Rassegna stampa 19 novembre

 

Roma: muore detenuto 44enne, viveva su una carrozzella

 

Garante detenuti del Lazio, 19 novembre 2007

 

Esponente della banda della Magliana detenuto nel carcere di Regina Coeli muore dopo il suo ricovero all’ospedale "Santo Spirito" di Roma. Da tempo viveva, su una carrozzella, nel Centro Clinico del carcere.

"Auspico che le autorità facciano luce sulle cause della morte, avvenuta venerdì scorso, di Fabrizio Ciappetta". È quanto chiede il Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti Angiolo Marroni dopo la morte, per cause ancora da accertare del detenuto recluso nel centro clinico di Regina Coeli. Quarantaquattro anni - una ventina dei quali trascorsi in carcere - Fabrizio Ciappetta, detto "Bibì" era uno storico esponente della Banda della Magliana ed aveva alle spalle una lunga storia di carcerazione.

Nel 2000, quando era a Rebibbia Nuovo Complesso (dove lavorava in una coop sociale), fu tra i protagonisti della rivolta per sollecitare condizioni migliori in carcere e per questo fu trasferito nel carcere di Fossombrone. Dopo aver subito una lesione midollare in carcere (sulle cui circostanze è aperto un procedimento penale) le sue condizioni erano progressivamente peggiorate causandogli dolori fortissimi all’addome e la quasi impossibilità di muoversi. Uscito dal carcere in misura alternativa, "Bibì" per combattere il dolore utilizzava un infusore graduale di morfina.

Un anno e mezzo fa era tornato in carcere perché, nonostante le sue condizioni di salute lo costringessero a muoversi con i tutori, aveva compiuto un’altra rapina. Nell’ultimo anno e mezzo era stato recluso a Velletri e a Secondigliano (Napoli) prima di approdare a Regina Coeli. Negli ultimi tempi "Bibì" era arrivato a pesare 120 chilogrammi ed era costretto a stare, su una sedia a rotelle, nel Centro Clinico di Regina Coeli dove i suoi dolori erano in parte alleviati da dosi quotidiane di metadone e cortisone. Ad inizi di novembre anche dal centro clinico era partita una segnalazione della difficoltà della gestione del caso e dell’incompatibilità dell’uomo con il regime carcerario.

Venerdì scorso "Bibì" è stato ricoverato all’ospedale "Santo Spirito" per forti dolori toracici e tachicardia. La sera stessa è morto. Ora la sua salma è al Policlinico "Gemelli" in attesa di autopsia. "La cosa che più mi ha colpito - ha detto il Garante dei Detenuti Angiolo Marroni - è che Fabrizio non chiedeva di uscire dal carcere, ma solo un aiuto per alleviare i dolori di cui soffriva. In questi mesi ci ha parlato a lungo della sua esperienza nel centro Clinico di Regina Coeli e di cosa voglia dire vivere con il dolore nonostante ci siano i mezzi per alleviarlo, come la morfina, che in carcere non viene usata. Mi chiedo se la giusta pena che segue un reato debba comprendere anche il supplemento accessorio di dolore e sofferenza che quest’uomo ha dovuto patire".

Giustizia: in 30 anni misure alternative in crescita costante

 

Redattore Sociale, 19 novembre 2007

 

Ristretta molto l’area della semilibertà (dal 74% del 1985 al 7% del 2005); più diffuso il ricorso all’affidamento ai servizi sociali che è passato dal 26% del 1985 al 61% del 2005 (16.788 detenuti).

Le misure alternative crescono di importanza sia dal punto di vista numerico, sia dal punto di vista delle aspettative per il prossimo futuro. Tutti gli operatori, gli studiosi e i politici sembrano infatti ormai concordare sulla centralità di tutte quelle misure, che si pongono appunto in alternativa al carcere nell’esecuzione della pena e che negli ultimi anni hanno dato buona prova di sé: il grado di recidiva delle misure alternative è molto più basso rispetto a quello che si riscontra tra i detenuti in carcere.

Nel convegno organizzato dal Dap a Roma la scorsa settimana sono state fornite anche le cifre statistiche sull’andamento delle misure alternative e sulla loro qualità intrinseca. Dal 1976 al 2005 si è registrata una crescita costante delle misure alternative, che da poco più dello zero del ‘76 hanno sfiorato nel 2005 quota 50 mila. Nella composizione delle varie misure alternative concesse spicca l’andamento molto vivace della semilibertà e della detenzione domiciliare. Interessante analizzare anche le trasformazioni di questo istituto che oltre a diventare sempre più importante, mostra di sapersi modificare e aggiornare.

Nel 1985, per esempio, si registrava un rapporto molto diverso tra la semilibertà e l’affidamento rispetto a quello che si è poi riscontrato nel 2005. Nel 1985 sul totale delle misure alternative al carcere concesse il 26% riguardavano l’affidamento ai servizi sociali (si trattava allora di 1961 detenuti condannati e affidati ai servizi in alternativa al carcere). Nello stesso anno il 74% dei detenuti beneficiari delle misure alternative poteva godere della semilibertà (5652 persone).

Nel 2005 la fotografia della realtà era già alquanto diversa. Si è infatti ristretta molto l’area della semilibertà - che passava dal 74% dell’85 a uno scarso 7% (con 1785 persone interessate). Al contrario si è allargata molto l’area dell’affidamento che è passato dal 26% del 1985 al 61% del 2005. In quell’anno ben 16.788 detenuti condannati sono stati affidati ai servizi sociali. Sulla questione molto delicata del sistema di concessione e sulla efficacia delle misure alternative si sta aprendo un dibattito tra gli operatori anche in vista delle riforme proposte.

Giustizia: alternative; servono "soluzioni di maggior respiro"

 

Redattore Sociale, 19 novembre 2007

 

L’esperienza del Tribunale di Sorveglianza di Milano che dal primo gennaio 2007 ha concesso 160 affidamenti su 413 istanze, 197 i provvedimenti di rigetto.

Le misure alternative al carcere sono oggetto di grande attenzione in questo periodo di "post-indulto" e di crescita dell’allarme sociale sulla criminalità. Stiamo vivendo poi una fase molto particolare anche perché sono in ballo importanti riforme che interessano direttamente o indirettamente il tema della detenzione. Sono state infatti elaborate già le proposte per la riforma del Codice Penale e per la riforma del Codice di Procedura Penale.

In più, dal Dap, il Dipartimento dell"amministrazione penitenziaria, arrivano proposte innovative sull’utilizzo delle forze di polizia penitenziaria nel controllo dei condannati che hanno ottenuto le diverse forme di misure alternative al carcere. Una proposta - spiegata nei dettagli in un convegno del Dap della scorsa settimana dallo stesso capo dell’amministrazione, Ettore Ferrara - che ha suscitato le proteste degli assistenti sociali degli Uepe. Il tema dunque, oltre ad essere caldo, è anche molto delicato per i suoi risvolti sociali, tecnici e giuridici.

Nella direzione del far chiarezza è andato l’intervento di Giovanna Di Rosa, magistrato di sorveglianza di Milano, che ha partecipato al convegno del Dap e ha fornito dati molto interessanti sia sull’andamento concreto delle richieste di misure alternative, sia sui problemi ancora aperti e che dovranno essere affrontanti. Riprendiamo oggi alcune delle considerazioni del magistrato per la loro attualità e per un’esigenza di ulteriore chiarezza in un dibattito che invece spesso è confuso.

Dopo aver chiarito il quadro giuridico, Di Rosa ha spiegato che "l’indulto avrebbe dovuto e può ancora costituire l’occasione di rilancio delle misure alternative sul territorio quale modalità concreta di espiazione della pena, in piena adesione all’art. 27 Cost. Il provvedimento clemenziale ha allentato infatti la tensione del carico di lavoro ed è questo il momento, forse ultimo, per potenziare le risorse disponibili e migliorare così la qualità dell’obiettivo dell’art. 27 Costituzione grazie al rilancio delle misure alternative sul territorio, il che, dal punto di vista statistico non si è ancora, francamente, notato".

Ma per far questo, per rafforzare e allargare cioè lo spazio delle misure alternative è necessario affrontare la questione con cognizione di causa, senza nascondersi i problemi. Proprio chi - come il magistrato Di Rosa - pensa che le misure alternative siano davvero il terreno di sviluppo strategico della pena deve essere più attento al loro funzionamento e all’efficacia dei sistemi. Dal punto di vista informativo si tratta quindi prima di tutto di capire come stanno le cose realmente.

"Di solito - ha detto Di Rosa - si studiano i numeri relativi alle concessioni delle misure alternative e gli esiti connessi. Se si esaminano infatti, invertendo per una volta i parametri del ragionamento, i dati dei provvedimenti di rigetto delle istanze, si osserva che essi sono molto elevati". L’esempio concreto è relativo al Tribunale di Sorveglianza di Milano.

"A questo proposito - ha detto Di Rosa - leggendo i dati statistici del Tribunale di Sorveglianza di Milano, dal primo gennaio 2007 a oggi, risultano concessi solo 160 affidamenti su 413 istanze e si sono registrati invece 197 provvedimenti di rigetto; ancora, a fronte di 457 istanze di detenzione domiciliare, ne sono state accolte solo 115, con ben 139 rigetti nel merito.

Il dato statistico poi crolla verso il basso in ordine all’applicazione della legge cosiddetta Simeone, che potrebbe e dovrebbe essere potenziata perché ha immediato effetto deflativo, senza attendere i tempi di decisione del Tribunale di Sorveglianza, che sono più lunghi, tanto più per le pene brevi: nello stesso periodo, si registrano solo 35 concessioni su 243 istanze".

Come si commentano questi dati? Sarebbe facile accusare i magistrati di eccessiva rigidità. "Ma con tutta sincerità - spiega ancora Giovanna Di Rosa - credo che questa sia una risposta quantomeno priva di una riflessione più ampia.

Occorre infatti ragionare accuratamente su questo punto, che si traduce in una riflessione sul perché tanti condannati espiano la pena in regime detentivo, e risponde inoltre anche ad una parte delle ragioni del sovraffollamento. E poiché sono convinta che sia necessario evitare di principio la carcerizzazione, credo occorra riflettere su nuove aperture che diano diverso contenuto alla misura alternativa e assicurino soluzioni di maggior respiro".

Anche sulle proposte messe in campo dal capo del Dap, ovvero sull’utilizzo della polizia penitenziaria nei controlli dei condannati che hanno ottenuto le misure alternative, il magistrato di Milano esprime con chiarezza la sua posizione: "Mi sembra dunque che una soluzione ragionata e tesa ad integrare le competenze dell’Uepe con la Polizia Penitenziaria, nei casi in cui ciò sia opportuno e concordando le modalità specifiche di attuazione del controllo, riflettendo preventivamente sul perché e sul dove esso va fatto, potrebbe concorrere in questa direzione, nella logica della collaborazione. Proprio questa logica prevale, da qualche anno ormai, nel territorio dal quale provengo".

Per ora, però, manca dunque, istituzionalmente, un raccordo tra l’attività dell’Uepe e il controllo della Polizia. Per questo, sempre secondo il magistrato di sorveglianza, l’ipotesi di cui si discute oggi sembra invece sopperire a queste problematiche perché si pone in un’ottica collaborativa delle istituzioni interessate, partecipando e rispettando le esigenze del reinserimento.

"Se poi è vero che l’espressione "controllo" usata dal legislatore a proposito dei compiti dell’Uepe va intesa in senso lato, quale attenzione, sulla base di un rapporto connotato da sostegno e aiuto, al rispetto delle prescrizioni imposte, si tratta di attività non sovrapponibile a quella della Polizia Penitenziaria, ma costruibile congiuntamente, in una logica di collaborazione, per la migliore riuscita della tenuta della misura.

La polizia penitenziaria è poi per propria natura più capace di comprendere il contenuto trattamentale delle misure sul territorio, mentre l’uso degli agenti sul territorio sembra la naturale evoluzione del ruolo sinora da essi svolto negli istituti penitenziari, per una più piena integrazione sul territorio di persone comunque sempre emarginate dalla società".

Giustizia: alternative; i detenuti domiciliari sono i più recidivi

 

Redattore Sociale, 19 novembre 2007

 

Secondo i dati del Dap tra i diversi istituti l’affidamento ai servizi sociali sembra garantire il ricorso a un minor numero di altri reati.

Dalle dinamiche delle misure alternative al carcere, così come si sono concretamente configurate negli ultimi anni, emergono diversi elementi utili alla riflessione. Uno di questi riguarda il tema dell’ammissione alle misure alternative. In una delle slide utilizzate dal capo del Dap, Ettore Ferrara, la scorsa settimana per la sua relazione (vedi lanci precedenti) si calcolano in percentuale le provenienze dei detenuti ai quali sono state concesse le misure alternative. In particolare nell’anno 2005 tra tutti coloro che risultavano essere in misure alternative, la grande maggioranza era composta di persone provenienti dalla libertà e non dal carcere. Il 74% delle misure alternative del 2005 era stato infatti concesso dalla libertà, mentre il restante 26% riguardava detenuti in carcere.

Sempre per lo stesso anno, l’ultimo a disposizione per l’elaborazione dei dati statistici dell’amministrazione penitenziaria, è interessante analizzare il quadro sinottico del diverso andamento dei tre istituti tipo delle misure alternative alla detenzione tradizionale rispetto alla decisione di revocarle: l’affidamento, la semilibertà e la detenzione domiciliare.

In tutto, nel 2005, le misure alternative concesse in Italia erano 49.943. Per quanto riguarda le decisioni di revoca, nel 2005 è stata la semilibertà ad avere la percentuale più alta con circa il 15%. Per la detenzione domiciliare la percentuale di revoche scende all’11,35%, mentre ancora più bassa la percentuale di revoche per l’affidamento (5,33%), dove pure si concentrano i numeri più alti delle misure alternative (31.958 persone).

Emblematico anche il confronto tra il giudizio sull’andamento più o meno positivo della misura alternativa per i detenuti e il grado di recidiva che si riscontra per i tre diversi istituti della misura alternativa stessa. Si nota infatti che in semilibertà c’erano (nel 2005) 3.458 persone con una percentuale di commissione di altri reati allo 0,29%.

In detenzione domiciliare risultavano 14.527 persone con una percentuale dello 0,41% di commissione di altri reati. In affidamento c’erano infine la maggior parte dei condannati con 31.958 persone e lo 0,16% di percentuale nella commissione di altri reati. La detenzione domiciliare è quindi l’istituto in cui (sempre nel 2005) si è riscontrata la percentuale più alta nella commissione di altri reati.

I detenuti ai "domiciliari" hanno commesso più reati, nel corso del 2005, dei loro colleghi in affidamento ai servizi sociali o in semilibertà. Ma le percentuali non devono ingannare perché si tratta comunque di cifre molto basse se confrontate con le percentuali di recidiva che si riscontrano tra i detenuti in carcere.

Per tutti e tre gli istituti delle misure alternative stiamo infatti parlando di pochi casi di commissione di altri reati: in semilibertà si sono infatti registrati 10 casi di persone che hanno commesso altri reati; 52 sono stati invece i casi di altri reati commessi da persone in affidamento e infine sono stati 60 i casi di detenuti ai "domiciliari" che hanno commesso altri reati (lo 0,41%, contro lo 0,29% della semilibertà e lo 0,16% dell’affidamento, appunto).

Dalle statistiche presentate durante il convegno del Dap, risultano quindi molto chiari due dati: 1) il primo che le misure alternative si confermano molto più efficaci nell’abbassamento del grado di recidiva rispetto al carcere; 2) che tra i diversi istituti delle misure alternative sembra l’affidamento ai servizi quello con maggiori qualità.

Giustizia: Mastella; abbassare la soglia di punibilità dei minori

 

Redattore Sociale, 19 novembre 2007

 

Il ministro della Giustizia a Giugliano, alla conferenza regionale sulla sicurezza. "Lo stato non può fare da solo la lotta alla criminalità: invoco una forma di liberalismo nel mercato degli interventi per la legalità".

"Lo stato non può fare da solo la lotta contro la criminalità: invoco una forma di liberalismo nel mercato degli interventi per la legalità, in cui ognuno faccia la sua parte". Così il ministro della Giustizia Clemente Mastella a Giugliano in Campania per la Conferenza regionale sulla sicurezza, ha parlato della necessità di intervenire con una strategia globale nella lotta per la legalità.

"Purtroppo - ha detto il ministro - si assiste ancora in alcuni territori a fenomeni penosi quando la Polizia arresta qualche malvivente: l’applauso dei cittadini è per lui e non per le Forze dell’ordine. Sono esempi questi di una convivenza in negativo della criminalità organizzata con le coscienze collettive della comunità. Per questo occorre puntare a un cambiamento di mentalità senza un moto di coscienza delle persone lo Stato non ce la farà mai". Mastella ha difeso il pacchetto del Governo sulla sicurezza: "Il pacchetto risponde a una domanda di sicurezza generalizzata, e mira a combattere la criminalità tutta, senza distinzione tra micro e grande criminalità".

Il ministro infine, ha lanciato dalla Provincia di Napoli la proposta che si debba abbassare l’età della punibilità "Il reclutamento di ragazzi che ammazzano diventa sempre più forte. Forse… la soglia di punibilità va abbassata, così come è stato fatto in Francia, per evitare che si approfitti della fragilità di questi ragazzi. Certo è un proposta sulla quale non deciderò da solo, ma che bisogna prendere in considerazione".

Giustizia: Marco Minniti; la sicurezza è una questione sociale

 

Redattore Sociale, 19 novembre 2007

 

Il vice-ministro dell’Interno è intervenuto alla conferenza regionale sulla sicurezza "Pol.i.s.", in corso a Giugliano. "Sono preoccupato per un Paese in cui la sicurezza diventa elemento di propaganda politica".

La sicurezza come questione sociale: su questo punto insiste il vice-ministro dell’Interno Marco Minniti intervenuto stamani alla conferenza regionale sulla sicurezza "Pol.i.s." organizzata in un"area confiscata alla camorra a Giugliano (in provincia di Napoli) dove sorgerà un nuovo tribunale. "Sicurezza - ha detto Minniti - vuol dire anche politiche di integrazione sociale, legalità vuol dire anche welfare, quartieri vivibili, illuminazione, videosorveglianza. Per questo la sicurezza deve essere sempre più pensata come sicurezza integrata".

Minniti ha insistito sulla necessità di un approccio "scientifico e non emotivo" alla questione, che deve essere, a suo parere, affrontata calandosi nelle realtà territoriali, in stretto rapporto con gli enti locali. Il vice-ministro ha poi sottolineato l’importanza del pacchetto sicurezza del governo come strategia organica e sistema di interventi normativi che affronta alcuni temi cruciali della questione: certezza della pena, con arresto immediato per reati che provocano allarme sociale, rafforzamento degli uffici giudiziari al Sud, con l’aggiunta della figura del presidente del GIP - "dobbiamo incoraggiare i magistrati ad andare al Sud", ha detto Minniti -, la cancellazione del patteggiamento per i reati di mafia e una modifica di carattere normativo che separa il bene mafioso da quello personale. "Va perseguito il bene illecitamente procurato - ha detto il vice-ministro - per evitare il gioco della proprietà dei beni e procedere direttamente dal sequestro alla confisca al riutilizzo, anche con l’aiuto di un’agenzia di supporto". "Sono preoccupato - ha concluso Minniti - per un Paese in cui la sicurezza diventa elemento di propaganda politica. Un Paese sano dovrebbe evitare a tutti i costi di fare di questo tema un tema di bassa polemica, la sicurezza non si risolve con qualche battuta".

Giustizia: Livio Ferrari; volontari, da che parte vogliamo stare?

 

Seac Notizie, 19 novembre 2007

 

Diciamolo francamente, senza falsi pudori: il volontariato è stanco di essere spettatore impotente di quanto avviene nelle carceri italiane. A oltre un anno dall’insediamento del Ministro Mastella, oltre all’indulto - una misura necessaria e dovuta - nulla è mutato. Le leggi che producono carcerazione impropriamente (Bossi-Fini, Fini-Giovanardi, ex-Cirielli) non sono state toccate e si è ormai buttata al vento l’opportunità di maggiore vivibilità per questi luoghi della vendetta sociale.

Il volontariato è amareggiato dall’incontrare in carcere per la maggior parte persone che fanno fatica nella quotidianità (ex-psichiatrizzati, senza dimora, ex-tossicodipendenti, etc.) e vedere che la risposta penale nei loro riguardi continua senza risoluzioni di sorta. Sono esseri umani che scontano periodi lunghissimi di reclusione per reati quali l’oltraggio alle forze dell’ordine, risse, piccoli furtarelli, per quella impossibilità di avere un comportamento sociale dentro la norma, per troppi anni di emarginazione e devianza che li hanno irrimediabilmente leso nella loro integrità psichica. Ma dobbiamo per sempre accanirci contro di loro, non possiamo pensare ad interventi sociali che portino alla creazione di "luoghi di attenzione e di passaggio" (li chiamerei) dove incontrare questi esseri umani e dar loro "spazi di respiro" attraverso i quali evitare che possano continuare a perpetrare azione negative nei riguardi della società ma anche verso se stessi!

Addirittura si ritorna a parlare di nuove carceri, quando rispetto alle 207 attuali ne basterebbe poco più di un quarto per le persone veramente pericolose e per coloro che fanno parte della criminalità organizzata, le restanti potrebbero essere tranquillamente dismesse. Anche la Commissione Pisapia, sulla riforma del codice penale, non ha dato sinora segnali di una reale e vera riduzione della pressione carceraria rispetto all’esecuzione penale. L’art. 27 della Costituzione parla di pena rieducativa e non cita il carcere per l’esecuzione, perciò non possiamo associarlo sempre e comunque per tutti quei reati di cui si rendono protagonisti persone che fanno fatica a vivere, a condurre una vita normale.

Dobbiamo invertire la rotta "americanizzante" intrapresa nell’ultimo decennio, dopo la Simeone-Saraceni, e ridare significato all’esistenza di tante persone attraverso una riforma complessiva e al passo con i tempi delle politiche sociali, che assieme al fallimento della 328 sono ancora organizzate come trent’anni fa.

È urgente anche investire economicamente, da parte dello Stato e dell’imprenditoria in quelle parti d’Italia dove la povertà impera e la malavita (mafia, ‘ndrangheta, camorra, sacra corona unita) spadroneggiano e creano situazioni di illegalità in collegamento con pezzi della politica. Ridurre la criminalità, togliere la manovalanza minorile dalle strade della devianza, è un obiettivo primario che deve darsi questo Parlamento attraverso azioni culturali ed economiche. Attenzione, però, che la sicurezza non si determina con l’aumento delle forze dell’ordine né con l’impiego dell’esercito, ma con la possibilità per le persone che vivono nei territori italiani attualmente più degradati di vivere dignitosamente e non dover soccombere ai ricatti e al degrado che la povertà e l’emarginazione determina.

C’è un’infinità di problemi che l’universo della giustizia, della pena e dell’esecuzione penale ha sommato in questi anni e sicuramente non sarà possibile risolverli tutti in una volta, ma affrontarli sistematicamente sì, questo è un obbligo oltre che un dovere.

Ricordiamo poi le molteplici problematiche che sono vissute da ragazzi, uomini e donne dentro gli istituti penitenziari italiani: i bambini in carcere con le mamme, i giovani adulti abbandonati ad una esecuzione penale inclemente, i drop out, i malati di aids, i malati cronici, i tossicodipendenti, i senza dimora, i malati psichici, etc. Persone che hanno bisogno di risposte penali diverse dal carcere, soprattutto di carattere sociale, da ripensare all’interno di un sistema sanzionatorio che sappia comprendere l’errore, le diversità, la drammatica fatica di vivere che investe la fragilità umana. Bisogna ridisegnare percorsi di pace che tocchino le coscienze e i cuori di ognuno, che ridiano significato all’incontro, all’ascolto e all’abbraccio con l’altro, senza perdere di vista la parte negativa, gli errori e il dolore prodotto, ma nell’ottica della riconciliazione e della restituzione del danno e contro l’attuale atteggiamento retributivo e vendicativo.

Il volontariato deve comunque interrogarsi, rispetto a quanto sin qui evidenziato, sul suo ruolo ed apporto, sulle sue funzioni divenute in questi ultimi anni esageratamente di supplenza. Non è sufficiente pensarsi dentro atteggiamenti di solidarietà per esserlo veramente, potremmo anche tristemente scoprire che la nostra presenza serve magari a coprire le inadempienze e le ingiustizie di questo sistema carcere. Può darsi, altresì, che il nostro operare contribuisca a nascondere le contraddizioni legislative adottate in questi anni e, involontariamente, a contribuire a che tutto resti com’è, che poi è il contrario di quello che vorremmo succedesse. Perché la nostra presenza avrebbe l’ardire di contribuire a modificare alcune delle negatività che la privazione della libertà produce nelle persone e lenire la loro sofferenza per ridare significato e futuro a queste esistenze.

Dopo molteplici tappe di crescita che si sono prodotte negli ultimi vent’anni, attraverso il percorso aggregativo ed associazionistico, quello della formazione, dell’acquisizione del ruolo politico, della progettualità, della promozione sociale, sono convinto che nel 2007 il volontariato della giustizia sia sicuramente più maturo, pur in tutte le sue diversità, difficoltà e sfaccettature, a produrre un’analisi più compiuta e scevra da condizionamenti di personalismo, per scegliere come agire nell’immediato futuro.

Dobbiamo decidere se continuare nella buona azione fine a sé stessa e succube delle scelte altrui, parlamentari ed economiche che siano, o pensare a nuove ed efficaci strategie di impegno politico che, attraverso alleanze sociali forti e autorevoli, diano forza alle idee di riforma, che abbiamo abbastanza chiare, e che diventa urgente si traducano in realtà e far sì che il nostro operato ritrovi tutta la dignità e il ruolo profetico che lo ha sempre contraddistinto.

 

Livio Ferrari, Presidente del Centro Francescano di Ascolto

Lavoro: "Progetto Indulto", finora 18 assunzioni e 312 tirocini 

 

Ansa, 19 novembre 2007

 

Il progetto "Lavoro nell’inclusione sociale dei detenuti beneficiari dell’indulto", promosso dal Ministero del Lavoro in collaborazione con il Ministero della Giustizia e con le amministrazioni penitenziarie territoriali, con l’assistenza tecnica dell’agenzia governativa Italia Lavoro ha portato finora a 18 assunzioni, 312 tirocini, e 12 reti territoriali. L’iniziativa ha l’obiettivo di favorire il reinserimento socio-lavorativo dei beneficiari dell’indulto, a circa a sei mesi dalla scadenza programmata.

Dei tutti i tirocini avviati al 31 ottobre dal progetto "Indulto", 31 riguardano il territorio di Firenze, dove sono state effettuate 4 assunzioni. Al Nord si registrano, inoltre, 39 tirocini a Torino, 14 tirocini a Genova (più 3 in fase di attivazione) e 14 a Venezia, dove si segnalano anche ben 10 assunzioni di indultati che hanno aderito al progetto. E, ancora, 17 tirocini a Bologna (più 2 in partenza) e 2 a Milano. Mentre i tirocini non sono ancora partiti a Trieste.

Spostandosi verso il Centro, a Roma, sono 57 gli ex detenuti beneficiari dell’indulto che hanno già avviato il tirocinio in cooperative del territorio romano attive in diversi settori, da quello agricolo a quello dei servizi alla persona, sanità, servizi alle imprese, informatica. Per 4 di loro, il tirocinio si è trasformato in assunzione. Soddisfacenti i risultati del progetto anche al Sud, dove i tirocini avviati sono 35 a Bari e 37 a Catania. A Cagliari, i tirocini avviati sono in tutto 24.

Come è noto il progetto mira a coinvolgere il sistema delle imprese, con una serie di incentivi, finalizzati alla realizzazione di tirocini formativi, e si inserisce in un contesto in cui diversi soggetti, a vario titolo, operano sul territorio con l’obiettivo di qualificare i servizi pubblici e privati per l’inclusione sociale e lavorativa di detenuti ed ex detenuti. Gli obiettivi principali del progetto sono due: offrire ai beneficiari dell’indulto una possibilità di esperienza lavorativa professionalizzante; attivare a riguardo le reti territoriali di attori pubblici e privati in un quadro di possibile sviluppo regionale.

Per rendere conto sullo stato d’avanzamento del progetto e per raggiungere in maniera mirata gli interlocutori "dedicati" all’inclusione sociale e lavorativa delle persone con esperienza detentiva in corso o passata è stata lanciata una newsletter.

Lettere: Travaglio, prima di scrivere vai a visitare un carcere!

 

www.radiocarcere.com, 19 novembre 2007

 

Venerdì 16 novembre su L’Unità Marco Travaglio ha scritto: "In Italia non finisce in galera nemmeno chi si offre volontario". Beh, io mi chiamo Anna Maria. Ho 48 anni un marito e due bellissime figlie. Da poco sono uscita dal carcere. Sono stata detenuta per 7 lunghi mesi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Una mattina sono piombati a casa mia i poliziotti e mi hanno portato in carcere. L’accusa: traffico di stupefacenti. Proprio io che non mi sono fatta una canna in vita mia!

Ho impiegato 7 mesi per dimostrare la mia innocenza. Nel frattempo stavo in una cella di 12 metri quadri con altre 8 detenute, trattate come bestie. Nel frattempo ho perso il lavoro e la mia dignità. Un attimo per finire in carcere e 7 mesi di misura cautelare per poi essere scagionata. E pensare che non mi sono offerta volontaria! Vorrei chiedere a Travaglio: perché prima di scrivere certe cose non si fa un giro dentro un carcere?

 

Anna Maria

Campania: Napoli e Caserta, città dove la gente ha più paura

 

Redattore Sociale, 19 novembre 2007

 

Lo dice l’indagine "La criminalità in Campania tra percezione e realtà", condotta dal Censis e presentata a Giugliano. A Napoli solo il 19,6% dei cittadini ritiene di vivere in una città sicura e a Caserta il 39,8%.

Sono Napoli e Caserta le province campane dove la gente ha più paura. Lo dice l’indagine "La criminalità in Campania tra percezione e realtà", condotta dal Censis su un campione di 2mila abitanti e presentata oggi a Giugliano in Campania in occasione della seconda conferenza regionale sulla sicurezza. A Napoli solo il 19,6% dei cittadini ritiene di vivere in una città sicura (in provincia di Napoli la percentuale sale al 29,9%) e a Caserta il 39,8%, mentre percentuali molto più alte si riscontrano nella provincia di Avellino (83,4%), in quella di Salerno (73%) e di Benevento (72,9%).

La tossicodipendenza (per il 52,8% degli intervistati) e la microcriminalità (per il 52,5 per cento: l’indagine consentiva più risposte, ndr.) i problemi che destano maggior preoccupazione e determinano l’insicurezza; rilevanti per il 44% degli intervistati anche la delinquenza minorile e il degrado urbano (questione prioritaria per il 43,7% dei campani); a seguire il racket (32,9% e l’usura (32,7%).

In una popolazione che per il 40,5% dichiara di essere stata vittima di un reato, sono soprattutto i giovani le vittime (il 37% contro il 23,8% degli anziani); borseggi e scippi i reati più segnalati (dal 25,2% delle vittime), seguiti dai furti in casa (denunciati dal 23,1%). I reati considerati più gravi sono quelli che si consumano tra le mura domestiche: pedofilia al primo posto, seguita da violenza sessuale e maltrattamenti in famiglia (l’indagine non riporta percentuali, ndr.).

Seguono lo sfruttamento della prostituzione e attività riconducibili direttamente alla criminalità organizzata come lo spaccio di droga, l’usura, le rapine e le estorsioni. Un maggiore controllo del territorio, secondo gli intervistati, sarebbe il modo migliore per contrastare la criminalità: per il 60,5% con una più consistente presenza delle Forze dell’ordine, per il 31,1% con l’aumento delle zone sottoposte a videosorveglianza e per il 30,9% con la diffusione del poliziotto di quartiere.

Per il 26,2% dei campani è importante anche realizzare più spazi di socializzazione per i giovani. Scarsa, infine, la fiducia nelle istituzioni (in diminuzione, secondo il campione, l’impegno degli enti locali) e nella classe politica, che per il 93,2% degli intervistati persegue interessi individuali o del proprio partito.

Roma: domani convegno su problemi medicina penitenziaria

 

Comunicato stampa, 19 novembre 2007

 

Forum nazionale per il diritto alla salute dei detenuti e delle detenute e l’applicazione del d.lgs 230/99. "Diritto alla salute in carcere. Perché stavolta sia davvero riforma".

Domani al Senato della Repubblica un Convegno nazionale per fare il punto sui problemi e le prospettive della sanità penitenziaria italiana. Martedì 20 novembre, ore 09.30 - Senato della Repubblica - Sala delle Conferenze ex hotel Bologna. Via di Santa Chiara, 4.

Fare il punto sui problemi e le prospettive della sanità penitenziaria italiana e sull’applicazione del Decreto Legislativo 230/99, che regola il passaggio della medicina penitenziaria dal ministero della Giustizia al servizio sanitario nazionale e alle Regioni. Sono questi gli scopi del convegno nazionale sul tema "Diritto alla salute in carcere. Perché stavolta sia davvero riforma", organizzato per domani a Roma dal Forum Nazionale per la tutela della salute dei detenuti e delle detenute.

Al convegno sono stati invitati a partecipare, fra gli altri, Livia Turco (Ministro della Salute), Clemente Mastella, (Ministro della Giustizia), Tommaso Padoa-Schioppa (Ministro dell’Economia), Lino Duilio (Pres. Comm. Bilancio Camera), Mimmo Lucà (Pres. Comm. Affari Sociali Camera), Pino Pisicchio (Pres. Commissione Giustizia Camera), Ignazio Marino (Pres. Comm. Igiene e Sanità Senato), Enrico Morando (Pres. Comm. Bilancio Senato), Cesare Salvi, (Pres. Comm. Giustizia Senato), Enrico Rossi (Coord. Ass.ri Reg.li alla Salute) oltre ai Garanti per i diritti dei detenuti delle città, province e regioni d’Italia. Al convegno parteciperanno Enti, Sindacati nazionali, Operatori sanitari e penitenziari, Associazioni di volontariato e del terzo settore.

"Abbiamo seguito con attenzione il lavoro della commissione interministeriale (Giustizia e Sanità) - si legge in una lettera inviata dal Presidente del Forum, Leda Colombini ai ministri della Salute e della Giustizia - e abbiamo verificato un crescente e sempre più radicato convincimento sulla straordinarietà del processo riformatore anche fra chi, in passato, ha espresso più di un dubbio a proposito ci permettiamo di avanzare la necessità di un ultimo e risolutivo impegno affinché venga evitato il rischio che ad una precisa volontà politica, così chiaramente esplicitata nei Vostri ripetuti interventi, si possano frapporre ostacoli di natura tecnica, procedurale, formale".

Il "Forum si è costituito nel 2005 con Istituzioni, Enti, Sindacati e associazioni sociali e di volontariato che sentivano l’esigenza di un punto di riferimento unitario, coordinato e propositivo, per rilanciare la battaglia per una "sanità penitenziaria" che assicuri dignità e salute, oggi drammaticamente compromesse.

Bologna: Garante; opuscolo "Dentro Fuori" tradotto in arabo

 

Comunicato stampa, 19 novembre 2007

 

È partita la distribuzione di circa 2.000 copie, in lingua araba, dell’opuscolo: "Dentro fuori: informazioni sul carcere", redatto dall’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna, dall’Associazione Giuristi Democratici con il patrocinio della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna e della Regione Emilia Romagna e stampato all’interno della Casa Circondariale di Bologna dalla tipografia il Profumo delle Parole. La diffusione riguarderà tutti gli Istituti di pena detentivi della Regione, e cerca di soddisfare le esigenze di conoscenza e di comprensione della popolazione straniera presente negli istituti. Seguirà la distribuzione dell’opuscolo tradotto anche nelle altre lingue più parlate.

Si tratta di un segnale di attenzione verso la popolazione detenuta straniera, in gran parte socialmente disagiata, purtroppo in aumento (nel carcere di Bologna supera il 60%), mentre è ancora lontana la riforma della legge sull’immigrazione, il cui cambiamento potrebbe incidere sui meccanismi di carcerizzazione degli stranieri riducendone la presenza in carcere.

 

Desi Bruno, Garante dei diritti dei detenuti di Bologna

Televisione: il Sappe chiede sospensione di "Liberi di giocare"

 

Comunicato Sappe, 19 novembre 2007

 

Sospendere la seconda puntata della mini serie "Liberi di giocare", con Pierfrancesco Savino e Isabella Ferrari e la regia di Francesco Miccichè, programmata per questa sera su Rai Uno, perché denigra, mortifica ed offende il lavoro duro e difficile delle donne e degli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria.

A chiederlo è Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il più rappresentativo della Categoria con 12mila iscritti, con una nota ufficiale inviata al presidente Rai Claudio Petruccioli, ai ministri Mastella (Giustizia) e Gentiloni (Comunicazioni) ed al Capo dell’Amministrazione penitenziaria Ettore Ferrara.

Scrive Capece: "Intervengo dopo la messa in onda, ieri 18 novembre 2007, della prima puntata della mini serie "Liberi di giocare". Sono stati infatti tantissimi gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria che mi hanno sollecitato a scriverLe perché si sono sentiti offesi, mortificati ed umiliati per come la citata finzione (mai traduzione è stata più appropriata…) ha inteso rappresentare il lavoro dei poliziotti penitenziari.

Nulla di quanto si è visto corrisponde alla realtà della quotidiana vita penitenziaria - tutt’altro! -, ma la ricaduta negativa che essa ha prodotto verso un’opinione pubblica che sconosce del tutto il mondo del carcere e men che meno di chi in esso lavora 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno, è semplicemente dirompente e inaccettabile. È semplicemente indecente avere rappresentato il lavoro delle donne e degli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria ad un tale livello denigratorio che non Vi fa certo onore.

Ci vuole davvero dell’ignoranza e della malafede a immaginare che in un carcere possa accadere le seguenti cose: Ingresso ed occultamento di sostanza stupefacente negli spogliatoi dei detenuti impegnati in attività sportiva senza quindi alcun controllo dei locali e del soggetto che introduce la droga da parte degli Agenti; l’immancabile Agente disonesto che favorisce il pestaggio di un detenuto da parte di un altro ristretto, aprendo a questi il cancello della cella occupata dal primo; un altro Agente che, in barba alle disposizioni vigenti nei penitenziari, apre tutte le celle di una Sezione per favorire la scorta di tutti i detenuti a due ristretti giocatori minacciati dall’altrettanto immancabile boss detenuto, come se il carcere fosse la terra di nessuno in cui vigono le regole della delinquenza e non quelle dello Stato; il già citato boss detenuto che gestisce altri detenuti liberi di scorazzare liberamente per il penitenziario senza alcun controllo da parte della Polizia Penitenziaria. Tutto questo è un’offesa inaccettabile alle donne ed agli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria!

Il carcere, oggi, si configura quasi come una discarica sociale, un grande magazzino dove la società, senza eccessive remore, continua a riversare tossicodipendenti, malati di Aids, extracomunitari, malati di mente, pedofili, mafiosi e camorristi, prostitute, travestiti e transessuali, tutto ciò che non si vuole vedere sotto casa e nelle strade. In mezzo a loro, spesso isolato se non dimenticato, il più delle volte anche giovane, l’agente di Polizia penitenziaria, che deve rappresentare la dignità e la legalità dello Stato, la Legge. La rappresenta da solo, con la sua divisa, con la sua coscienza professionale, con il suo coraggio, con il suo rischio. 24 ore su 24, 365 giorni all’anno. Rappresenta, dunque, la Legge e la sicurezza della società.

E merita rispetto. Cosa che la Vostra mini serie "Liberi di giocare" non solo non fa, ma anzi preferisce mortificarci, umiliarci, offenderci. Non lo accettiamo non solo perché il carcere non è così com’è stato rappresentato su Rai Uno ma soprattutto perché non lo meritiamo.

È per questo che chiedo che disponga la sospensione della seconda puntata in programma per sera e, contestualmente, siano formulate le Sue scuse e quelle degli autori della mini serie televisiva alle donne ed agli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria".

Droghe: in Italia la cocaina provoca 1.000 morti ogni anno

 

Adnkronos, 19 novembre 2007

 

Aumentano le persone dipendenti dalla cocaina, ma non esistono attualmente farmaci adeguati contro la dipendenza. Esistono solo palliativi e la possibilità di un vaccino rappresenta ancora un’illusione. È quanto sostiene uno dei maggiori esperti italiani di neurofarmacologia, Gian Luigi Gessa, che nel convegno sulle buone pratiche nella salute mentale organizzato dalla Fondazione Mario Lugli, a Roma, ha parlato dell’aumento del consumo di polvere bianca. "Abbiamo finalmente imparato a gestire la dipendenza da alcol e da eroina. Ci sono i farmaci e c’è un’organizzazione che funziona", ha osservato l’esperto. "Ma il mondo sta cambiando e la gente comincia a usare la cocaina molto più dell’eroina, così come i giovani stanno usando molto di più la cannabis e con concentrazioni più alte". Nascono quindi nuovi problemi medici perché non ci sono farmaci e non c’è un’organizzazione che permetta di rispondere in modo adeguato. In Italia come negli Stati Uniti, ha proseguito Gessa, la cocaina è il terzo killer fra le droghe.

Uccide infatti oltre mille persone l’anno, preceduta dal fumo (130.000) e dall’alcol (40.000). L’eroina segue con circa 800 vittime. "A consumare la cocaina si comincia per tante ragioni", aggiunge il neurofarmacologo, e nella maggior parte dei casi viene inalata. I tossicodipendenti da eroina cominciano a consumare cocaina per vincere la depressione, ma di fatto finiscono soltanto per sommare gli effetti tossici delle due droghe. Va aumentando anche il consumo della cocaina free-base, ottenuta estraendo solo la base libera della cocaina, che può bruciare e può quindi essere fumata.

 

10,5 miliardi di euro l’anno il "costo sociale" in Italia

 

Dieci miliardi e cinquecento milioni di euro, lo 0,7 per cento del Pil e all’1,2 per cento della spesa delle famiglie residenti: è questo l’ammontare dei "costi sociali" legati all’uso di sostanze illegali in Italia, stimato per il 2006.

Valore calcolato sommando i costi per l’acquisto delle sostanze e per l’applicazione della legge (65%), i costi sociali dell’intervento socio-sanitario (17 per cento) e i costi legati alla perdita di produttività il (18 per cento). Si tratta di circa 269 euro pro capite se si considera la popolazione residente in Italia tra i 15 e i 64 anni di età, 2.400 euro se la stima è calcolata sulla popolazione dei consumatori problematici di sostanze psicoattive illegali.

Nella Relazione 2006 emerge che per l’acquisto delle sostanze sono stati spesi 3 miliardi e 980 milioni, 2 miliardi e 798 milioni per l’applicazione della Legge: costi delle Forze dell’Ordine (utilizzati gli indicatori di spesa del personale impiegato e delle strutture e i mezzi utilizzati per le azioni di contrasto del mercato e per l’applicazione della legge), quelli delle attività dei Tribunali e delle Prefetture in merito alle segnalazioni e alle denunce (atti giudiziari relativi ai reati commessi in violazione della Legge sulle droghe). E anche parte dei costi dell’Amministrazione Penitenziaria (carcerati per reati in violazione alla legge sulle droghe e ai detenuti tossicodipendenti) e infine i costi legali sostenuti dalle persone sottoposte a giudizio.

 

È l’eroina la sostanza percepita come più dannosa per la salute

 

Sempre nella Relazione 2006 sui "costi sociali" legati all’uso di sostanze illegali in Itali, emerge che è l’eroina la sostanza maggiormente percepita come rischiosa per la propria salute: la considera pericolosa oltre il 95% degli intervistati; al secondo posto la cocaina che, pur attestandosi su valori alti, viene sottovalutata come fattore di rischio dagli intervistati fra i 35 ed i 44 anni. Il fumo di tabacco è considerato pericoloso da oltre l’85% dei soggetti, timore minore tra i soggetti di età compresi tra i 25 ed i 44 anni, in particolare negli anni 2003- 2005.

La cannabis, invece, è percepita come dannosa per la salute solo dal 70% degli intervistati e secondo la relazione "viene considerata sostanza rischiosa da un numero sempre minore di soggetti": secondo l’indagine "diminuisce costantemente il dissenso" tra gli anni 2001, 2003 e 2005: se nel 2001 infatti il 71% dei maschi e l’80% delle donne esprimeva una forte disapprovazione rispetto all’uso di questa sostanza, nel 2005 erano il 64% degli uomini ed il 68% delle donne. A contribuire a questo significativo cambiamento sono in misura maggiore le classi di età più giovani (15-34 anni). "Quasi 5 milioni di italiani avrebbero cambiato opinione nell’arco di soli 4 anni, passando da un’opinione negativa nei confronti dell’uso della cannabis ad una posizione di non esplicita disapprovazione".

 

Cresce numero studenti in cerca di eroina in discoteca

 

Rispetto all’eroina cresce "significativamente" la quota di studenti che individuano la discoteca come luogo dove trovare la sostanza, mentre la strada sembra essere considerata sempre meno adatta all’acquisto di eroina, così come la scuola, che viene percepita come luogo di spaccio di eroina solo da circa il 7% degli studenti.

Per la cocaina, il 29% degli studenti afferma di "poterla trovare facilmente", poco meno della metà degli studenti intervistati individua la casa dello spacciatore il luogo dove trovare la cocaina, passano dal 27% nel 2000 al 41% del 2006 gli studenti intervistati che individuano la discoteca come luogo deputato all’acquisto.

La scuola viene percepita come sede di possibile spaccio di cocaina solo dall’11% degli studenti. Il 70% gli studenti invece non ha dubbi su dove comprare cannabis: la maggior parte degli studenti individua come luogo deputato all’acquisto la strada (si osserva tuttavia un trend in lieve decremento dal 2001 - 52% - ad oggi - 46% -). Dal 2001 diminuiscono anche gli studenti che riferiscono la scuola come il luogo dove trovare cannabis, anche se è ancora segnalata dal 44% degli intervistati.

 

 

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