Rassegna stampa 20 novembre

 

Sassari: detenuto muore soffocato, è omicidio o suicidio?

di Vincenzo Garofalo

 

L’Unione Sarda, 20 novembre 2007

 

L’hanno trovato con un lenzuolo intorno al collo e in parte conficcato in bocca. Marco Erittu, sassarese, 40 anni, era agonizzante ma è stato impossibile salvarlo. Inizialmente si è pensato a un suicidio ma col passare delle ore sono aumentati i dubbi: è un delitto? Nella cella hanno lavorato per ore i militari del Ris alla ricerca di tracce. La Procura ha disposto l’autopsia.

È un mistero la morte di un detenuto nel carcere di San Sebastiano a Sassari. Marco Erittu, sassarese di 40 anni, in prigione per reati di piccolo conto, è stato trovato agonizzante sul proprio letto con un lenzuolo intorno al collo e in parte conficcato in bocca. In un primo momento gli inquirenti hanno pensato a un suicidio, ma con il passare delle ore sono emersi i primi dubbi sulla dinamica. L’episodio risale alle 18 di domenica.

Gli agenti della polizia penitenziaria trovano l’uomo moribondo in cella. Sul posto giungono i medici del 118 che non possono far altro che constatare il decesso per soffocamento. Si pensa a un suicidio, a una morte per impiccagione. Ma alcuni aspetti sulla dinamica fanno sorgere dei dubbi. Ieri il medico legale Stefano Lorenzoni ha fatto una prima ricognizione del cadavere. Non è emerso al momento alcun elemento che possa chiarire la dinamica. Una incertezza che alimenta i dubbi sulla morte avvenuta nel braccio detenuti comuni di San Sebastiano. Un vero e proprio giallo.

Le perplessità. Nessuno parla di omicidio, ma le perplessità sulla tragica fine di Marco Erittu dopo 48 ore sono ancora in piedi. Per tutto il giorno nella cella della vittima hanno lavorato i militari del Sis, la scientifica dei carabinieri. Rilevate le impronte, repertato materiale biologico. I militari e il sostituto procuratore Giuseppe Porcheddu ieri hanno sentito alcuni testimoni, cercando di ricostruire le ultime ore da vivo di Marco Erittu.

Trovato nella sua cella, riverso sul letto, da un agente penitenziario. Poco prima delle 18 la guardia ha sentito degli strani rumori provenire dalla prigione di Erittu. Sembravano lamenti. La guardia si è precipitata nella cella, ma ormai era troppo tardi. Marco aveva il lenzuolo attorcigliato attorno al collo e sulla faccia. Immediatamente è stata chiamata un’ambulanza del 118, ma l’équipe medica, al suo arrivo nel penitenziario di via Roma, non ha potuto far altro che constare la morte del detenuto. Per stabilire con esattezza le cause del decesso, la procura di Sassari ha disposto l’autopsia sul corpo di Marco Erittu.

Nessuno ci crede. Da diversi giorni chi divideva la vita da recluso con Marco, aveva notato un brusco cambiamento nel suo umore. Era più cupo e silenzioso del solito, ma nessuno poteva immaginare che stesse addirittura pensando di togliersi la vita. E nessuno ancora sembra crederci. La morte di Marco Erittu rialimenta la triste scia di tragedie nel carcere di San Sebastiano. Una catena che sembrava essersi interrotta per sempre: due morti nel 2002, uno nel 2003, un tentativo per fortuna sventato nel 2004. Ora la morte di Marco Erittu.

Ora che il vecchio carcere di San Sebastiano, con tutti i suoi problemi di organico e di inadeguatezza della strutture ha già preso la strada della pensione: fra quattro anni è previsto il trasloco nella nuova sede di Bancali. Lì, nella borgata alle porte della città sono già iniziati i lavori per dotare Sassari di un carcere in cui i detenuti possano vivere come uomini e non come topi. La spesa prevista è di cinquantotto milioni di euro, ma al momento solo quarantanove sono già stati finanziati.

Giustizia: violenze e miseria, ecco i ragazzi delle favelas italiane

di Paolo Berizzi

 

La Repubblica, 20 novembre 2007

 

Anche quando vogliono farcela, arrancano, scivolano. E cadono. Come naufraghi stanno aggrappati a pezzi di vita che non hanno mai conosciuto, perché le loro vite sono sempre monche. Nascono e muoiono in una baracca. Giocano in mezzo al fango ghiacciato o sotto il caldo d’inferno che frigge le suburre cresciute addosso alle periferie.

Li vediamo sempre con il braccio teso dei piccoli accattoni, anche quando non lo sono. Anche quando vanno a scuola e sognano un futuro di normalità civile, meno grigio del presente. Buoni o cattivi, sono ai margini. Si muovono nel ventre scucito delle città, ora lo sguardo vuoto, ora l’aria di chi deve sfangarla. Inseguono i topi per gioco nelle favela sdraiate sulla pelle infetta delle metropoli; danno loro la caccia brandendo bastoni o rami secchi come hanno visto fare ai grandi, e quelle piccole aste, nelle loro sopravvivenze dure, orfane di sogni, di affetti, devono sembrare la bacchetta magica che spinge la fantasia. Sono i bambini nomadi. Quelli che vivono per strada e nelle casette fatte con assi di plastica. Settantamila in Italia. Hanno tra i 2 e i 14 anni, sono soprattutto di origine rom e romeni (36 per cento), e marocchini (22), e albanesi ( 15). Per molti, non per tutti, il banco di scuola è il semaforo dove chiedono l’elemosina e lavano i vetri con attrezzi che sono più grossi di loro. Un giro d’affari, quello prodotto dall’accattonaggio, che muove 200 milioni di euro l’anno. Le braccia di questo mercato, e anche di quello che ruota attorno ai piccoli furti e agli scippi, appartengono per il 30 per cento a bimbi. I trafficanti di uomini li fanno arrivare ogni settimana a bordo di minibus da Bucarest, dove confluiscono da tutti i paesi balcanici.

Da 200 a mille euro: tanto vale un bambino comprato dai leader dei clan rom, che per "rapirlo" e portarlo a Roma e Milano danno una buona uscita alla famiglia. Italia uguale denaro uguale schiavitù. E affrancarsi è impossibile. Quelli cattivi si chiamano Ionel, Camil, Bogdan, Alexander. Ma puoi chiamarli come vuoi, perché ogni volta che la polizia li ferma danno un’identità diversa.

Prendi Ionel, 13 anni, occhi neri svelti e carisma da piccolo capo bastone: quando quest’estate i carabinieri l’hanno bloccato sul piazzale della stazione Centrale - la sua "piazza" - mentre sfilava il portafoglio dallo zaino di un iraniano, lui li ha guardati con aria sprezzante. Ionel è uno dei sedici nomi di fantasia che ha usato a ogni controllo in cui è finito negli ultimi sei mesi.

"In Centrale noi non andiamo - raccontano i mediatori culturali romeni che lavorano nei campi nomadi di Milano (in Italia sono 240 quelli ufficiali, almeno altri cento quelli non censiti) -. I ragazzini non hanno voglia di parlare con nessuno. Se ti avvicini ti rispondono male, ti ridono in faccia, sono arroganti e sbruffoni. T’insultano, poi scappano via".

Quelli buoni sono come Andrea, che è una bambina ed è bosniaca, e il primo giorno di scuola, elementari a Baggio, si vergognava di scrivere sul tema che abitava in una spianata di baracche senza gli scarichi fognari. Il fratello di Andrea a scuola non ci va. "Glielo dico sempre: non stare in giro, vieni in classe. Ma lui è testardo, non vuole capire".

Si confondono coi coetanei in classe, per strada, poi tornano nei loro anfratti urbani e suburbani. Qualcuno sale sui camper dei genitori che ogni sera li scaricano sui Navigli e li sfruttano per elemosinare. Sette, otto, dieci anni. Per ore girano tra i tavoli dei locali. A mezzanotte consegnano i soldi al racket che li arruola.

"La maggior parte dei minori stranieri non accompagnati viene in Italia spinta dal desiderio di guadagnare per sé e per le proprie famiglie - dice Maurizio Pagani di Opera Nomadi -. Altri sono in fuga da persecuzioni e conflitti armati, altri sono vittime di tratte e sfruttamento. Molti vogliono integrarsi, ma c’è una grande carenza di strutture".

C’è una strada a Milano che da dieci anni è il topos geografico dei rom. Via Triboniano, dietro il cimitero Maggiore. Mille persone, 350-400 bambini. Due quinti della popolazione. Tra loro c’è chi vive di speranze, chi sogna un lavoro, una famiglia. E chi invece vorrebbe diventare come Alexander. Dieci anni e 60 furti alle spalle. Un professionista. "Portarlo in comunità è inutile - racconta il poliziotto che l’ha fermato - l’ultima volta abbiamo fatto inversione con l’auto e il ragazzino era già scappato".

Giustizia: quelle "leggerezze" fatte con una Beretta in pugno

di Piero Laporta

 

Italia Oggi, 20 novembre 2007

 

Luigi Spaccarotella, 31 anni, agente della Polstrada, è colpevole di una imperdonabile "leggerezza", come l’ha definita il capo della polizia, Antonio Manganelli. Luigi Spaccarotella, 31 anni, agente della Polstrada è il colpevole dell’uccisione di Gabriele Sandri: omicidio volontario, l’imputazione sollevata dal pubblico ministero che conduce le indagini. Luigi Spaccarotella, 31 anni, agente della Polstrada è un pazzo sanguinario del quale nessuno s’era accorto sinora. È davvero così?

Il caso è chiuso, dicono. Può darsi, ma qualche particolare stride. Stupisce, per esempio, l’assidua e tempestiva quantità di notizie sfuggite al segreto istruttorio, inusuale quando è coinvolta la polizia. È delizioso il duetto Amato-Manganelli, la reciproca, generosa aspersione d’incenso, "abbiamo evitato la mattanza", una frettolosa verniciata di saggezza sulle autorità che avrebbero dovuto proteggere Roma dai delinquenti che, indisturbati, l’hanno messa a ferro e fuoco.

Incensatisi l’un l’altro, Manganelli ha rivolto frenetico il turibolo per santificare la povera vittima, alleggerita dei sassi, degna tutt’al più di pietà, dovendosi attendere, per la santificazione, se non il processo canonico almeno quello giudiziario a carico di Luigi Spaccarotella, 31 anni, agente della Polstrada, che tuttavia appare già condannato.

La sentenza è un dettaglio, nel silenzio degli altrimenti queruli sindacati di polizia, come nella sonorità dei titoli di giornali e televisioni. La muta con infallibile e sperimentata precisione fiuta la preda: Luigi Spaccarotella, 31 anni, agente della Polstrada, un colpevole che restituisce la verginità a Giuliano Amato e consente a Walter Veltroni di tornare a fare quanto già faceva per la sicurezza di Roma e di Tor di Quinto. Luigi Spaccarotella, 31 anni, agente della Polstrada, imputato di omicidio volontario, un dono del Cielo per chi voglia lavarsi le mani della catastrofica gestione delle città e delle polizie.

Riflettiamo, nonostante tutto. L’omicidio perché sia "volontario" presuppone il dolo, cioè la stretta dipendenza delle conseguenze del delitto dalla volontà di chi lo commette. Il dolo tuttavia non sussiste se, al momento dello sparo, vi è un errore nella percezione dei fatti, oppure se l’agente reputa in buona fede d’avere diritto a sparare, oppure ancora se vi è una errata interpretazione delle leggi o un’errata valutazione della potenza dell’arma.

Una sola di queste condizioni cancella il dolo, quand’anche Spaccarotella abbia mirato. Una sola di quelle condizioni cancellerebbe l’omicidio volontario perché Luigi Spaccarotella, 31 anni, agente della Polstrada, sarebbe addestrato alla bell’e meglio oppure messo in strada con un’arma da guerra senza sapere che cosa un’arma da guerra sia.

Dagli inizi degli anni ‘90 che s’accreditano forze di polizia guerriere: un’immagine celebrata in tutte le salse, nelle serie televisive così come il 2 giugno, quando improbabili battaglioni di guerrieri poliziotti sfilano davanti ai paracadutisti, equipaggiati dalla medesima pistola, la Beretta ‘92, un’arma da guerra che, come s’è potuto constatare, mal s’addice all’impiego negli scenari urbani.

La scelta di quest’arma è responsabilità di Luigi Spaccarotella, 31 anni, agente della Polstrada? Piacerebbe sapere se la conoscenza tecnica di quella pistola, delle sue possibilità di colpire mortalmente a settanta metri, da un casello autostradale all’altro, fosse a - perfetta e sperimentata - conoscenza di Luigi Spaccarotella, 31 anni, agente della Polstrada.

Ricordiamo infine che la giusta reazione in situazione critica non è qualità innata. Ognuno reagisce automaticamente per una situazione critica, ma tale reazione ha possibilità d’essere ben attagliata solo se v’è stata una preventiva, accurata e aggiornata preparazione fisica, psichica e tecnica. Il rischio di sbagliare, sia chiaro, c’è sempre, ma se manca la preparazione il rischio trascolora in certezza, al di là della volontà di Luigi Spaccarotella, 31 anni, agente della Polstrada. Se tali aspetti difettano, anche solo in parte, siamo davvero in presenza di quella che Manganelli ha definito "Una leggerezza imperdonabile della polizia", con un morto e un omicida, il quale ultimo non sarebbe né volontario né unico responsabile.

Giustizia: G8 di Genova, infine pagheranno solo i manifestanti

di Loris Campetti

 

Il Manifesto, 20 novembre 2007

 

"Poi c’è la scuola Diaz, e la notte di Bolzaneto". Poi, cioè dopo, al fondo del commento di Pierluigi Battista sul Corriere della sera di ieri. Prima vengono i crimini dei "no global", come Cario, colpevole di aver lanciato "con il passamontagna sassi ed estintori contro i carabinieri, mentre tutt’intorno infuria la battaglia con vetrine sfondate e macchine bruciate". Carlo ha pagato il prezzo più alto, per lui non si può chiedere un aumento di pena, ma ora si aspetta che paghino gli altri manifestanti.

Dunque, si scatena contro le decine di migliaia di persone che sabato sono tornate a Genova per chiedere verità e giustizia: roba di competenza dei giudici, dice Battista, e non della politica. E se la prende con i partiti della maggioranza che hanno partecipato al corteo, con il governo che non li butta fuori, con Di Pietro e "il fronte girotondista" che non si ergono a difensori dell’unicità dell’intervento giudiziario. Insomma, che c’entra la politica? E come si può tollerare la "pressione della piazza" per ottenere "giustizia"?

Il Corriere ha scatenato da tempo la sua campagna contro chi chiede un po’di chiarezza sulla catena di comando di Genova 2001 e condanna senza appello la pretesa di costituire una commissione parlamentare d’inchiesta. Il Corriere continua a illustrare il movimento alter-mondialista con il volto coperto da un passamontagna, o una tela.

Battista concede "a Carlo Giuliani il rispetto per il dolore"; ma poi bastona il padre di Carlo quando, ricostruendo i fotti criminali al G8 di sei anni fa, parla di "una trappola preparata per poi fare il morto a piazza Alimonda. Ma è una manifestazione di straziante affetto per un figlio che non c’è più, non la fotografia di ciò che accadde nel luglio 2001".

A Genova non c’è più nulla da chiarire che non possa essere fatto dalla magistratura. Eppure, sullo stesso giornale di cui Battista è vicedirettore abbiamo tetto, solo un giorno prima, il racconto dell’inviato Marco Imarisio: "Genova, il nodo irrisolto, dice Heidi Giuliani, e ha ragione. La giustizia, quella dei tribunali, prima o poi arriva, forse. Ma intanto sono passati sei anni, e le ferite che non vengono curate alla fine fanno infezione".

Battista è tra i pochi a non vedere il rischio che quei giorni drammatici diventino l’ennesimo capitolo del libro nero dei grandi rimossi italiani. O forse, più ragionevolmente, il vicedirettore del Corriere pensa, come tanti a destra e a sinistra, che quel che è oscuro tale debba rimanere.

Battista denuncia la "sciagurata campagna per una commissione parlamentare d’inchiesta sugli scontri del G8", i cui "frutti" non potevano che essere quelli visti sabato a Genova. Chissà cosa ha visto, Battista, chissà perché non legge neanche i servizi del suo inviato a Genova. Ma si potrebbe aggiungere: come mai il Corriere ha sostenuto l’Unione prodiana alle ultime elezioni, scomodando addirittura il suo direttore Paolo Mieli, pur sapendo che nel programma del centrosinistra c’era l’impegno a costituire proprio quella "sciagurata" commissione?

La magistratura, nel bene e nel male, fa il suo lavoro. Tutto il rispetto dovuto, e voluto. Resta il fatto che 225 manifestanti rischiano di essere gli unici a pagare per i fatti del luglio 2006 quando, denuncia Amnesty, venne sospeso lo stato di diritto e non certo per mano di 225 presunti facinorosi. L’omicidio di Carlo è già stato archiviato; per i vertici delle forze dell’ordine, felicemente promossi, non arriverà mai una sentenza definitiva grazie alla prescrizione dei reati contestati; le responsabilità politiche, che non sono di competenza dei giudici, devono restare ignote. È questa la giustizia invocata dal primo giornale italiano? Morale: chiedete giustizia, sarete giustiziati.

Roma: la procura indaga sulla morte del detenuto disabile

 

Apcom, 20 novembre 2007

 

Il pm di Roma Luca Palamara ha avviato una inchiesta sulla morte di un ex esponente della "Banda della Magliana", Fabrizio Ciappetta, deceduto venerdì scorso al Santo Spirito. Secondo quanto si è appreso è già stata disposta l’autopsia e tutte le analisi e gli accertamenti clinici del caso. Intanto la famiglia del detenuto, attraverso i suoi legali di fiducia, gli avvocati Armando Macrillò e Alessandro Lerro, chiedono il "silenzio stampa" sulla vicenda, in forza del fatto che è in corso una indagine e che i genitori di Ciappetta sono da tempo in gravi condizioni di salute.

L’uomo, 44 anni, una ventina dei quali trascorsi in carcere era noto come Bibì. Nel 2000, quando era a Rebibbia Nuovo Complesso (dove lavorava in una cooperativa sociale), fu tra i protagonisti della rivolta per sollecitare condizioni migliori in carcere e per questo fu trasferito nel carcere di Fossombrone. "Dopo aver subito una lesione midollare in carcere (sulle cui circostanze è aperto un procedimento penale) le sue condizioni erano progressivamente peggiorate causandogli dolori fortissimi all’addome e la quasi impossibilità di muoversi. Tanto che era arrivato a pesare 120 chili".

Secondo quanto riportato ieri dal Garante per i diritti dei detenuti, Angiolo Marroni, Ciappetta, una volta uscito dal carcere in misura alternativa, per "combattere il dolore utilizzava un infusore graduale di morfina". Un anno e mezzo fa era poi tornato dentro perché, nonostante le sue condizioni di salute lo costringessero a muoversi con i tutori, aveva compiuto un’altra rapina. Negli ultimi tempi era costretto a stare, su una sedia a rotelle, nel Centro Clinico di Regina Coeli dove i suoi dolori erano in parte alleviati da dosi quotidiane di metadone e cortisone.

Roma: Spadaccia; una morte annunciata, doveva essere fuori

 

Comunicato stampa, 20 novembre 2007

 

Il detenuto Fabrizio Ciappetta morto al Cento Clinico di Regina Coeli era stato dichiarato dai medici "incompatibile" con il carcere a causa della malattia di cui soffriva: una mielopatia con tetraparesi spastica a carattere degenerativo provocata da una lesione alla colonna vertebrale che lo costringeva su una sedia a rotelle.

"Fabrizio Ciappetta - ha detto il Garante dei Diritti delle persone private della libertà del Comune di Roma Gianfranco Spadaccia - non doveva stare in carcere. La sua patologia richiedeva un trattamento a base di morfina che all’interno dell’istituto non gli poteva essere somministrata. Chi lo ha tenuto in carcere probabilmente ha accelerato la sua morte ma soprattutto lo ha condannato ad una agonia subita per molti mesi con dolori inenarrabili, che il metadone non riusciva ad attenuare.

Nel mese dell’aprile scorso lo avevo visitato in carcere, avevo parlato con i medici i quali mi avevano detto che non poteva più essere in alcun modo pericoloso a causa delle sue condizioni pressoché totali di immobilità. Forte di questa diagnosi mi sono risvolto al Tribunale di Sorveglianza che ha respinto l’istanza di rimessione in libertà condizionata, motivando con il fatto che il detenuto già una volta, ammesso a regime di arresti domiciliari, si era reso responsabile , nonostante le sue condizioni di salute, di una rapina presso un negozio.

Peccato che i medici avessero dichiarato che l’evolversi della malattia degenerativa escludeva del tutto il ripetersi di questa possibilità. Le sue condizioni furono trattate come "caso del mese" dal mensile telematico dell’Ufficio del Garante del Comune di Roma del maggio scorso. Ciappetta era un criminale aveva precedenti penali gravi, anche di criminalità organizzata, ma era un essere umano, un malato e gli hanno invece inumanamente riservato l’accanimento terapeutico del carcere e il rifiuto di adeguate cure palliative. Dovremmo tutti vergognarci delle leggi che consentono tutto questo e del modo ciecamente punitivo con cui sono applicate

 

Gianfranco Spadaccia, Garante dei diritti dei detenuti di Roma

Lecce: violenze ai ragazzi dell’Ipm, 11 agenti sotto accusa

 

Gazzetta del Mezzogiorno, 20 novembre 2007

 

Dietro le sbarre sarebbero stati denudati e picchiati selvaggiamente. Agenti si sarebbero accaniti su uno di loro fino a spaccargli 3 denti. Per indurre un altro a ritirare la denuncia per le percosse subite un altro ragazzino sarebbe stato minacciato di finire in isolamento. Agenti di polizia penitenziaria indagati.

Ragazzini denudati e pestati in cella, agenti che urlano e si accaniscono su un detenuto fino a spaccargli tre denti, e un ragazzino minacciato di finire in isolamento se non avesse ritirato la denuncia per le percosse subite: sono alcuni dei maltrattamenti che la procura di Lecce contesta a undici indagati - tra cui il comandante e agenti della polizia penitenziaria dell’istituto minorile di Lecce - ai quali è stato notificato l’avviso di fine indagine.

Nell’atto giudiziario, firmato dal pm inquirente Antonio De Donno - riportano oggi alcuni quotidiani locali - sono ricostruiti i presunti maltrattamenti subiti da una decina di detenuti tra la metà del 2003 e la fine del 2004. Un anno e mezzo di inferno durante il quale i ragazzini sarebbero stati picchiati perché ritenuti non allineati con le regole intransigenti e violente dettate dal comandante della polizia penitenziaria dell’istituto Gianfranco Verri, di 42 anni. A Verri - riportano i quotidiani - sono anche contestati episodi di prevaricazione e atteggiamenti persecutori nei confronti del personale del carcere non allineato alle sue logiche. Tra le vittime dei presunti abusi contestati al comandante vi sono anche il medico dell’istituto che visitò i ragazzi picchiati e rilevò i segni delle percosse, un paio di agenti della polizia penitenziaria, un’educatrice e altro personale della struttura.

Roma: conferenza stampa "Donare il Sorriso ai Detenuti"

 

Garante detenuti Lazio, 20 novembre 2007

 

Roma, mercoledì 21 novembre, ore 11.00

Sala Aniene, Regione Lazio Via Cristoforo Colombo, 212

Interverranno: Augusto Battaglia, Assessore Regionale alla Sanità

Angiolo Marroni, Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti

Carlo Saponetti, Direttore Generale Asl Roma A

Mauro Orefici, Presidente Simo

 

"Donare il Sorriso" è il nome del progetto per la fornitura di protesi dentarie gratuite ai detenuti ristretti negli Istituti di Pena della Regione Lazio. L’iniziativa è realizzata della Regione Lazio, dal Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti, dall’Asl Roma A Ospedale G. Eastman, U.O. di Odontostomatologia Domiciliare, in collaborazione con gli imprenditori del settore odontoiatrico consentirà la fornitura gratuita di dentiere ai detenuti degli Istituti di Pena del Lazio, rappresenta un ulteriore tassello al progetto pilota di conoscenza, di prevenzione e di cura delle malattie della bocca per tutti i ceti deboli e particolarmente vulnerabili e svantaggiati varato dalla Regione Lazio nel 2004. L’obiettivo della Regione è quello di fornire le protesi gratuitamente a tutti i cittadini che si trovano in condizioni particolarmente svantaggiate. Per la prima volta nella Regione Lazio ed in Italia viene realizzato un progetto socio-sanitario odontoiatrico a costo zero.

Roma: Danilo Coppola è in rianimazione dopo un infarto

 

Il Tempo, 20 novembre 2007

 

Il finanziere romano, detenuto dal 1 marzo scorso in seguito al crack del suo gruppo e da fine giugno agli arresti domiciliari che scadranno il 1 dicembre prossimo, secondo quanto riferiscono i familiari, ha accusato un malore ieri mattina alle 10.30 ed è stato portato con un mezzo del 118 nell’ospedale San Sebastiano di Frascati "per un sospetto arresto cardiaco".

Il trasferimento all’Umberto I, in base a quanto riferiscono i familiari dell’imprenditore, è stato dettato "per lo stato di coma riscontrato dai sanitari".

"Il malore - afferma in una nota la famiglia - l’ha colto dopo aver appreso la notizia che ci sono delle società in lizza per l’acquisto dell’Hotel Cicerone, nonché il pensiero che alcune delle sue società potrebbero collassare". Secondo quanto si apprende quello odierno è il terzo malore che ha colpito Coppola in poche settimane. "I precedenti - affermano i familiari - sono stati accertati al policlinico Umberto I".

La famiglia ribadisce, in una nota diffusa nel pomeriggio di ieri, "quanto sia singolare che si continui a perseguitare un imprenditore, vietandogli di occuparsi delle sue aziende, che nulla c’entrano con i fatti contestati e che a causa della sua assenza forzata, rischiano il collasso. Ribadiamo inoltre, che è stata pagata una parte consistente di tasse che gli vengono contestate". La famiglia chiede "che si ponga fine a questa persecuzione senza neppure aver fatto un processo e si faccia piena luce su questo caso anomalo di giustizia italiana: ridurre un essere umano in questo stato e per quanto deve durare questa sorta di discriminazione nei confronti di Danilo, anche perché ha risarcito il fisco di quanto dovuto".

La moglie ha riferito che nel pomeriggio si era temuto il peggio poiché l’immobiliarista non rispondeva agli stimoli. "Sono molto preoccupata", ha detto dal canto suo Giulia Bongiorno, uno degli avvocati difensori di Coppola. La settimana scorsa la stessa Bongiorno, assieme all’avvocato Gianluca Tognozzi, avevano avanzato un’istanza di scarcerazione per gravi motivi di salute. L’istanza era stata però respinta.

Padova: furti a Palazzo di Giustizia, il ladro era un agente

 

Apcom, 20 novembre 2007

 

Il caposquadra di una pattuglia di guardie penitenziarie è stato filmato mentre rubava l’antenna dell’autoradio da un auto di un assistente di Polizia giudiziaria. È accaduto nel parcheggio sotterraneo del tribunale di Padova. La notizia risale all’ottobre scorso ma solo oggi è affiorata ed è stata riportata dai principali quotidiani del Veneto.

A rimanere con tanto d’occhi sono stati gli stessi poliziotti mentre visionavano il filmato. Il ladro indossava la divisa della polizia penitenziaria ed era anche graduato. L’agente penitenziario guidava una pattuglia, proveniente dall’Emilia, di servizio a Padova per scortare un detenuto a un processo presso il tribunale di Padova. Sulla guardia pesa l’accusa di furto, abuso d’ufficio con l’aggravante del fatto commesso da pubblico ufficiale.

Gran Bretagna: con le narco-sale reati diminuiti del 90%

 

Notiziario Aduc, 20 novembre 2007

 

"Le narco-sale sembrano aver ridotto la criminalità e l’uso di droga in Gran Bretagna. Questi i primi risultati, non ancora ufficiali, dell’esperimento che ha preso il via due anni fa, sul modello dell’Olanda e della Svizzera.

Le narco-sale sono state create per le persone che non sono riuscite a disintossicarsi con metodi convenzionali e che continuano a far uso delle sostanze stupefacenti. L’esperimento, condotto a Londra, Brighton e a Darlington, coinvolge 150 pazienti, divisi in tre categorie: una che assume il metadone oralmente, l’altra per via endovenosa e l’altra ancora che, sotto il controllo del personale medico, si inietta la diamorfina (eroina pura) importata dalla Svizzera e fornita direttamente dalla clinica.

"Il 40 per cento degli utenti - ha detto alla Bbc il professor John Strang del National Addiction Centre - non ha più nessun coinvolgimento con la strada, mentre il resto è passato da una frequenza quotidiana a quattro presenze al mese. I crimini correlati sono scesi da 40 al mese a 4". Secondo gli esperti, il successo è dovuto al fatto che i pazienti conducono una vita più stabile e trascorrono più tempo con i propri cari, perché essendo meno coinvolti nei crimini, non fanno più dentro e fuori dal carcere. Il progetto, che darà dati più accurati il prossimo anno, è costato finora allo stato quasi 4 milioni di euro, dai 13mila euro ai 22mila per paziente, tre volte tanto la spesa annuale della cura col metadone".

Spagna: servono 9mila euro per cauzione detenuto italiano

 

News Italia Press, 20 novembre 2007

 

Sono state raccolte poche migliaia di euro per Simone Righi. Dopo l’appello lanciato dalla sorella Erika, residente a Gallo, che ha raggiunto il fratello di 36 anni in Spagna, per raggiungere i 9mila euro necessari per pagare la cauzione, Secondo Protocollo, l’organizzazione umanitaria che sta facendo da ponte con la famiglia e tenendo i contatti con i legali all’estero, lancia l’allarme: "Simone è malato e in 15 gironi di carcere ha già perso 10 chili".

Arrestato il 7 ottobre scorso dalla polizia spagnola nel corso di una pacifica manifestazione promossa da associazioni ambientaliste per denunciare la soppressione e il maltrattamento del canile di Puerto Real nel quale sono stati peraltro uccisi i tre cani dello stesso Righi, il caso dell’italiano continua a preoccupare le autorità. Inoltre, anche nel caso venisse pagata la cauzione richiesta, il 36enne non potrebbe comunque tornare in Italia.

"Gli sono stati ritirati i documenti - spiega Franco Londei di Secondo Protocollo - e ben che vada dovrà rimanere a Cadice, presso l’associazione animalista El Rifugio, fino al termine del giudizio che lo vede accusato di tentata aggressione ai danni del sindaco di Cadice.

"Si aspetta l’intervento della Farnesina - continua Londei - ma ci auguriamo che avvenga il prima possibile, anche perché Simone è malato e necessita cure appropriate". Intanto Simone ha ricevuto in carcere le visite del Comites (comitato degli italiani all’estero), del legale spagnolo che lo assiste e dei familiari.

Sul suo caso è tornato il deputato di An Marco Zacchera, vice presidente del Comitato per gli Italiani all’Estero della Camera e componente del Comitato Europeo di Strasburgo. "Il vero dramma sia dei detenuti che dei familiari - afferma il parlamentare - è non avere tempestiva assistenza giuridico-legale all’atto del fermo che conseguentemente sfocia in odissee giudiziarie anche negli stessi stati comunitari nonché la mancanza di tutela dei diritti sanciti nella dichiarazione universale e dalla stessa nostra Costituzione.

Occorre che il governo stanzi le risorse per un fondo per il patrocinio gratuito ai cittadini italiani detenuti all’estero che non possono, come nel caso di Righi, pagarsi le spese legali".

In attesa di sviluppi, i familiari mettono a disposizione l’indirizzo di Simone per chi volesse scrivergli in carcere: Simone Righi - Ingreso - Centro Penitenciario de Puerto II Ctra.Jerez - Rota, Km 5,4 11500 - Puerto De Santa Maria - Espana.

Per eventuali contributi al pagamento della cauzione: Iban: ES5400190194114930004193 - Codice Swift: Deutesbb - intestato a: Angelagiovanna Fiori. Per chi volesse ricaricare la carta di Simone, il codice di 16 cifre è: 4329 3065 4195 2757 (scadenza 11/2011). Può essere ricaricata da tutti gli sportelli bancomat del circuito Sanpaolo Imi mediante una qualunque carta bancomat o una qualunque credit card Visa/Mastercard al costo di 50cent.

Maldive: sembra un paradiso, ma sotto nasconde un inferno

di Stella Pende

 

Panorama, 20 novembre 2007

 

È un mare color del vetro quello che bagna l’isola di sabbia candida come la cipria di una dea. Le palme di cocco offrono le foglie al vento e gli uccelli sembrano angeli portatori di bellezza. Maafushi era una delle isole più belle delle Maldive. Ma oggi ha una vera originalità: i suoi turisti sono tutti cittadini maldiviani carcerati in questa che è la prigione di sicurezza tra le più segrete del mondo.

Maldive sconosciuto orrore: 1.200 atolli di sabbie candide ma anche 1.200 prigionieri che marciscono nelle galere. Maldive grande menzogna dell’Asia: il più sognato e pagato paradiso del turista si è trasformato per i suoi cittadini nell’inferno più feroce. Un inferno che il governo del paese nasconde per proteggere l’uragano di dollari (540 miliardi all’anno) che arrivano dal turismo affamato di abbronzature. Ma dietro i sogni di vacanze esotiche si consumano torture e corruzione, morti e censure. Basta una manifestazione pacifica, il sospiro di un dissidente, un articolo di giornale e sei imprigionato per anni o a vita. Maldive paradiso perduto. Dove il presidente Maumoon Abdul Gayoom, uomo piccolo e potentissimo, che pare un bulldog inglese e ne pratica la ferocia, schiavizza il paese da 30 anni. Da quando nel 1978 ha preso possesso del suo palazzo dalle mille stanze zeppe di ritratti dell’amico del cuore Saddam Hussein non ha più lasciato il suo trono d’oro.

"Per chi scopre la nostra verità è ogni volta lo shock. Nessuno sa che paghiamo l’incanto del nostro mare con l’umiliazione di una dittatura infinita e crudele, con la tortura e il carcere. Con la vita". A parlare è Ibrahim Lufty, detto il Cybercombattente (ha inventato Sandhaanu, newsletter epica fra i giovani dell’opposizione maldiviana), uno dei pochi oppositori che è riuscito a scappare dal paradiso-inferno dopo mesi di galera, dove è diventato cieco. Dai pesci pappagallo alle mucche svizzere: a Lugano lavora giorno e notte per far scoprire al mondo quale segreto nascondano le sue isole incantate e maledette. Parla sempre di un paese doppio Ibrahim. Quello surreale dei villaggi del lusso, tutti di proprietà del governo che li concede ai vari tour operator, e quello delle città, dove i turisti hanno la proibizione di mettere piede per non scoprire il marcio.

"Ma la bomba scoppiata il 29 settembre davanti al Sultan park di Male ha fatto scoprire che dietro bungalow e bikini esistono la vita e la morte di un paese di disperati": Ahmed Naaranthy, sociologo maldiviano, ha visto il fuoco dell’esplosione. "Il presidente davanti al terrore di un turismo spaventato ha prontamente arrestato i colpevoli: sette maldiviani e tre cittadini del Bangladesh".

Moosa Inas, di anni 21, e l’amico Ahmed Naseer, di 20, ambedue dell’atollo di Laamu, sono stati scoperti, così dice il rapporto ufficiale, dalla classica telecamera mentre entravano nel Sultan park. Altri, scappati in Pakistan dopo l’esplosione, hanno subito avuto l’estradizione da Islamabad.

Si parla di una cellula di Al Qaeda, nutrita dai sauditi che dopo lo tsunami finanziano nelle isole scuole coraniche e organizzazioni musulmane di beneficenza. Il fondamentalismo wahhabita, esploso negli ultimi anni, pesca nella fame dei maldiviani e dei pescatori che, respirando i miliardi del turismo, devono sopravvivere con un solo dollaro al giorno. "I prescelti sono spediti nelle madrasse del Paskistan dove vengono allenati alla guerra santa" spiega Ahmed Naaranthy.

"Il nostro è sempre stato un Islam sunnita e moderato con qualche vezzo. Alcuni fan del presidente raccontano che lui è il terzo nella santa gerarchia: prima Allah, poi Maometto e infine Gayoom, cioè Kuda Kuda Kalaan’ge, il dio piccolo piccolo. Riferito alla sua altezza, naturalmente". Sorride il sociologo, ma rivela che da qualche tempo il burqa è atterrato nelle strade e perfino sulle spiagge di cipria. "E non pochi giovani oggi esibiscono fieri la seconda e anche la terza moglie". Tanto che perfino una colonna dell’opposizione come Aishath Aniya ha scritto un articolo non proprio entusiastico: "Il burqa non è maldiviano, non è femminile, non è libero. È solo una museruola della religione.

E avere una seconda moglie è preistoria". Parole che sono costate a questa Salman Rushdie delle isole una condanna a morte dai wahhabiti e che l’hanno costretta a lasciare il Partito democratico maldiviano. Qualcuno vede invece questo nuovo fondamentalismo come un ottimo alibi del presidente per contrastare l’opposizione.

"È stato Gayoom a coltivare l’Islam fondamentalista per controllare i nuovi partiti che ha dovuto concedere sotto le pressioni dall’Onu" racconta a Panorama Ahmed Abbas, genio del fumetto maldiviano e spina nel fianco del presidente. "Negli ultimi due anni i fanatici fanno il bello e il cattivo tempo davanti a una polizia incredibilmente paralizzata.

A Himandhoo, la più ‘talebana’ delle isole, un ufficiale è stato ammazzato dopo la chiusura di una moschea. Zero indagini. A giugno una carica di fondamentalisti ha travolto la guardia presidenziale. Non un colpevole. Vuole la verità? Il fondamentalismo religioso serve al presidente per ritardare le riforme. Aveva promesso una nuova costituzione a fine ottobre, ma oggi i wahhabiti discutono sulla sharia. Il dibattito allunga i tempi e le elezioni multipartitiche promesse nel 2008 si allontanano".

Ahmed è un eroe leggendario per il popolo degli atolli. Uomo del Partito democratico e disegnatore della moneta nazionale, ha riempito con le sue irresistibili vignette i giornali dell’opposizione e, a pioggia, i siti internet. Naturalmente il mini-dittatore maldiviano, afflitto da un testone e da orecchie canine, è il suo soggetto preferito. Finché non è stato condannato al carcere più duro nella prigione di Maafushi. Liberato a maggio scorso, non ha mai avuto processo né una vera accusa.

"Una prigionia molto utile" dice ironico e commosso. "La mia avventura ha girato il mondo e oggi le Maldive non sono più solo isole belle, senza anima né dolore. In carcere ho imparato molto". Non ce la fa a parlare di torture: "I galeotti sono stimolanti: ho passato notti intere a disegnare di nascosto con loro e per loro. Si tratta per lo più di giovani trafficanti di droga condannati alla galera a vita e poi dei cosiddetti prigionieri di coscienza: ribelli e oppositori. Affamati e torturati. Anche se Gayoom ha ristrutturato con grande fanfara le sue galere per dimostrarsi governante assai democratico".

Ahmed racconta una sorprendente verità dell’opposizione: "Molti fra i combattenti della libertà sono donne: belle, giovani e giornaliste". Come Jennifer Latheef, anche lei fotoreporter del quotidiano Minivan (di proprietà del leader dell’opposizione Anni Nasheed), che condannata per terrorismo il 18 ottobre 2005 finisce in galera e poi agli arresti domiciliari, per curare una spina dorsale massacrata dalle percosse dei secondini.

Quando, dopo mesi, il magnanimo presidente le annuncia il suo perdono, la giornalista rifiuta la grazia. "Non sono una terrorista, ho solo manifestato pacificamente contro l’assassinio di un prigioniero torturato in carcere" ha detto. "Se volete liberarmi dichiarate la mia completa innocenza". Un coraggio da fiera che non è solo di questa figlia di Mohamed Latheef, grande uomo dell’opposizione esiliato in Sri Lanka.

Ma anche del direttore di Minivan, Aminath Najeed, signora che va e viene dalle galere con grande dignità. "Sarò processata il 15 novembre" dice con voce debole da Male, dove vive. "Forse sarò condannata per chissà quale reato, ma lei lo scriva, la prego. Voi giornalisti liberi parlate delle Maldive, non ci lasciate soli nell’indifferenza del mondo".

Anche Aishath Velezini, direttore del settimanale Adduvas, combatte oggi contro minacce di morte e peggio ancora. La colpa è di un suo sgradito scoop sui danarosi favori accordati a ufficiali corrotti del regime e a poche elette famiglie che, con quella del presidente, comandano le isole.

La verità è che oggi Gayoom, accerchiato dalle critiche di Amnesty international e delle Nazioni Unite, ha dovuto concedere la pubblicazione di pochi e veri giornali. Ma fino a ieri, in un paese dove la libertà di scrivere era peccato mortale, gli internet figthers (i lottatori nell’etere), autori di siti, chat e blog, hanno popolato di incubi i suoi sonni per anni. Mohamed Zaki, giornalista del sito Sandhaanu, e il suo collega Ahmad Didi avevano trovato un modo rapido per diffondere i loro bollettini di lotta: creavano un file facile da stampare, lo portavano criptato in Malaysia e da lì lo spedivano a migliaia di indirizzi mail. È durata poco. Ma una volta scoperti le loro condanne all’ergastolo e le torture si sono dimostrate un tale boomerang per il presidente del falso paradiso da costringerlo a metterli agli arresti domiciliari.

Oltre alla galera di Maafushi e al carcere di sicurezza di Dhoonidhoo, oggi una delle prigioni più frequentate dai dissidenti è l’accademia militare di Ghirigushi, convertita in carcere. "Il nostro presidente possiede la simpatia politica di Saddam Hussein e lo spirito democratico di Augusto Pinochet" racconta un dissidente che, vivendo in patria, ci tiene a rimanere vivo dimenticando il suo nome. In realtà l’astuto imperatore delle Maldive ha cercato più volte di fare il make-up al suo governo.

A settembre ha aderito al Patto internazionale sui diritti civili e politici (Iccpr), poi a quello sui diritti economici, sociali e culturali. Da due anni ha aperto agli altri partiti, prima vietati (il Mdp, il partito democratico, è il più forte nell’opposizione) e promette un processo di riforme che per ora è solo un fantasma. "Ma le parole del nostro dittatore non corrispondono sempre ai fatti" avverte Ibrahim Lufty.

Di certo su queste isole lontane rimane il rapporto sulla violenza nelle carceri di Amnesty International, che riguarda soprattutto le donne. Durante gli interrogatori la presenza dell’avvocato difensore non è prevista. I giudici dipendono tutti dal presidente. Mariyam Manike, madre di Evan Naseem, ammazzato da una guardia carceraria nel settembre 2003, è stata arrestata per aver fatto conoscere il fatto. Poi picchiata a sangue, presa a calci nella vagina e nello stomaco. Finché non ha perso conoscenza.

Elena Ahmed Abass, imprigionata varie volte, racconta che quando la portavano via bendata una guardia le ha messo in faccia il suo pene eretto. Le ha sputato addosso insultandola. Era solo il principio di torture sessuali inimmaginabili. Jennifer Latheef rivela che i carcerieri la sottoponevano a visite anali, che la picchiavano bendata, che era costretta a urinare davanti a loro. Oggi soffre di attacchi di panico. Fathimath Nisreen, giornalista arrestata a 24 anni, oggi, dopo tre anni di galera, non ce la fa a parlare delle violenze subite.

 

 

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