Rassegna stampa 7 marzo

 

Giustizia: intervista a Mastella sul suo progetto di riforma

 

Panorama Economy, 7 marzo 2007

 

Comincia in Consiglio dei ministri la "lunga marcia" di Clemente Mastella: a Palazzo Chigi, il ministro della Giustizia presenta i primi provvedimenti per il nuovo ordinamento giudiziario, poi toccherà alle norme per realizzare il "sogno": un processo civile che si conclude al massimo in cinque anni, contro una media che oggi è superiore a sei-sette. "La Giustizia" dice Mastella in questa intervista a Economy "ha una straordinaria importanza per la competitività economica del Paese. Il suo miglioramento è ormai una vera e propria questione nazionale".

Nella sua stanza nello storico edificio romano di via Arenula, il guardasigilli si ferma un attimo. Forse pensa ai suoi 20 predecessori e alle tante promesse fatte all’opinione pubblica. Poi Mastella aggiunge, a rafforzare il concetto e per sottolineare una volta di più che vuole fare sul serio: "Nei tribunali italiani, oggi, deve essere chiaro a tutti che il fattore tempo non è una variabile indipendente nel servizio reso al cittadino. Ma è un preciso vincolo costituzionale, e anche etico, per tutti gli attori del processo".

 

Parole sante. Ma non è certo la prima volta che un ministro annuncia di voler ridurre i tempi della Giustizia. Lei come pensa di riuscirci?

Abbiamo messo sul tappeto una serie di interventi forti che investono gli snodi critici del sistema: la semplificazione e la razionalizzazione del processo, una migliore organizzazione e una forte innovazione tecnologica. Non per inseguire un’utopia, ma per garantire una risposta alla domanda di giustizia dei cittadini. Alla rito mia dei riti va unito lo sforzo di riorganizzazione delle strutture giudiziarie, senza dimenticare la valorizzazione del personale amministrativo.

 

Fra le terapie che lei ha proposto c’è anche "l’udienza di programma", che dovrebbe stabilire il calendario delle udienze per i processi civili, vincolando le parti e il giudice. Ma non si rischia di creare nuovi vincoli che faranno perdere altro tempo?

Al contrario. La riduzione dei tempi processuali, che è il vero, grande problema per chi si mette dalla parte dei cittadini, potrà realizzarsi anche attraverso l’udienza di programma, che permette di individuare, nel contraddittorio delle parti, la scansione temporale delle attività istruttorie e della pronuncia della decisione. La sua funzione è quella di "restituire" al giudice il governo del processo, impegnando le parti e il giudice medesimo a osservare un calendario predeterminato.

 

Non sarebbe più efficace l’adozione di procedure di "class action", che eviterebbero la moltiplicazione di processi su una stessa materia?

Certo. Le azioni collettive consentirebbero la gestione unitaria di una serie di controversie di massa e potrebbero condurre a risultati positivi: non soltanto sul piano dell’economia processuale ma, soprattutto, dell’accesso alla giustizia per intere categorie di consumatori che oggi ne sono di fatto escluse quando si trovino a fronteggiare comportamenti scorretti di soggetti economici forti. È un obiettivo ambizioso, di grande rilievo nella costruzione di mercati competitivi regolati dal diritto. Per questo, al ministero, ci stiamo lavorando.

 

Però?

La "class action" presuppone un sistema giudiziario con elevati margini di efficienza, e che sappia operare un serio bilanciamento degli interessi in gioco. individuando i criteri di selezione dei soggetti cui attribuire la rappresentanza collettiva e prevedendo forme efficaci, giudiziali o genericamente pubbliche. per la loro tutela.

 

Quindi, secondo lei, quanto tempo potrebbe volerci per introdurre il sistema della "class action" nell’ordinamento italiano?

I tempi per l’introduzione nel sistema giuridico italiano delle azioni collettive a me sembrano maturi oggi. Già nell’ultima legislatura sono state esaminato delle proposte di legge che rendevano a dare ingresso a l’orme di tutela collettiva: e in questa legislatura il governo ha ritenuto necessario intervenire nel dibattito che si era già avviato in Parlamento, con una propria iniziativa legislativa: da un lato tendiamo a confermare la possibilità di ricorrere a forme di tutela collettiva e dall’altro vogliamo introdurre concreti correttivi al fine di prevenire possibili utilizzi fuorvianti.

 

E quindi, scusi, quando potrebbe essere approvato il disegno di legge sulle "azioni collettive"?

È prevedibile che il provvedimento, sul quale è auspicabile che vi sia un confronto costruttivo con l’opposizione visto che si tratta di una importante innovazione, venga approvato nel corso di questa stessa legislatura.

 

In campo penale, c’è un modo per fermare la valanga di processi inutili che si stanno celebrando dopo l’indulto senza amnistia?

Le ricordo che l’adozione di un provvedimento di amnistia ricade nello spazio di responsabilità che la Costituzione riserva a una maggioranza qualificata del Parlamento. Partendo da questo dato di fatto, nel pacchetto di norme sull’accelerazione del processo penale e stata ipotizzata una serie di meccanismi: l’archiviazione dei procedimenti per fatti di particolare tenuità; la sospensione del processo con la "messa alla prova"; l’introduzione di una disciplina volta a incentivare, con una norma transitoria, l’applicazione della pena su richiesta delle parti in tutti i procedimenti che riguardino i reati contemplati nella legge sull’indulto. Si prevede, insomma, la riapertura dei termini per formulare richiesta di patteggiamento anche per i procedimenti di primo grado che si trovino già in fase dibattimentale o durante il giudizio abbreviato.

 

Torniamo alle sue ipotesi di riforma e ai tempi della giustizia civile: che cosa è e a cosa serve "l’ufficio per il processo" che lei vuole adottare?

È un istituto che parte dall’esigenza di dare un adeguato supporto alla celebrazione dei processi per ottimizzare i risultati. Serve per riorganizzare il lavoro attraverso un’articolazione degli uffici che permetta una maggiore sinergia tra le diverse competenze, il pieno utilizzo delle risorse informatiche, la razionalizzazione delle attività. Siamo abituati a pensare il magistrato come una monade su cui ricade l’intero carico dell’attività giurisdizionale. Non è, e non deve essere così. La nostra intenzione è quella di creare una struttura funzionale al processo, che punti alla massimizzazione delle risorse, fornisca all’ufficio un monitoraggio costante sulla resa di giustizia e un facile accesso alle informazioni per i cittadini.

 

E quale soluzione ha in mente per l’immenso arretrato che oggi "ingolfa" il motore dei tribunali?

L’arretrato dei tribunali è imponente, ma si può aggredire. La mia proposta per il civile è quella di procedere con modalità di definizione che, in forme rinnovate e più efficienti rispetto a ora, utilizzino anche i magistrati onorari. Per il penale lo spazio di manovra è minore, ma abbiamo messo in campo rimedi non irrilevanti: lavoreremo sulla previsione dei flussi in entrata e in uscita dei processi, in modo tale da organizzare gli uffici secondo regole razionali, per decidere cause seriali o di pronta definizione.

 

Forse bisognerebbe prima convincere i magistrati a lavorare un po’ di più. Ai primi di gennaio lei aveva accennato a ridurre le ferie nei tribunali: a molti è sembrato un primo passo nella direzione giusta...

È sbagliato ridurre i problemi della lentezza dei processi alla produttività dei magistrati. Vi sono casi limitati in cui ciò può accadere, ma va ricordato che la lentezza è frutto anzitutto dell’organizzazione e non del singolo.

 

Ministro, sta facendo forse un passo indietro?

No. La mia proposta riguarda i termini di chiusura feriale dei tribunali e delle corti, che oggi si protrae dal 1° agosto al 15 settembre. È semplicemente inaccettabile che in una situazione di dissesto, come l’attuale, per quasi due mesi la giustizia italiana sia chiusa per ferie.

 

Però, sulla questione "riduzione delle ferie", i magistrati hanno subito polemizzato…

I magistrati non hanno alcuna ragione di lamentarsi, perché il mio intervento è limitato alla chiusura feriale degli uffici e non ai giorni di ferie di cui i magistrati stessi possono godere. Limitare il periodo di sospensione dei termini feriali consentirà ai capi degli uffici giudiziari di organizzare più razionalmente il servizio reso ai cittadini e porterà a un significativo aumento di produttività.

 

Lei usa una parola impegnativa, "produttività": il suo predecessore, Roberto Castelli, aveva avviato un esperimento per il controllo informatico centralizzato della produttività dei tribunali, affidato a una società di consulenza, la Global Brain. Il sistema era stato testato, dal 2004, e pareva condiviso anche dal Csm. Che cosa ne è rimasto?

Sono in corso da tempo i lavori di una Commissione mista Ministero-Consiglio superiore della magistratura per la costituzione di indicatori che rendano possibile la misurazione dei flussi giudiziari. Cosa, questa, che nulla ha a che vedere con l’attività della Global Brain. Alla conclusione dei lavori di quella commissione mista dovremmo avere la possibilità di elaborare criteri oggettivi: sia per dare la giusta dimensione agli organici dei diversi uffici giudiziari, sia per valutare la resa di giustizia. Questo tipo di esercizio produce però risultati apprezzabili solo se si inserisce in un clima di leale, aperta collaborazione e non di sistematico conflitto. Credo sia giusto sottolineare, anche a tale riguardo, una positiva discontinuità rispetto al passato.

 

Insomma: quale sistema pensate di utilizzare?

Il nostro orientamento è quello di utilizzare solo risorse interne.

 

E come si equilibra la necessità di prestazioni più efficienti e "verificabili" con la garanzia costituzionale dell’autonomia del magistrato?

Solo una giustizia che funziona è una giustizia rispettata e, dunque, realmente autonoma e indipendente. Non c’è alcuna contraddizione tra ricerca dell’efficienza e garanzia più forte e convinta dei principi costituzionali di autonomia e indipendenza della magistratura. Credo che tutti riconoscano che la mia attività di governo ha avuto il merito di riportare su binari di ragionevolezza il confronto sulla Giustizia, in un clima idoneo a consentire la ricerca di soluzioni condivise e all’altezza della gravità dei problemi che ci troviamo ad affrontare.

 

Ma, insomma, si riuscirà mai a valutare l’efficienza e la produttività degli uffici giudiziari?

Il disegno di legge sull’ordinamento giudiziario che ho presentato in Consiglio dei ministri contiene un meccanismo di sistematiche e approfondite verifiche di professionalità dei magistrati e l’approdo del controllo di gestione: anche negli uffici giudiziari.

 

Troppo spesso, però, accade che anche il personale non togato si comporti come se facesse parte della "corporazione": spesso, trascorsa l’ora del pranzo, in molti tribunali non si trova più nemmeno chi risponda al telefono. Questo problema come può essere risolto?

Innanzitutto: la magistratura non è una "corporazione", ma un’istituzione dello Stato. Nel personale amministrativo abbiamo una forte scopertura degli organici, che oggi arriva al 22%, ed è distribuita in modo disomogeneo sul terreno nazionale. I fondi disponibili per lo straordinario sono limitatissimi. L’assenteismo non ha proporzioni particolarmente elevate nel settore Giustizia rispetto al resto del pubblico impiego. Non v’è dubbio però che il complesso delle misure da me proposte, a partire dalla riorganizzazione indotta dall’istituzione dell’ufficio per il processo e dai nuovi meccanismi di selezione e valutazione dei capi degli uffici giudiziari avrà positivi effetti anche su questo versante.

 

Dalle sue risposte, ministro, traspare un certo ottimismo: non le pesa fare i conti con i tagli della Legge finanziaria?

In un contesto assai critico di finanza pubblica, che abbiamo ereditato dal precedente governo, la Finanziaria per il 2007 segna un’inversione di tendenza, certo insufficiente, ma significativa. Abbiamo coscienza che nel quinquennio precedente le spese per il funzionamento della Giustizia sono state ridotte del 51,22%. Ora si tratta di operare per ottimizzare gli investimenti e per evitare qualsiasi spreco. Nel prossimo futuro la serietà e l’ampiezza del mio progetto riformatore renderanno possibile un’allocazione di risorse finalmente all’altezza dei problemi e dei bisogni.

 

Servono anche più magistrati, secondo lei? Di quanto sono "sotto organico" i tribunali italiani?

Dopo il sostanziale blocco dei concorsi, verificatosi nel recente passato, oggi circa il 10% dei posti in organico sono scoperti. Noi abbiamo rimesso in moto la macchina e proprio ai primi di febbraio hanno avuto inizio le prove selettive di un nuovo concorso. Una volta eliminato l’arretrato, e quando sarà reso stabile questo dato con le riforme del processo e dell’organizzazione, sarà finalmente possibile valutare con serietà se vi è un problema reale di insufficienza degli attuali organici.

 

Lei ha detto di voler ridurre le spese per intercettazioni, che sono costate 1,3 miliardi di euro in tre anni. Come farà a togliere ai pm il loro strumento preferito?

La spesa per le intercettazioni telefoniche e ambientali e stata elevatissima, è vero: tra 2003 e 2006 il costo globale è stato di circa 1,3 miliardi, e la somma non comprende la spesa per le trascrizioni.

 

Ma come si è arrivati, e come si giustifica, questa spesa decisamente abnorme?

Ci troviamo di fronte al risultato di una gestione non centralizzata e del lutto irrazionale, assolutamente non governata dall’amministrazione centrale, nello scorso quinquennio. Detto questo, non credo che i pubblici ministeri scelgano in base a una semplice preferenza lo strumento da utilizzare nelle indagini e ritengo essenziale tutelare pienamente la sovranità e il controllo dell’autorità giudiziaria sul dato investigativo, garantendo concretamente l’accessibilità a uno strumento d’indagine insostituibile. D’altra parte, ridurre le spese per le intercettazioni non significa necessariamente ridurne il numero.

 

E lei come pensa di agire, in concreto, sul tema degli elevatissimi costi delle intercettazioni?

Nel disegno di legge presentato dal governo è prevista una radicale trasformazione del sistema delle intercettazioni, con privilegio della riduzione dei centri di ascolto e l’acquisto degli apparati, anche con il sistema della locazione finanziaria. I centri di intercettazione saranno istituiti su base distrettuale in 26 strutture, rispetto alle 166 attuali. Inoltre dovrà essere rivista la "base di costo" fissata con i gestori di telefonia, obbligati per legge a fornire la prestazione. All’evidenza è possibile un enorme recupero di risorse.

 

Lei sa che la procura di Bolzano dal 2004 ha sperimentato una nuova organizzazione che ha consentito di ridurre le spese di giustizia del 70% in tre anni, per di più migliorando i servizi?

Il sistema di Bolzano è stato enormemente apprezzato al ministero e ho personalmente incontrato il procuratore Cuno Tarfusser.

 

Ma quello di Bolzano non potrebbe essere un sistema "manageriale" da esportare anche in altre procure e in altri uffici giudiziari?

Stiamo cercando di diffonderlo, quel sistema: anche se va detto che questo richiede, oltre che capacità manageriali, un investimento iniziale, che alla procura di Bolzano ò arrivato dal Fondo sociale europeo.

 

L’investimento iniziale per Bolzano è stato di poco superiore ai 200 mila euro: ma poi, solo per le intercettazioni, ne ha fatti risparmiare oltre 900 mila in tre anni. Non pensa che ne varrebbe la pena, anche senza finanziamenti europei?

È quello che cercheremo di fare.

Giustizia: ddl Mastella approvato oggi dal Consiglio dei ministri

 

Il Denaro, 7 marzo 2007

 

Arriva oggi in consiglio dei ministri il disegno di legge messo a punto dal Guardasigilli Clemente Mastella con le nuove norme sulla carriera e sulla progressione economica dei magistrati. Il testo negli ultimi mesi è stato più volte rivisto e limato: è attesissimo dalle oltre novemila toghe italiane su cui incombe la "spada di Damocle" dell’entrata in vigore, il prossimo 31 luglio, della contro-riforma Castelli, contestatissima dalla magistratura.

Il ddl prevede, tra l’altro, verifiche ogni quattro anni sulla professionalità dei magistrati, cambio di regione per i giudici che passano a fare i pm o viceversa, controlli ogni due anni per i capi degli uffici giudiziari che, qualora risulteranno inadeguati, perderanno l’incarico.

I giudici incapaci rischieranno il posto: lo prevede il ddl per la riforma dell’ordinamento della magistratura che arriva oggi in Consiglio dei ministri. Il testo prevede numerose novità: verifiche ogni quattro anni sulla professionalità dei magistrati con conseguenze sugli stipendi (ma anche rimozione) in caso di valutazione negativa; cambio di regione per i giudici che passano a fare i pm o viceversa; controlli ogni due anni per i capi degli uffici giudiziari che se risulteranno inadeguati perderanno l’incarico; ingresso in magistratura con un concorso di secondo grado.

La bozza di ddl in nove articoli rivede circa duecento norme. Nell’ultima versione del provvedimento sono caduti due punti preannunciati nei mesi scorsi come novità dal Guardasigilli Clemente Mastella: è venuto meno il corso-concorso, cioè il canale di accesso alternativo in magistratura destinato ai laureati più meritevoli, ed è stato cancellato il ritorno al sistema proporzionale sulla base di liste contrapposte per l’elezione dei consiglieri togati del Csm. Eliminata all’ultimo momento anche la delega al governo per l’unificazione della giurisdizione ordinaria con quella amministrativa, presumibilmente a causa delle proteste da parte delle toghe dei Tar e del Consiglio di Stato.

 

Accesso più selettivo

 

Per l’accesso in magistratura non basterà più la sola laurea in giurisprudenza: può partecipare al concorso chi ha già superato un vaglio precedente come, ad esempio, chi è avvocato da tre anni, giudice di pace, o magistrato amministrativo. Tra le prove scritte ci sarà la redazione di una sentenza, mentre tra quelle orali è prevista una lingua straniera. Se resterà confermata la cancellazione della previsione del corso-concorso, i laureati in giurisprudenza più meritevoli potranno essere ammessi al concorso direttamente.

 

Formazione continua

 

L’aggiornamento e la riqualificazione diventeranno un obbligo per tutto l’arco della carriera: le toghe, almeno ogni quattro anni, dovranno frequentare un corso. La scuola avrà tre sedi: Bergamo, Firenze e Benevento. Il suo comitato direttivo sarà nominato per metà dal ministro della Giustizia e per metà dal Csm.

 

Carriera

 

Gli aumenti di stipendio saranno sganciati dalla progressione delle funzione e legati, invece, al superamento delle valutazioni di professionalità ogni quattro anni. Il Csm dovrà valutare, tra l’altro, la competenza tecnico-giuridica del magistrato, ma anche l’efficienza e la produttività, il rapporto tra i mezzi utilizzati e i risultati raggiunti, la capacità di utilizzare il lavoro di gruppo. Se ci saranno due bocciature il magistrato sarà dispensato dal servizio.

 

Cambio di funzioni

 

Il passaggio tra giudice e Pm (e viceversa) potrà essere chiesto solo dopo almeno cinque anni di servizio in ciascuna funzione, dopo aver frequentato un corso e dopo aver conseguito un giudizio di idoneità. Sarà obbligatorio cambiare distretto, che equivale grosso modo al territorio di una regione. Gli incarichi direttivi diventeranno temporanei. Il capo di un ufficio giudiziario non potrà rimanere per più di quattro anni, rinnovabili una sola volta e comunque solo partecipando a un nuovo concorso. Previsto inoltre un controllo di gestione ogni due anni: chi si rivelerà inadeguato perderà l’incarico. Per accedere alla Cassazione bisognerà avere attitudini specifiche che saranno vagliate da una Commissione speciale. L’ultima parola spetterà al Csm. Il procuratore, infine, resterà il titolare unico dell’azione penale; ma le sue scelte sull’assetto organizzativo da dare alla procura saranno vagliate dal Csm, i cui componenti saranno riportati a trenta: venti togati e dieci laici.

 

Cananzi (Anm): Soddisfatti, con riserva

 

"Il disegno di legge che oggi è al vaglio del consiglio dei ministri ci sembra accettabile, con alcune riserve", afferma Francesco Cananzi, presidente della giunta distrettuale di Napoli dell’Associazione nazionale magistrati. Secondo Cananzi sono apprezzabili le verifiche sulla professionalità e l’aggiornamento continuo "anche se il sistema dei controlli e la gestione della scuola devono veder riaffermato in modo più incisivo, rispetto alle attuali previsioni normative, il ruolo del Csm".

Con i nuovi meccanismi di accesso si entrerà in magistratura ad un’età mediamente più elevata rispetto a quanto accade attualmente "ciò richiede - afferma Cananzi - a mio giudizio una revisione delle retribuzioni di inizio carriera: un compenso che può essere accettabile per un giovane di 25/26 anni, può non esserlo a 30/32". Dubbi anche sul regime di incompatibilità territoriale fra giudice e Pm. "Prevedere un’incompatibilità su base distrettuale è forse un criterio penalizzante - dice il presidente delle toghe associate - forse può bastare l’incompatibilità circondariale e un limite di tempo per passare dall’una all’altra funzione di soli tre anni, rispetto ai cinque oggi previsti dal Ddl Mastella".

Giustizia: Bonino (Radicali); abbiamo riserve sul ddl Mastella

 

Ansa, 7 marzo 2007

 

"Per noi della Rosa nel pugno è fondamentale la distinzione tra magistrati requirenti e magistrati giudicanti. Rimane la mia riserva su questo punto". È quanto afferma il ministro per le Politiche comunitarie e il commercio internazionale Emma Bonino sul disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario che oggi ha passato l’esame del Consiglio dei ministri. Il ministro, da un lato, prende atto con soddisfazione che nell’ultima stesura del testo, che domani sarà presentato in Cdm dal ministro della Giustizia Clemente Mastella, è stato eliminata la parte relativa al sistema elettorale del Csm.

Dall’altro lato però, "nulla è mutato - sottolinea Bonino - sulla disciplina che consente il passaggio di funzioni tra magistrati requirenti e magistrati giudicanti". Secondo il ministro, una netta differenziazione serve "ad assicurare il valore di imparzialità e terzietà dei magistrati giudicanti, la parità tra pubblica accusa e difesa e a migliorare la qualità e l’efficienza dell’amministrazione della giustizia". Nel testo che domani arrivato in Consiglio dei ministri sono, infatti, previste deroghe alla procedura per il passaggio da magistrati requirenti a giudicanti che rappresentano il punto al centro delle critiche espresse dal ministro Bonino.

Consiglio Europa: Mauro Palma presidente Comitato Antitortura

 

Ansa, 7 marzo 2007

 

È italiano il nuovo presidente del comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti. Il comitato ha nominato Mauro Palma che era già da alcuni anni componente del comitato stesso ed è stato a lungo presidente dell’associazione Antigone, che si batte per i diritti nelle carceri. Mauro Palma, 59 anni, laureato in matematica, è da sempre impegnato nel campo della giustizia e dei diritti umani.

Nel 1991 ha fondato l’associazione "Antigone" per i diritti e le garanzie nel sistema penale e ne è ancora presidente onorario. Nel 2000 è stato eletto per la prima volta componente per l’Italia del Comitato europeo per la Prevenzione della tortura e dei trattamenti o pene inumani o degradanti del Consiglio d’Europa. È stato eletto per un secondo mandato nel dicembre 2004 e nel 2006 è diventato vice presidente del comitato.

Salute: a quando la chiusura degli Opg?

di Elisabetta Laganà (Presidente del Seac)

 

Seac Notizie, gennaio-febbraio 2007

 

"Gli Ospedali psichiatrici giudiziari vanno chiusi. Sono una tragedia silenziosa". Con questa frase una delegazione di politici, associazioni e rappresentanti del Forum Salute Mentale, ha concluso la visita all’Opg di Aversa effettuata pochi mesi fa. La situazione degli internati viene descritta in gravi condizioni di degrado fisico e psicologico; ripiegati su se stessi e completamente assenti o impegnati in gesti ripetitivi. Le celle sono completamente spoglie, prive di ogni tipo di arredo compresi tavoli e sedie. La stanza dei letti di contenzione, rimasta immutata in questi anni, è tuttora utilizzata.

Buona parte del personale infermieristico e psichiatrico è a contratto, con un monte ore assolutamente inefficiente per garantire cure adeguate. Il personale della Polizia penitenziaria non riceve alcuna specifica formazione per svolgere il proprio lavoro dentro questi istituti. La cifra per il vitto che l’Amministrazione penitenziaria destina giornalmente per gli internati è di 1,50 euro. In molte celle mancano carta igienica e sapone, ed in dicembre il riscaldamento è stato interrotto per un lungo periodo.

La lista dei disagi e delle privazioni dei diritti potrebbe continuare a lungo. Gli stessi operatori non esitano a definire la situazione "al collasso" e ritengono che circa la metà degli ospiti presenti negli Opg potrebbe essere presa in carico dai servizi territoriali ed avere risposte più adeguate e riabilitanti.

La responsabilità di queste mancate de-istituzionalizzazioni viene però attribuita alle ASL competenti per territorio, che a causa di carenze economiche non intendono gravare i loro servizi di utenza aggiuntiva.

Recentemente l’Usanam (Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale ) che si è riunita in congresso, tracciando un’ampia e dettagliata analisi sullo stato dei servizi di salute mentale e sulla loro diffusione nel territorio (l’ennesimo esempio di applicazione a macchia di leopardo di una fondamentale riforma) ha nettamente ribadito la chiusura degli OPG, l’eliminazione della contenzione fisica e farmacologia, sottolineando come l’elettroshock sia ancora una pratica utilizzata. Non ovunque, infatti, il processo di superamento dei manicomi è stato accompagnato dalla realizzazione di veri servizi territoriali; e laddove i manicomi sono stati superati permane, a parte poche eccezioni, una pratica manicomiale di intervento.

Allora cosa impedisce che si avvii veramente, una volta per tutte, una politica di riforma per il superamento di queste strutture?

Come spesso avviene quando si analizza la composizione della popolazione ospitata dalle istituzioni totali, capita di osservare che è prevalentemente costituita da soggetti che provengono da situazioni penalizzate di partenza; che, per capirci, non hanno avuto sufficiente potere sociale o economico, condizioni necessarie per poter accedere ad alternative meno drammatiche. Come sempre, la forbice economica che separa chi ha da chi ha meno, poco o nulla decide del destino e dei diritti dei soggetti, sulle possibilità di poter usufruire di una tutela della salute fisica e mentale che restituisca dignità alla persona e alla malattia.

Parallelamente a quanto sostenuto per la "normale" detenzione, anche per gli Opg il passaggio dal penale al sociale richiede pratiche di sostegno e di integrazione territoriale, diversa organizzazione dei servizi, distribuzione delle opportunità e delle risorse economiche. Fino a rimanere senza voce, il volontariato della giustizia non si stancherà di ribadire la propria azione di contrasto alle politiche di incremento dell’edilizia penitenziaria che ribadiscono risposte univoche al reato, e di sostenere forme di gestione diversificata degli illegalismi, che invece differenziano il senso della sanzione legale.

Nel settembre 2006 si è tenuto a Montelupo Fiorentino un convegno sul superamento degli Opg e il ruolo delle Regioni, promosso dalla Regione Toscana, dal comune di Montelupo, dalla Provincia di Firenze e dal Forum nazionale per il diritto alla salute in carcere. In relazione alla legislazione nazionale che prevede il passaggio dalla Sanità penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale (l. 230/99), la Regione Toscana ha emanato la legge n. 64 del 4.12.05. Muovendosi da questo quadro normativo si può tentare di definire un percorso di superamento e trasformazione degli Opg.

La legge regionale toscana prevede che l’assistenza sanitaria all’interno di tutti gli istituti penitenziari (quindi anche Opg e Case di Cura e Custodia) sia attribuita al Ssn. Questo passaggio di competenze può rappresentare lo strumento che realizzi alternative alle strutture attualmente esistenti, connotate in modo marcatamente carcerario. La trasformazione permetterebbe la nascita di situazioni maggiormente flessibili, agganciate al territorio, con i vantaggi di una mancanza di scollamento delle reti sociali e familiari, laddove il reinserimento nella rete di provenienza può essere un valore. Queste strutture alternative dovrebbero avere caratteristiche di dimensioni ridotte, per privilegiare il rapporto con gli operatori, e favorire la collaborazione di soggetti appartenenti al volontariato, all’associazionismo, a tutte le componenti sociali che si ritengono necessarie in un processo di riabilitazione.

La proposta avanzata alla fine del Convegno di Montelupo richiede di costituire un Progetto obiettivo nazionale che sia concordato, in sede di Commissione Stato-Regioni, tra il Ministero della Giustizia, il Ministero della Sanità e le Regioni e che preveda la consultazione con le associazioni di Volontariato e del Terzo settore e le organizzazioni sindacali confederali. Il progetto, che richiede la stretta collaborazione tra il sistema sanitario e quello penitenziario, dovrebbe stabilire modi e tempi per l’attribuzione dei ristretti negli Opg alle Regioni e quindi ai territori di provenienza, le tipologie differenziate delle strutture e dei servizi da realizzare, la quantificazione delle risorse finanziarie necessarie (di pertinenza sia del sanitario che del penitenziario). È inoltre necessario realizzare il potenziamento dei servizi psichiatrici del territorio e la collaborazione con essi attraverso politiche e linee guida per la definizione dei rapporti tra Opg e Asl.

È inoltre auspicabile che si crei, all’interno del Dap, un ufficio specifico che si occupi dell’Opg in modo continuativo e che sia coordinato da figure professionali che assicurino le competenze necessarie al monitoraggio e trasformazione di questi istituti.

Questa proposta, qui sintetizzata in alcuni punti, non richiederebbe una modifica delle attuali leggi, ma propone una transizione degli Opg e Ccc in grado di superare le attuali strutture utilizzando esclusivamente la normativa relativa al passaggio della sanità penitenziaria al Ssn. Questo non esclude (anzi è punto di arrivo) la necessità di dover affrontare questo problema anche in sede legislativa generale.

La cosa necessaria è che si faccia presto. Tanti volontari presenti quotidianamente in queste strutture raccolgono molte storie di vite bruciate, storie taglienti come lame, principalmente per chi le ha vissute ma anche per chi crede che la riabilitazione sia qualcosa di diverso dalle strutture attuali. Siamo del parere che è il momento di stringere tutte le energie e le idee che sostengono questo desiderio di ridare futuro e dignità a molte persone: molti operatori della salute mentale, dell’associazionismo, del volontariato, politici ed amministratori sono disposti ad impegnarsi in questa direzione sostenendo con forza l’idea del cambiamento. Affinché non saremo costretti, un giorno, a vergognarci del nostro silenzio.

 

Elisabetta Laganà, Presidente SEAC

Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario

Salute: sull’assistenza psichiatrica nel carcere di Bologna

 

Equal Pegaso, 7 marzo 2007

 

Abstract della ricerca condotta da Laura Astarita, coordinatrice dell’Osservatorio dell’Associazione Antigone.

Durante il convegno "Il Carcere fa male", svoltosi a Bologna il 23 febbraio scorso, sono stati presentati i risultati della ricerca "Le modalità dell’assistenza psichiatrica nel carcere di Bologna". Lo studio, promosso da "A buon diritto. Associazione per le libertà", raccoglie e analizza i dati disponibili in merito all’assistenza psichiatrica all’interno della Casa Circondariale di Bologna.

Le prime difficoltà di indagine sono emerse a causa della carenza di dati certi, completi e esaustivi sulla situazione dell’assistenza medica carceraria, con specifica attenzione a quella psichiatrica. È stata infatti introdotta in Emilia Romagna, a partire dal 2004, la Cartella Clinica Informatizzata per la medicina penitenziaria, ovvero un sistema di raccolta dati sul lavoro dei medici e degli operatori sui pazienti detenuti.

Tale progetto, potenzialmente molto utile per un continuo e rigoroso monitoraggio delle attività dell’Amministrazione Penitenziaria, non è però ancora operativo a pieno regime: mancano le risorse umane e finanziarie per gestire in modo efficiente il sistema della Cartella Clinica Informatizzata.

Tenute nella debita considerazione queste limitazioni, è in ogni caso possibile individuare alcuni snodi rilevanti in merito alla difficile questione dell’assistenza psichiatrica nel carcere di Bologna. La Dozza, la Casa circondariale della città, è l’istituto di transito della regione con una media di circa 3.500 ingressi l’anno. Al suo interno si trovano un Polo d’Accoglienza per i Nuovi Giunti, creato allo scopo di dare sostegno psicologico ai detenuti nella prima e cruciale fase di passaggio dalla libertà al sistema di detenzione, ed un Reparto di Osservazione Psichiatrica.

Quest’ultimo, in funzione dal luglio 2005, dovrebbe essere il luogo deputato all’osservazione psichiatrica eseguita direttamente in istituto, senza la necessità di ricorrere a strutture esterne (ad esempio, gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari). Come per il progetto della Cartella Clinica Informatizzata, però, i fondi stanziati per rendere operativo e funzionale il reparto sono ampiamente insufficienti. I locali sono inadeguati, c’è carenza di personale e, per mancanza di strutture idonee, è precluso l’accesso alle donne.

Lo stesso dirigente sanitario, il Dott. Paolillo, riteneva che il reparto d’osservazione psichiatrica, almeno nel 2005, non permettesse il rispetto pieno della dignità umana e l’applicazione del diritto a un’assistenza sanitaria adeguata. Ad oggi gli operatori non hanno rapporti con i servizi sanitari locali e di conseguenza sono impossibilitati a conoscere la storia pregressa dei detenuti con disagio psichico. Una simile carenza è da imputarsi innanzitutto nel mancato passaggio di competenze, in materia di salute in carcere, dal Ministero della Giustizia al Ministero della Sanità.

Dovrebbero infatti essere le aziende sanitarie locali a sviluppare strategie di intervento negli istituti penitenziari a tutela della salute; invece la sfera della malattia mentale è ancora a carico del sistema penitenziario, con tutte le gravi implicazioni che questo comporta, a scapito della tutela e del sostegno al detenuto. Benché i dati disponibili non lo confermino in modo chiaro, sembra attendibile l’ipotesi che l’incidenza delle patologie psichiatriche sul totale delle malattie riscontrate nel carcere di Bologna si attesti attorno al 20%. Sono ad ogni modo le donne i soggetti maggiormente colpiti da crisi d’ansia e da depressione (21,5%), mentre gli stranieri hanno più seri problemi di tossicodipendenza (31,5% sul totale delle patologie ascritte).

La ricerca della Dott.ssa Astarita ha reso noti anche i dati relativi alla somministrazione di farmaci. Il 43% dei medicinali consumati nel 2005 servono a curare patologie legate al sistema nervoso. Benché in questa categoria rientrino anche farmaci come analgesici e anestetici, va precisato che l’80% dei farmaci del sistema nervoso somministrati sono psicotropi. Il Lorans, una benzodiazepina, che in quanto tale ha effetto sedativo ma crea anche dipendenza, copre il 33% circa dell’intero consumo di farmaci del sistema nervoso e viene perlopiù somministrato ai tossicodipendenti.

A ciò si devono aggiungere altri 4 farmaci della stessa categoria che, insieme al Lorans, vanno a costituire il 50% del totale sul consumo di farmaci della del sistema nervoso. Questi dati suggeriscono considerazioni preoccupanti sul livello di farmacodipendenza all’interno della struttura carceraria, ma al tempo stesso sono forse anche indice degli scarsi e inadeguati mezzi a disposizione del personale sanitario.

Lo psichiatra non ha la possibilità di seguire il paziente in modo continuativo e strutturato, l’assenza di risorse umane e finanziarie impone ritmi di lavoro inadeguati al sostegno psicologico. Dovendo agire in uno stato di costante emergenza, il medico rischia di dover ricorrere alla somministrazione massiccia di farmaci, in mancanza di una reale funzione terapeutica.

La normativa vigente d’altra parte non prevede misure alternative alla detenzione per i soggetti affetti da patologie psichiatriche, salvo che queste non abbiano ripercussione sul fisico del paziente detenuto. Di conseguenza è ancora il carcere, o al limite l’Ospedale psichiatrico Giudiziario, il luogo in cui si deve affrontare il disagio psichico e sociale del paziente. Se a tale quadro normativo si aggiunge la carenza di fondi per la tutela della salute in carcere, si comprende come la reclusione rimanga l’unico rimedio possibile per arginare, anziché curare, il disagio psichico.

Salute: a Napoli "sotto esame" il cuore di duecento detenuti

 

Ansa, 7 marzo 2007

 

Duecento detenuti di Secondigliano sotto osservazione cardiologica per prevenire malattie del cuore. Dopo il carcere romano di Rebibbia e quello milanese di San Vittore è la volta della casa di pena napoletana a fare proprio il progetto proposto dalla casa farmaceutica giapponese "Takeda" al ministero della Giustizia. Ieri pomeriggio il Guardasigilli Clemente Mastella ha partecipato, nel penitenziario di Secondigliano, alla conferenza stampa di presentazione all’iniziativa "Diritto al cuore".

C’erano, tra gli altri, il giudice Armando D’Alterio, vice responsabile nazionale del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), il direttore del carcere Laura Passaretti, il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Tommaso Contestabile. Nel corso dell’incontro si è parlato del diritto alla salute, sono state rese note le cifre della detenzione in Campania che conta, dopo la Lombardia, la più numerosa popolazione carceraria. Sono 5541 i detenuti campani, un centinaio quelli ricoverati nei centri clinici.

In particolare in quello di Poggioreale sono ricoverati 41 detenuti, 81 a Secondigliano di cui 31 affetti da Hiv. Numerosi anche i detenuti internati: 107 nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli e 302 in quello di Aversa. Il tutto per una spesa sanitaria che, nel 2006, ha raggiunto 13 milioni e 571mila euro.

"È un’iniziativa nel segno della solidarietà - ha commentato il ministro Mastella - la salute è un bene tutelato dalla Costituzione, ecco perché iniziative come queste spero si verifichino ciclicamente. E spero anche che siano messe in atto da altre aziende". Il Guardasigilli ha ribadito che c’è grande attenzione nei confronti della popolazione carceraria.

"Lo dimostrano le mie frequenti visite". Poi ha anticipato una visita del Santo Padre al carcere minorile di Roma fissata per il 18 marzo. Il giudice D’Alterio ha sottolineato con soddisfazione il "recupero", operato da Mastella, di 12,5 milioni di euro per la sanità penitenziaria tagliati dall’ultima Finanziaria. I duecento detenuti di Secondigliano sotto test sono stati scelti a campione per età e costituzione fisica. I risultati saranno resi noti alla direzione sanitaria nei prossimi giorni.

Palermo: i "mestieri del mare", per il recupero della legalità

 

La Sicilia, 7 marzo 2007

 

Recuperare i "mestieri del mare", dalla pesca alla cantieristica, dalle saline alla itticoltura fino all’industria conserviera. E farlo utilizzando la manodopera dei detenuti, uomini e donne che, una volta pagato ogni debito nei confronti della giustizia, potranno reinserirsi nel mercato del lavoro grazie alle specifiche competenze acquisite.

È questo l’obiettivo del progetto "L’arte del corallo e gli altri mestieri del mare per il recupero della legalità" che sarà presentato venerdì prossimo durante un convegno che si svolgerà a Palermo, presso il castello Utveggio, sede del Cerisdi presieduto dal sen. Lillo Mannino. Al convegno è prevista la partecipazione di rappresentanti dell’amministrazione penitenziaria, della magistratura di sorveglianza e di docenti universitari. Interverranno anche esponenti dei governi nazionale e regionale.

Il progetto si inserisce nei percorsi trattamentali messi in campo dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria della Sicilia per il recupero dei carcerati. "Il nostro intento - ha spiegato Orazio Faramo, provveditore regionale del Dap - è quello di predisporre, con l’aiuto degli enti e dei servizi che lavorano sul territorio, un nuovo strumento di job-creation in grado di spezzare il circolo vizioso della recidiva per mancanza di lavoro".

Predisposte le risorse, il progetto partirà sin da subito con iniziative tutte legate allo sfruttamento della risorsa mare, intesa come particolare patrimonio naturale. Saranno le singole direzioni penitenziarie a collaborare con il tessuto imprenditoriale di riferimento per avviare la fase operativa. In questa direzione, si potrà fare riferimento all’iniziativa pilota "L’arte del corallo" della casa circondariale di Sciacca dove, già dallo scorso anno, ha preso il via un piano a favore del recupero dei detenuti che coinvolge tutti i "mestieri del mare".

Saluzzo: ieri una delegazione del Prc ha visitato il carcere

 

Asca, 7 marzo 2007

 

Una delegazione del Partito della Rifondazione comunista, formata dalla senatrice Daniela Alfonzi, dai consiglieri regionali Sergio Dalmasso e Juri Bossuto, dal funzionario del Gruppo consiliare Roberto Moretto e da Edgardo Filippi della L.I.D.A. (Lega Italiana Diritti Animali) ha visitato, ieri, lunedì 5 marzo, l’istituto penitenziario "La Felicina" di Saluzzo.

La struttura è aperta dal 1992 ed ha sostituito la vecchia "Castiglia" ubicata nel centro storico della cittadina; la capienza regolamentare per i detenuti è di 187, ma il carcere ne ha praticamente sempre contenuti il doppio - nel corso delle precedenti visite, stando a quanto riferito dai rappresentanti del PRC, la popolazione detenuta oscillava tra i 300 ed i 360 -; ora, dopo l’indulto i numeri sono molto più vicini al previsto: ieri erano 220. "Dobbiamo dire che la differenza si vede - hanno commentato -: con questi numeri più "umani" è molto più facile, per l’Amministrazione penitenziaria, fornire quelle possibilità di reinserimento sociale che la Costituzione prevede".

Ben 20 detenuti godono dei benefici dell’art. 21 (lavoro esterno) della legge carceraria e quasi tutti sono impiegati presso gli enti locali del territorio. A tal proposito, un significativo indice della recettività del territorio è dato dal fatto innovativo che questi detenuti hanno a disposizione un alloggio esterno in cui possono trascorrere quei momenti di relazioni socio-affettive che il loro programma trattamentale gli consente.

"La Polizia penitenziaria - hanno poi aggiunto i rappresentanti di ritorno dalla visita - continua a versare in una situazione di organico sottodimensionato, soprattutto a causa dei distacchi in altri istituti, soprattutto del Sud Italia. L’area pedagogica ora, grazie anche ai due educatori a tempo determinato assunti grazie alla recente legge regionale, riesce ad adempiere ottimamente al suo mandato istituzionale; residua però il problema della sempre più necessaria stabilizzazione di questi lavoratori. Sarà anche compito di questa delegazione adoperarsi presso il Governo in tal senso.

È positiva, ed ora anche quasi sufficiente rispetto all’attuale domanda, la presenza di corsi scolastici e di formazione professionale. Sono attivati corsi di alfabetizzazione (licenza elementare) frequentato in particolare da immigrati, ma anche da alcuni italiani; la formazione professionale propone due corsi biennali di falegnameria e per cuochi, uno (annuale) in florovivaistica - ed è interessante l’interazione di questo corso e di quello per cuochi con Slowfood - e vi è anche un corso in legatoria. È in funzione un laboratorio artistico di mosaico. Esiste uno storico giornalino interno che, alcune volte all’anno, esce come supplemento al "Corriere di Saluzzo". Da quasi un anno inoltre, la TV a circuito chiuso, oltre alla programmazione cinematografica, produce un Tg interno multilingue che ha suscitato un grande interesse del mondo dei mass media italiani ed esteri (BBC). Molto apprezzata all’esterno l’attività teatrale che tutti gli anni apre al mondo esterno le porte del carcere con suo spettacolo autoprodotto.

Alquanto deficitari sono invece i collegamenti dei servizi pubblici con la città di Saluzzo", hanno infine concluso.

Venezia: detenuta condannata per istigazione al suicidio

 

Il Gazzettino, 7 marzo 2007

 

Una detenuta della Giudecca ha convinto la compagna di cella a togliersi la vita e l’ha aiutata a mettere in atto il progetto infilandole un sacchetto in testa.

Un anno di reclusione per aver indotto la compagna di cella a togliersi a togliersi la vita. È la pena che il Tribunale di Venezia ha inflitto a Sylvia Pallisceck, una donna di 43 anni attualmente detenuta a Bologna. L’episodio finito sotto accusa è avvenuto nel carcere femminile della Giudecca ed è stato ricostruito in aula, davanti ai giudici della seconda sezione penale.

La donna che aveva tentato il suicidio, stata salvata grazie al tempestivo intervento del personale del penitenziario, ha spiegato che il quel periodo soffriva di depressione. Era finita in carcere sotto l’accusa di aver ucciso il proprio figlio e non era capace di farsene una ragione. Le stesse compagne di carcere l’accusavano di essere responsabile di quella morte e l’avevano messa all’indice per quel comportamento ritenuto ingiustificabile per una madre.

Nello stesso periodo la Pallisceck era stata privata del figlio, che per un po’ aveva cresciuto in carcere, e aveva iniziato dire alla compagna di cella che era meglio se si fosse tolta la vita. Questa frase le era stata ripetuta in continuazione fino a quando la donna, presa dalla disperazione, aveva deciso di farla finita davvero.

Il tentativo di suicidio viene messo in atto nei bagni del penitenziario veneziano: Sylvia Pallisceck aiuta la compagna di carcere a indossare un sacchetto di plastica sulla testa e a stringerle un laccio sul collo in modo da provocare il soffocamento.

Ma, mentre le due donne stanno mettendo in atto il terribile progetto, nei bagni entra un’altra detenuta, la quale si accorge di ciò che sta accadendo e dà immediatamente l’allarme. Gli agenti della polizia penitenziaria intervengono e rendono vano il tentativo di suicidio. L’inchiesta sull’episodio è stata coordinata dal sostituto procuratore Francesco Saverio Pavone, il quale a conclusione del processo ha sollecitato la condanna dell’imputata per istigazione al suicidio.

Sappe: Lazio; un nuovo segretario regionale e un sito internet

 

Comunicato stampa Sappe, 7 marzo 2007

 

Il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria del Lazio ha un nuovo Segretario Regionale ed approda in internet. Sono le novità sostanziali emerse nell’aula magna dell’Istituto Superiori di Studi Penitenziari di Roma, che ha ospitato questa mattina il Consiglio Regionale del Lazio del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, l’Organizzazione più rappresentativa del Personale che lavora nelle carceri regionali e nazionali.

All’incontro hanno partecipato i rappresentanti del Sappe dei 21 istituti e servizi penitenziari laziali ed i componenti la Segreteria Generale del Sappe con a capo il Segretario Generale, il vice questore aggiunto della Polizia Penitenziaria Donato Capece, che hanno eletto all’unanimità il nuovo Segretario Regionale: Maurizio Somma, 44 anni, ispettore superiore del Corpo e già segretario provinciale di Roma del Sappe.

Durante i lavori del Consiglio Regionale, è stato anche presentato il sito internet della Segreteria Regionale del Lazio - disponibile da qualche giorno all’indirizzo www.sappe-lazio.it.

Molto soddisfatto della scelta Giovanni Battista De Blasis, segretario generale aggiunto e coordinatore del Lazio per il Sappe negli ultimi quattro anni: "Un’ottima scelta, quella fatta all’unanimità dal Consiglio Regionale. Maurizio Somma ha condotto un’ottima attività nella provincia romana ed ha tutte le capacità per fare altrettanto in ambito regionale, dove il Sappe è da molto tempo il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria."

Soddisfatto dei lavori del Consiglio Regionale anche il Segretario Generale Capece: "Si è trattato di un appuntamento importante voluto dal Sindacato per "tastare il polso" delle Case circondariali e di Reclusione, delle Scuole di Formazione e degli Uffici e servizi penitenziari laziali. Sono emersi diversi problemi che saranno portati all’attenzione dei vertici del ministero della Giustizia, del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Provveditorato regionale penitenziario competente per individuare le soluzioni a problemi di carenza di personale e di sovraffollamento delle strutture che si trascinano da molti anni".

Durante i lavori, sono stati forniti i dati conseguenti all’approvazione della legge sull’indulto, con particolare riferimento alla situazione penitenziaria regionale. Nel riepilogo per Regione di detenzione sono, alla data del 16 febbraio scorso, circa 2.500 i detenuti (1.526 gli italiani, 956 gli stranieri) usciti dalle carceri romane e laziali a fronte di un dato nazionale di 25.694 beneficiari. Rientrati in carcere dopo aver beneficiato dell’indulto sono, a livello nazionale, 3.348 soggetti. Di questi, in Lazio ne sono rientrati 339 (6 donne e 201 uomini italiani, 5 donne e 127 uomini stranieri). Oggi le carceri laziali detengono 288 donne e 3.838 uomini per una popolazione detenuta complessiva di 4.126 unità rispetto ad una capienza regolamentare dei 4.649 posti.

Immigrazione: Ismu; in Italia 4 milioni di stranieri a inizio 2006

 

Apcom, 7 marzo 2007

 

Sono quattro milioni gli immigrati censiti in Italia all’inizio del 2006. Il che significa che il 7% della popolazione italiana è costituita da stranieri. Di essi il 22% sono minori, pari al 5% degli iscritti a scuola. E i dati per i prossimi dieci anni parlano di una ulteriore crescita: nel 2016 le stime indicano la presenza di circa 7 milioni di immigrati con una forte riduzione, fino al 10% circa, della componente più produttiva, quella tra i 25 e i 44enni a vantaggio degli ultra 45enni che passerebbero dall’attuale 14,3% al 23-25%. È questo il quadro sul fenomeno dell’immigrazione in Italia emerso dal XII Rapporto sulle migrazioni elaborato dalla Fondazione Ismu e presentato questa mattina a Milano.

Dei quattro milioni di immigrati rilevati nel 2006 i regolari hanno superato la soglia dei 3 milioni a fronte dei 769 mila irregolari del luglio scorso, pari al 19,4% del totale, in aumento del 3,3% rispetto all’anno prima. Persistente è, secondo i dati Ismu, l’aumento dei minori: dalle 50l mila presenze straniere del 1991 a fine 2005 si è arrivati a 585 mila, pari a circa il 22% dell’intera popolazione straniera. Un forte impulso deriva dalle nascite passate da 34 mila nel 2003 a quasi 52 mila. A preoccupare, però, è soprattutto il numero dei minori non accompagnati, passati dai 5.663 del 2002 ai 7.583 nel 2005, dato che investe in prima istanza la Lombardia con una concentrazione pari a circa 1.500 seguita da Lazio (1.292) e Sicilia (942).

Sotto il profilo occupazionale, l’Inail ha calcolato che i lavoratori stranieri a fine 2005 erano 1,7 milioni, pari al 16% del totale delle assunzioni. Di questi il 50% circa è impiegato nel settore dei servizi e l’85% ha un contratto a tempo indeterminato. In questo contesto spicca il protagonismo delle donne che, come segnala l’Ismu, si fa particolarmente evidente tra le immigrate dell’Est Europa per quanto concerne il lavoro domestico, e tra le donne cinesi per quanto attiene l’iniziativa imprenditoriale. Cresce anche il numero degli immigrati proprietari di case: a possedere un alloggio a metà del 2005 erano oltre il 10,9% degli extracomunitari che hanno concluso 116 mila acquisti nel corso dello scorso anno.

L’integrazione sociale, però, passa soprattutto attraverso l’educazione scolastica. E i dati sugli immigrati in classe sembrano andare proprio in questa direzione: nel corso degli ultimi 10 anni gli iscritti sono aumentati di circa otto volte superando la soglia dei 424 mila studenti. E per la prima volta nell’anno scolastico 2005-2006 la percentuale di stranieri iscritti alla secondaria di secondo grado ha superato quella degli iscritti alla scuola per l’infanzia con il 19,4% contro il 19,2% sul totale degli stranieri iscritti. Stabile invece il dato degli stranieri detenuti nelle carceri italiane: a luglio del 2006 rappresentavano il 33% del totale della popolazione, percentuale rimasta pressoché invariata anche dopo l’entrata in vigore dell’indulto che a metà novembre aveva già portato fuori dal gabbio oltre 17.400 persone. Un dato importante che si ricollega ad una situazione del tutto nuova per le carceri italiane dove, dopo anni, le presenze sono tornate sotto la soglia regolamentare delle 42.233 unità.

Immigrazione: rom cattivi per forza e la paura che ci ossessiona

 

La Repubblica, 7 marzo 2007

 

La paura è la tonalità emotiva che, in misura sempre più crescente, fa da sottofondo alla vita nelle città. Una paura di cui si fa fatica a rintracciare le origini, che non si sa dunque elaborare o almeno rendere relativa. Man mano si ingigantisce, arrivando così al suo vero scopo: nascondere il vuoto di significati e di relazioni vere, occultare la perdita di sicurezze sociali e di fiducia nel futuro.

I sociologi e gli economisti ci spiegano che per la prima volta le nuove generazioni sono destinate a stare sensibilmente peggio delle precedenti, che i figli saranno molto più poveri dei genitori. Così la paura si impadronisce dei nostri pensieri, sino a ossessionarli, e determina gli stili di vita. Soprattutto, cerca di dare un volto e un nome alle ansie. Allora, costruisce un nemico.

I rom sono il nemico perfetto. I rom sono solo cattivi. Sono tutti ladri. Sono persone con cui è arduo stringere patti, impossibile costringerli a regole. E chi ci prova, come don Colmegna, va comunque guardato con sospetto: simpatizza con il nemico. La borghesia milanese si interroga. Ma per afferrare qualche risposta bisogna arrivare alla radice, laddove non basta tollerare l’altro ma riuscire per davvero ad accettarlo.

Per come è, non per come vorremmo farlo diventare, più simile a noi. Rajnko Djuric, scrittore e poeta, due volte candidato al Nobel per la letteratura, siede nel parlamento serbo in rappresentanza di un partito rom. Guardando all’Italia, ha citato Roland Barthes: "Il paternalismo è l’altra faccia del razzismo". Una piccola e scomoda verità che, dopo Opera, non è diventata meno vera. Tacerla o tralasciarla può essere necessario, ma è un triste segno dei tempi.

 

Sergio Segio

Droghe: la Croce Rossa favorevole all'acquisto dell'oppio afgano

 

La Repubblica, 7 marzo 2007

 

Nelle polemiche politiche Massimo Barra, presidente della Croce Rossa Italiana (Cri), non vuole entrare, ma è pronto a difendere la scelta di appoggiare l’idea di acquistare l’oppio afgano e trasformarlo in morfina e codeina: "È una proposta medica e umanitaria, non politica".

 

Dottor Barra, perché la Cri sostiene questo progetto?

"La Croce rossa è neutrale e indipendente, ma non è neutrale nei confronti della sofferenza umana. Siamo contro il dolore e sottolineiamo la necessità che ci sia una terapia del dolore anche nei paesi in via di sviluppo, dove nessuno si preoccupa della sofferenza atroce in cui vivono migliaia di malati".

 

Ma perche l’oppio afgano? Ci sono altri paesi produttori, dove il mercato è in mano a attori più legali di quelli afgani...

L’Afghanistan produce una grande quantità di oppio: questa sostanza è la matrice dell’eroina, che è illegale, ma anche della morfina e della codeina, che sono legali. Non si capisce perché il mercato afgano debba essere lasciato in mano ad attori illegali quando è possibile acquistare l’oppio e usarlo per farmaci che possono essere impiegati nella terapia contro il dolore. Il 50% del Pil afgano è legato all’oppio. È impensabile sradicarlo completamente: meglio convertirlo in qualcosa

di utile".

 

Cosa propone la Cri?

"Siamo pronti a fare da garante per la coltivazione di oppio nelle zone dove operano i soldati italiani. Insieme alle altre colture che stiamo già aiutando a sviluppare potremmo instaurare una coltivazione controllata di oppio destinato a essere trasformato in morfina".

 

Che l’opposizione contesta...

"Io credo che ci siano i margini per una sperimentazione. Occorre avere l’umiltà di ammettere che fino a questo momento tutti gli approcci tentati per risolvere il problema dell’oppio afgano sono falliti".

Droghe: Usa; un esame del sangue per sapere chi è "a rischio"

 

Ansa, 7 marzo 2007

 

Un esame del sangue potrebbe "diagnosticare" il rischio di divenire tossicodipendente, iniziare a fumare, avere disturbi di personalità o psicologici come gli attacchi di panico. È infatti in fase di sviluppo per uso commerciale presso l’Università americana di Iowa un test che si basa sull’analisi dell’attività dei geni delle cellule del sangue. La notizia, non scevra da dilemmi etici, è stata annunciata sull’American Journal of Medical Genetics.

Secondo quanto riferito dal coordinatore del lavoro Robert Philibert, sono state già compiute verifiche sperimentali preliminari per vedere se un test simile possa evidenziare la predisposizione individuale a soffrire di attacchi di panico.

Con la conoscenza del genoma umano si è aperto un ampio ventaglio di possibilità per lo studio e la cura di molte malattie: dalle terapie su misura a stime del rischio di soffrire in futuro di malattie come cancro e infarto.

Su queste stesse basi, spiega Philibert, si può pensare a test per stimare quanto ciascuno è vulnerabile alla dipendenza da sostanze, da nicotina a marijuana e droghe, oppure se è geneticamente predisposto a soffrire di disturbi della personalità o del comportamento. In questa maniera, sostiene Philibert, si possono prendere misure preventive così come oggi si dice a chi rischia l’infarto di adottare stili di vita sani.

L’idea di test simili, spiega Philibert, viene da precedenti studi in cui si era visto per esempio che nelle cellule bianche del sangue di fumatori e non fumatori i geni lavoravano a ritmi differenti. Nei fumatori qualcosa come 579 geni erano più attivi, mentre 584 geni lo erano meno. Misurando il profilo individuale dell’attività dei geni, spiega Philibert, si possono scoprire differenze tra persone, individuare predisposizioni o vulnerabilità.

Per ora gli esperti hanno coinvolto un gruppo di persone con attacchi di panico e individui sani. Testando il profilo genetico dei loro linfociti, i ricercatori hanno trovato differenze costanti tra i due gruppi e ora stanno procedendo allo sviluppo commerciale di un test.

"Siamo consci dei dilemmi etici che test simili possono alimentare e di come potrebbero essere usati da datori di lavoro, assicuratori e altri, ma test simili saranno utilissimi per la persona, miglioreranno la diagnosi di certi disturbi come gli attacchi di panico e forniranno il profilo dettagliato di varie malattie sì da suggerire nuove terapie".

Usa: per gli ex detenuti le "probabilità di morte" sono triple

 

Associated Press, 7 marzo 2007

 

Di carcere e detenzione si parla o per tristi motivi di cronaca o, quando va molto bene, come spazi di recupero di situazioni sociali critiche sfociate nella criminalità. Di tutte queste persone e delle loro storie, tuttavia si perdono le tracce, almeno apparentemente, nella fase successiva alla fine del periodo di reclusione. A meno che non diventino protagonisti di altri crimini per tornare di nuovo nell’ambito della cronaca.

Un monitoraggio del dopo-carcere non è rimasto del tutto indifferente a molti gruppi di lavoro che hanno orientato le proprie ricerche verso queste realtà, utilizzando registri nazionali, per scoprire che, purtroppo, si tratta di un momento critico nella vita di queste persone. E più che la salute, è il caso di dirlo ne va proprio della loro vita.

Infatti sono numerosi i risultati che riportano un aumento della mortalità o comunque un tasso di mortalità decisamente superiore al resto della popolazione. È evidente che il rilascio di detenuti li porta a vivere condizioni di stress causati dalla ricerca di un’abitazione e di un lavoro e il reintegro nella famiglia e più in generale, nella comunità. Che gli ex-detenuti siano esposti maggiormente a rischi fatali lo dimostra anche uno di questi lavori recentemente comparso sulla rivista The New England Journal of Medicine con dati limitati allo Stato di Washington.

Tra il 1999 e il 2003 sono state rilasciate circa 30 mila persone dal Department of Corrections dello Stato di Washington, il National Death Index, ha invece fornito i dati sulla mortalità. Nel confronto con la popolazione generale il tasso di mortalità era effettivamente diverso: nei due anni successivi al rilascio, se nella popolazione residente nello stato c’erano stati 223 decessi ogni 100 mila persone l’anno, tra gli ex-detenuti il numero saliva a 777, cioè più che triplicato. Il che si traduce in un rischio relativo 3,5 volte più alto. Limitando l’analisi alle prime due settimane dall’uscita di prigione, la tendenza subiva un’impennata arrivando a 2.589 decessi, cioè un rischio relativo 12,7 volte più alto rispetto agli altri residenti, e a 3.661 solo nella prima settimana.

Analizzando le cause di morte, le più comuni e quindi identificate come fattori di rischio, erano l’overdose di droghe, le malattie cardiovascolari, l’omicidio e il suicidio. Il periodo di astinenza può aver determinato una minore tolleranza fisiologica alle droghe, causa di overdose. Il rischio di cadere vittima di omicidio vedeva spesso il coinvolgimento di armi da fuoco mentre quello di morire per cause cardiovascolari o per un tumore al polmone, si poteva mettere in relazione all’alta prevalenza di tabagismo nelle carceri.

Inoltre le difficoltà del reintegro potrebbero aver generato malattia mentale e stress psicologico che più spesso sfociano nel suicidio, anche perché una persona mentalmente malata potrebbe aver incontrato difficoltà nell’ottenere cure nel momento in cui quelle fornite dal carcere si esaurivano. Si tratta, quindi, di circostanze decisamente meno probabili nell’ambito carcerario su cui c’è un maggior controllo rispetto a quanto poi accade al di fuori delle mura.

 

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