Rassegna stampa 13 novembre

 

Giustizia: il carcere uccide, la marijuana no

di Andrea Boraschi, Luigi Manconi

 

L’Unità, 13 novembre 2007

 

Aldo Bianzino era un falegname di 44 anni. È morto il 14 ottobre, due giorni dopo il suo arresto, nell’istituto penitenziario Capanne di Perugia. Non era un truffatore, un ladro, un assassino; era una persona mite, Bianzino, che consumava marijuana da lui stesso coltivata. Per questo, per coltivazione e detenzione di canapa indiana, era detenuto in quel carcere. Non ci sarebbe bisogno, in questa storia, di spiegare chi fosse: il fatto che un cittadino muoia in carcere già interpella l’amministrazione penitenziaria e le istituzioni, già esige verifiche scrupolose e riflessioni non di maniera.

Ma, per essere chiari e raccontare, in piccola parte e per quel che si può, anche una vicenda umana, chiariamo che Bianzino non era uno spacciatore (non nel senso corrente del termine, certamente): era, piuttosto, un uomo che aveva deciso di vivere, con la sua famiglia, in un luogo remoto dell’Umbria, in mezzo alla natura; era un musicista e un appassionato di filosofie indiane; era un uomo definitivamente estraneo, per stile di vita e inclinazioni, a qualsivoglia condotta criminosa.

Sulle circostanze della sua morte, su quelle poche ore passate in cella, si addensano dubbi che andranno diradati quanto prima, con scrupolo e rigore. Perché le ipotesi iniziali, che collegavano il decesso a un malanno cardiaco, sembrano smentite da altri dati emersi dai rilievi autoptici: fegato e milza gravemente lesionati, gravi traumi cerebrali (è a questi per il momento, che si imputa la sua morte), due costole fratturate. Sul suo corpo, inoltre, nessuna traccia di ematomi: come se i traumi subiti avessero danneggiato direttamente gli organi interni, senza lasciare lesioni evidenti sull’epidermide.

C’è un avviso di garanzia, allo stato dei fatti, emesso contro l’agente di polizia penitenziaria incaricato, quel giorno e in quel turno, della sorveglianza nell’ala di reclusione di Bianzino. I vicini di cella avrebbero sentito richieste d’aiuto; che, così sostengono e così hanno confermato in un recente incidente probatorio, non sarebbero state raccolte. Bianzino, in altre parole, non sarebbe stato soccorso. Ora si attendono i risultati di una terza autopsia, che saranno disponibili tra qualche giorno e contribuiranno a fare luce su questo caso.

Su cui non c’è bisogno di emettere sentenze premature, di fomentare sospetti o accuse: perché è evidente, sin d’ora, che la prima cosa che le indagini dovranno accertare è l’ipotesi che Bianzino sia deceduto di una morte violenta. La procura perugina ha aperto un fascicolo per omicidio a carico di ignoti. La morte di quel falegname ci consegna però, sin d’ora, tre questioni da affrontare con urgenza. La prima riguarda la responsabilità che lo Stato ha nei confronti della salute e dell’incolumità dei suoi cittadini; e di quella che, in special modo, ha nei confronti dei suoi cittadini limitati nella libertà personale, ristretti, reclusi.

Il carcere, strumento ed emblema della prerogativa sanzionatoria dell’autorità pubblica, deve diventare quanto prima, soprattutto, luogo simbolo di legalità, istituzione modello nell’applicazione scrupolosa della legge. Là dove vivono reclusi coloro che la legge hanno infranto, la legge deve essere osservata e valorizzata in tutta la sua utilità, in tutta la sua equità. E, dunque, non si può permettere che un cittadino detenuto, per giunta ancora non condannato, per giunta ancora non giudicato, muoia tragicamente e in circostanze poco chiare quali quelle descritte.

C’è poi da interrogarsi sull’utilità del carcere per quanti sono rei di consumo di droghe, e di droghe leggere in special modo (fatto salvo che, nel caso di Bianzino, l’ipotesi di piccolo spaccio che ha determinato l’arresto era stata respinta dall’interessato). Su questo punto la nostra prospettiva è semplice ed è quella già enunciata in molte occasioni: legalizzare i derivati della canapa indiana per ridurre i possibili danni del loro abuso, sottoponendoli a un regime di autorizzazioni e controlli, di limiti e imposte, analogo a quello previsto per sostanze perfettamente legali, eppure assai dannose, come l’alcool e il tabacco (lo ha ricordato più volte Gian Luigi Gessa, già presidente della Società italiana di farmacologia e studioso di chiara fama, come "una dipendenza da nicotina sia molto più grave e più difficile da curare di una da marijuana"). Ciò significa, tra le molte cose, non dover rinchiudere in carcere persone innocue come Aldo Bianzino.

E stroncare gran parte del mercato criminale legato agli stupefacenti. Infine, la morte di quell’uomo può segnare uno spartiacque. La storia dell’amministrazione penitenziaria italiana è macchiata da morti di detenuti sulle quali rimangono ombre, sulle quali si poteva e si doveva indagare di più, accertare delle responsabilità, cercare giustizia. Il lavoro e l’impegno delle molte persone che operano nei nostri istituti di pena con passione, e spesso con sacrificio, meritano che al sistema carcerario sia resa integra e indiscutibile la sua onorabilità e la sua trasparenza.

Giustizia: salute mentale, a Roma la I Conferenza regionale

 

Redattore Sociale, 13 novembre 2007

 

Ieri l’incontro nella capitale di operatori, specialisti, utenti, famiglie e volontari. L’occasione per fare il punto in vista della II Conferenza nazionale sulla salute mentale, promossa dal ministero della Salute e fissata per l’aprile del prossimo anno.

Un’intera giornata per fare il punto sulla salute mentale nella Regione Lazio e riaggregare tutte le componenti che operano sul campo, aldilà di ogni seppur valido argomento: questo è stato l’intento con cui l’assessorato alla Sanità della Regione Lazio, in collaborazione con la consulta regionale sulla salute mentale, ha voluto riunire tutti intorno ad un tavolo. Scopo: formulare un piano strategico di interventi che vada ad aggiungersi a quello delle altre regioni per un piano nazionale vincolante per tutti.

In vista della II Conferenza nazionale sulla salute mentale, promossa dal ministero della Salute e fissata per l’aprile del prossimo anno, ogni Regione tramite appositi gruppi di lavoro ha infatti fatto il punto sulle criticità e sui buoni esempi della cura e della presa in carico della persona con problemi di salute mentale: un lavoro di equipe e un approccio multidisciplinare da cui non si può più prescindere.

La conferenza regionale ha voluto innanzitutto promuovere una riflessione partecipata con tutti i protagonisti dell’intero sistema di tutela e di assistenza -relativamente ai temi più rilevanti - ai fini dell’efficacia, della soddisfazione e dell’inclusione sociale, in un spirito propositivo che consenta di superare difficoltà e ritardi sofferti in questi anni da tutti i servizi, con ricadute sugli utenti, sui loro familiari e sugli operatori. "È un’iniziativa fondamentale" spiega la Dott.ssa Pezzi, presidente della consulta regionale sulla salute mentale "per ricavare elementi utili a stabilire il prossimo piano sanitario regionale in tema di salute mentale e per dare proposte al ministero della Salute in vista del piano strategico nazionale e triennale che sarà varato il prossimo anno". Linee di indirizzo, dunque, ma anche proposte operative che possano rappresentare elementi innovativi e costitutivi di un piano strategico regionale. "Chiedo soprattutto" continua la Dott.ssa Pezzi "che in questo processo siano protagoniste anche le famiglie degli utenti; che abbiano titolo a dire come vorrebbero vedere concretizzarsi i servizi".

Contribuire all’evidenziazione dei buoni esempi e delle prassi migliori realizzate sul territorio; riaprire uno spazio di pensiero, di confronto e di elaborazione di contenuti culturali, clinici, sociali e organizzativi propri dei servizi di salute mentale nella comunità; formulare proposte concrete che consentano alleanze tra tutti i protagonisti del sistema di cura e assistenza; stabilire le priorità e promuovere un piano regionale che definisca i bisogni reali; rilanciare infine una specifica attenzione alle politiche per la salute mentale e parallelamente sostenere l’attività e la motivazione degli operatori a tutti i livelli: questi, infine, i punti di confronto determinanti per la Regione Lazio, regione che non ha evitato di misurarsi con il mondo della salute mentale e che ha saputo cogliere tutte le opportunità di incontro. "La conferenza" ha dichiarato l’assessore alla Sanità del Lazio, Augusto Battaglia, "è stata una grande occasione di confronto e di lavoro: ne trarremo sicuramente una sintesi che sarà parte significativa del nuovo piano sanitario regionale e questo ci consentirà di sviluppare una nuova fase di sviluppo di servizi".

L’organizzazione di questa I conferenza regionale sulla salute mentale, infatti, ha avuto questo merito: far incontrare Istituzioni ed esperti, utenti e volontariato, famiglie ed operatori in un unico momento, riaprendo un dibattito partecipato e promuovendo un movimento culturale di idee e sperimentazioni territoriali. "Migliorare la rete territoriale e garantire continuità assistenziale sono i punti da cui partire" chiude l’assessore "intercettando parimenti i nuovi bisogni e i nuovi disagi che caratterizzano le nostre comunità locali".

Giustizia: salute mentale, ripartire dalle persone in carcere

 

Redattore Sociale, 13 novembre 2007

 

Nel vasto panorama di interventi, la I conferenza regionale sulla salute mentale del Lazio ha puntato l’occhio anche sul tema del rapporto tra migranti e salute e sul difficile approccio alla cura che si evidenzia nel pianeta carceri.

È di Fabio Gui, dell’Ufficio del Garante regionale dei detenuti, l’intervento su "La salute mentale in carcere e il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari", proposto nella sessione pomeridiana della I Conferenza Regionale sulla salute mentale, organizzata e promossa dall’assessorato alla Sanità della Regione Lazio. Ripartire dai bisogni della persona in carcere, riappropriandosi di alcuni principi e dei tanti diritti sanciti e riconosciuti dalla Carta costituzionale, è l’obiettivo messo a fuoco dall’intervento.

Se infatti è vero che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" (art. 27, n.d.r.), che "la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti" (art. 32, n.d.r.) e che "tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali" (art. 3 e seguenti, n.d.r.), allora è necessario soffermarsi attentamente sul delicato tema della salute mentale in carcere.

Al novembre di quest’anno (dati Dap), si contavano nelle carceri italiane oltre 46 mila detenuti, a fronte di una capienza massima di 43 mila. Anche nelle carceri laziali, dove i detenuti arrivano a quota 4800, la capienza è superata di circa duecento persone. Nella Regione Lazio, oltre ad un istituto specifico per i reati minorili, sono infatti presenti ben 14 istituti detentivi: in tutti l’ospite "tipo" è tossicodipendente, o anziano, o immigrato, o appunto minore.

"Perché" si chiede il Dott. Gui "in carcere possono esplodere crisi mentali?". Perché tutto, dentro il carcere, è legato alla domandina, a quel foglio di carta con cui si chiede tutto da dietro le sbarre: un cambio di biancheria, un libro, una visita con i familiari o l’incontro con l’avvocato. La convivenza forzata e l’isolamento vanno ad aggiungersi ad uno stato emotivo fragile - quello del detenuto - che spesso sfoga la sua definitiva condanna nell’autolesionismo. "Negli ultimi otto anni" conclude Gui "nelle carceri italiane si sono consumati ben quattromila suicidi a fronte di una percentuale di sanità mentale, prima dell’entrata in carcere, dell’87%". La soluzione è riportare la tematica carcere e salute mentale negli atti aziendali delle aziende sanitarie e ospedaliere, nonché nelle politiche sanitarie regionali e nazionali. "Quello che si aspetta veramente" conclude Gui "è la riforma della sanità penitenziaria, già parzialmente sancita nel D.Lgs. 230/99 che apre le porte al principio di parità di trattamento", dentro e fuori dal carcere.

Criticità e preoccupazione sono emersi anche in merito al focus "Gli approcci transculturali e la salute mentale dei migranti" proposto dal Dott. Colosimo della Asl Rm C. "Anche in questo campo" sottolinea lo specialista "c’è innanzitutto un problema culturale di approccio e cura". La scarsa conoscenza di percorsi sanitari possibili e la difficoltà culturale e linguistica aprono un varco tra migranti e accesso alla salute.

Dai dati Asp 2006 (Agenzia sanità pubblica, n.d.r), emerge che solo il 3,1% dei migranti presenti in Italia ha fatto richiesta di accesso alle cure dei Dipartimenti di salute mentale. La stessa percentuale si registra per gli accessi alla medicina di base. Tante e numerose, invece, sono le urgenze: la salute in generale e la salute mentale in particolare sono sempre "emergenziali" se riguardano la popolazione straniera residente del nostro paese.

Per affrontare le diverse criticità, dalla diversa concezione della malattia e dei percorsi di cura alla poca mediazione e al drop out, quattro sono le proposte di rilancio formulate. "Un’attenta formazione del personale" conclude Colosimo "congiuntamente ad una appropriata lettura dei bisogni e dei servizi, fino ad un approccio multidisciplinare e di rete sono le linee di intervento che noi portiamo all’attenzione delle Istituzioni". Partendo dagli individui, dunque, dalle persone con i loro specifici bisogni, ma anche scommettendo sulle Asl e sulla loro capacità di istituire referenti ad hoc e un valido servizio di orientamento ai servizi, è possibile affrontare temi che più che tematiche di discussione sono vere e proprie sfide del XXI secolo.

Giustizia: Uepe; gli assistenti sociali polemizzano con il Dap

 

Redattore Sociale, 13 novembre 2007

 

Oggetto della polemica è l’utilizzo della polizia penitenziaria nel controllo dei sottoposti alle misure alternative al carcere, dopo la partenza della sperimentazione che vede coinvolti un centinaio di agenti in diverse città italiane.

Gli assistenti sociali che lavorano nel settore della giustizia polemizzano con il capo del Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Ettore Ferrara. Oggetto della polemica è l’utilizzo della polizia penitenziaria nel controllo dei sottoposti alle misure alternative al carcere. È in corso infatti una sperimentazione, che vedrà coinvolti un centinaio di appartenenti alla polizia penitenziaria in diverse città e province, nel controllo dei sottoposti alle misure alternative.

Questo esperimento, aveva dichiarato Ferrara, dovrebbe far aumentare la concessione da parte dei Magistrati di Sorveglianza delle stesse misure alternative. Ma è proprio su questa linea e su un’affermazione che avrebbe fatto Ferrara nel corso di un convegno che gli assistenti sociali dissentono. "Abbiamo avuto modo di sentire dire a Ferrara - scrive Anna Muschitiello a nome del coordinamento nazionale degli assistenti sociali - che il ricorso alle misure alternative da parte dei Magistrati è limitato, perché esse sono considerate: "non pena".

Un’affermazione di questo genere, pronunciata soprattutto dal Capo del Dap, non può che lasciare amareggiati, perché fa un torto al duro e difficile lavoro che da oltre 30 anni, quotidianamente svolgono tutti gli operatori impegnati nella concessione/gestione delle suddette misure e che non sono solo gli assistenti sociali, ma anche: i Magistrati di Sorveglianza, gl’impiegati dei Tribunali di Sorveglianza, le Forze dell’ordine, il volontariato, i servizi territoriali, ecc. e soprattutto fa un torto alle migliaia di persone, sottoposte, attualmente, o che sono state sottoposte in passato, a queste misure, impegnate a conciliare responsabilmente la propria vita con le limitazioni della libertà, imposte loro.

Secondo gli assistenti sociali, confermare questa impostazione non aiuta a far crescere nell’opinione pubblica l’idea che il carcere non rappresenta l’unica risposta punitiva possibile e che una differenziazione di sanzioni possa addirittura essere più efficace. Per questo è anche pericoloso imboccare delle scorciatoie.

"Si è proprio sicuri - si domanda ancora Muschitiello - che introducendo la polizia penitenziaria nel controllo delle misure alternative, queste ultime aumenteranno? I Magistrati di Sorveglianza potranno concedere più misure alternative in presenza di una legislazione, come l’attuale, che riduce sensibilmente l’ammissibilità alle stesse?".

È ovvio dunque che i problemi non si possono affrontare a compartimenti stagni. Una delle questioni in campo, per esempio, è che non si può lasciare invariata la legge cosiddetta "Cirielli", che limita sensibilmente l’accesso alle misure alternative dei soggetti recidivi. Ma la domanda centrale, che sta a cuore al coordinamento degli assistenti sociali riguarda direttamente il ruolo di queste figure professionali.

"Se le misure alternative hanno avuto nei 32 anni della loro applicazione risultati positivi sulla recidiva, con il solo intervento del servizio sociale, come risulta da una ricerca commissionata dallo stesso Dap, perché cambiare? Come si pensa di far diminuire la popolazione detenuta se più della metà di essa è in custodia cautelare, quindi non può beneficiare di misure alternative?"

Il discorso si lega poi inevitabilmente alle risorse e alle scelte di fondo. Servono investimenti consistenti se si crede davvero nella linea delle misure alternative. E serve dare fiducia a una figura professionale come l’assistente sociale che in questi anni ha lavorato appunto per far crescere la cultura delle misure alternative. "Riteniamo quindi - conclude Anna Muschitiello - che se crediamo nelle misure alternative, si debba chiedere, piuttosto, di potenziare il lavoro degli operatori sociali, pensando a come farli integrare con le altre risorse del territorio, comprese quelle deputate al controllo".

Giustizia: su area pena esterna, un’altra occasione persa!

 

Blog di Solidarietà, 13 novembre 2007

 

Stanno pervenendo dagli assistenti sociali degli Uepe di tutt’Italia numerose segnalazioni e dichiarazioni di protesta in merito al Convegno organizzato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che si terrà dal 15 al 16.11.2007 a Roma presso l’Istituto Superiore : "Una nuova politica della pena: quale progetto per l’esecuzione penale esterna". Convegno che vedrà la partecipazione del Ministro della Giustizia.

Iniziativa, vagamente annunciata, dal Consigliere Turrini Vita in occasione della Conferenza nazionale degli Uepe, organizzata il 7.11.2007 dall’Ordine Nazionale degli Assistenti Sociali.

Da più parti ci sono giunte le seguenti segnalazioni: "Qualcuno mi può dire qual è il programma del Convegno del Dap Una nuova politica della pena: quale progetto per l’esecuzione penale esterna? Non vi è traccia, neanche nei siti istituzionali". "Organizzazione di un Convegno, che anziché coinvolgere, esclude". "L’Amministrazione, anziché superare il rischio di contrapposizioni con dichiarazioni e iniziative pubbliche di un certo tipo, tende ad alimentarle". "Con le loro scelte i Vertici dell’Amministrazione, anziché valorizzare l’immagine di tutti i dipendenti e dei loro ruoli professionali, ne valorizza una parte a discapito delle altre".

Sono stati esclusi dalla partecipazione del Convegno gli assistenti sociali. Sono stati invitati, a spese dell’Amministrazione, solo i Direttori degli Uepe. Si è saputo, durante la Conferenza sugli Uepe organizzata dall’Ordine nazionale assistenti sociali, che inizialmente, a tale convegno doveva partecipare un Direttore e un assistente sociale per Uepe, all’improvviso è stato escluso l’assistente sociale.

Occasione mancata. Gli assistenti sociali, da mesi, chiedono all’Amministrazione Penitenziaria di riflettere proprio sul tema di tale Convegno ed invece, all’improvviso e ancora oggi in modo non ufficiale, "sbuca" un Convegno che, senza un coinvolgimento alcuno degli assistenti sociali . Non si dica poi che l’aver inserito magari un solo intervento di un capoarea di servizio sociale sia rappresentativo di tutte le posizioni degli altri assistenti sociali.

Ho sentito diversi colleghi. In quasi tutti gli Uepe, i Direttori si stanno organizzando per la partecipazione a tale Convegno, senza ritenere opportuno informare il personale sull’iniziativa né tantomeno mettere in bacheca il programma.

Si è organizzato un Convegno che sembra imporre un "pensiero" unilaterale, vista la scelta dei relatori, quando in merito alle Riforme dell’Amministrazione Penitenziaria sono ancora in corso consultazioni sindacali. Quello che sta accadendo è grave, spero intervengano i sindacati, anche quelli che appoggiano il progetto di inserimento della polizia penitenziaria negli Uepe. Questa è la dimostrazione che la mobilitazione degli assistenti sociali è più che motivata.

Leggendo i vari interventi pubblicati in questi mesi emerge come gli assistenti sociali siano disponibili ad una soluzione alternativa quando, nei loro numerosi documenti, affermano di essere disponibili a non contrastare l’istituzione di un servizio di polizia penitenziaria esterno agli Uepe, per le verifiche delle misure alternative della semilibertà e detenzione domiciliare e dei lavoranti all’esterno.

Perché, a questo punto, non si percorre questa strada? Il Comitato di solidarietà assistenti sociali, dando voce alla mobilitazione degli assistenti sociali della giustizia, auspica che prevalga, in chi esercita il "potere" decisionale, la ragione e il buon senso. Rispetto al progetto di istituire un nucleo di polizia penitenziaria con compiti di controllo sulle misure alternative si percorra, se è irrevocabile la decisione, la strada che determinerà la minore contrapposizione delle posizioni.

Se si leggono con attenzione i vari documenti prodotti in questi mesi dagli assistenti sociali degli Uepe, si trova la soluzione. Si proceda a questo punto verso una reale valorizzazione dell’area dell’esecuzione penale esterna e dell’intera area trattamentale prevedendo un visibile cambio di rotta attraverso investimenti già in finanziaria. Si presenti all’esterno, all’opinione pubblica, l’attività svolta in questi anni con sacrificio e impegno dagli Uepe anche come un’importante ed efficace risposta alla richiesta di sicurezza dei cittadini.

Si presenti già oggi la misura alternativa come pena a tutti gli effetti, altrimenti i messaggi che si lanciano, tesi a rassicurare rispetto ad un loro maggiore utilizzo, non saranno compresi dai cittadini. Non si strumentalizzino le paure dei cittadini. Una pena certa è anche quella pena che permette alla persona che l’ha scontata di non ricommettere nuovi reati.

Giustizia: il ministro Bindi; mai più bambini dietro le sbarre

 

Apcom, 13 novembre 2007

 

 

"Bisogna giungere al più presto all’approvazione della proposta di legge che prevede misure alternative al carcere per le madri detenute, perché è inaccettabile che i bambini trascorrano un periodo fondamentale della loro vita in cella e con limiti di spazio intorno". Lo sostiene il ministro della Famiglia, Rosy Bindi, secondo la quale "l’allarme lanciato oggi dal garante dei diritti dei detenuti del Lazio non deve restare inascoltato".

Bindi cita proprio il caso della sezione femminile del carcere romano di Rebibbia, dove si fanno i conti con "condizioni di sovraffollamento". "Questi piccoli - commenta - stanno pagando un prezzo altissimo senza avere nessuna colpa. Per questo, in attesa della legge in discussione in Parlamento, vanno applicate senza esitazioni le norme che prevedono già dei benefici per le madri detenute, incentivando e rafforzando la soluzione delle case famiglia protette per le molte donne che provengono da situazioni abitative e familiari caratterizzate dal disagio, come tossicodipendenti, nomadi e immigrate, che costituiscono la maggioranza della popolazione carceraria femminile". "In uno Stato davvero civile la soglia del carcere non deve essere più varcata da nessun bambino, a prescindere dalle responsabilità penali dei genitori", conclude Bindi.

Bollate: curiamo i sex-offenders per evitare ulteriori crimini

 

Il Giornale, 13 novembre 2007

 

Sesto reparto del carcere di Bollate. Dietro le sbarre sedici esperti lavorano per offrire una possibilità di recupero a quei detenuti rinnegati dagli stessi carcerati, quelli che ogni giorno rischiano di essere picchiati, perché "infami". Dal settembre 2005 è nata l’Unità di trattamento intensificato, il primo tentativo nelle carceri italiane di trattamento e presa in cura di pedofili, finora già un’ottantina. "Il nostro obiettivo - spiega il criminologo Paolo Giulini - è il recupero della persona in modo da evitare che, una volta scontata la pena, non cada di nuovo negli stessi errori". Per combattere la recidiva, l’equipe di Giulini si affida ad un trattamento psico-socio-educativo.

Lunedì mattina, i 19 detenuti che quest’anno sono stati selezionati per aderire al progetto, partecipano al gruppo sul lavoro, il martedì a quello sulle abilità sociali. Per ogni giorno della settimana, un gruppo diverso. Mercoledì quello più impegnativo. La mattina i detenuti sanno che dovranno affrontare l’impegno maggiore: il gruppo di lavoro sulla recidiva.

"Ci impegniamo - spiega lo psicologo Lorenzo Pivanti - sull’individuazione dei precursori dell’atto di violenza". Alla base la teoria del ciclo dell’aggressione, cioè la convinzione che ogni evento scatena delle emozioni. "Ecco, noi vogliamo che nella mente del pedofilo scattino dei campanelli d’allarme quando avverte determinate emozioni. Dei campanelli che lo inducano a chiedere aiuto, anziché tornare a delinquere".

L’onorevole Daniela Santanché non vuole sentirne parlare. Lei non ci crede: "Secondo la mia opinione personale l’unica soluzione è la castrazione chimica". Lo ha detto ieri mattina, durante la presentazione del libro "Una ferita aperta", scritto a quattro mani dagli psicoterapeuti Renzo Rocca e Giorgio Stendoro.

Il protagonista è Gianni, un ragazzo di 13 anni, vittima delle violenze di Paolo, improvvisato compagno della madre Elisabetta. "Con questo romanzo - raccontano gli autori - ci siamo proposti di catalizzare l’attenzione dei lettori su un problema che spesso in pochi vogliono vedere".

"Il pedofilo è recidivo nel 98 per cento dei casi - ha precisato l’onorevole di La Destra -. Abbandoniamo il buonismo, dobbiamo smetterla di essere indulgenti e di fare gli struzzi: su questo tema bisogna essere spietati e un po’ crudeli". Secca la risposta di don Gino Rigoldi, il presidente di Comunità Nuova: "Non è con la vendetta che si risolvono i problemi.

Non si diventa pedofili ad un certo punto, ma è una cosa che comincia molto prima, dall’infanzia". Non vuole essere tacciato di buonismo don Rigoldi, però è convinto che "i pedofili vadano curati". E la castrazione chimica? "Questa non è il modo giusto. E poi diversi studi dimostrano che questo intervento li rende più aggressivi e quindi ancora pericolosi". Secondo Giulini il problema più grande riguarda i pedofili che negano di aver commesso il reato. "In tanti si dicono innocenti, vittime di complotti. Ma anche questo aspetto si può superare: quest’anno su nove con problemi di negazione ne sono rimasti solo tre".

Cosenza: parte il progetto "Cielo", in favore dei detenuti

 

Agi, 13 novembre 2007

 

La Giunta comunale di Rossano ha approvato una proposta di protocollo d’intesa da sottoscrivere tra il Comune e l’Ufficio esecuzione penale esterna di Cosenza e la casa circondariale di Rossano, per l’attuazione del progetto "Cielo", Convenzioni integrate enti locali. Il progetto intende perseguire la risoluzione delle problematiche inerenti lo specifico settore dei detenuti, degli ex detenuti, dei condannati in esecuzione penale esterna al fine di assicurare e promuovere il loro reinserimento sociale e lavorativo ed anche quello dei loro familiari. Il progetto aderisce alla legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e di servizi sociali e alla legge regionale di recepimento aventi ad oggetto accordi di programma con le Regioni e i Comuni per lo sviluppo di azioni comuni, progetti, opere e servizi penitenziari. "Con tale progetto - si evidenzia in una nota - l’Amministrazione comunale guidata dal sindaco Filareto vuole perseguire il recupero ed il reinserimento sociale di persone coinvolte in attività criminose, attraverso la partecipazione integrata e sinergica fra le istituzioni e attraverso la collaborazione tra istituti, associazioni, enti religiosi e organizzazioni di volontariato sul territorio".

Brescia: una manifestazione in ricordo di Giancarlo Zappa

 

Giornale di Brescia, 13 novembre 2007

 

Il Comune ricorda oggi il compianto Giancarlo Zappa, scomparso il 10 febbraio 2004. Nato a Lodrino nel 1930, Zappa è stato dal 1978 al 1997 - anno in cui ha lasciato il servizio - presidente del Tribunale di Sorveglianza di Brescia. Molteplici gli incarichi affidatigli a livello nazionale: ha partecipato al gruppo di lavoro che produsse la Legge Gozzini (1986). Ha contribuito anche alla nascita dell’Associazione di volontariato "Carcere e Territorio", della quale è stato presidente fino alla scomparsa. Le sue condizioni di salute lo hanno portato, due anni prima della morte, a presentare le dimissioni dalla carica di Presidente dell’associazione, atto che fu unanimemente respinto dal consiglio.

La giornata si aprirà con la scopertura della targa nella nuova via dedicata a Zappa (da via Arici, sulla destra dopo via Ugoletti) da parte di Monica Lazzaroni, magistrato del Tribunale di sorveglianza e di Beppe Bergamini, in rappresentanza dei volontari in carcere, del gruppo Fraternità di Ospitaletto. Don Adriano Santus, cappellano a Canton Mombello, impartirà la benedizione. Conclude la cerimonia l’intervento della presidente del consiglio comunale Laura Castelletti.

Alle 17 prenderà il via il convegno nel salone Vanvitelliano presieduto da Mario Fappani, garante dei diritti dei detenuti, e introdotto da Paolo Corsini. Interverranno l’onorevole Mino Martinazzoli, Monica Lazzaroni, Luigi Pagano (direttore Pra), Carlo Alberto Romano (presidente di "Carcere e Territorio"), Angelo Canori (presidente Vol.Ca), Giuseppe Pezzotti (dirigente Cooperative Sociali), Vasco Ferretti (compagno degli anni di liceo). Alessandro Margara interverrà poi su "Pena e misure alternative". A conclusione il vice sindaco Luigi Morgano, consegnerà a Loredana Zappa, vedova dello scomparso, la Vittoria Alata, simbolo della città di Brescia, in ricordo e ringraziamento per la preziosa attività svolta.

Immigrazione: accordo su quattro emendamenti al decreto

 

Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2007

 

Accordo praticamente fatto tra i ministri Amato e Ferrero su 4 emendamenti al decreto-espulsioni. La prima, per tipizzare i "motivi imperativi di pubblica sicurezza" che fanno scattare l’espulsione (quando, in base a "specifici" elementi di fatto lo straniero ha leso o ha creato un "concreto, attuale e grave" pericolo per la tutela della dignità umana o dei diritti fondamentali della persona o per l’incolumità pubblica, rendendo la sua permanenza incompatibile con la "civile e sicura" convivenza); la seconda, per trasferire dal giudice di pace al giudice ordinario la competenza sulla convalida dell’espulsione (come già prevede il Ddl delega sull’immigrazione); la terza, per rilanciare la "legge Mancino" (modificata nel 2006 dal Governo Berlusconi), ripristinando il carcere fino a 3 anni per chi diffonde idee sulla superiorità, l’odio razziale o etnico, e fino a 4 anni per chi incita o compie atti discriminatori (come peraltro già prevede il Ddl Mastella - Pollastrini varato dal Governo a gennaio 2007); infine, per dare allo straniero un termine minimo (10 giorni) per opporsi all’allontanamento, anche quando sia disposto in casi di "comprovata urgenza".

Immigrazione: aperti i "flussi" 2007, 170mila nuovi ingressi

 

Ansa, 13 novembre 2007

 

Saranno 170 mila i lavoratori immigrati che quest’anno potranno entrare in Italia. È quanto è stato deciso dal Governo che ha fissato il nuovo tetto d’ingressi in un decreto già firmato e che attende la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Tra le novità più importanti previste per quest’anno la nuova procedura di presentazione delle domande da parte del datore di lavoro, queste potranno essere inviate anche on-line tramite internet evitando così inutili file agli uffici postali. Un ruolo importante per l’accesso alle quote è stato conferito dal decreto ai patronati, sindacati ed associazioni come le Acli e le Arci.

La nuova procedura di invio delle domande è stata definita "fortemente innovativa e completamente informatizzata", ogni datore di lavoro potrà compilare direttamente la domanda dal proprio computer e quindi inviarla on-line allo Sportello unico competente.

Le domande in formato digitale dovranno essere inoltrate telematicamente nei termini indicati dal decreto e seguendo criteri di scaglionamento che prevedono l’invio "a partire dal quindicesimo giorno successivo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale per le istanze relative ai lavoratori delle nazioni che hanno sottoscritto specifici accordi di cooperazione in materia migratoria; a partire dal diciottesimo giorno successivo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale per le domande relative ai lavoratori domestici e di assistenza alla persona; a partire dal ventunesimo giorno successivo la pubblicazione in gazzetta ufficiale per le domande relative a tutti i restanti lavori".

Droghe: Turco; se non cambierà la legge niente narco-sale

 

Notiziario Aduc, 13 novembre 2007

 

No alle narco-sale dove i tossicodipendenti arrivano già muniti di droga. Lo dice il ministro della Salute, Livia Turco, scrivendo al sindaco di Torino Sergio Chiamparino.

Questo il testo della missiva: "Voglio subito dirti che condivido pienamente lo spirito della proposta di sperimentazione delle cosiddette "narco-sale", che mi hai comunicato nella tua lettera del 30 ottobre. Ritengo anch’io, infatti, che l’iniziativa potrebbe offrire un valido supporto alle azioni di prevenzione e di contrasto dell’uso di sostanze stupefacenti, nell’ambito delle strategie di riduzione del danno.

Ho sottoposto, pertanto, la questione ai competenti uffici tecnici del Ministero, chiedendo loro di fare una prima valutazione, finalizzata a individuare un possibile percorso per l’avvio di un progetto sperimentale.

Le risposte che ho ricevuto mi segnalano che l’attivazione di una sperimentazione nel senso proposto richiede comunque un intervento di livello legislativo, che - mediante un’apposita disciplina derogatoria rispetto alle previsioni del Testo unico sugli stupefacenti (D.P.R. 309/1990), come recentemente modificato dalla legge Fini-Giovanardi (Legge 49/1996) - ponga sia i tossicodipendenti, sia gli operatori sanitari coinvolti nella sperimentazione stessa al riparo dal rischio di irrogazione delle sanzioni previste dalla norme vigenti e consenta di mantenere l’iniziativa in un ambito di sostanziale rispetto degli impegni che lo Stato ha assunto con le convenzioni internazionali in materia di stupefacenti.

Sono certa che anche Tu, come me, avresti serie perplessità nel realizzare una sperimentazione incentrata sul consumo, in locali controllati, di eroina acquisita dai tossicodipendenti sul mercato illecito e da loro stessi portata nella sala di somministrazione.

Infatti, benché questa fattispecie, come è noto, sia quella già realizzata nelle esperienze di altri Stati, appare difficile superare il disagio che la stessa suscita, sia perché non è idonea a scalfire l’illegalità del mercato delle sostanze, sia perché rende più difficile un efficace controllo sulla quantità e, soprattutto sulla qualità degli stupefacenti assunti, con maggiori rischi per i tossicodipendenti.

Ritengo senz’altro più utile, sotto il profilo sanitario, una sperimentazione - certo più ardua e complessa ma anche ben più significativa - che affidi a personale sanitario specializzato il compito di consegnare in modo controllato l’eroina e poi assistere e monitorare nel tempo il tossicodipendente.

L’impatto di questa soluzione sulla normativa vigente, peraltro, è assai più pesante, a cominciare dalla individuazione delle modalità con cui la struttura sanitaria viene a disporre della sostanza stupefacente. Ma credo che l’importanza della posta in gioco giustifichi un forte impegno da parte delle istituzioni.

Per procedere concretamente sul terreno della fattibilità, si potrebbe istituire un gruppo di lavoro misto fra i tecnici del Ministero e quelli del Comune di Torino e della Regione, che, anche con il sostegno tecnico dell’Istituto Superiore di Sanità, possa, dopo aver approfondito le esperienze straniere, individuare le linee essenziali di una possibile proposta di disciplina della sperimentazione, da sottoporre al legislatore".

 

Dichiarazione dei promotori della petizione per l’istituzione di una narco-sala a Torino (Domenico Massano/Associazione Radicale Adelaide Aglietta - Alessandro Orsi/Malega9 Produzioni - Franco Cantù/Forum Droghe): "Siamo profondamente delusi da una situazione che avevamo ampiamente previsto ma che ci auguravamo non si realizzasse: il gioco dello scaricabarile ha funzionato, la narco-sala non si farà… ma la responsabilità non è di nessuno. La narco-sala provoca "disagio" al nostro Sindaco ed alla nostra Ministra, questa è la ragione "scientifica" alla base del no alla narco-sala. Per la possibilità della sperimentazione del trattamento con eroina serve la modifica della normativa: visto il contesto politico (il centrosinistra non è neppure riuscito ad abrogare la "Fini-Giovanardi"!) … campa cavallo!

Sembra che le 70 narco-sale europee spaventino il nostro sindaco ed il nostro ministro; secondo loro, è pericoloso per un operatore sanitario assistere un tossicodipendente che si inietta sostanze di cui non conosce contenuto e quantità… meglio che sia la strada e lo spacciatore ad assisterlo. Meglio abbandonarlo a se stesso, in perfetto stile pilatesco, nascondendosi dietro il "meglio che è nemico del bene".

Alle volte un po’ di buon senso sarebbe sufficiente per la salvaguardia della vita e della dignità delle persone. Si è persa una nuova occasione per dimostrare coraggio e responsabilità nell’affrontare il fenomeno della tossicodipendenza. Si è persa una nuova occasione per dimostrare che non si vogliono chiudere gli occhi di fronte alla sofferenza delle persone, in attesa di un mondo migliore. Si è persa una nuova occasione per dimostrare civiltà e rispetto dei diritti di tutti, nessuno escluso. Naturalmente, continueremo a seguire l’iter della nostra petizione popolare in Consiglio Comunale, fino in fondo".

 

 

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