siano seguiti. Il problema serio non è tanto quello di seguirli in carcere, quanto quello di realizzare un programma terapeutico efficace in grado di aprirsi, nell’orizzonte temporale, anche in ambito extramurario. Purtroppo la norma prevede che questi soggetti, una volta scontata la pena, siano estradati e che debbano tornare al loro paese di origine. Gli orientamenti del Governo si infatti muovono in questa direzione in applicazione delle norme specifiche: non soltanto la Bossi-Fini, ma già le leggi precedenti prevedevano modalità simili. Gli indirizzi del Governo sono quelli di consentire, durante la detenzione, l’identificazione dei soggetti in ordine alla loro nazionalità di provenienza in previsione di un loro rimpatrio alla fine della pena. Questo caratterizza l’intervento come meramente assistenziale, di sostegno e di recupero all’interno della struttura; naturalmente con i limiti imposti dai numeri: se all’interno dello stesso istituto vi sono 250 detenuti tossicodipendenti non è possibile garantire lo stesso trattamento efficace per tutti. L’intervento è diretto a tutti, ma sul fatto che possa arrivare a tutti, invece, esistono difficoltà oggettive dettate dal numero dei detenuti tossicodipendenti. Ma il vero limite, ribadisco, è quello della continuità temporale dello stesso.

 

Constatiamo come, nonostante sia passato più di un anno dall’approvazione dell’indulto, ancora oggi è in atto da parte di numerosi esponenti politici e dei mass media, un processo di comunicazione denigratorio nei confronti di questo provvedimento clemenziale. Eppure il testo di legge era passato in Parlamento con una larga maggioranza e, soprattutto, i dati sugli effetti non possono essere considerati così disastrosi come appaiono da una rapida occhiata ai titoli di giornale. Che ne pensa?

Occorre prima chiarire molti aspetti: innanzitutto quanto queste prese di posizione siano strumentali e quanto reali. Bisognerebbe decodificarle, ma non è il mio compito: io mi limito ad applicare le norme. Non credo poi che l’indulto abbia avuto degli esiti così gravi, se, come è vero, nel nostro territorio abbiamo inserito in un progetto ben 106 ex-detenuti e detenuti in strutture pubbliche, private e nel mondo della cooperazione, alcuni dei quali hanno tramutato il loro rapporto temporaneo in un rapporto stabile. Questo non può che essere considerato un fatto estremamente positivo.

Non mi risulta, ad esempio, che alcuna delle persone inserite sia tornata a delinquere nel senso che nessuno è rientrato in carcere. Anche se il discorso del ritorno in carcere è equivoco perché implica essere colti in flagrante mentre si commette un reato ma è possibile, anzi siamo praticamente sicuri, che nessuno delle persone inserite nel progetto si sia macchiato di crimini. Mi consta, di contro, che ci siano stati riscontri estremamente significativi e gratificanti, verso gli operatori e, soprattutto, molta riconoscenza verso l’Amministrazione.

Anche in questo caso abbiamo collaborato con altri soggetti istituzionali, riuscendo a conseguire il finanziamento, che è della Cassa Ammende. Il valore del progetto da noi presentato è dimostrato dal fatto che i finanziamenti a noi assegnati (179.000 euro) sono stati raddoppiati proprio perché questo è stato giudicato meritevole di essere finanziato nella sua integrità. Io stesso proposi al presidente della Cassa Ammende di non operare nessun frazionamento del finanziamento. Il progetto stesso, supportato da questo ufficio, è stato accolto positivamente anche dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e successivamente presentato alla Cassa delle Ammende con una relazione estremamente positiva: questo ha consentito che ci raddoppiassero i finanziamenti.

 

Presso quali strutture sono stati inseriti i beneficiari del progetto di cui sopra?

Non è possibile tracciare un quadro omogeneo: diciamo che nel Nord, ovvero a Parma a Reggio Emilia e a Piacenza, molti hanno trovato spazio in una struttura pubblica; al centro e al sud, invece, si sono attivati maggiormente i canali con le realtà del no-profit e della cooperazione. Poi è stato il comitato, composto da operatori sociali del territorio e dell’amministrazione, ad identificare le risorse umane da utilizzare e le realtà imprenditoriali e non, disponibili a dare lavoro a questi soggetti.

 

A proposito dei progetti, ritiene che si possa parlare di interventi finalizzati alla soddisfazione di un bisogno oggettivo o che, invece, spesso gli effetti di queste azioni risolvano solo in parte esigenze reali e prioritarie per i beneficiari?

Di progetti ce ne sono veramente tanti. Diciamo che chi presenta un progetto viene stimolato dall’Amministrazione, dal mio ufficio e dagli altri operatori. Poi certo, quando si procede tramite selezione, essendo le risorse fortemente limitate, bisogna operare con una certa oculatezza. Noi abbiamo sempre cercato di privilegiare progetti che possano dare uno sbocco occupazionale, anche per quanto riguarda quelli formativi abbiamo sempre privilegiato quelli che possono condurre ad un inserimento. Questo è l’orientamento che ci siamo dati perché riteniamo che sia quello più conforme all’esigenza dei soggetti interessati.

 

In questo senso si può affermare che le politiche di intervento vengano attuate sulla base di una valutazione condivisa di quello che sono le reali esigenze o che questo, ad oggi, è soltanto un’ obiettivo verso cui tendere?

No, questo è un obiettivo condiviso. In caso contrario i progetti non si concretizzano. Nei comitati locali per l’esecuzione penale gli obiettivi vanno condivisi perché in caso contrario può diventare problematico procedere. Non è una tendenza: piuttosto una condivisione di base. Anche perché, in fin dei conti, è più facile condividere questi obiettivi che non condividerli.

 

L’agenzia di Comunicazione nata nel progetto Equal Pegaso ha tra le sue finalità quella di favorire lo scambio di conoscenze tra tutti i livelli di attuazione e realizzazione delle policy, perché riteniamo che sia fondamentale tendere a una maggiore sinergia tra le parti coinvolte nel processo. Nella vostra attività avete previsto un monitoraggio di tutte le iniziative progettuali che investono la realtà degli istituti di pena?

Noi abbiamo già istituito, oltre al portale, anche un sito presso il Provveditorato dove dovremmo riportare un po’ tutti questi aspetti. Questo fa seguito al vecchio progetto dell’osservatorio interistituzionale che si muoveva nell’ottica di creare le possibilità di una ricognizione sul campo di quelle che sono le reali esigenze per poi predisporre gli interventi. Noi stiamo predisponendo quindi altri strumenti tecnici per permettere al mondo esterno di avere una visione d’insieme delle attività realizzate.

In relazione al vostro sito abbiamo provveduto a divulgarne la conoscenza a tutti gli organi dell’Amministrazione: le Direzioni, i Provveditorati, gli uffici di sorveglianza, i magistrati. Abbiamo informato tutti questi soggetti annunciando l’apertura di questo spazio e invitando a consultarlo. Stiamo inoltre preparando un approfondimento da inviare a "Pena e Territorio" l’organo ufficiale del Dipartimento che viene distribuito su tutto il territorio nazionale.

Senza dimora: 14 città alla scoperta del "popolo silenzioso"

 

Redattore Sociale, 16 ottobre 2007

 

Una serata di riflessione sul tema della povertà e della vita in strada, scandito da momenti di dibattito, spettacolo e convivialità. E, a mezzanotte, tutti nei sacchi a pelo per dormire in strada e condividere la condizione degli homeless

In Italia ci sono almeno 17mila senza dimora. Persone che dormono sui marciapiedi o in strutture d’accoglienza pubbliche o gestite da enti religiosi. Il dato, rilevato nel 2000 dalla fondazione Zancan per conto della Commissione sull’esclusione sociale, è impreciso, per qualcuno addirittura sottostimato. In attesa dei risultati della prima indagine nazionale sui senza dimora, che il ministro della Solidarietà sociale, Paolo Ferrero, ha inserito nella sua agenda, c’è un’occasione ben precisa per non dimenticarsi di chi vive ai margini.

È la Giornata mondiale di lotta alla povertà, che le Nazioni Unite hanno voluto celebrare il 17 ottobre di ogni anno, ereditandola dall’iniziativa di un prete di origini polacche, Joseph Wresinski, in prima linea accanto agli ultimi. Un appuntamento che il giornale di strada "Terre di mezzo" sottolinea ogni anno in modo particolare, dedicando il numero di ottobre agli homeless e organizzando la "Notte dei senza dimora", un evento di piazza giunto all’ottava edizione, realizzato in 14 città in collaborazione con le associazioni che si occupano dei senza dimora. Una serata di riflessione sul tema della povertà e della vita in strada, scandito da momenti di dibattito, spettacolo e convivialità.

E, a mezzanotte, tutti nei sacchi a pelo per dormire in strada e condividere per una notte la condizione dei senza dimora (info: www.terre.it e nella scheda a lato, ndr). Un popolo silenzioso che ogni tanto fa sentire la sua voce. Magari rivolgendosi ai Centri d’ascolto della Caritas Italiana, che nel 2006 hanno registrato le richieste di quasi 3mila senza dimora (2089 stranieri e 842 italiani).

Persone bisognose, che chiedono un alloggio (30,2% di italiani e stranieri), un lavoro (14,1% di italiani e 23,2% di stranieri), ma soprattutto beni e servizi materiali (67,8% italiani, 65,1% stranieri). E in particolare: prima accoglienza (23,9% di italiani, 29,6% di stranieri), mensa (35,2% di italiani, 26,7% di stranieri) e vestiario (17,1% di italiani, 18,1% di stranieri) ma anche prodotti spazzolini, dentifrici, saponi e altri prodotti per l’igiene personale (16,5% di italiani, 29,6% di stranieri) e persino biglietti di viaggio, molto più richiesti dagli italiani (11,3%) che dagli stranieri (5,5%).

Beni e servizi forniti da una galassia di associazioni e realtà assistenziali pubbliche e private, che i giornalisti di "Terre di mezzo" hanno esplorato e raccontato nei servizi della monografia "Istruzioni per l’uso", di cui vi proponiamo una selezione nei lanci successivi.

Droghe: Torino; continua lo scontro su apertura "narco-sale"

 

Notiziario Aduc, 16 ottobre 2007

 

Le esperienze maturate a Francoforte e Barcellona. Il Forum Droghe, Clat4 e Cobs hanno proposto sabato un dialogo con altri operatori europei di stanze del consumo. Agnoletto: "Sono programmi salvavita: non si incentiva l’uso di droghe".

Francoforte, Barcellona e Torino: tre città a confronto su una questione ancora aperta: le "stanze del buco" o narcosale. Il Forum Droghe, Clat4 - 4° Conferenza latina sulla riduzione del danno, e Cobs - Coordinamento Operatori Servizi a Bassa Soglie del Piemonte, hanno proposto sabato al Teatro Baretti, un dialogo con altri operatori europei di stanze del consumo.

A dare il via al dibattito, una questione di grande attualità: a cinque anni dall’iniziativa del sindaco Chiamparino, che nel 2002 lanciò la proposta di una sperimentazione, è stata liberata giovedì scorso una delle tre mozioni (la 2007 - 05870/2, su "Droghe. Informazione, educazione alla salute e alla legalità, prevenzione e riduzione del danno" con 20 voti favorevoli e 16 contrari, ancora sospese le altre due contrarie, presentate da An) , mentre oggi il Consiglio Comunale voterà sulla possibilità di aprire le dibattute "stanze del consumo" ; in Sala Rossa grande è lo scontro, soprattutto ideologico, fra maggioranza e opposizione.

Nel 1994 a Francoforte viene sperimentata la prima "drug consumption room". In quegli anni sono tantissimi i giovani che fanno uso di eroina, si iniettano le dosi per le strade, molti nel parco più grande della città, di fronte alla Deutche Bank; ogni giorno per overdose vengono chiamate 15 ambulanze. Il problema, oltre che umanitario, è anche economico e di ordine pubblico. "Nessuno aveva idea di come avrebbero reagito i vicini - spiega Jürgen Weimer, coordinatore servizi tossicodipendenze della città di Francoforte -, ma era necessario ci fosse un posto dove si potessero iniettare droga con un’assistenza sanitaria. Ne hanno usufruito in 4.500, e oggi molti sono in contatto con i servizi".

Le narco-sale, a Francoforte, sono oggi 4; si è registrato un calo del 50% dell’epatite C e della sieropositività, e sono diminuiti anche gli interventi per overdose, che oggi sono 13 in una settimana. Nell’esperienza di questa città è stato fondamentale il supporto delle forze dell’ordine, che pur sapendo cosa avveniva nelle sale, dove erano ovviamente presenti sostanze, non è mai intervenuta, pur essendo il possesso di droga illegale. U altro elemento di forza è stato l’aspetto psicologico: "Non basta il metadone - ha dichiarato ancora Weimer - le persone vanno motivate. Li abbiamo fatti lavorare, pulire il parco, in modo che anche l’opinione pubblica vedesse il loro recupero".

A Barcellona l’esperienza ha avuto fasi e problemi diversi: manifestazioni di protesta e questioni logistiche. "Inizialmente i vicini hanno protestato, e un giorno ci hanno distrutto tutti i locali:un danno di 23.000 euro - ha raccontato Manel Anoro, coordinatore di Sala Baluard, Barcellona - quello è stato il momento peggiore". Oggi comunque le narco-sale esistono e funzionano a pieno ritmo: hanno equipe mediche, sono aperte tutto l’anno, 24 ore al giorno. Forniscono vaccinazioni, programmi di metadone, siringhe. Fondamentale l’apertura ad orario continuo, perché, spiega l’operatore, la cocaina è più consumata la notte, l’eroina la mattina. E ora i vicini hanno capito.

Al convegno, un’altra voce a favore delle narco-sale si è stata quella dell’Europarlamentare, ex presidente Lila, Vittorio Agnoletto, che ha ricordato come il tema sia ormai europeo e di come l’orientamento dell’Europa sia a favore delle narco-sale. "Questi sono programmi salvavita: non si incentiva l’uso degli stupefacenti, ma si prende atto che ne esiste l’uso, ma che non deve concludersi con patologie o overdose". A proposito dei temi della sicurezza, Agnoletto ha anche ricordato che una riduzione della mortalità fra i tossicodipendenti non è in contrasto, ma anzi aiuterebbe un benessere sociale, sia in termini di ordine pubblico sia per la riduzione di alcune patologie.

 

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