Rassegna stampa 14 novembre

 

Roma: detenuto di 24 anni muore di overdose a Rebibbia

 

Ristretti Orizzonti, 14 novembre 2007

 

Overdose di eroina nel carcere di Rebibbia. Morto un detenuto italiano di 24 anni. Un altro recluso soccorso al "Sandro Pertini" e già tornato in carcere. il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni: "episodio gravissimo. bisogna accertare immediatamente come sia possibile che lo stupefacente entri con estrema facilità in un carcere".

Un giovane detenuto italiano di 24 anni, Mirko Volpicelli, è morto per una overdose di eroina nel carcere Rebibbia Nuovo Complesso di Roma. Lo rende noto il Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti Angiolo Marroni. La vittima, insieme ad un altro detenuto, sempre in overdose, sono stati immediatamente trasferiti al Pronto Soccorso dell’ospedale "Sandro Pertini". Mirko è morto in ospedale; l’altro detenuto, dopo essere stato sottoposto alle cure del caso, è tornato in carcere. L’episodio è avvenuto domenica scorsa.

Il giovane era entrato in carcere lo scorso mese di agosto dopo essere stato condannato, in primo grado, per furto. La sua pena sarebbe terminata a marzo 2008. Il giovane era ospitato all’interno del braccio G 9 del carcere romano, come l’altro detenuto coinvolto nella vicenda. A quanto risulta al Garante, il giovane non si era dichiarato tossicodipendente al momento dell’ingresso in carcere e, dunque, non era in carico al Ser.T..

Sabato scorso Mirko e l’altro recluso coinvolto avevano avuto regolarmente colloqui con i familiari. Dopo quanto accaduto, gli agenti di polizia penitenziaria hanno sequestrato altro stupefacente nelle celle delle persone coinvolte. La direzione del carcere ha avviato un’indagine interna per cercare di capire, fra l’altro, come sia stato possibile far arrivare droga in carcere. "Giudico gravissimo quanto accaduto - ha detto il Garante dei Diritti dei Detenuti Angiolo Marroni - Ritengo che le autorità penitenziarie e la magistratura debbano impegnarsi per capire come la droga possa essere entrata in carcere".

Giustizia: perché la "tolleranza zero" non serve

di Dante Pomponi (Assessore alle Politiche per le Periferie del Comune di Roma)

 

Aprile on-line, 14 novembre 2007

 

Le politiche di accoglienza sono l’unica alternativa a quelle repressive della destra e devono caratterizzare quel nuovo soggetto unitario della sinistra che voglia rispondere, secondo giustizia e diritto, alla sfida della convivenza. Perciò il pacchetto, in discussione nelle prossime settimane in Parlamento, dovrà essere modificato secondo questa aspirazione.

Gli avvenimenti di queste settimane ci dimostrano, ancora una volta, che la tolleranza zero produce disastri culturali e sociali, senza peraltro placare né il bisogno reale né quello percepito di sicurezza.

Se il Parlamento modificherà il decreto del governo sulle espulsione dei comunitari, riconducendolo al rispetto delle pre-regole dello stato di diritto, potremmo salutare tale notizia come una parziale vittoria di una idea di giustizia conforme al dettato costituzionale. Ma se pure la sinistra, intellettuale, dell’associazionismo ed istituzionale, riuscirà ad arginare la deriva delle espulsioni di massa, dimostrando che con posizioni unitarie può fortemente influenzare le scelte del governo, tuttavia i pericoli di politiche legislative securitarie, emergenziali (e di destra) continueranno a persistere.

Il pacchetto sicurezza sarà discusso nelle prossime settimane in Parlamento ed in quella sede si misurerà la nostra capacità di ricondurre l’attuale maggioranza a scelte coraggiose (e di sinistra) che sappiano garantire maggiore sicurezza urbana investendo nella sicurezza sociale. Le politiche di accoglienza rappresentano l’unica vera alternativa alle politiche repressive della destra e devono costituire l’elemento fondativo del nuovo soggetto unitario della sinistra.

Per questo motivo ritengo, ad esempio, che se si ritiene di volere ampliare i poteri dei sindaci, come previsto in uno dei disegni di legge contenuti nel pacchetto sicurezza, ciò dovrebbe riguardare esclusivamente gli interventi volti alla soluzione delle emergenze sociali, come il diritto alla casa e all’inclusione sociale. Si potrebbero allora incrementare gli strumenti attuativi dei piani di riqualificazione urbana, per portare nelle periferie illuminazioni, trasporti pubblici, servizi sociali, ampliare aree verdi, costruire piazze.

Gli enti locali si devono occupare della buona amministrazione e delle politiche sociali, la commistione dei ruoli non serve, ci allontana soltanto dalla soluzione dei problemi.

Il pacchetto sicurezza sembra, invece, andare proprio in questa direzione, delineando pericolose sovrapposizioni di competenze tra sindaci, prefetti, questori, forze dell’ordine, come se il nostro sistema non fosse già complesso. Il rischio è che i sindaci, invece di occuparsi di anziani, giovani, mobilità, inclusione sociale, saranno indotti da motivi di ricerca del consenso a giocarsi la partita inventandosi nuovi strumenti di lotta al disordine urbano.

Dobbiamo contrastare questa deriva securitaria, populista e anticostituzionale. Ma per vincere questa battaglia vi è bisogno di un forte investimento culturale, che sappia contrastare la disinformazione dei media e di parte della politica che professano l’odio e la criminalizzazione delle fasce deboli. Una disinformazione che alza un polverone sui comportamenti non omologabili (dai writers ai lavavetri) e che forvia l’attenzione pubblica e delle autorità preposte alla prevenzione e alla repressione del crimine.

Non è un caso allora se in carcere, come effetto delle politiche emergenziali susseguitesi negli anni, i detenuti per reati di mafia sono solo il 2,5 per cento del totale e quelli per reati contro la pubblica amministrazione il 3,5 per cento. Non è dunque mettendo al bando i senegalesi che vendono le borse contraffatte, o prevedendo tre anni di carcere per i rumeni espulsi che fanno reingresso sul territorio dello stato che si risolvono i problemi di sicurezza sociale che affliggono le nostre comunità.

Per questa ragione, come amministratore, ritengo che dobbiamo ripartire valorizzando il ruolo e il peso dei comitati di quartiere, delle associazioni, della partecipazione nelle decisioni che interessano l’amministrazione della cosa pubblica. A partire dalle scelte di come investire il denaro pubblico, come scrivere il prossimo bilancio degli enti locali.

Una città caratterizzata dalla partecipazione diretta e consapevole, dall’incontro interculturale, sociale, religioso, soprattutto tra generazioni diverse. Una città che detti l’agenda della politica, un’amministrazione che sappia ascoltare attraverso un confronto diretto con i cittadini sui valori, che sappia rispondere al conflitto socio-culturale in atto in maniera decisa. Un confronto partecipato che parta dalle periferie, incontrando il popolo che le abita e le vive, che è fatto anche di migranti e di rom. Io lo sto facendo. È un viaggio faticoso, ma soprattutto stimolante.

Giustizia: documento finale della Conferenza nazionale Uepe

 

Blog di Solidarietà, 14 novembre 2007

 

Ordine Nazionale Assistenti Sociali

Roma, 13 novembre 2007. Prot. n. 2782/2007

Oggetto: Comunicato finale della Conferenza Nazionale Uepe del 7 novembre 2007

 

Il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali, proseguendo nelle iniziative intraprese da alcuni mesi per richiamare l’attenzione sulla complessa questione scaturita dai progetti di riforma delle misure alternative alla detenzione, e del ruolo svolto in tale ambito dal servizio sociale, ha organizzato una Conferenza nazionale, tenutasi a Roma il 7 novembre 2007 presso il Centro Congressi Cavour, su "Le misure alternative alla detenzione tra proposte di riforma e istanze di sicurezza", cui è seguita la tavola rotonda su "Prospettive e sviluppo del servizio sociale nelle misure alternative alla detenzione".

Tale iniziativa ha rappresentato un evento di evidente risonanza esterna, cui hanno partecipato assistenti sociali degli Uepe delle diverse regioni, il Coordinamento degli Assistenti Sociali della Giustizia, rappresentanti degli Ordini Regionali, dirigenti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, magistrati di sorveglianza, rappresentanti dei Sindacati confederali e autonomi, esponenti degli Enti del volontariato e degli Organismi di tutela dei diritti dei detenuti.

La Conferenza è stata promossa con il proposito di consolidare il confronto sulle problematiche aperte nella professione e tra gli operatori del sistema penale, dalle ipotesi di riforma, inserite in tre distinte bozze di decreto, nelle quali si prevede l’inserimento della polizia penitenziaria nel controllo delle misure alternative alla detenzione.

Gli interventi delle autorità, e l’ampio e articolato dibattito svoltosi fra tutti i partecipanti, hanno aperto il confronto tra posizioni divergenti e contrapposte, sulle prospettive del sistema dell’esecuzione penale esterna, oggetto della Conferenza, e sulle ricadute che le modifiche proposte avrebbero sull’operatività e sul senso del lavoro dell’assistente sociale.

Gli interrogativi degli intervenuti hanno riguardato le proposte di riorganizzazione del mandato istituzionale degli UEPE, alla luce dei contenuti della bozza interministeriale - Ministero della Giustizia e Ministero dell’Interno - e il loro contributo di analisi, proposte e osservazioni, è stato indicativo del rilievo che ha assunto, in questi ultimi mesi, il dibattito sulle misure alternative e sul ruolo che il servizio sociale penitenziario ha, sin dal 1975, svolto nella gestione dell’affidamento in prova al servizio sociale.

In merito sono stati evidenziati i possibili scenari di modifica del mandato istituzionale e professionale dell’assistente sociale, in un ambito d’intervento dove le metodologie del servizio sociale sono state decisive per la definizione del sistema delle misure alternative alla detenzione anche come strumento per dare attuazione al principio di territorializzazione della pena.

È, infatti, alla operatività degli assistenti sociali che si deve la realizzazione di un sistema di relazioni con il territorio, consolidato con la sedimentazione di un patrimonio di rapporti di collaborazione con il sistema delle reti sociali e istituzionali, che configura la specificità attuale delle misure alternative, in particolare quella dell’affidamento al servizio sociale, come mezzo di attivazione dei processi d’inclusione sociale.

Il rischio di accentuare, con le proposte di riforma, la funzione repressiva, fiscale e custodialistica nelle misure alternative, a fronte di una funzione di inclusione e reinserimento sociale prevista dalla carta costituzionale (art. 27) e dall’Ordinamento Penitenziario, appare molto forte e non è sembrata, a molti dei partecipanti, giustificata rispetto ad una maggiore efficacia degli interventi e al maggiore bisogno di sicurezza.

La carenza di risorse umane, professionali, finanziarie e strumentali che caratterizza, ormai da anni, gli Uepe e lo scarso investimento delle comunità locali nelle politiche sociali e di contrasto alla povertà sono risultate, dal dibattito intercorso, le maggiori priorità da affrontare, in quanto la loro mancanza rende sempre più complesso e difficile il lavoro per il reinserimento sociale delle persone in esecuzione pena, portato avanti con enormi difficoltà dal servizio sociale.

Un interesse maggiore e concreto su questi aspetti avrebbe reso più credibile anche la proposta di una eventuale introduzione della polizia penitenziaria nel controllo dei sottoposti a quelle misure alternative, in cui già appare prevalente la funzione di controllo.

Gli aspetti complessi della riorganizzazione degli Uepe, anche alla luce della bozza interministeriale, sono stati evidenziati sia dai dirigenti del Dap sia dell’Istituto Superiore di Studi penitenziari.

Il dibattito svoltosi, se non ha modificato alcune posizioni divergenti, ha tuttavia consentito l’approfondimento di punti di convergenza. Tali punti, la maggior parte dei quali è stata condivisa e sottoscritta dai diversi attori della Conferenza, possono così riassumersi:

quello attuale è un momento in cui le linee di tendenza sembrano evolvere verso un ampliamento dell’area del controllo penale. Ciò richiede, a chi ha la responsabilità di dare risposte alle esigenze di tutti i cittadini tutelandone la qualità della vita, una elaborazione di politiche sociali inclusive e di progetti di riforma del settore penale che non rispondano soltanto a logiche emergenziali o a pressioni solo emotive;

sempre più evidenti emergono le contraddizioni fra una realtà dell’esecuzione penale esterna, in continua crescita quanti-qualitativa, e l’esiguità di risorse umane e strumentali investite in tale ambito;

non si può non convenire che la misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, pur nella complessità dell’attuale momento, si configura come una specifica forma di esecuzione della pena voluta appositamente dalla legge penitenziaria con modalità di gestione - incentrate sull’intervento professionale dell’assistente sociale e su un lavoro che ha mirato a mettere in rete l’operatività degli Uepe con i soggetti, istituzionali e non, della realtà locale - modalità che hanno prodotto positivi risultati, sia in termini di recidiva, che di revoche delle misure;

tali positivi risultati consentono di affermare che la pena espiata in affidamento contribuisce al reinserimento e all’inclusione sociale in misura maggiore rispetto a quella scontata in carcere; pertanto non appare ulteriormente rinviabile un reale e serio programma di sviluppo dei servizi Uepe;

si ritiene indispensabile il coinvolgimento, nella elaborazione delle politiche di cambiamento dell’area penale esterna, degli assistenti sociali, cioè dei professionisti che in questi ultimi tre decenni hanno garantito il funzionamento del sistema delle misure alternative, acquisendo un patrimonio di competenze "esperte" che utilmente potrebbero contribuire a individuare processi di cambiamento aderenti alle reali e prioritarie necessità dell’esecuzione penale esterna;

parimenti necessario appare lo sviluppo di attività di studio e ricerca che consentano di acquisire adeguate conoscenze sul funzionamento delle misure alternative, sulle buone prassi attivate e sulle modalità di intervento del servizio sociale in tale ambito. Soltanto un continuo monitoraggio di tali aspetti, infatti, potrà finalmente consentire una costante valutazione di efficacia che tenga conto di tutte le variabili presenti.

Il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali chiede che il presente documento, frutto di un lavoro di attento ascolto delle diverse voci, tra cui quella del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali stesso, venga tenuto in debita considerazione dai vertici del Ministero per non vanificare il lavoro di attenta costruzione di significati condivisi e di conciliazione, prodotto sino a questo momento, grazie agli sforzi e alla disponibilità di tutti gli interlocutori attivati e sollecitati dall’Ordine degli Assistenti Sociali.

Dare valore reale al concetto di concertazione, che dovrebbe essere alla base dell’attuale sistema della Pubblica Amministrazione, con un ribaltamento nel rapporto tra i vertici e la base, tra le istituzioni e i cittadini, ci sembra quanto mai doveroso.

Giustizia: quanta demagogia in "politiche per la sicurezza"

di Antonio Antonuccio (Uepe Vibo Valentia)

 

Ristretti Orizzonti, 14 novembre 2007

 

L’onda emotiva per la triste vicenda di Tor di Quinto a Roma, dove è stato perpetrato, per mano del giovane romeno Nicolae Romolus Mailat, l’efferato delitto che ha provocato la morte della povera signora Giovanna Reggiani, ha generato, ad opera del vigente Governo Italiano (è d’uopo ormai comprendere quanto ininfluente sia l’eventuale matrice di "sinistra" o di "destra") un ulteriore prodotto normativo di natura speciale.

Ogni adulto anche di primo pelo sarebbe in grado di capire quanto inutile possa essere l’aver consentito ai prefetti il potere delle "espulsioni lampo" contro chiunque venga considerato criminale o solamente pericoloso; tra sbarchi clandestini, fogli di via non rispettati ed allargamento dell’apertura della frontiera ai nuovi Paesi U.E., senza polemica, il nostro è un territorio "colabrodo", non è certamente con questi provvedimenti demagogici (si passi pure l’aggettivo che non è di natura partigiana e/o ideologica) che si può far fronte all’emergenza criminalità.

E poi, perché considerarla emergenza visto che questo genere di delitti ci sono sempre stati… e poi, perché dirigere tout court l’azione repressiva solo verso lo straniero (indesiderato), ci siamo forse dimenticati dei fatti di Cogne, di Casalbaroncolo, di Erba, di Garlasco e di… (è meglio interrompere la triste elencazione) dove tra indagati e rei più o meno accertati è l’homo italicus ad essere l’attore o, meglio, per soddisfare l’immaginario, il mostro.

A nulla vale la solita diatriba tra le opposte fazioni parlamentari con quella ridda di botta e risposta tra destra e sinistra, con Berlusconi che stigmatizza: "Questo decreto è una pecetta, perché tutti i provvedimenti sono stati presi con disegni di legge, quindi si impiegherà molto tempo"… Rutelli che risponde: "Da un uomo che ha governato (male) l’Italia per cinque anni ci si aspetterebbe più decoro… in queste materie un paese civile dovrebbe essere compatto e non assistere a scomposte, immature strumentalizzazioni"… e ancora Bondi che sostiene: "La sicurezza .. è purtroppo venuta drammaticamente meno, a causa di un lassismo… frutto dei retaggi ideologici… che ritiene l’ordine pubblico… strumento di repressione"…. , la Finocchiaro che replica: "Il problema della violenza e della sicurezza si affronta con politiche di lungo periodo e il centrodestra, che ha governato per cinque anni e ha varato la tanto decantata legge Bossi-Fini, non ha certo dato prova di saperlo fare".

Per fortuna a smorzare i toni, in parte, ci ha pensato un esponente del mondo sindacale quale Pezzotta spiegando, a suo dire, che: …"il provvedimento è arrivato troppo tardi e sull’onda dell’eccezionalità e pertanto difficilmente sarà in grado di trattenere le reazioni xenofobe e giustizialiste che la violenza e l’assassinio di Roma ha suscitato. Le persone si stanno chiedendo perché solo ora, e se non si doveva intervenire prima quando altri fatti, altrettanto efferati, si erano verificati".

In questo bailamme, per nulla trascurabile appare, appunto, quell’ondata di xenofobia (da un’emergenza all’altra) che, come punta dell’iceberg, si è rappresentata con l’aggressione a Roma, nei pressi di un supermercato di Tor Bella Monaca, di quattro cittadini romeni.

Di essi, uno è riuscito a sfuggire all’agguato, rifugiandosi nella propria automobile, per gli altri non c’è stato modo di sfuggire al raid punitivo opera di soggetti (sembra una decina) armati di arme da taglio e mazze da baseball. Ciò senza contare che il fatto è stato motivo di una formale protesta diplomatica da parte dell’ambasciata romena, incrinando i già non facili rapporti tra Roma e Bucarest.

Anche in questo caso le dichiarazioni dei politici hanno dato prova del loro "spessore" e per fortuna sono rimaste poche e a circoscritti episodi, non certo di dialettica: il nuovo raggruppamento politico di Francesco Storace "La Destra" ha avuto modo di sostenere che "certe reazioni sono inevitabili"; la Lega non si è risparmiata non facendo mistero di continuare a pensare come soluzione per le grandi città del Nord alle "ronde verdi".

Tralasciando questi aspetti e tornando al provvedimento di natura contingente, non è certamente così che si combatte la criminalità, abbiamo già un adeguato impianto normativo ordinario; il nocciolo del problema non lo si trova nel colpevolizzare l’immigrato, tanto quanto è sbagliato pensare in maniera strumentale che chi ha commesso l’azione delittuosa (sia se di matrice autoctona, sia se d’importazione) deve pagare in maniera certa una pena commisurata al reato che ha commesso, perché ciò è fuor di dubbio, semmai, per restare nell’ambito della giustizia, bisogna guardare altrove, dirigere gli sforzi verso altri sistemi deficitari dell’Italia che vedono coinvolti, per esempio, l’apparato giudiziario che giudica forse con una discrezionalità poco coerente, comminando, alla fine del percorso del processo, delle pene non proprio edittali.

Se emergenza sicurezza c’è quindi non è certo il brutale assassinio della povera Reggiani che la determina. È giusto, pertanto, essere severi con chiunque delinque, perché l’Italia, e questo lo vogliamo tutti, a meno di non essere masochisti, deve essere un Paese tranquillo e sicuro.

L’impressione allora è che il problema non lo debba individuare tanto nell’emergenza criminalità ma, diversamente, nella regolamentazione dei flussi migratori. In tal senso, non si può sottovalutare che l’Italia, allo stato, non ha le risorse economiche e strutturali ed un sistema politico-sociale in grado di garantire la corretta integrazione degli immigrati, che siano essi cittadini comunitari o extracomunitari.

Al contempo, non è il caso di dimenticare, come dal mondo dell’imprenditoria viene più volte puntualizzato, che molti sono i lavoratori stranieri i quali, ormai, assicurano tante di quelle manualità a cui i nostri concittadini non vogliono più dedicarsi. Essi risultano lavoratori indefessi, perciò forse bisogna ringraziarli, altresì bisogna evitare situazioni di generalizzazione che, oltre ad offendere chi si guadagna la sacrosanta "pagnotta", possono mettere in discussione, con grave nocumento, questa reciproca forma di collaborazione.

Non è necessario allora l’intervento degli esperti di economia per comprendere che, in quella che definiamo "era della globalizzazione" l’integrazione sociale con la sana reciproca contaminazione tra più culture è conditio sine qua non per la crescita di qualsiasi paese, ma tale processo, scevro da condizionamenti di natura faziosa, deve essere, indiscutibilmente, regolamentato e sorretto da una solida impalcatura istituzionale capace di garantire la serena convivenza tra le diverse comunità. Ha detto Martin Luther King: "Dobbiamo imparare a vivere insieme come fratelli o periremo insieme come stolti".

 

Antonio Antonuccio, Responsabile di Sede Ufficio Esecuzione Penale Esterna

Ministero della Giustizia - Vibo Valentia

Giustizia: Pollastrini; ecco il ddl contro la violenza sulle donne

 

Redattore Sociale, 14 novembre 2007

 

Il ministro illustra il disegno di legge proposto insieme a Rosy Bindi di cui la Commissione giustizia alla Camera ha approvato uno stralcio. Al centro della legge la certezza della pena per gli uomini che perseguitano le donne.

"Se il disegno di legge proposto da me e Rosy Bindi fosse già vigente, forse Hina avrebbe avuto qualche possibilità di salvarsi. Perché Hina aveva posto denuncia, ma gli inquirenti non avevano strumenti sufficienti per intervenire". Il ministro Pollastrini si riferisce al disegno di legge 2169 di cui stanotte la commissione Giustizia della Camera ha approvato a larga maggioranza uno stralcio. "Si tratta di un adeguamento legislativo che fa i conti col tema, inevaso, della tutela della vittima", dice il ministro.

"Accade spesso che la donna percepisce i rischi che corre, ma non va a denunciare perché sa che questo aumenta il rischio per lei e per i figli. La certezza della pena è dunque al centro della nostra legge. Che non bastino attenuanti generiche a far uscire dal carcere. Oggi le molestie ripetute, lo stalking, sono punite con l’ammenda e non si allontana in tempo l’uomo che perseguita". Pollastrini ha ricordato poi i dati. In Italia, come in Europa, le donne tra 15 e i 60 anni muoiono più per violenze che per malattie e incidenti. E ha aggiunto che "se facessimo oggi un sondaggio, poche tra le élite del sapere, dell’economia e della politica ne sono coscienti". Per questo il ministro parla di rimozione.

Padova: Elton, detenuto albanese, si laurea con 110 e lode

 

Corriere Veneto, 14 novembre 2007

 

Il dottor Kalica - A stare in cella 20 ore al giorno e avere il corpo fermo tutto si sposta all’interno della testa, nel cervello.

Clandestino e squattrinato, sequestrò una ragazza e si beccò 17 anni di galera. Avendo pure un brutto carattere, cioè un caratteraccio da isolamento, l’albanese Elton Kalica sembrava spacciato. Ma in uno di quei periodi di grande solitudine tutto cambiò. "Venivo da quindici giorni d’isolamento per un rissa. Quel giorno è come se avessi tirato un gran respiro, il respiro più profondo della mia vita: deve cambiare, devo cambiare. Decisi che non potevo più vivere così, di rabbia e violenza. Decisi di studiare".

Elton divorò tutto quello che c’era da leggere nella biblioteca del carcere Due Palazzi di Padova, imparò così l’italiano e bruciò ogni tappa: terza media nella sezione di Alta Sicurezza, ragioneria e infine Università, facoltà di Scienze politiche. Due settimane fa è stato il giorno del grande riscatto: laurea con 110 e lode in quattro anni e corale spellata di mani. Quasi un record.

È successo dietro le sbarre dell’istituto di massima sicurezza veneto dove a sentire l’ormai trentenne albanese di Tirana Elton Kalica sono giunti i docenti padovani con tanto di toghe e registri, oltre a una nutrita rappresentanza del carcere. Quaranta muniti di discussione, una ricca discettazione sulla sociologia del lavoro, cioè sui diritti degli albanesi prima e dopo la caduta del socialismo reale. Kalica è uscito fra gli applausi: "Credo di aver fatto vedere che cambiare si può", ha detto con gli occhi umidi.

Ma quella di Elton è una storia davvero rara perché rare sono la sua energia, la sua determi-nazione e le sue capacità. Così, almeno, assicura chi lo conosce bene.

"A stare in cella 20 ore al giorno ed avere il corpo fermo così a lungo, tutta l’esistenza o meglio l’attività si sposta all’interno della testa, nel cervello", scrisse dalla sezione di Alta Sicurezza quando era sul confine del cambiamento. A ricevere quella lettera fu Ornella Favero, coordinatrice di Ristretti Orizzonti, il giornale del carcere: "L’ho pubblicata subito perché, anche se il suo italiano era ancora faticoso, la scrittura, le idee, le immagini facevano capire che dietro c’era una persona con grande originalità e profondità di pensiero".

Iniziò così la nuova vita di Elton. Ornella lo volle in redazione, lo seguì passo passo e ora di lui racconta meraviglie: "La storia di Elton è la storia di un ragazzo dall’incontenibile energia fisica compressa dalla galera e faticosamente trasformata in energia e forza del pensiero, della parola, della scrittura. Ed è proprio questa sua testa integra che continua a sorprendermi".

Ornella l’aveva conosciuto quando era nel tunnel e lo vede che ne sta uscendo. "Me lo ri-cordo quando stava perdendo progressivamente ogni speranza, l’ho visto aggrapparsi con le unghie e con i denti a ogni più insignificante appiglio per poi vedersi negare tutto tutto tutto. Rialzava sempre la testa e lottava, lottava, lottava".

Stava scontando i diciassette anni a regime duro. Perché Elton era un duro. Anzi, lo era diventato. Figlio di una famiglia benestante della capitale albanese, si diplomò al classico nel suo paese per poi tentare l’avventura italiana. Durazzo, Bari, Mantova, Milano, Padova. Fu l’inizio del suo disastro. Elton sbarcò da clandestino e per sopravvivere entrò nel vortice della criminalità.

"Dopo un anno di vita di strada in mezzo a ladri, rapinatori, prostitute, protettori, dove mi ero convinto di essere invincibile, incantato da una vita orribilmente libera e moralmente stravolta, non mi accorsi che i miei valori erano rimasti a casa mia con i miei genitori, custoditi fra i libri di scuola". Elton arrivò così a sequestrare insieme a due complici una ragazza per ricattare un suo connazionale che gestiva un giro di prostituzione.

La polizia riuscì a liberare la ragazza e beccò i tre rapitori, lui compreso. Il ragazzo finì a processo e lì volle mostrare i muscoli: orgoglio albanese, nessuna collaborazione, atteggiamento inflessibile. Il giudice italiano non fece sconti: 17 anni e tanti saluti. Era il 1996, Elton aveva diciannove anni, e da allora non è più uscito dalla galera, neppure un giorno, neppure per un permesso. Perché gli appiopparono l’associazione per delinquere

che è una sorta di marchio a fuoco: il comma 1 dell’articolo 4 bis nega qualsiasi concessione se non hai collaborato.

"Sto lavorando sedici ore al giorno per Ristretti - scrisse più avanti Elton - e questo non mi pesa affatto ma faccio sempre più fatica a stare lì in mezzo a persone che continuano a raccontarmi tutti i giorni l’attesa del permesso, e poi descrivermi per altrettanti giorni l’esperienza appena vissuta. Io parlo, sorrido, sono anche contento per loro, lavoro e faccio finta di niente, ma ho un tornio che gira la leva per stringermi il cuore ogni giorno di più".

Dopo gli anni dell’autentica ribellione alla galera, le risse, l’isolamento, l’incapacità di accettare la gabbia fisica dove esondava la sua incontenibile tenibile vitalità, ha dunque cambiato registro e ha pensato di investire nell’unico spazio libero che gli era rimasto: il giardinetto dei pensieri. "E ha iniziato a vivere anche il carcere con quella intensità di vita e di talento che lo contraddistingue", insiste Ornella. Elton leggeva e scriveva. È diventato un giornalista di Ristretti, ha vinto dei concorsi letterari ed è partito per la grande avventura universitaria.

Insomma, un ribaltamento a trecentosessanta gradi. Che sembra aver fatto di Elton un altro uomo. Rimane un problema: il carcere da scontare senza permessi. E qui Ornella pesta forte i pugni: "Ha sequestrato, d’accordo, ha sbagliato, ma non ha ucciso nessuno. Non dimentichiamoci che c’è sequestro e sequestro, che non esistono reati che camminano ma persone che hanno commesso reati".

Ora il dottor Kalica sogna di fare lo scrittore. E la sua donna: "Da abbracciare, da toccare, da sentire, da accarezzare, da amare. In galera la sofferenza ti cambia, ti insegna e ti matura, ma il cuore rimane sempre avido d’amore e d’affetto, e nemmeno le sbarre o il cemento possono proibirmi di innamorarmi. Non bastano né dieci né cento anni di galera per fermare la forza del mio cuore. E questo cuore, dovunque incontri quella donna, batterà sempre forte, come sa battere soltanto nel petto di chi ama".

Venezia: testimone di giustizia deve pagare affitto... in carcere

 

Il Gazzettino, 14 novembre 2007

 

Dalla Calabria fu trasferito in tutta fretta nel Nord Italia, nell’alloggio di servizio all’interno di un carcere, per motivi di sicurezza connessi alla testimonianza da rendere in un processo. Da allora, negli ultimi dieci anni, ha cambiato casa tre volte, assieme alla moglie, all’interno di altrettanti penitenziari, e ora il ministero della Giustizia gli chiede il pagamento dei canoni di affitto, per un totale di quasi 35mila euro.

Protagonista dell’insolita vicenda giudiziaria è un cinquantacinquenne di origini toscane, di cui non citiamo il nome per motivi di sicurezza, che alla fine degli anni Novanta aveva aperto un’armeria assieme ad un socio in Calabria. Suo malgrado l’uomo rimase coinvolto in un’inchiesta su un presunto traffico di armi, nel quale erano coinvolti anche alcuni esponenti dell’ndrangheta, e fu costretto a fuggire dopo aver dato la sua disponibilità a diventare testimone di giustizia. "È una vicenda paradossale - denuncia il legale dell’uomo, l’avvocato Salvatore Panzarella di Conegliano - Ciò che sta accadendo al mio cliente è sintomatico del disinteresse che lo Stato dimostra nei confronti di chi accetta di mettere a rischio la propria vita per testimoniare contro le organizzazioni mafiose".

L’avvocato ha presentato opposizione al decreto ingiuntivo che il ministero della Difesa ha notificato alla moglie dell’uomo, titolare del contratto siglato per i vari alloggi cambiati dalla coppia all’interno di alcuni penitenziari. La prima udienza si è tenuta davanti al giudice Liliana Guzzo del Tribunale di Venezia, la quale ha rinviato la discussione del caso al prossimo 23 novembre, per consentire alla difesa di analizzare alcuni documenti depositati dall’Avvocatura dello Stato.

Il ministero della Giustizia sostiene che l’ospitalità offerta al testimone in fuga e alla moglie, dipendente della stessa amministrazione giudiziaria, era stata concessa a titolo oneroso, e contesta alla coppia di non aver pagato per due anni neppure le bollette relative ai consumi elettrici. Nel corso dell’udienza, l’Avvocatura ha prodotto copia dei contratti sottoscritti dalla donna. L’avvocato Panzarella ribatte sottolineando che la coppia è stata costretta a vivere per anni all’interno di un penitenziario per motivi di sicurezza: "Dobbiamo ritenere che lo Stato sia poco credibile quando chiede al cittadino di collaborare contro le mafie, se poi alla fine gli presenta il conto per aver usufruito nel periodo della protezione di immobili siti, peraltro, in posti non certamente ameni?"

Droghe: Gasparri; in Italia non ci sarà mai alcuna narco-sala

 

Notiziario Aduc, 14 novembre 2007

 

"La Turco si rassegni. Non passerà mai alcuna proposta di legge che preveda in Italia l’istituzione delle cosiddette narco-sale". È quanto ha dichiarato Maurizio Gasparri dell’Ufficio politico di Alleanza Nazionale.

"Le leggi attuali non lo consentono ed ogni tentativo del ministro della Salute e di alcune amministrazioni comunali di andare contro l’ordinamento giudiziario troverà il fermo ostacolo del centrodestra. In questo paese - ha aggiunto Gasparri - il Parlamento ha ancora il potere legislativo e noi impediremo che la scellerata proposta di istituire delle stanze dove distribuire droga di Stato trovi mai la luce. Intanto con soddisfazione ribadisco al ministro che come avevo più volte sostenuto nessuna sperimentazione contra legem può essere consentita. Non lo è ora e non lo sarà mai".

"Quello che si doveva dire è stato detto. Si sono fatte fin troppe chiacchiere. Il ministro Livia Turco si è espressa sull’infattibilità della proposta con l’attuale legislazione e il ministro Paolo Ferrero ha risposto ad una nostra interrogazione parlamentare dicendo chiaramente che le narco-sale non sono nel programma di centrosinistra". Dunque "basta perdere tempo a spese dei cittadini". È questo il commento di Stefano Allasia, segretario provinciale di Torino, e di Mario Carossa, segretario cittadino torinese e capogruppo del Carroccio.

"Esistono delle leggi - spiegano gli esponenti della Lega - possono piacere o meno, i Radicali non vengano a lamentarsi. Ma a Torino ci sono tanti problemi, non si può perdere tempo dietro a queste banalità".

Dopo aver sostenuto insieme al collega Paolo Ferrero l’iniziativa sulle narco-sale del sindaco di Torino Chiamparino, dal ministro Livia Turco giunge ora "una virata di 180 gradi". Lo affermano la presidente dei Radicali Rita Bernardini e Giulio Manfredi del Comitato nazionale, sottolineando che su questo tema "il ministro Turco rilancia, ma il bluff è smaccato".

Nella sua lettera di risposta al sindaco il ministro della salute scrive che per attivare le narco-sale occorre prima modificare la legge antidroga; inoltre, sostiene, che quello che serve veramente è la somministrazione controllata di eroina. Secondo i Radicali il richiamo che la Turco fa al rispetto delle convenzioni internazionali sugli stupefacenti è "del tutto fuori posto, visto che i Paesi che ospitano attualmente le narco-sale continuano a rispettare tali convenzioni". I due esponenti ricordano infine al ministro che il suo governo non è riuscito ad abrogare la legge Fini-Giovanardi, e chiedono "come può pensare di avere la forza politica di imporre alla sua componente moderata la sperimentazione controllata dell’eroina?". "Di fronte a tutto questo il ministro Ferrero non ha nulla da dichiarare?".

"Ho sempre valutato positivamente la proposta avanzata dalla maggioranza al Comune di Torino di istituire delle sale del consumo, quelle che vengono spesso definite come narco-sale. E mi risulta che la maggioranza abbia stabilito di discutere questa proposta la prossima settimana. Credo che la cosa importante e positiva sia di arrivare a una mozione in tal senso. Che ciò avvenga questa o la prossima settimana non mi sembra costituisca quindi un problema": lo dichiara il ministro alla Solidarietà sociale, Paolo Ferrero (Prc).

Droghe: cocaina, non esistono farmaci contro la dipendenza

 

Notiziario Aduc, 14 novembre 2007

 

Aumentano le persone dipendenti dalla cocaina, ma "non esistono attualmente farmaci adeguati, possiamo dare solo palliativi. Si millanta la scoperta di un vaccino, ma è solo un’illusione": lo ha detto oggi a Roma uno dei maggiori esperti italiani di neurofarmacologia, Gian Luigi Gessa, nel convegno sulle buone pratiche nella salute mentale organizzato dalla Fondazione Mario Lugli.

"Abbiamo finalmente imparato a gestire la dipendenza da alcol e da eroina. Ci sono i farmaci e c’è un’organizzazione che funziona", ha osservato l’esperto. "Ma il mondo sta cambiando e la gente comincia a usare la cocaina molto più dell’eroina, così come i giovani stanno usando molto di più la cannabis e con concentrazioni più alte". Nascono quindi nuovi problemi medici perché non ci sono farmaci e non c’è un’organizzazione che permetta di rispondere in modo adeguato. In Italia come negli Stati Uniti, ha proseguito Gessa, la cocaina è il terzo killer fra le droghe.

Uccide infatti oltre mille persone l’anno, preceduta dal fumo (130.000) e dall’alcol (40.000). L’eroina segue con circa 800 vittime. "A consumare la cocaina si comincia per tante ragioni", ha detto ancora il neurofarmacologo, e nella maggior parte dei casi viene inalata. I tossicodipendenti da eroina cominciano a consumare cocaina per vincere la depressione, ma di fatto finiscono soltanto per sommare gli effetti tossici delle due droghe. Va aumentando anche il consumo della cocaina free-base, ottenuta estraendo solo la base libera della cocaina, che può bruciare e può quindi essere fumata. "In questo caso l’effetto è immediato ma effimero, seguito immediatamente da depressione. Con l’uso prolungato sparisce anche l’euforia, ma si continua a non fare a meno di prenderla".

Israele: detenuto palestinese paralizzato dopo le torture

 

Associated Press, 14 novembre 2007

 

L’avvocato dell’associazione "Nafha" per la difesa dei diritti del detenuto e dell’uomo ha riferito che il detenuto Imad Marwan al-Hotari, della città di Qalqiliyah nella Cisgiordania occupata, è stato sottoposto ad un interrogatorio molto duro, della durata totale di due settimane, che gli ha causato una paralisi parziale del corpo.

Il detenuto al-Hotari ha confermato ieri all’avvocato, durante la visita di questi al centro d’interrogatori "al-Jumlah", di soffrire di una paralisi alle mani in seguito alla violenza ed alle torture subite, spiegando di non riuscire a scrivere né a trasportare nulla con esse.

Al-Hotari ha chiarito tuttavia che, secondo il medico che l’ha assistito all’ospedale Rampam di Haifa, questa paralisi durerà solo uno o due mesi, aggiungendo però di continuare ad accusare un forte dolore alla schiena, provocato anch’esso dal tipo di tortura inflittagli dai militari: si tratta dello "Shabah" (fantasma, N. d. T.), che comporta il rimanere seduti su una sedia in posizioni scomode per lunghe ore. Da parte sua, l’associazione Nafha ha accusato i medici israeliani di collaborare agli interrogatori, e di non informare i detenuti della gravità dei danni arrecati ai loro corpi, che portano al rapido peggioramento della loro salute.

L’avvocato della Nafha ha riferito che il detenuto Baher Sulaiman Hawash, della città di Nablus, ha subito anch’egli un interrogatorio militare inumano, durante il quale i militari hanno ricorso anche a percosse sulla faccia e sulle gambe, oltre che allo Shabah, e quindi, secondo la descrizione dello stesso Baher, gli hanno legato le mani stringendogliele al punto tale da fargliene perdere ogni sensibilità. Lo stesso Hawash ha spiegato all’avvocato di avere problemi alla mano e all’addome, e che chi lo interroga rifiuta di passargli le medicine se non si dichiara colpevole e se non fornisce le informazioni che cercano, e che lui non possiede.

Hawash ha affermato di essere stato trasferito più volte, passando dal centro d’interrogatori al-Maskubiyah al centro Petah Tikva, e quindi alla prigione di Beer Sheva, dov’è rimasto per qualche giorno prima di ritornare al centro Petah Tikva; ha dichiarato inoltre di essere stato sottoposto alla macchina della verità.

 

 

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