Rassegna stampa 17 ottobre

 

Giustizia: Ferrara (Dap); tra un anno avremo 60.000 detenuti

di Liana Milella

 

La Repubblica, 17 ottobre 2007

 

La domanda del giornalista è secca: "Quanto tempo ci vorrà per ritornare allo stesso numero di persone che erano detenute prima dell’indulto?". E cioè 60.710 del 31 luglio 2006 rispetto alle 46.986 di ieri? Ettore Ferrara, che dirige le carceri italiane da gennaio di quest’anno, risponde citando il suo lavoro di ogni giorno e i rapporti che gli arrivano sulla scrivania settimana per settimana in cui figurano quanti individui sono entrati in cella e quanti ne sono usciti in sette giorni.

È la stima dei flussi tra chi entra, chi esce, chi resta. Dice Ferrara, magistrato napoletano, noto esponente di Unicost ed ex capo di gabinetto dei Guardasigilli Clemente Mastella: "La popolazione carceraria aumenta di circa mille unità al mese. Ci vorranno ancora 13 mesi per tornare ai 60mila dell’anno scorso".

Parlando di indulto e di penitenziari che tornano a essere sovraffollati, la polemica è assicurata. Il ministro se ne accorge subito. Tant’è che propone un altro calcolo: "Se non avessimo votato l’indulto, che non ho fatto solo io ma altri 800 parlamentari, oggi saremmo arrivati a oltre 75mila detenuti. Ci troveremmo in una situazione devastante, drammatica, di totale insicurezza".

Doveva essere una conferenza stampa per fare puntigliosamente il punto sulle case mandamentali (350 fino al ‘99, da allora ben 325 soppresse) il cui abbandono, in inchieste giornalistiche, viene addebitato al ministero. Si trasforma nell’ennesima occasione per "mettere sotto processo" l’indulto e la sua efficacia.

Ferrara fornisce un dato che con lo sconto di pena non c’entra nulla perché riguarda il numero delle persone arrestate ogni giorno, finite in cella indipendentemente dalla misura di clemenza che il Parlamento votò il 29 luglio 2006. La cifra di Ferrara, come lo stesso Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sottolinea successivamente, riguarda "solo" i flussi. Ma mille detenuti al mese non sono una bazzecola e gli avversari del governo non si lasciano sfuggire l’occasione.

Reagisce soprattutto An, il partito che in larga parte, ma con alcune significative eccezioni (Matteoli, Buccico, Valentino) votò contro l’indulto. L’ex sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano chiedere polemicamente: "Mastella ce ne sta proponendo un altro? Quando fu votato, il ministro trattò con sufficienza il rilievo che si sarebbe trattato di un rimedio temporaneo al sovraffollamento, ma oggi segnala che in 18 mesi si arriverà alla situazione pre-indulto".

Batte lo stesso tasto Giulia Bongiorno, responsabile Giustizia di An e l’ex ministro Maurizio Gasparri grida: "È una vergogna premiare il crimine e mettere l’Italia in ginocchio". Chiude Giuseppe Consolo: "Subito nuove carceri e il ripristino di quelle inutilizzate".

La polemica è ovviamente strumentale, ma sulle nuove carceri Mastella è pronto alla polemica. Se a lui spetta ristrutturare quelle esistenti, "tocca invece al collega delle Infrastrutture", cioè l’ex pm Antonio Di Pietro, costruirne di nuove. In Finanziaria ci sono 70 milioni di euro, ma si sa, i tempi sono lunghi.

Mastella non vuole altre responsabilità: "Non ho fatto io la legge Bossi-Fini, e non accetto l’idea che tutto quello che non va nella giustizia debba essere addebitato a me. È un omaggio alla stupidità e al cattivo giornalismo". Quanto al pacchetto sicurezza che, con la stretta sulla custodia cautelare produrrà inevitabilmente nuovi detenuti, il ministro sfuma: "Servirà per garantire la certezza della pena".

Giustizia: Ferrara (Dap); concedete di più misure alternative

 

La Repubblica, 17 ottobre 2007

 

Il dato è innegabile. Dall’inizio dell’anno il numero dei detenuti ha subito un aumento repentino. A fine gennaio erano 39.827, e se ne contano 46.986 al 16 ottobre. Cioè a ieri.

Non sono proprio i mille carcerati in più di cui parla il direttore del Dap Ettore Ferrara, ma poco ci manca. È un dato che allarma gli esperti del ministero della Giustizia che si sforzano di ragionare sulle dinamiche complessive della popolazione penitenziaria in Italia e sugli effetti di uno sconto di pena di tre anni come l’indulto.

Tant’è che il sottosegretario Luigi Manconi, delegato a seguire proprio il pianeta penitenziario e che aveva commissionato una ricerca al l’università di Torino e ne aveva presentato i risultati a febbraio, adesso è intenzionato a chiederne un aggiornamento.

Che ragioni anche sui flussi di chi entra e chi esce dalle carceri, 90.714 persone nel 2006, una media costante negli anni di 80-90mila unità, con un residuo di permanenza di due - tremila che rimangono dentro. Ma nel 2007 la situazione cambia.

Colpa dell’indulto o di una sorta di "ossessione" della galera a tutti i costi che prende forze dell’ordine e magistratura? Fa riflettere un’affermazione fatta ieri proprio da Ferrara. Subito dopo la rivelazione sui "mille detenuti in più" eccolo dichiarare: "Abbiamo sollecitato i Magistrati di Sorveglianza ad applicare, in tutti i casi in cui è possibile, misure alternative al carcere, basandoci anche sui dati a disposizione a proposito della recidiva: si attesta sul 20% per chi sconta la pena con misure differenti rispetto al carcere, sale invece fino al 60% per chi invece è finito in cella".

E dunque non sbaglia chi, come Stefano Anastasia, un passato ai vertici dell’associazione Antigone, ora capo di gabinetto di Manconi, difende le ragioni dell’indulto e fa un paragone sta quello che sta accadendo in questo mesi e lo stesso fenomeno che si verificò nel 1999 dopo l’allarme omicidi a Milano e il lavorio intorno al pacchetto sicurezza del governo D’Alema: "Anche allora - ricorda Anastasia - ci fu un picco nel numero dei detenuti, che aumentarono rapidamente di oltre mille unità".

Le ragioni? Di sicuro la pressione dell’opinione pubblica e della stessa politica su tutte le agenzie della sicurezza, sugli agenti e sui giudici, per "tenere dentro" il maggior numero possibile di persone, la mano dura sulle aggravanti, la stretta sulle misure alternative. In una parola, il bisogno di maggiore sicurezza si traduceva in un maggior numero di detenuti.

La campagna contro l’indulto ha prodotto anch’essa più gente in cella. Anche se i dati sui recidivi, elaborati nella ricerca torinese per il periodo agosto 2006 - gennaio 2007, quello in cui si è verificato il picco più alto delle scarcerazioni (25.565 detenuti messi in libertà, di cui 15.815 italiani e 9.750 stranieri), dimostrano una media complessiva attestata sul 20 per cento. Di gran lunga inferiore alla media rilevata negli ultimi cinque anni - il 68% - che prescindeva dallo sconto di pena.

Ma in futuro la "voglia di carcere" non può che peggiorare. Basta riflettere sul pacchetto sicurezza che i ministri dell’Interno e della Giustizia si apprestano ad approvare a Palazzo Chigi proprio venerdì: lì si prevede una custodia cautelare "obbligatoria" che avrà come effetto soprattutto quello di far schizzare ancora più in alto il numero dei detenuti.

Giustizia: Dap; l'indulto non c’entra con aumento detenuti

 

www.giustizia.it, 17 ottobre 2007

 

Con riferimento ai dati relativi all’incremento della popolazione detenuta, il Dap rileva come nessuna influenza sulla crescita di essa possa ascriversi all’indulto. Il dipartimento conferma, infatti, che il numero dei reclusi risulta in aumento secondo un trend pressoché costante negli ultimi anni.

Tale incremento - che in alcuni periodi dell’anno ha avuto dei picchi che hanno fatto registrare un saldo attivo anche di 1.000 unità al mese - ha determinato complessivamente, negli ultimi quindici mesi, una crescita di circa 9.000 detenuti (dai 38.000 di Agosto 2006 ai 47.000 odierni), con un saldo attivo medio pari a circa 600 detenuti al mese.

Si tratta, tuttavia, di un aumento legato a flussi di detenuti in entrata, la cui permanenza in carcere - come più volte rilevato - non risulta connotata da particolare stabilità. I detenuti definitivi infatti, allo stato risultano essere circa 18.000, mentre la restante parte dei reclusi è composta da giudicabili ed è soggetta ad un frequente ricambio, indipendentemente da provvedimenti di clemenza.

Nessuna concreta previsione sull’aumento della popolazione carceraria può essere allo stato formulata. L’unica certezza è che in assenza di interventi adeguati, tra qualche tempo potrebbe riproporsi la questione del sovraffollamento penitenziario.

Il DAP auspica che vengano al più presto approvate dal Parlamento le proposte ministeriali di modifica del sistema penale - sostanziale e processuale - che rendano stabili le detenzioni dei soggetti pericolosi affidando a misure alternative al carcere la punibilità dei fatti che non manifestano pericolosità sociale; e che si trovino soluzioni al problema degli stranieri detenuti (che rappresentano oggi oltre il 35% della popolazione carceraria) mediante accordi internazionali che consentano l’espiazione delle pene nei paesi di origine.

Giustizia: dei delitti (minori) e delle pene (eccessive)

di Andrea Boraschi e Luigi Manconi

 

L’Unità, 17 ottobre 2007

 

Ci si continua a interrogare sul perché dell’indulto ("era proprio indispensabile?", "non si poteva risolvere altrimenti il problema del sovraffollamento?"). Due notizie di cronaca spicciola spiegano, in maniera assai efficace, per quali ragioni si è dovuti giungere ad adottare quel provvedimento. La prima. Antonio C., 41 anni, di Avellino, ha patteggiato, in direttissima presso il tribunale di Milano, sei (6!) mesi di reclusione per il reato di violazione degli obblighi speciali di sorveglianza.

L’uomo era stato arrestato dieci giorni prima per un furto ad un supermercato; a seguito di ciò, gli era stato comminato l’obbligo di residenza nel comune del capoluogo lombardo, con la prescrizione aggiuntiva del reperimento, dalle 21.00 alle 07.00, presso il suo domicilio. Che Antonio, non avendo una casa, ha eletto nei pressi di una panchina di piazzale Aquileia (vicino al carcere di S. Vittore). La violazione degli obblighi di sorveglianza scatta automaticamente anche quando il sorvegliato commetta un altro reato: come ha fatto quest’uomo, tornando a rubare.

Un giaccone e due paia di calze: questa la refurtiva. Dal reato di furto è stato prosciolto per assenza di querela (il commerciante derubato ha ritenuto di non dover denunciare un senzatetto): Antonio C. ha invece dovuto patteggiare quella pena, per la violazione di cui sopra, che lo obbliga a un trasloco coatto dalla sua panchina al carcere di S. Vittore. Il suo avvocato ha avanzato richiesta di scarcerazione, con obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria per la firma quotidiana. Il pubblico ministero, al momento, sembra non opporsi; e, dunque, è possibile che Antonio esca dal carcere, nelle prossime settimane: da quel carcere dove si trova senza neppure una querela a carico, per una giacca e due paia di calzini.

Altra vicenda, sempre a Milano. Notizia del 25 settembre scorso: due anni di prigione, con prole al seguito, per avere sottratto qualche flacone di shampoo e di bagnoschiuma dagli scaffali di un supermercato. Questa la sentenza emessa dal Gup contro due giovani donne marocchine, Kharima e Ghiziane, 24 e 26 anni, per "lenire la prostrazione" (così scrive il giudice) degli esercenti milanesi, colpiti quotidianamente da piccoli furti e sottrazioni indebite di merce. La cronaca del reato è banale: due vigilantes del supermarket notano le donne infilare tre confezioni di shampoo e quattro di bagnoschiuma sotto il pannolino di uno dei loro bebè.

Decidono di bloccarle, ma quelle tentano la fuga: così il furto diventa "rapina impropria" e la pena sale. Sale tanto, che nonostante lo sconto di un terzo per la scelta del rito abbreviato, vengono comminati 24 mesi di detenzione: di "carcere vero", come sottolinea ancora il magistrato. Due anni di S. Vittore - anche loro lì - con bambini al seguito: per 66 euro e 20 centesimi di merce sottratta (lo shampoo e il bagnoschiuma costano un po’ troppo in quel supermercato, che vien da esclamare: che furto!).

Qual è la morale di queste due storie? No, non è certo un elogio del taccheggio; tanto meno il suggerimento larvato che su furti e furtarelli si debba tutti chiudere un occhio. Già, in quelle due vicende c’è anche il disagio dei commercianti (di quelli di Milano e di molte altre città) che hanno diritto di svolgere la propria attività senza venire danneggiati da troppi furti.

Ma c’è, crediamo, anche una questione di equità: ovvero, di proporzionalità tra il reato e la pena. E, a monte di questa, l’ombra di questioni di giustizia sociale, che certo non possono essere risolte con il codice penale; e che, tuttavia, non possono rimanere estranee all’amministrazione della giustizia, non definitivamente. Infine, tornando alle domande d’apertura: cos’hanno a che vedere queste due storie con l’indulto?

Semplice: se il codice penale italiano, e l’applicazione che la magistratura ne propone, producono sentenze quali le due appena esaminate, allora - non c’è scampo - le nostre carceri saranno sempre affollate. Inutilmente affollate. Perché quale persona di buon senso è disposta a credere che quelle due giovani donne, ad esempio, scontati due anni di reclusione, saranno meno disposte a tornare al piccolo furto per riuscire a sopravvivere?

Quale persona di buon senso può pensare che, nel momento in cui saranno scarcerate, il loro status sociale, il loro livello di integrazione nella nostra società, sarà tale da consentire loro di trovare agevolmente lavoro o casa? E sarà tale da includerle in sistemi di relazioni lontani dall’illegalità, da immetterle in percorsi professionali e umani, virtuosi e positivi? Hai voglia i media, e certi arruffa-popolo, a raccontare che questo è un Paese di impuniti...

Ma va là! Questo è un Paese dove il carcere è pressoché la sola sanzione prevista per ogni illecito: poche misure alternative e pochi lavori socialmente utili, programmi di recupero, multe e interdizioni. In ogni caso davvero poco. A cosa serve l’indulto, allora? Risposta: a svuotare le nostre affollatissime carceri, periodicamente (o quasi), da ladri di galline, tossicodipendenti, immigrati sprovvisti di permesso di soggiorno.

Di queste persone, in larga misura, le nostre celle sono piene. C’è un problema a monte? Esiste una soluzione? Sì: il problema si chiama politica penale. Lo si risolve invertendo la tendenza di questi ultimi anni: depenalizzando molti reati che non comportano allarme sociale né danno diretto per terzi, prevedendo sanzioni alternative alla reclusione per altri che non mettono a rischio l’incolumità dei cittadini.

Così facendo c’è la possibilità di non dover ricorrere periodicamente a condoni penali: la possibilità di tenere in carcere (in un carcere che non somigli a una scatola di sardine e che non violi sistematicamente i diritti dei cittadini privati della libertà) chi è veramente pericoloso e chi minaccia di tornare a commettere crimini gravi.

Per tutta la durata della pena, se ciò si rivela necessario. Post Scriptum: apprendiamo, mentre scriviamo queste ultime righe, che Antonio C. resterà a S. Vittore ancora per un po’. Così ha deciso il giudice, rigettando l’istanza di scarcerazione presentata dal suo legale. Tuttavia, per una strana eterogenesi dei fini, ciò potrebbe non rivelarsi una soluzione negativa: un assistente sociale attivo in quel carcere si è detto disponibile ad accogliere Antonio in casa sua e a trovargli un lavoro, qualora gli venissero concessi i domiciliari. Chissà?

Giustizia: il dilemma; più carcere o più misure alternative?

di Donatella Stasio

 

Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 2007

 

Qual è il volto della nostra giustizia? Quello delle Erinni, le dee vendicatrici, o quello delle Eumenidi, le dee benevole? Con il "pacchetto sicurezza", il Governo fa la faccia feroce e punta sul carcere per arginare un certo tipo di criminalità diffusa (furti, scippi, rapine senza armi, incendi boschivi), che non merita né sconti di pena né misure alternative alla detenzione.

Ma la politica penitenziaria ha una faccia più benevola: dopo l’indulto, si punta proprio sulle misure alternative al carcere sia per evitare il ciclico sovraffollamento delle patrie galere sia per favorire il reinserimento del condannato nella società. Una benevolenza giustificata dall’esperienza, visto che per i detenuti che hanno beneficiato di misure alternative alla detenzione il tasso di recidiva è inferiore al 20%, mentre per gli altri è di circa il 60-65 per cento.

Governo bifronte? Certo è difficile non cogliere una contraddizione. Da un lato si punta al carcere, escludendo la sospensione automatica dell’esecuzione della pena; dall’altro lato si auspica che la magistratura di sorveglianza sia più larga di manica nella concessione ai detenuti delle misure alternative; tanto che, per incoraggiarla, l’amministrazione penitenziaria sta sperimentando l’utilizzo di agenti di polizia penitenziaria per vigilare sui detenuti beneficiari di queste misure.

Dopo l’indulto e le polemiche che si è trascinato dietro, il Governo non può più permettersi una nuova emergenza carceraria. Tuttavia, il rischio è concreto, se è vero che la popolazione carceraria aumenta al ritmo di mille unità al mese, per cui tra un anno potremmo tornare alla quota, pre-indulto, di 60mila detenuti. Un rischio tanto più concreto se il Governo deciderà di andare fino in fondo sulla strada del "pacchetto sicurezza", ovvero di una politica in cui la "certezza della pena" sembra declinata essenzialmente in termini di "più carcere": dalla custodia cautelare "obbligatoria" per tutta una serie di reati, alla possibilità di essere arte-stati subito dopo la condanna di primo grado, fino all’esclusione (per le condanne entro i 3 anni) di ogni misura alternativa alla detenzione.

Non solo. Ieri Mastella ha detto che la parola d’ordine dovrà essere anche "severità", e non ha escluso che si possa abbassare a 16 anni la soglia della punibilità dei minori. Per ora, la sua, è solo un’idea, che forse si ispira alla riforma approvata in Francia il 26 luglio di quest’anno, con cui è stato intaccato uno dei capisaldi posti dal 1945 a tutela dei minori: a partire dai 16 anni, in caso di recidiva non sarà più applicabile l’attenuante della minore età.

Se Sarkozy diventerà l’esempio da imitare, anche per i minori la maggiore severità potrebbe tradursi in "più carcere": un ulteriore contributo al sovraffollamento delle patrie galere...

A chi gli ha chiesto se non vi sia una contraddizione tra una politica della sicurezza che punta in modo inflessibile al carcere e una politica penitenziaria che, per evitare il sovraffollamento e assicurare un minimo di vivibilità, punta invece sulle misure alternative, Mastella ha risposto che il problema va ricercato, semmai, nell’eccessiva presenza di detenuti extracomunitari clandestini, poiché rappresentano il 40% della popolazione carceraria. Quindi, "con una modifica della legge Bossi-Fini la situazione potrebbe essere diversa". Un rimedio parziale, e che comunque stenta a prendere forma.

Ma il problema non è solo il sovraffollamento delle carceri. È capire se il Governo pensa davvero che il carcere sia la risposta migliore all’esigenza di sicurezza avvertita nel Paese e la strada maestra per il reinserimento del detenuto nella società. "I sistemi alternativi possono essere molto più produttivi - ha osservato ieri Gherardo Colombo, l’ex pm di Mani pulite che ha detto addio alla magistratura - e per chi sta in carcere la sanzione non deve essere solo un castigo, ma una strada per ripresentarsi legittimamente agli altri".

In fondo, anche Mastella la pensa così quando ammette che la "certezza della pena può essere garantita anche con modalità alternative al carcere". Allora, bisogna scommettere sulla giustizia, più che sulla vendetta. Come insegna Eschilo nell’Orestea, quando le Erinni placano la loro ira, accettando di trasformarsi nelle più concilianti Eumenidi. "Con questo lieto fine - scrive Francois Ost, filosofo del diritto nonché Direttore dell’Académie européenne de Teorie du droit - Eschilo dimostra che è possibile sottrarsi all’oscura necessità di un destino di colpe e di sventure: anche se per questo occorre che i cittadini coltivino il timore della punizione e il rispetto delle leggi".

Giustizia: Mastella sta forse preparando... "l’indulto bis"?

di Anna Maria Greco

 

Il Giornale, 17 ottobre 2007

 

Aumentano di 1.000 al mese i 47mila detenuti nelle carceri. Tra un anno e mezzo ritorneranno a essere quanti erano prima dell’indulto: 63mila, per 43mila posti regolamentari. Sovraffollamento in crescita, insomma, se non ci saranno interventi strutturali. E gli psicologi già lanciano l’allarme per il rischio di rivolte.

Ma al ministero della Giustizia hanno trovato l’uovo di Colombo: utilizzare gli agenti penitenziari anche per sorvegliare i detenuti che ottengono i benefici della legge Gozzini, e farne uscire dalle celle il più possibile. "È una sperimentazione - spiega il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Ettore Ferrara - che avvieremo presto in alcune città, per indurre i magistrati di sorveglianza a fare più spesso uso di misure alternative alla detenzione. La strada è questa: il tasso di recidiva tra chi ottiene misure alternative è sotto il 20%, per gli altri è il 60-70%. Oltretutto, ogni detenuto nei penitenziari costa allo Stato una grossa cifra e se stanno fuori di più, ci potranno essere maggiori risorse per assumere nuovi agenti".

Ferrara è accanto al ministro della Giustizia, alla conferenza-stampa convocata per replicare alle polemiche seguite all’inchiesta del Giornale,ai servizi tv di Striscia la notizia e a interventi di altri quotidiani, sui penitenziari inutilizzati. A Clemente Mastella chiedono se c’è contraddizione su questo premere sull’acceleratore delle misure della Gozzini e il "pacchetto sicurezza", che prevede un giro di vite sui benefici penitenziari, almeno per reati che destano allarme sociale come rapine, scippi, incendi boschivi.

"La cosa più importante - replica il Guardasigilli - è garantire la certezza della pena, o in carcere o con misure alternative. L’idea che ci sia una differenza tra micro e macrocriminalità è una sciocchezza, la criminalità è una sola". Ma chi dovrebbe lasciare il carcere in misura maggiore? "Tra i detenuti ci sono spacciatori, drogati ed extracomunitari: i clandestini sono il 40% e con una modifica alla legge Bossi-Fini la situazione potrebbe cambiare".

Mastella respinge le critiche sull’indulto. È vero che presto i penitenziari saranno pieni come prima, sottolinea, ma senza il provvedimento di clemenza oggi la situazione sarebbe "devastante": a quota 78mila detenuti.

Costruire nuove carceri è lungo e dispendioso. E, avverte il Guardasigilli, spetta al ministero delle Infrastrutture, che deve stanziare i fondi. Un piano per 70 milioni di euro c’è, ma Mastella deve vedersela con il suo grande antagonista Antonio Di Pietro. Lui può occuparsi solo di ampliare e ristrutturare le sezioni già esistenti: così sono stati recuperati 3.300 posti e nel triennio 2007-2009 ce ne saranno altri 4mila.

E le più di 50 prigioni vuote? 34 fanno parte delle 350 case mandamentali per 20-30 detenuti, nate nel ‘75 per gli imputati a disposizione del pretore. Abolite le preture sono state per lo più dismesse, anche perché antieconomiche e restituite ai Comuni proprietari, per destinarle ad altri usi. Il Dap su di esse non ha più competenza. Altri 15 istituti sarebbero aperti o devono essere riconsegnati dopo una ristrutturazione, come quello di Gela. Per chiudere Pianosa c’è stata una legge del Parlamento. Solo 6 sarebbero "in situazioni di stallo": la procedura di permuta si è arenata. Ma bisognerà poi valutare se conviene utilizzarle. Ferrara spiega che in alcuni casi le strutture vengono chiuse perché il personale è insufficiente. E come si può pensare, allora, di mettere gli agenti a guardia di 30mila detenuti in semilibertà o in permesso premio? Sulla carta, i baschi azzurri sono 45mila, circa 1 per ogni detenuto. La media europea è 1 a 3. Quella Usa 1 a 7. Ma Ferrara dice che hanno una mole di incarichi diversi che all’estero. Per l’ex Guardasigilli Roberto Castelli, ogni giorno ne lavora solo la metà. "Alcuni sono assenti per motivi legittimi (turni, malattie...), altri no. Non sono mai riuscito a vederci chiaro".

Giustizia: pochi psicologi, si rischiano rivolte dei detenuti…

 

Redattore Sociale, 17 ottobre 2007

 

Nei 205 penitenziari sono solo 20 gli psicologi di ruolo e l’assistenza si riduce a meno di 12 minuti al mese per detenuto. "Se manca il supporto psicologico, non c’è riabilitazione e aumenta il rischio che si scateni l’aggressività".

Dopo un anno dall’indulto la situazione nelle carceri italiane non sembra essere migliorata. Secondo i dati dell’Ordine degli psicologi italiani 1/3 dei detenuti usciti con la legge 241/2006 è tornato a delinquere e ad affollare quindi gli istituti penitenziari. A mancare secondo Alessandro Bruni presidente della società italiana psicologi penitenziari è stato un adeguato collegamento tra la sicurezza e l’assistenza psicologica. "Se non viene fatto un trattamento opportuno del detenuto è difficile evitare una possibile ricaduta. Noi aiutiamo Caino per proteggere Abele, questo è il nostro ruolo. Ma sono quindici anni che lavoriamo in condizioni disagiate, ora è arrivato il momento di decidere se è meglio cancellare la figura dello psicologo in carcere, che oggi rischia di diventare solo una forma di cosmesi"-ha detto Bruni intervenendo alla giornata organizzata dall’ordine degli psicologi per denunciare la condizione del sistema penitenziario italiano -"facciamo appello quindi alla classe politica, perché prenda una decisione. Se non ci saranno segnali forti, la nostra esperienza si ferma qui".

E i numeri in questo senso parlano chiaro: nei 205 penitenziari italiani operano 404 psicologi ma solo 20 sono di ruolo, tutti gli altri lavorano come precari. 90 di essi si occupano del servizio nuovi giunti, l’attività di accoglienza nella fase di ingresso al carcere, mentre altri 294 svolgono attività di osservazione e trattamento, un servizio rivolto ai detenuti condannati o internati. Tutto questo per un compenso orario di 17,63 euro lordi, una cifra al di sotto del tariffario medio di uno psicologo e che secondo l’ordine non rispetta affatto il tipo di professionalità richiesta. Ma il problema non riguarda soltanto la situazione degli psicologi penitenziari. Manca anche un vero e proprio sistema di sostegno e supporto garantito per ogni detenuto. Dovrebbero essere infatti 64 le ore mensili dedicate all’assistenza psicologica nelle carceri ma normalmente la media è intorno alle 30 ore al mese, una cifra che tradotta significa meno di dodici minuti di supporto psicologico al mese per ciascun detenuto. Un malessere ben fotografato da una recente indagine dell’Eurisko svolta in 25 penitenziari italiani da cui risulta che il 62% dei detenuti ha una patologia che necessita di un intervento specialistico, e nel 44% dei casi si tratta di problemi psicologici o psichiatrici. Una situazione degradante che potrebbe portare i detenuti a scatenare anche rivolte all’interno delle carceri.

Un fatto grave per Giuseppe Luigi Palma, presidente del Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi, che parla di una violazione palese dell’articolo 32 della Costituzione italiana, che tutela la salute come diritto fondamentale di tutti i cittadini. "La situazione nelle carceri è a un bivio. La tensione e il malessere dominante determinano un aumento dell’aggressività - ha continuato Palma - il 67,5% dei decessi in carcere riguarda inoltre casi di suicidio, è una situazione a cui dobbiamo porre fine. Nel 2005 è stato stilato un protocollo d’intesa col ministero di Giustizia che prevedeva un minimo di garanzie, ma questo protocollo non è stato mai attuato. Questo è un fatto rilevante, e non si tratta solo di una questione di risorse." Palma ha anche parlato del recente incontro, il 25 settembre scorso, con il sottosegretario alla Giustizia Manconi, dicendo di aver appreso con rammarico che le prossime iniziative che verranno prese dal ministero non soddisfano affatto quanto chiesto dagli psicologi penitenziari. E alle dure critiche del presidente del consiglio dell’ordine ha fatto eco Mario Sellini, segretario dell’Aupi (associazione unitaria degli psicologi italiani) che prospetta per le carceri italiane una situazione futura non certo rosea: "Come professionisti siamo convinti che la riabilitazione dei cittadini detenuti sia fondamentale.

In Italia però non c’è certezza né di pena né di riabilitazione e dopo l’indulto le carceri si stanno riaffollando con gli stessi problemi che c’erano prima" - ha detto - "oltre a questo c’è il problema dei bambini che sono nati in carcere e che vivono con le madri, per i quali non esiste nessun tipo di garanzia. Da qui a qualche anno la situazione delle carceri potrebbe diventare esplosiva."

Marialori Zaccaria, presidente dell’ordine degli psicologi del Lazio ha quindi posto l’attenzione sulla scarsa considerazione riservata dalle istituzioni alla figura dello psicologo in carcere, citando anche le recenti dichiarazioni di Simonetta Matone, sostituto procuratore del Tribunale dei Minori di Roma che aveva parlato di un’eccessiva indulgenza degli psicologi nei confronti dei detenuti. "La nostra funzione non è di indulgere, ma di comprendere il disagio. Noi non etichettiamo le persone tout court in quanto cattive. Lo psicologo è fondamentale. Nei casi di recidiva, ad esempio, se si capisce il motivo per cui una persona delinque si può evitare che succeda di nuovo".

Alla fine di questa giornata di protesta tutte le realtà intervenute all’incontro hanno espresso la volontà di stilare un documento da presentare alle istituzioni per chiedere, in particolare al ministro della Salute Livia Turco, che all’interno del progetto di riassetto della medicina penitenziaria venga posta attenzione non solo al sostegno dei detenuti, ma anche alla stabilizzazione degli psicologi che lavorano nelle carceri.

Giustizia: di nuovo le carceri scoppiano, cosa vogliamo fare?

di Susanna Marietti (Antigone)

 

Aprile on-line, 17 ottobre 2007

 

Nei primi cento giorni dello scorso anno i suicidi sono stati il 67% delle morti in carcere. Solo 404 psicologi sono pochi per 46.000 detenuti, già 2.000 in più di quelli che le carceri potrebbero contenere. L’indulto votato solo un anno e mezzo fa è servito da traino per riempire di nuovo gli istituti appena svuotati

Gli psicologi penitenziari si apprestano a stilare un documento rivolto al Governo nel quale denunciano lo stato di crisi in cui versano le loro attività, con tutte le conseguenze che ciò si porta dietro. Lo hanno raccontato in una conferenza stampa romana organizzata dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi e dall’Associazione unitaria psicologi italiani. Le risorse umane ed economiche che vengono destinate al settore non permettono di dedicare a ciascun detenuto più di 12 minuti al mese. Troppo pochi, per far fronte a quella fucina di malesseri psichici che è la vita penitenziaria.

L’Osservatorio sulle carceri di Antigone ha rilevato come gli ansiolitici siano di gran lunga i farmaci più distribuiti nelle galere, andando a coprire con creatività ogni sorta di male.

E, infatti, nei primi cento giorni dello scorso anno i suicidi sono stati il 67% delle morti in carcere. E, infatti, l’aggressività all’interno delle carceri crescerà al punto da lasciar prevedere disordini significativi nei prossimi anni. Quegli stessi disordini che la povera legge Gozzini, periodicamente sotto i cannoni di calcolatori e interessati allarmisti, si riproponeva di contenere.

La legge era nata per rispondere a un pensiero complessivo della pena, che la voleva ancor più rispondente alla funzione rieducativa assegnatale dalla Costituzione di quanto non lo fosse dopo la sola riforma di undici anni addietro, e si sforzava di proporre al detenuto un percorso penitenziario tale che l’intraprenderlo fosse conveniente tanto per lui quanto per la società esterna. Le dure rivolte penitenziarie vissute nel decennio precedente divennero memoria storica. La legge funzionò tanto sotto questo versante quanto sotto quello della reintegrazione in società dei detenuti sottoposti a misure alternative, infinitamente meno recidivi di coloro (purtroppo moltissimi) per i quali non si ebbe la possibilità o il coraggio di applicare la legge Gozzini.

Un pensiero complessivo della pena, viveva dietro quella legge. Un pensiero complessivo della pena, è quello che oggi, e da tanto tempo ormai, manca nella gestione politica del sistema penale e penitenziario. Gli psicologi penitenziari, operatori carcerari che dovrebbero essere inseriti in una conduzione integrata della quotidianità detentiva, sono costretti a uscire dalla cornice e a raccontarci che quei disordini che il legislatore volle impedire attraverso un progetto organico rientrano dalla finestra a causa di una semplice inedia di conduzione. Non si sono stanziate risorse per l’assistenza psichica, e quella che poteva essere una direzione comune verso cui il sistema si incamminava va slabbrandosi nelle tante problematiche dei singoli detenuti. Solo 404 psicologi sono pochi per 46.000 detenuti, già 2.000 in più di quelli che le carceri potrebbero contenere. La rapsodicità politica e amministrativa trova qui un altro esempio. L’indulto votato solo un anno e mezzo fa è servito da traino per riempire di nuovo gli istituti appena svuotati.

Proprio ieri il Ministero della Giustizia ha sventolato con la mano destra i dati delle carceri di nuovo sovraffollate. Lo stesso Ministero che con la mano sinistra ha stilato una parte del pacchetto sicurezza presto in discussione in Consiglio dei Ministri. Un’altra parte riguarda la criminalità organizzata.

Ancora ieri, dagli Stati Uniti arrivava la notizia che un italiano detenuto non ci sarebbe stato restituito per il pericolo che avrebbe corso di venire sottoposto al durissimo regime penitenziario del 41 bis. L’Italia rischia di violare le convenzioni internazioni in materia di tortura, ci è stato detto. Mastella questo lo sa bene, se solo pochi mesi, in audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia, raccontò del suo proposito, sì, di inasprire il 41 bis, ma di farlo sottovoce e a passi felpati, per non incorrere nei rimproveri della Corte europea dei diritti umani, già in passato schivati per un pelo.

Ora siamo alla vigilia di un possibile nuovo pacchetto sicurezza. Rivolgiamo un appello a tutte le forze di sinistra affinché impediscano ulteriori stravolgimenti in senso illiberale del nostro sistema di giustizia.

Giustizia: Osapp; troppe poche risorse e molta propaganda

di Gian Marco Chiocci e Massimo Malpica

 

Il Giornale, 17 ottobre 2007

 

"Da questa amministrazione abbiamo avuto solo tante chiacchiere e tanta propaganda. Ma al di là di vuote affermazioni di principio, in concreto non si fa niente". Il segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci, non nasconde il suo scetticismo sull’ultima idea di Mastella: utilizzare la polizia penitenziaria per i controlli dei detenuti in esecuzione penale esterna. "La proposta - spiega il sindacalista - è legittima, il nostro corpo ha la competenza e la professionalità per svolgere questo compito. Ma il ministero vuol farlo senza prevedere alcun incremento d’organico e senza garantire la copertura finanziaria. Insomma, come sempre si mette il carro davanti ai buoi".

E i "buoi", anche volendo spingere, sono un po’ pochini. "Per farci carico di queste mansioni, che tra l’altro ci spetterebbero per legge, abbiamo bisogno di altri 6-7mila uomini", sospira Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, il Sappe. Capece rivendica quelle competenze, ma avverte Dap e Guardasigilli: "Così come stiamo, non ci bastano gli uomini per garantire la sicurezza all’interno delle carceri che tornano rapidamente a riempirsi. Saremmo lieti di creare i nuclei di verifica sul territorio affidati alla polizia penitenziaria, ma è tempo di aumentare il personale". Anche perché "al momento in Italia abbiamo 100mila persone che scontano una pena in esecuzione esterna: controllarli è un nostro compito, ma ci vogliono gli uomini per poterlo fare, altrimenti la sperimentazione in accostamento a polizia e carabinieri servirà a poco".

"Siamo l’unico corpo di polizia che dal ‘91 non ha un incremento di organico, mentre nello stesso periodo i detenuti sono cresciuti almeno del 40 per cento, e il rapporto, per i compiti di custodia, è sbilanciato: ci sono strutture dove, di notte, c’è un solo agente per 200 detenuti. E quanto alle carceri inutilizzate, come si può pensare di aprirle se non c’è il personale?", rilancia Beneduci.

Che ricorda come anche l’indulto mastelliano abbia portato "danni seri" a chi lavora nelle carceri: "Era quasi meglio prima, quando la situazione era al collasso e le condizioni nei penitenziari indecenti. Quel provvedimento - prosegue il sindacalista - doveva dare due anni di tempo per riformare il sistema, attuare riforme come quella del codice penale, la differenziazione degli istituti, la depenalizzazione di determinati reati. Invece siamo quasi al punto di prima e non è stato fatto nulla, solo parole e una grande confusione. E la polizia penitenziaria continua a essere considerata una manodopera a basso costo, buona per tutti gli usi ma senza ottenere il riconoscimento del ruolo e della dignità che spettano al nostro corpo".

Giustizia: Sappe; classe politica sorda ai problemi del paese

 

Comunicato stampa, 17 ottobre 2007

 

"L’allarme lanciato ieri dal Capo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria Ettore Ferrara sul grave affollamento delle strutture carcerarie del Paese e sulle negative ricadute che esso produrrà nel sistema penitenziario conferma ciò che il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria sostiene ormai da troppo tempo. Ed è grave che la classe politica e di Governo non abbiano recepito per tempo i nostri allarmi. Gli stessi dati sull’indulto evidenziano come non siano stati affatto programmati dal Governo quegli interventi strutturali per il sistema carcere - chiesti anche dal Capo dello Stato Napolitano - necessari per non vanificare in pochi mesi gli effetti di questo atto di clemenza. Parliamo di provvedimenti concreti di potenziamento dell’area penale esterna, che tengano in carcere chi veramente deve starci e potenzino gli organici di Polizia Penitenziaria cui affidare i compiti di controllo sull’esecuzione penale. Di un maggior ricorso all’area penale esterna, destinando i soggetti a misure alternative alla detenzione e impiegandoli in lavori socialmente utili non retribuiti. Di una revisione della legge sugli extracomunitari che permetta espulsioni più facili piuttosto che la detenzione in Italia. Era davvero necessario ripensare il carcere, ma dobbiamo constatare che nulla di tutto ciò è stato fatto. E l’allarme lanciato ieri da Ferrara lo conferma".

È il commento della Segreteria Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, l’Organizzazione più rappresentativa del Personale con 12mila iscritti, alle parole di ieri del Capo Dap Ettore Ferrara sul possibile prossimo sovraffollamento dei penitenziari italiani.

"Nessuno ci ha ascoltato e l’allarme carceri è di nuovo una priorità" denuncia Donato Capece, segretario generale Sappe. "Il giorno stesso dell’approvazione dell’indulto da parte del Parlamento chiedemmo alla classe politica e di Governo, in linea con quanto affermò anche il Capo dello Stato Giorgio Napolitano, di adottare con urgenza rimedi di fondo al sistema penitenziario. Nessuno ha fatto nulla. La classe politica e governativa non hanno fatto seguire all’indulto i necessari interventi strutturali sull’esecuzione della pena, che garantiscano la giusta sanzione a chi commette reati soprattutto a tutela delle vittime della criminalità e che rendano la pena uno strumento efficace per ripagare la società del reato commesso. A cominciare dall’individuazione di provvedimenti legislativi che potenzino maggiormente l’area penale esterna e dall’incremento degli organici della Polizia Penitenziaria, unico Corpo di Polizia cui affidare completamente l’esecuzione penale esterna a tutto vantaggio della cittadinanza, destinando le unità di Carabinieri e Polizia di Stato oggi impiegate in tali compiti nella prevenzione e repressione dei reati, specie di quelli di criminalità diffusa".

"Per risolvere i problemi del carcere e dei poliziotti penitenziari" conclude Capece "l’indulto, da solo, non è bastato. Non è bastato nonostante dell’indulto ne avessero beneficiato quasi 35mila persone (27mila quelle ristrette nelle carceri, 8mila già beneficiarie di misure alternative alla detenzione e quindi materialmente fuori dal carcere a scontare una pena). Oggi stiamo tornando alle cifre allarmanti rispetto alle quali venne deciso proprio il provvedimento di clemenza. Ed a pagarne lo scotto maggiore, oltre ai cittadini, sono le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria, 24 ore su 24, 365 giorni all’anno in servizio nelle sezioni detentive delle carceri. La recriminazione maggiore è proprio questa. Non avere nel Paese una classe politica e di Governo in grado di comprendere che era allora, approvato l’indulto, il momento di ripensare il carcere e adottare con urgenza rimedi di fondo al sistema penitenziario, chiesti più volte anche il Capo dello Stato Giorgio Napolitano.

Modena: secondo suicidio in tre giorni all’interno del Cpt

 

Garante dei detenuti di Bologna, 17 ottobre 2007

 

Nel breve volgere di tre giorni, da domenica a ieri notte, ben due suicidi sono avvenuti nel Centro di Permanenza Temporanea di Modena. I due giovani suicidi il primo di origine tunisina ed il secondo di origine marocchina si sono tolti la vita impiccandosi. Come è noto, le persone che si trovano ristrette al centro di permanenza temporaneo sono destinate all’allontanamento dallo Stato italiano e subiscono una restrizione della libertà personale che può raggiungere i 60 gg. non per effetto della commissione di reati, come stabilisce l’art. 13 Cost., che sancisce la inviolabilità della libertà personale e i casi in cui la persona può esserne privata, ma per la mera irregolare presenza sul territorio, qualunque sia la causa pregressa che ha determinato tale irregolarità. Si tratta di una condizione di privazione difficilmente accettata dalle persone che la subiscono, sia che provengano dal carcere, e che quindi hanno già scontato la pena inflitta per i reati commessi, sia per le persone che sono al Cpt per non essere muniti di permesso di soggiorno o perché lo stesso è scaduto e non è stato più rinnovato (anche solo per la perdita di un lavoro). A ciò si accompagna quasi sempre il fallimento del progetto migratorio che aveva accompagnato l’abbandono del paese d’origine, con tutto ciò che comporta di drammatico nel dover ritornare indietro. In questi mesi la sensibilità e l’attenzione per le strutture di permanenza temporanea pare avere maggiore consistenza, con la necessità di un ripensamento della normativa in tema di immigrazione (e soprattutto della legge cd. Bossi-Fini).

Il superamento di strutture come i centri di permanenza temporanea è previsto nel programma dell’attuale compagine governativa, segnale del disagio crescente verso strutture più chiuse ed impenetrabili degli istituti penitenziari, sebbene collegate, come si è detto, non alla commissione di reati, che può essere causa eventuale della perdita del permesso di soggiorno, ma più spesso alla non regolarità sul territorio. A questo disagio si può far fronte approntando senza ulteriori ritardi in ambito parlamentare la riforma sulla legge dell’immigrazione e con l’impegno degli enti locali a svolgere un ruolo fondamentale nella gestione dei centri, finché esistenti, assicurando condizioni di vita e di assistenza rispettose delle persone, promuovendo ogni opportunità di reinserimento e di regolarizzazione ove possibile e comunque garantendo la tutela dei diritti primari delle persone. Solo la presenza delle istituzioni locali agevola l’apertura all’esterno di questi luoghi, la comprensione dei fenomeni sociali che li hanno generati e possono impedire gli episodi drammatici occorsi al Cpt di Modena. In questo senso è utile la presenza di figure di garanzia, come inserito nello Statuto del Comune di Bologna, con il compito di tutela delle persone comunque private della libertà personale presenti sul territorio comunale.

 

Avvocato Desi Bruno, Garante dei diritti

delle persone private della libertà personale

del Comune di Bologna

Torino: Osapp; crisi istituti piemontesi, agente con sospetta tbc 

 

Ansa, 17 ottobre 2007

 

È "drammatica" la situazione negli istituti penitenziari del Piemonte e delle Valle D’Aosta, dove mancano agenti e mezzi, e dove "l’assoluta assenza di igiene" rappresentano un rischio anche per la salute dei poliziotti penitenziari, tanto che un agente del carcere di Alessandria, dopo la traduzione di un detenuto extracomunitario, dovrà sottoporsi a una serie di accertamenti per sospetta Tbc. A denunciarlo, con una lettera aperta inviata anche al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Ettore Ferrara, é l’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria (Osapp).

"Da tempo siamo sotto organico di 453 unità - spiega Gerardo Romano, segretario regionale dell’Osapp - sulla carta dovremmo essere 3.516, invece siamo 3.183. Mancano persino i soldi per la disinfestazione degli antidiluviani automezzi impiegati nelle traduzioni, in particolare nelle carceri di Torino, Cuneo, Novara, Ivrea, Saluzzo, Vercelli ed Asti".

E ancora: l’Osapp denuncia che dallo scorso gennaio gli agenti non percepiscono le indennità di missione, per le quali non viene peraltro dato alcun anticipo "costringendo il personale a pagare di tasca propria"; c’é "carenza di uniformi e vestiario in genere"; "si e costretti ad acquistare gradi, mostrine e fregi a spese proprie"; le rette per gli asili nido dei figli degli agenti non sono rimborsate.

La situazione - aggiunge Gerardo Romano - è talmente grave che "avremmo voluto manifestare in massa il 27 ottobre, a Torino" in concomitanza con la festa del Corpo di Polizia penitenziaria del Piemonte e della Valle d’Aosta perché "questa non è la nostra festa"; ma - aggiunge il segretario regionale dell’Osapp - "siamo poliziotti penitenziari e su di noi ci si può contare. Dunque, per rispetto dei colleghi, e non dell’Amministrazione, in cui non ci riconosciamo più, non manifesteremo né festeggeremo".

Locri: le pressioni della ‘ndrangheta sul "pentito" suicida

 

Telereggio, 17 ottobre 2007

 

Bruno Piccolo era nato a Locri l’11 marzo del 1978 e tutta la storia del suo pentimento e soprattutto delle pressioni subite dai capicosca dei Cordì è narrata in decine e decine di pagine delle varie ordinanze di custodia cautelare dei magistrati di Reggio che indagano da due anni sul delitto Fortugno. Chi era davvero Bruno Piccolo?

Un ragazzo qualsiasi, non un picciotto di mafia ma uno che frequentava nel suo bar "Arcobaleno" gli uomini dei Cordì. Ascoltava, parlava, andava anche a pranzi e cenette. La sua vita cambiò il 14 novembre 2005, un mese dopo l’omicidio di Franco Fortugno, quando venne arrestato con Antonio Dessì e Domenico Novella per un traffico di armi. Lo spostano in varie carceri, da Reggio Calabria a Sulmona, una struttura nuova dove lo mettono al regime duro del 41 bis. Bruno non regge molto, Bruno il barista cede quasi subito e i primi di dicembre del 2005 inizia a vuotare il sacco.

Lui - scrive Enrico Fierro, giornalista dell’Unità nel suo libro "Ammazzati l’onorevole" presentato stamattina a Locri - non è un boss, non ha parenti o familiari con i cognomi importanti delle cosche, non si può aspettare niente da nessuno. La sua è una famiglia di persone perbene. È il figlio di un operaio, un uomo onesto, morto in un incidente sul lavoro. Il 6 dicembre 2005 inizia a parlare e racconta come il bar che gestiva, proprio all’angolo sopra la sede del vescovado e a due passi dallo stadio dove gioca il Locri, era via via diventato una sorta d’ufficio dei Cordì.

Della cosca fa l’organigramma ma al giudice fa capire anche il perché della sua vicinanza a quei picciotti senza scrupolo che frequentano il bar. "Volevo - dice - vendicarmi del farmacista di Locri e di quel giorno quando mio padre cadde dall’impalcatura e lui non lo aiutò. Lo trattò come un cane". Ma il fatto che Bruno il barista potesse cedere alle pressioni degli inquirenti e quindi pentirsi arrivò all’orecchio dei capicosca, che in quello stesso dicembre 2005 cominciarono a preoccuparsi.

"Ma Bruno ce la farà?", dicono tra di loro i capi, e Vincenzo Cordì, che ha preso il posto di comando della famiglia dopo la morte di Antonio Cordì "il ragioniere", fa sapere che a parlare con Bruno ha mandato nel carcere di Sulmona Filippo Barreca, uno dei capi ‘ndrangheta di Reggio Calabria, lì detenuto. Le donne e i boss si attivano, dunque, per far desistere Bruno il barista e il 13 dicembre 2005 nella sala colloqui di Sulmona arrivano madre e sorella. Tremano per lui, temono vendette ma a Locri non succede niente.

Uno zio di Bruno tenta anche lui di farlo desistere: "attento Bruno - gli dice in carcere ed ovviamente è intercettato dalle cimici - non fare minchiate. Che stai combinando?". Il 19 dicembre Vincenzo Cordì tenta l’ultima carta, gli scrive una lettera: "l’importante in questi luoghi è stare tranquilli, farsi la galera con onestà e parlare poco".

Una lettera dal chiaro significato. Ma è tutto inutile, Bruno il barista parla e fa i nomi di quelli che nel suo bar progettavano l’assassinio di Fortugno. A Locri la voce gira, dicono che Bruno se ne è andato di testa e infatti tentano anche di farlo passare per pazzo, riportano a galla una vecchia storia del 1998 quando Bruno tentò di ammazzarsi. Una perizia pschiatrica lo dichiara però normale ma gli avvocati difensori degli arrestati lo incalzano, tentano di farlo passare per un "border line", uno squilibrato, un cocainomane.

Lui è però un pentito vero, conferma i nomi di quelli implicati nel delitto Fortugno: "sono stati Salvatore Ritorto e Domenico Audino". Dice anche quello che ha fatto quella domenica maledetta, il 16 ottobre 2005: era andato a Reggio con tre picciotti. A fare che? "A donne", risponde al magistrato. Nulla dice di sapere, invece, sui mandanti. Risponde solo che quell’omicidio interessava a Ritorto.

Si fa la galera, il processo col rito abbreviato, a giugno la condanna a un anno e quattro mesi e torna a vivere quasi da uomo libero in Abruzzo, in una casetta vicina al mare a Francavilla (Chieti). Parla spesso con il vescovo di Locri, mons. Giancarlo Bregantini, fino a quando decide di dire basta con questa vita. Dicono per una travagliata relazione sentimentale. Sarà vero? Dicono che era assai depresso e lasciato solo. Muore con una corda al collo e finisce così la sua vita travagliata, da picciotto che non era picciotto, poi pentito ed isolato da tutti. "Troppo solo", commenta sconsolato Bregantini.

Reggio Emilia: una sparatoria in tribunale, 3 morti e 2 feriti

 

Ansa, 17 ottobre 2007

 

Sparatoria da far west in Tribunale a Reggio Emilia. Un albanese è entrato armato nell’aula delle separazioni civili, ha aperto il fuoco e ha ucciso la moglie e lo zio che la accompagnava mentre erano in attesa di partecipare a un’udienza di separazione. L’uomo, un quarantenne di Durazzo, ha tentato poi di fuggire, ma la sua fuga si è conclusa con la morte.

È infatti intervenuto un poliziotto che si trovava nell’aula accanto a quella dove era in corso la separazione. L’agente ha sparato uccidendo l’aggressore ed è rimasto ferito a un ginocchio. Nel conflitto a fuoco sono rimasti feriti anche due avvocati. Resta da capire come sia stato possibile che l’uomo sia riuscito ad entrare armato all’interno del Tribunale.

Droghe: Radicali; chi rifiuta il test antidroga evita il carcere

 

Agenzia Radicale, 17 ottobre 2007

 

Dichiarazione di Giulio Manfredi (Direzione Nazionale Radicali Italiani): in nome della crociata antialcol, il governo ha introdotto un proibizionismo sugli alcolici "all’italiana", che colpisce solo alcuni locali, è facilmente aggirabile, rischia di incentivare solamente un consumo irresponsabile. Dall’altra parte, la nuova legge sulla sicurezza stradale nasconde fra le sue pieghe sviste incredibili.

Ad agosto, quando era entrato in vigore il decreto-legge in materia, non ero stato l’unico a rilevare che il guidatore fermato dalla polizia che si rifiutava di sottoporsi alla prova etilometro o agli esami sulle sostanze stupefacenti evitava comunque l’arresto, previsto invece per chi, sottopostosi al test, risultava avere un tasso alcolemico superiore a 0, 8 o risultava aver assunto stupefacenti: un’ implicita ma reale scappatoia per i conducenti più ubriachi o più imbottiti di sostanze stupefacenti.

Pareva che la consapevolezza della palese incongruenza di tali norme fosse arrivata nelle aule del Parlamento, chiamato a convertire il decreto in legge. Non è stato così. L’art. 186 del Codice della Strada (D. Lgs. 285/92 smi) sulla "Guida sotto l’influenza di alcool" - nel testo modificato dalla legge 2 ottobre 2007, n. 160 - prevede per il rifiuto di accertamento solamente il pagamento di una multa (da 2.500 a 10.000 euro), la sospensione della patente di guida fino a due anni e il fermo del veicolo solamente se esso appartiene al guidatore fermato: niente arresto, confermato invece per chi si sottopone all’etilometro e risulta positivo. Stesso discorso vale per il successivo art. 187 del Codice della Strada sulla "Guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti".

C’è da augurarsi che il disegno di legge sulla sicurezza stradale in discussione in Parlamento metta una pezza a questa svista doppia, del governo e del legislatore.

Russia: scoppia la rivolta in un carcere minorile, 3 i morti

 

Ansa, 17 ottobre 2007

 

È di tre morti e 12 feriti il bilancio delle vittime di una rivolta scoppiata nel carcere minorile di Kirov Grad, negli Urali. Due giovani risultano dispersi. La rivolta è seguita a un tentativo di fuga di 20 detenuti. La tentata evasione e la rivolta sono dovute alla minaccia di provvedimenti disciplinari nei confronti dei 20 detenuti che hanno preferito tentare la fuga piuttosto che subire la cella di isolamento.

Lo comunica l’agenzia Interfax, secondo la quale due giovani risultano dispersi. Uno dei carcerati è morto in ospedale per le ferite riportate. Un altro era stato ucciso nelle prime fasi della tentata evasione, mentre una guardia carceraria è deceduta anch’essa in ospedale. La procura ha aperto una inchiesta sulla vicenda.

 

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