Rassegna stampa 6 marzo

 

Giustizia: il governo temporeggia e la "ex-Cirielli" fa danni

di Vittorio Grevi (Docente di diritto penale a Pavia)

 

Corriere della Sera, 6 marzo 2007

 

L’assenza, nel dodecalogo sulle "priorità non negoziabili" redatto dal presidente Prodi, di qualunque riferimento ai problemi della giustizia, può essere letta in due modi diversi. La prima chiave di lettura è quella di chi vi coglie, con tono polemico, la conferma di un preteso disinteresse, da parte del presidente del Consiglio, per il buon funzionamento del "sistema giustizia", nonché per le conseguenti esigenze di interventi legislativi ed amministrativi.

Se così fosse, tuttavia, sarebbe clamoroso il dietrofront rispetto ai propositi espressi nel programma di governo, e poi più volte richiamati, ragion per cui una interpretazione del genere non appare credibile.

La seconda chiave di lettura si fonda, invece, sul rilievo che nel campo della giustizia non si manifestano grandi tensioni, né pericolose divergenze, all’interno della compagine governativa, proprio grazie alla base comune fornita, sia pure talora in forma troppo generica, dal suddetto programma. Sicché, date queste premesse, non si è ritenuto necessario includere anche la politica per la giustizia tra i punti per i quali occorreva ribadire il concorde impegno prioritario della maggioranza, tale impegno non essendo mai stato posto in dubbio.

Se quest’ultima, a quanto pare, è la chiave di lettura corrispondente alla realtà, è però impossibile non constatare che negli oltre nove mesi finora trascorsi dall’insediamento del nuovo governo molto poco è stato fatto perla "questione giustizia" (come pure per la "questione corruzione" e per certi aspetti della "questione mafia", che ad essa si riconnettono). Non solo sul piano dei risultati ottenuti, ciò che si potrebbe forse comprendere, per via delle difficoltà dei percorsi parlamentari, ma anche sul piano dei progetti di riforme legislative a più riprese annunciati, eppure per larga parte non ancora presentati. A cominciare dai progetti di interventi settoriali diretti a razionalizzare i modelli del processo civile e del processo penale, nel senso dello snellimento e della accelerazione dei rispettivi itinerari procedurali (naturalmente nel rispetto dei limiti imposti dalle garanzie costituzionali del "giusto processo"), ovvero diretti a rafforzare le strutture amministrative di supporto dell’attività giudiziaria, in particolare attraverso la istituzione dell’"ufficio per il processo".

A proposito di strutture della giustizia, il problema di maggiore urgenza è senza dubbio quello relativo alla riforma dell’ordinamento giudiziario, specialmente in rapporto alla disciplina concernente l’accesso, la carriera ed i controlli di professionalità dei magistrati, la cui efficacia è stata sospesa fino al prossimo 31 luglio. Entro tale data, dunque, il ministro Mastella dovrà adoperarsi per il varo di una nuova corrispondente disciplina (per sua natura piuttosto difficile e complessa); tuttavia appare davvero singolare che, a tutt’oggi, non sia stato ancora presentato allo scopo alcun disegno di legge.

Per quanto riguarda, più in dettaglio, l’area della giustizia penale, bisogna dire che le intenzioni dichiarate dallo stesso ministro Mastella si muovono nel verso giusto, laddove puntano a ridurre i tempi di durata dei processi, mediante appositi ritocchi mirati sui meccanismi (così in materia di competenza, di notificazioni, di nullità ed inutilizzabilità degli atti, di riti alternativi, etc.) nei quali si annidano talora inutili appesantimenti della attività processuale.

Sennonché occorre far presto, soprattutto nei settori nei quali ogni giorno aumentano i problemi di funzionalità del sistema: come sono, per esempio, quello delle impugnazioni (bisognoso oggi di essere comunque riequilibrato, dopo la sentenza costituzionale che ha colpito la "legge Pecorella"), e più ancora quello della prescrizione dei reati. È innegabile, infatti, che la "legge ex Cirielli" continuerà a produrre i suoi nefasti effetti fulminanti sui processi (presenti e futuri), finché non verranno modificate le improvvide scelte che vi sono contenute, nel senso dell’abbattimento dei termini di prescrizione. Ma, allora, perché si continua a temporeggiare?

Giustizia: An; "lavori forzati" per i detenuti, o niente benefici

 

La Stampa, 6 marzo 2007

 

"Non penso certo a detenuti in catene con le palle ai piedi, ma credo sia giusto rendere obbligatorio, per i carcerati con una condanna definitiva, lo svolgimento di un lavoro utile per la società. In questo senso si può parlare di lavori forzati. Forzati nel senso di coatti ma senza sfruttamento: lo Stato pagherà loro uno stipendio".

Ugo Martinat, senatore e segretario piemontese di An, illustra lo spirito del disegno di legge che potrebbe modificare - se approvato - la vita dietro le sbarre di migliaia di condannati.

Il disegno di legge del senatore di An punta a "rendere effettivo il processo di rieducazione dei detenuti non solo durante il regime di semilibertà ma anche nel corso del periodo della detenzione effettiva".

I "lavori forzati" dovrebbero interessare solo i detenuti con una sentenza definitiva da scontare. Per tutti loro verrebbe reso obbligatorio lo svolgimento di un lavoro socialmente utile, anche in base alle loro competenze. Resta la possibilità di rifiutare ma "in questo caso il detenuto perderà il diritto ad usufruire dei benefici permessi dalla legge Gozzini, cioè il regime di semilibertà, ed ulteriori sconti di pena", precisa Martinat.

Ma quali lavori svolgeranno i detenuti? "Si cercherà di sfruttare eventuali competenze professionali. Un commercialista potrebbe essere impiegato nel suo settore di lavoro. Chi non ha una qualifica dovrebbe essere utilizzato per lavori all’esterno, ad esempio per la messa in sicurezza degli argini dei fiumi".

I carcerati riceveranno uno stipendio. Una "parte, la metà - precisa il senatore - servirà per pagare il loro mantenimento all’interno del carcere mentre il restante 50 per cento servirà come risarcimento dei danni subiti dalle vittime dei loro reati". Aggiunge: "Dovranno essere riconosciuti anche i danni morali subiti ad esempio dai tanti cittadini vittime della micro-delinquenza che imperversa nelle nostre città".

Martinat mette nel conto le critiche, ma spiega che "nei più grandi Paesi dell’Occidente il lavoro coatto è uno dei principi che ispira la rieducazione nelle carceri" e assicura che "tutto avverrà nel rispetto del diritto". Già, ma i costi? "L’indulto ha svuotato le carceri, e gli effetti si vedono sull’ordine pubblico e, comunque, in ogni caso il rapporto costi/benefici è sicuramente positivo per lo stato".

La condanna penale al lavoro coatto su imbarcazioni a remi fu in età moderna particolarmente diffusa a Venezia e dal XVI secolo in Francia. In particolare durante il regno di Luigi XIV (1643-1715) quasi quarantamila persone furono i condannati alle galere. La loro condizione era del tutto equiparata a quella degli schiavi.

Martinat ribadisce: "Io non voglio mettere la palla al piede dei condannati, ma è giusto che chi sta in carcere risarcisca con il proprio lavoro il danno provocato alla società e alle vittime dei suoi reati".

Giustizia: a Padova la "macchina della verità" per dieci killer

 

La Stampa, 6 marzo 2007

 

Macchina della verità per dieci killer italiani. A Padova i primi test segreti, solo per volontari.

Il team è composto da assassini e stupratori: dieci in tutto. Alcuni sono rei confessi; altri, invece, sono stati incastrati soltanto grazie ad indagini complesse, durate talvolta anche anni. I loro nomi sono noti al grande pubblico, tanto efferati sono i crimini che hanno commesso.

Da oggi, questi dieci campioni di criminalità fanno parte di un team scientifico: un gruppo di studio assolutamente unico nel Paese. Con il placet dei penitenziari dove stanno scontando la pena, sono diventi tutti cavie volontarie di una sperimentazione appena partita sulla prima macchina della verità totalmente "made in Italy".

Il sistema che i dieci assassini contribuiscono a mettere a punto è considerato dal mondo scientifico nuovo e rivoluzionario. E qualcuno è già pronto a scommettere che incanalerà in una nuova direzione il mondo della "lie detection", ovvero la scoperta della bugia a fini di giustizia e attraverso fantascientifiche macchine elettroniche.

L’idea di coinvolgere in questa ricerca, che parte dall’università di Padova, criminali ampiamente noti e con tanto di condanna ormai passata in giudicato è venuta al padre di questa macchina ancora in fase di studio. Lui si chiama Giuseppe Sartori e non è un inventore patito di fantascienza, ma un fin troppo pacato e riflessivo docente di Psicologia clinica e di Neuroscienze cognitive dell’università padovana. Una convenzione firmata tra l’Università e l’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, nel Mantovano, ha consentito di dare il via alla sperimentazione.

I risultati? Segreti, anzi segretissimi. Come, del resto, è tenuta nascosta anche l’identità di chi ha scelto di mettersi alla prova di fronte alla macchina inventata da Sartori. E di rispondere a una raffica di domande, le cui risposte verranno poi confrontate con quella che ormai è diventata la verità ufficiale, vale a dire quella che emerge dalle carte dei vari processi.

Dal punto di vista scientifico l’iniziativa del docente padovano rappresenta una novità assoluta. Non servono fiale di inibitori di volontà, non servono droghe più o meno pericolose per la salute per far parlare il sospetto. E anche se si suda a dismisura, e i battiti del suo cuore risultato accelerati, magari per un problema cardiaco, oppure un fortissimo momento di stress emotivo, la macchina padovana non si lascia ingannare. Sfodera la marcia in più che ha rispetto a tutti gli altri prototipi fin qui sperimentati e va diretta al cuore del problema. Ovvero alla verità.

"Il sistema si basa sui tempi di reazione e di risposta del sospettato" spiega Giuseppe Sartori. Un semplice computer e un programma dedicato sono, cioè, in grado di compiere quei miracoli che fino a non molto tempo fa non erano neppure immaginali. Anzi, erano fantascienza purissima.

Il riservatissimo professore padovano ha imbarcato nella sua avventura anche altri studiosi e ricercatori, così da raccogliere in tempi relativamente brevi il materiale per lo studio e per condurre le prime sperimentazioni. Su volontari normali e su altri che hanno nei documenti il bollo che li certifica come criminali doc, firmato da un tribunale. I dati ottenuti serviranno, in buona sostanza, a tarare la macchina. Stilando una sorta di manuale sul quale potranno basarsi i futuri utilizzatori per trarre le loro conclusioni.

Così, se il killer spietato che Castiglione delle Stiviere consegna allo scienziato per qualche giorno, risponde in modo preciso chi, un giorno, commetterà reati simili, avrà, almeno in teoria, ben poca chance di sfuggire alla giustizia.

Monica Marchetti, psicologa esperta in psicopatologia forense guarda già al futuro. E dice: "Se questa macchina della verità dovesse funzionare davvero significherebbe che stiamo per mandare in soffitta molto di ciò che è stato fatto fino ad oggi. Insomma: potrebbero esserci meno test proiettivi, meno osservazione diretta sul sospettato e affondi più rapido verso il cuore del problema". "Uno stile fin troppo americano" liquida, qualcuno, tutta la questione, storcendo il naso di fronte alle novità partorite in quel di Padova.

Ma il professor Giuseppe Sartori non si scompone. E va avanti per la sua strada. L’elenco dei killer che Castiglione delle Stiviere può sfornare è lunghissimo. E copre pressoché tutta la casistica criminale.

Giustizia: "carcere duro" e diritti fondamentali

di Patrizio Gonnella (Presidente Associazione Antigone)

 

Il Manifesto, 6 marzo 2007

 

I detenuti sottoposti al regime penitenziario duro previsto dall’articolo 41 bis della legge penitenziaria erano 766 il primo gennaio del 2003, sono 521 oggi. Su questa riduzione ha solo in parte inciso il giudizio dei Tribunali di Sorveglianza che ne hanno ridimensionato l’applicazione accogliendo un certo numero di reclami proposti dai detenuti.

È questa una buona o una cattiva notizia? Da giorni ne discutono politici, magistrati, giornalisti su varie testate. Il Presidente della Commissione antimafia ha chiesto al ministro della giustizia di riferirne in Commissione.

Più che rispondere a questa domanda è necessario fare alcune precisazioni. 1) Il regime duro di cui all’articolo 41 bis era nato come mezzo straordinario e non come ordinaria misura di esecuzione penitenziaria per chi era condannato o imputato di mafia. 2) La politica criminale non si fa imponendo trattamenti carcerari contrari al senso di umanità. Le legittime preoccupazioni investigative non possono mai tradursi in violazioni ai diritti fondamentali.

Non è possibile sacrificare sul terreno del pragmatismo inquirente i principi basilari del nostro ordinamento, altrimenti si può arrivare fino a giustificare la tortura. D’altronde nello stato di diritto bisogna trovare soluzioni meno tragiche dell’isolamento alla Papillon per recidere i legami con l’esterno. 3) Va contrastata ogni tentazione di usare il 41 bis per indurre alla collaborazione con la giustizia. In tal senso in passato, ingenuamente, si erano espressi alcuni funzionari dell’amministrazione penitenziaria. 4) I Tribunali di Sorveglianza hanno, tra gli altri, il compito di assicurare la legalità delle procedure. Visto che il regime duro del 41 bis è imposto con atto ministeriale, sia la Corte costituzionale con le sentenze 349 e 410 del 1993, sia il Comitato europeo per la prevenzione della tortura hanno richiesto una effettiva tutela giurisdizionale per i detenuti sottoposti a tale regime. 5) I regimi penitenziari duri, nelle loro svariate ramificazioni, si sono ampliati e il numero dei detenuti che vi è sottoposto è cresciuto percentualmente negli ultimi anni.

Se è vero che il 41 bis ha avuto una flessione è altresì vero che circa un quinto del totale della popolazione detenuta è comunque assoggettato ad altri regimi di particolare sicurezza denominati As, Eiv, sorveglianza particolare. A tali persone con provvedimenti amministrativi, e senza possibilità di ricorso alla magistratura, viene praticamente azzerata la possibilità di partecipare alle attività di socializzazione organizzate nel carcere.

Il cosiddetto 41 bis è stata una evoluzione rispetto al famigerato articolo 90 della legge penitenziaria, ampiamente usato negli anni del terrorismo, che consentiva all’amministrazione penitenziaria di imporre trattamenti durissimi con un semplice atto amministrativo e senza possibilità di controllo da parte della magistratura.

Un ritorno alle pratiche delle carceri speciali degli anni settanta e ottanta sarebbe palesemente incostituzionale. Invece, sarebbe cosa buona e giusta rivedere tutte le forme di classificazione dei detenuti, estendendo le ipotesi di trattamento aperto visto che, oggi, nonostante una popolazione detenuta composta nella maggior parte da soggetti dalla bassa pericolosità criminale, solo poche centinaia ne usufruiscono.

Il contrasto alle organizzazioni criminali deve avvenire preventivamente sul territorio. Non è una politica vincente e lungimirante quella che delega la gestione investigativa al sistema carcerario. In tal modo si annacqua la portata applicativa dell’articolo 27 della Costituzione, che va in ogni occasione ribadito, prevede che la pena non debba consistere in trattamenti contrari al senso di umanità.

Giustizia: il 41-bis è diventato una maschera di Carnevale

 

www.giustiziagiusta, 6 marzo 2007

 

Titolo di un giornale siciliano (e titoli analoghi in giornali d’ogni parte d’Italia): "Revocato al boss il carcere duro Mastella lo ripristina per decreto".

È questa del regime carcerario di Nino Madonia una vicenda esemplare. Direi che già il titolo degli articoli di stampa che ne danno notizia varrebbe a delineare tutta l’assurdità di un istituto ibrido, vergognoso di sé, ambiguo nella sua gravità. Esplicito, ancora una volta, il termine usato dalla stampa: "il carcere duro".

Da piccolo molto ero impressionato e mi commuovevo leggendo di Confalonieri, Maroncelli e Pellico che i cattivi austriaci avevano fatto languire per tanti anni nel "carcere duro" dello Spielberg, nientemeno che in Boemia. Nei nostri codici non c’è una pena del "carcere duro" o del carcere …"tenero". Nemmeno nella legge penitenziaria c’è menzione del "carcere duro" o di qualcosa che potrebbe assomigliargli. E ciò malgrado l’aggiunta di quell’art. "41 bis".

Che non prevede affatto il "carcere duro" o altra forma di aggravamento afflittivo della detenzione, bensì la possibilità "sospendere le normali regole di trattamento" nei confronti di imputati e condannati per delitti di mafia, droga e terrorismo (comma 2). Le regole sospese debbono risultare in concreto contrasto con esigenze di sicurezza e di ordine pubblico e consistere in restrizioni dirette ad impedire i collegamenti dei detenuti stessi con organizzazioni criminali operanti all’esterno.

Ora si potrebbe ritenere che quell’espressione "carcere duro", che campeggia nel titolo relativo alla vicenda di Madonia, sia semplicemente l’espressione dell’ignoranza e dell’approssimazione del giornalista che ha confezionato il titolo o l’articolo. In realtà non è affatto così.

Quell’espressione riproduce addirittura quanto detto e ripetuto durante le discussioni parlamentari, sia in occasione dell’approvazione della prima versione dell’art. 41 bis (L. 10.10.1986 n. 663) sia ed ancor più chiaramente durante la discussione della modifica di essa con la "normalizzazione" della situazione di emergenza per così dire generale che in precedenza limitava nel tempo il potere del Ministro, e, quindi con la adozione del testo attuale (L. 23 dicembre 2002 n. 279).

Si deve allora convenire che questo ricorrente "errore" consistente nel definire "carcere duro" quello che secondo la lettera e le espresse disposizioni di legge è semplicemente un trattamento differenziato in funzione di una specifica finalità, quella di impedire che i boss continuino ad esercitare il loro potere criminale dall’interno del carcere, è una sorta di lapsus freudiano, una "licenza di verità" che per un attimo e nella mera apparenza dell’errore e della approssimazione, strappa la maschera alla realtà di questo trattamento speciale.

Del resto basta considerare che questo Nino Madonia è detenuto addirittura dal 1992 in regime "speciale"; evidentemente attraverso "proroghe" di anno in anno con successivi decreti. Quando alla fine il Tribunale di sorveglianza di Torino (che, tra l’altro non risulta davvero essere uno dei più "teneri" al riguardo) ha ritenuto di dover revocare la misura, probabilmente rilevando che la litania del "perdurante sussistere dei collegamenti con la cosca etc. etc." altro non era che una "motivazione di stile", se non prestampata certo riprodotta senza alcun concreto riferimento a fatti specifici attuali, è insorta la Procura Antimafia di Palermo proclamando l’attualità dei "collegamenti tra Madonia e l’associazione a delinquere di provenienza" e sostenendo che egli "è sempre rimasto di fatto il "capo-mandamento di Resuttana".

Ora se dal 1992, benché sottoposto al regime carcerario che si sostiene "modificato" in funzione proprio dell’interdizione di rapporti con "l’esterno criminale" e della continuazione del ruolo di preminenza dei capi delle organizzazioni mafiose, Madonia ha potuto continuare bellamente ad esercitare le funzioni di capo-mandamento di Resuttana.

Mastella, Lo Forte, Grasso, Procure locali e nazionali, mafiologi d’ogni livello, specializzazioni e risma, legislatori, giudici, giornalisti, dovrebbero prendere atto che questo regime speciale non serve ad un bel niente. Tanto più che quello che si è detto e ripetuto per Madonia si è ripetuto e si ripete per tutti i detenuti sottoposti al 41 bis nei confronti dei quali il provvedimento viene pressoché automaticamente rinnovato da anni e che sempre continuerebbero, ciò malgrado, ad esercitare il loro potere criminale.

Se nessuno, di fronte all’evidenza della - da essi stessi asserita e proclamata - totale inutilità del regime speciale al fine "ufficiale", ha fatto questa considerazione e non l’ha fatta chi ha ricevuto così perentorie e contraddittorie affermazioni e ne ha preso atto, è perché tutti sanno che sotto la maschera ipocrita della misura diretta ad interrompere i famosi legami con le cosche operanti etc. etc., c’è il volto impresentabile del "carcere duro", che tuttavia traspare e comunque è ben individuato e conosciuto da chi, pure, ha finto di stare a questo giuoco (si di gioco può parlarsi).

C’è ancora chi ne dubita? Se sì, basta scorrere l’articolo del giornale che parla di questo "scandalo" della revoca e della sensibilità del giureconsulto di Ceppaloni di fronte al "grido di dolore" della Procura etc. etc.. Ad un certo punto, dopo aver parlato di altre "scandalose" revoche o scadenze dei provvedimenti di applicazione del 41 bis nei confronti di Lo Nigro e Benigno (condannati per l’attentato di Via dei Georgofili) vi si legge "Ieri il rinnovo del 41 bis per Lo Nigro e Benigno è stato chiesto dall’Associazione dei familiari delle vittime della strage di Via dei Georgofili".

I quali è lecito ritenere che intendano pure che i responsabili del crimine che li ha colpiti nelle persone a loro care siano soggetti alla pena più afflittiva (è umano e non sta a noi rilevare che non è però certo espressione di cristiano senso del perdono) ma è altrettanto certo che ad essi non importa un bel niente, o assai poco, dei supposti persistenti legami con le cosche di provenienza.

Un’altra considerazione su ciò che si legge in quell’articolo. Mastella ha prontamente risposto con il rinnovo del decreto di trattamento speciale alla richiesta della Procura Antimafia di Palermo e del "ritornato" Guido Lo Forte. Mastella, si sa, ci tiene a sottolineare di "essere a disposizione" dei magistrati.

La legge, sopra ricordata, prevede specificamente che il Ministro provveda ad emettere quei decreti "anche a richiesta del Ministro dell’interno" "sentito l’ufficio del Pubblico Ministero".

Ora, certamente, non è vietato a nessuno rivolgere istanze ed appelli al Ministro, ma, una volta che la legge che per l’iniziativa in questione stabilisce specificamente la previsione della richiesta del Ministro dell’Interno, a questi e non alla Procura di Palermo spettava di sollecitare il Ministro della Giustizia e questi avrebbe dovuto far riferimento, semmai a tale richiesta e non a quella della Procura nel suo decreto. Ma certe fisime non affliggono né la Procura di Palermo né Mastella.

Certo è che, quella del 41 bis è una storia che, incominciata nell’ambiguità e nell’ipocrisia della dissimulazione di un mezzo di afflizione e di coercizione diretto ad incrementare la "produzione" di pentiti eccellenti e sviluppatasi con false o poco chiare norme intese a rappresentare almeno limiti e garanzie di fatto inesistenti, mostra continuamente, nella storia della sua attuazione ed applicazione, incongruenze e contraddizioni, che fanno sì che ipocrisia si aggiunga ad ipocrisia e falsità a falsità.

Così espediente vuoto ed ipocrita (cioè falso) si è rivelato il "controllo giurisdizionale" che sarebbe assicurato all’applicazione del 41 bis da parte del Ministero, ed ancor prima di ciò il dovere di motivazione che, oltre tutto, dovrebbe consentire tale controllo. Le motivazioni sono sempre state stereotipate, consistenti nella ripetizione delle stesse frasi e nell’affermazione apodittica della "sussistenza dei legami".

Quando la giurisprudenza della Cassazione ha cominciato a dare qualche segno di insoddisfazione per questo andazzo e, di conseguenza ha rilevato il carattere meramente apparente perché ripetitivo delle stesse formule delle motivazioni ed ha revocato alcuni dei provvedimenti così emanati, subito è scattato "l’allarme", espresso giorni fa da Grasso alla Commissione Antimafia. Avanti alla quale ha rappresentato le revoche da parte dei Tribunali come deprecabili incidenti manifestazione del famigerato "abbassare la guardia", che in lingua anti-mafiosa significa su per giù "tradimento".

Poi la solerzia di Mastella nel "ripetere" il provvedimento revocato, cambiando (se le ha cambiate) un po’ di parole della motivazione. Raccogliendo il plauso, oltre che dei professionisti dell’antimafia, anche dei… dilettanti. Carlo Vizzini (ex Psdi ora Forza Italia) si è vivamente compiaciuto.

Ed intanto, mentre si prepara il carnevale delle "nuove" motivazioni espresse con parole più allarmanti e fragorose per "adeguarsi" alla giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Cassazione, senza però dispiacere a Grasso, ai familiari delle vittime, a Vizzini etc., si ripetono pappagallescamente provvedimenti adottati anni ed anni fa, magari esclusivamente sulla base del titolo del reato per il quale è intervenuta condanna.

Abbiamo avanti agli occhi e, potremmo dire, negli incubi notturni, il caso di un poveretto condannato all’ergastolo per un preteso concorso in omicidio e per essere un "capo-mandamento" di Cosa Nostra. Sulla parola di due pentiti. I quali, per sostenere che egli fosse "capo-mandamento", pur essendo rimasto estraneo, anche a loro dire, a tutte le vicende di mafia della zona di cui essi avevano riferito, si "giustificavano" affermando che sì, il capo-mandamento era lui, però nessuno ne teneva conto e tutti lo "scavalcavano" perché era troppo giovane e privo di ogni autorevolezza: lo avevano, infatti, fatto capo-mandamento solo perché era "raccomandato" da un certo personaggio. Però era come se non lo fosse stato.

Ma privo di ogni potere e credito, dunque, quando era in libertà, finito in carcere sulla base delle dichiarazioni di chi così lo definiva, acquistava, invece tutto il "carisma criminale" che non aveva avuto in precedenza e dal carcere esercitava il potere prima disconosciuto senza, ovviamente, che nessuno più lo "scavalcava". Che così fosse, lo ha deciso il Ministro applicandogli il 41 bis e rinnovando puntualmente il decreto ad ogni scadenza. Decreto che i Tribunali di Sorveglianza hanno sempre confermato, evidentemente non volendo sfidare le ire di ministri, procuratori, associazioni, etc. per dare retta alle contestazioni di uno che, poi, non contava niente. Un caso che non si può pretendere che Mastella tenga presente. Peccato: gli servirebbe a rendersi conto che anche lui in fatto di raccomandazioni ha ancora da imparare.

Giustizia: per madri detenute case famiglia, invece del carcere

 

La Rinascita, 6 marzo 2007

 

Non appena viene introdotto con il professor Luigi Cancrini, docente universitario di psichiatria nonché deputato del Pdci, il discorso sui bambini in carcere, lui ti blocca entrando subito nell’argomento: "Su mia iniziativa, abbiamo da poco proposto in commissione Affari Sociali tre emendamenti alla proposta di legge Buemi.

Quest’ultima dispone che la pena delle detenute madri venga espiata in case-famiglia dove il minore potrà restare fino al compimento dei dieci anni. Ebbene, noi comunisti italiani abbiamo chiesto che la titolarità di questi istituti specializzati venga esercitata non soltanto dal ministero di Giustizia ma di concerto con il ministero della Solidarietà sociale".

 

Perché professore?

Ritengo che i requisiti di queste case-famiglia non debbano esclusivamente rispondere ad esigenze di sicurezza.

 

Gli altri due emendamenti?

Buemi propone che fino a dieci anni possano stare con la madre in queste strutture, mentre noi abbiamo abbassato a sei anni il limite massimo per rimanere con la genitrice. Dopodiché pensiamo che sia necessario l’intervento del Tribunale dei minori il quale deve, dopo un’accurata analisi della situazione concreta, stabilire se il proseguimento del bambino nella struttura di custodia attenuata, sia effettivamente nell’interesse del minore. Il terzo emendamento richiede, invece, del personale specializzato all’interno di questi istituti che sia in grado di affrontare tematiche di sostegno psicologico.

 

Si tratta di una legge che, tuttavia, non è ancora tale. Attualmente i bambini fino a tre anni di età stanno dietro le sbarre. Qual è la sua opinione?

Da zero a tre anni, per il bambino conta soprattutto la qualità di relazione con la madre. L’ambiente esterno lo percepisce poco e non ha un impatto diretto sul bimbo: tutto è mediato dalia madre. È importante che lei viva in un ambiente umano.

 

E il distacco che vive il minore al compimento dei tre anni?

Si tratta di una separazione che va vista nelle circostanze concrete. L’affidamento significa che la famiglia affidataria affianca la madre, non la sostituisce. E lungi dal tentare di sostituirsi alla madre, ha il compito di mantenere vivo il rapporto con lei. L’importante è che funzioni l’istituto "famiglia affidataria".

 

Professore come fa la famiglia affidataria ad affiancare la madre che invece si trova in carcere e con la quale il figlio ha un rapporto di un’ora a settimana durante i colloqui? La sensazione è che nonostante l’olè alla proposta di legge che umanizza la legislazione attuale sui bambini in carcere, tutto sommato quest’ultima non le dispiaccia.

Bisogna sempre considerare le situazioni concrete. Non per tutti i bambini è bene rimanere con la madre e non a tutte le madri interessa avere i figli vicino. Inoltre, bisogna comunque dare una risposta di sicurezza sociale per le detenute che si sono macchiate di gravi reati. In ogni caso gli emendamenti da noi apportati alla nuova proposta di legge e lo stesso testo di Buemi migliorano la condizione delle detenute e dei loro figli ed evitano di interrompere quella continuità di rapporto tra madre e figlio.

Giustizia: ddl Governo; prelievo del DNA anche senza consenso

 

Italia Oggi, 6 marzo 2007

 

La possibilità per il giudice di disporre anche senza il consenso dell’interessato accertamenti idonei a incidere sulla libertà della persona, ai fini della determinazione del Dna. E la previsione che nell’ordinanza debbano essere indicate le generalità della persona sottoposta a esame, oltre all’indicazione del reato per cui si procede, del prelievo da effettuare e le ragioni che lo rendono assolutamente indispensabile per l’accertamento del fatto.

Ma soprattutto la soppressione della norma che prevedeva fino a 4 anni di reclusione per chi si rifiutava di collaborare senza motivo all’esecuzione di una perizia (art. 373-bis c.p.). Sono le più importanti novità contenute nel ddl che introduce modiche al codice penale e a quello di procedura penale, in materia di "Accertamenti tecnici idonei a incidere sulla libertà personale". Il testo, di iniziativa del governo, è stato licenziato la scorsa settimana dalla commissione giustizia della camera, che ha approvato diversi emendamenti (relatore il capogruppo dell’Italia dei valori Federico Palomba).

La proposta di legge nasce per colmare il vuoto normativo creato da una sentenza del ‘96 in cui la Corte costituzionale dichiarava illegittimo il II comma dell’art. 224 c.p.p. nella parte in cui consentiva che il giudice, nell’ambito delle operazioni peritali, disponesse misure che incidevano sulla libertà personale dell’indagato o dell’imputato o di terzi, al di fuori di quelle previste dalla legge. Si è voluta introdurre una disciplina che faccia da corretto bilanciamento tra le esigenze del processo e l’inviolabilità della libertà personale dell’individuo.

Nel testo modificato l’art. 1, a proposito della perizia, prevede l’introduzione nel codice di procedura penale degli articoli 224-bis e 224-ter. L’art. 224-bis stabilisce al I comma che il giudice possa "disporre anche senza il consenso dell’interessato accertamenti peritali potenzialmente idonei a incidere sulla libertà della persona". In particolare, quando si procede per delitti per i quali è previsto l’ergastolo o la reclusione non inferiore nel minimo a 3 anni, "se per l’esecuzione della perizia è necessario compiere atti idonei a incidere sulla libertà personale, quali il prelievo di capelli, peli o mucosa del cavo orale su persone viventi ai fini della determinazione del profilo del Dna, o ad accertamenti medici, e non vi è il consenso dell’interessato, il giudice, anche d’ufficio, ne dispone con ordinanza motivata l’esecuzione coattiva, se essa risulta assolutamente indispensabile per la prova dei fatti".

Il 2° comma dell’articolo 224-bis precisa i contenuti dell’ordinanza che dispone l’accertamento, che a pena di nullità deve contenere le generalità della persona sottoposta all’esame, il reato per cui si procede e la descrizione sommaria del fatto, l’indicazione specifica del prelievo o dell’accertamento, il giorno e il luogo dove effettuarlo, le ragioni che lo rendono indispensabile, l’avviso per l’indagato della facoltà di farsi assistere da un difensore e che, in caso di mancata comparizione non dovuta a legittimo impedimento, potrà esserne ordinato l’accompagnamento coattivo. L’art. 224-ter prevede che il giudice possa disporre perizie su persone diverse dall’indagato o dall’imputato che comportano prelievi coattivi, se l’accertamento "non può essere svolto diversamente".

L’articolo 1-bis introduce nel codice di procedura penale l’art. 359-bis riguardante il prelievo coattivo di campioni biologici su persone viventi. In particolare "quando vi è fondato motivo di ritenere che dal ritardo possa derivare grave o irreparabile pregiudizio alle indagini, il pm può disporre l’accompagnamento coattivo". Tra le novità, la soppressione degli artt. 2 e 3 (non c’è più la reclusione fino a 4 anni per chi si rifiuta di collaborare all’esecuzione della perizia)

Giustizia: Mastella; l’attenzione del Papa per minori in carcere

 

Asca, 6 marzo 2007

 

In occasione della visita del Santo Padre al carcere minorile di Roma, annunciata per il prossimo 18 marzo, il ministro della Giustizia Clemente Mastella perorerà con particolare calore la situazione dei giovani reclusi nelle carceri. Lo ha annunciato lo stesso Mastella nel corso di una breve visita al carcere napoletano di Secondigliano per presentare un’iniziativa di assistenza sanitaria a detenuti cardiopatici.

Il Guardasigilli ha fatto riferimento ai "valori spesso trascurati, valori che soccombono, come quello della famiglia" richiamando l’attenzione sui più giovani "per i quali bisogna studiare un’azione sinergica con la scuola, la chiesa, il volontariato. Perché da solo nessuno ce la fa. Possiamo sperare di vincere insieme". Per Mastella l’attenzione e la cura da prestare ai giovani sono azioni particolarmente rilevanti a Napoli e nel Mezzogiorno "dove c’è un’alta percentuale di giovani".

Medicina Penitenziaria: una "malattia" di difficile guarigione

di Antonello Boninfante - (Medico Incaricato Provvisorio nella C.C. di Brescia)

 

www.simspe.it, 6 marzo 2007

 

"È aspro l’odore dell’aria stasera/ si direbbe che il tempo passato/ è andato perduto/ Mi ritrovo tra i denti / i pezzi di una storia / mille e poi ancora mille volte riletta" (da "Pezzi di una storia" di F.G. - G. Editori - 2004)… Sembrano scritte per me queste righe: anche la mia storia, come quella di tante altre persone, si snocciola lungo un tempo non regolare e non segue sempre traiettorie rettilinee.

Ed è così che anch’io un giorno, per caso, mi "ammalai" di Medicina Penitenziaria, senza accorgermene subito. Fu in un congresso di tale branca (ero Medico Incaricato Provvisorio da sei mesi) che sentii un collega esperto parlare di questa strana "malattia". Lui, a dire la verità… non si faceva mancare nulla: oltre a tale impegno, una volta all’anno andava a svolgere attività volontaria in paesi del Terzo Mondo. Vedi - mi disse - alla Medicina Penitenziaria in genere ti avvicini per caso, poi (una volta dentro) non riesci ad uscirne più… te ne ammali!

Quanto mi colpì ed emozionò quest’affermazione! Sembrava mi avesse letto dentro: ero giunto per un periodo di supplenza di tre mesi, in una struttura di secondo livello della Lombardia; chiamato a sostituire una collega nel compito di coordinazione dell’Area Sanitaria, il Direttore (valutando probabilmente il mio curriculum) mi aveva chiesto un monitoraggio della situazione interna e delle proposte organizzative per la risoluzione dei problemi emergenti.

Mi ritrovai, dopo tre mesi, con una relazione apprezzata, una collega dimissionaria e la proposta di accettare un incarico "provvisorio" per un… periodo indeterminato. Cosa mi aveva spinto ad accettare? Certamente non il bisogno di lavoro, bensì la curiosità; la volontà di misurarmi con una nuova esperienza, ma anche un’attenzione a quelli che ho imparato a riconoscere come "segni dei tempi" ed ai significati profondi che certe sollecitazioni possono contenere.

Con il tempo compresi come tale branca sia una specifica miscela di "medicina centrata sul paziente" (ancora in embrione), di psichiatria forense, medicina legale clinica medica il tutti condito da un approccio ineluttabilmente interprofessionale, cui naturalmente sono portato, avendo sempre creduto ed essendo stato formato al lavoro di équipe!

"Accogliere", "contenere, "riabilitare", in che modo un medico poteva entrare (con il suo agire sulla salute) in questo tipo di interventi? La Medicina Penitenziaria è indirettamente trattamentale se un medico opera correttamente ed interviene tempestivamente (avvalendosi della collaborazione di tutti gli operatori competenti) sulla salute del detenuto - nell’accezione più ampia che questo termine deve avere - è più semplice intervenire in chiave progettuale da parte dell’Area Pedagogica.

Una persona detenuta alleviata (perlomeno in parte) del suo disagio fisico e psichico, può aderire con maggiore lucidità e forza motivazionale al progetto pedagogico per lui definito. Un medico diverso, capace - con un "olismo" autentico e non di moda - di accettare l’avventura dell’incontro con "l’altro - detenuto", consapevole delle difficoltà, della fatica, ma anche del valore e dell’importanza di un intervento di tale tipo, sia per la persona da curare per la collettività.

Un medico consapevole che le persone sono… persone e che la detenzione deve essere una pena da scontare e non un alibi per etichettare ed emarginare individui che, pur difficili, vivono nel nostro mondo e non si possono certamente "sopprimere" o nascondere. Questa individuavo e da allora vivo come mia "mission" specifica all’interno di questa amministrazione. Ma cosa mi aveva ancor più profondamente spinto a questa scelta?

Sicuramente i valori che la famiglia ed i maestri di spiritualità frequentati, sin da giovane, mi avevano trasmesso. L’esperienza giovanile di volontario in un carcere minorile mi fece comprendere come ogni vita sia una storia, un percorso personale e come il "giudizio" sia bene lasciarlo nelle mani di chi ne acquisisce la dolorosa competenza.

L’impegno da giovane medico, come supplente, in un Centro di Accoglienza del Tribunale dei Minori, preparò l’onda lunga di quest’esperienza iniziata ormai quasi cinque anni fa. Cosa ho imparato a tutt’oggi? fare il medico penitenziario è come essere collocato nel "retroscena del teatro della vita".

Attraverso le esperienze e le storie (per quanto a noi arriva) delle persone detenute, conosciamo aspetti e sfumature poco note del "vivere" e possiamo imparare ancor più ad apprezzare il valore dell’esistenza e della libertà; condividere (sia pur da liberi) con degli essere umani l’esperienza della reclusione fa apprezzare ancora di più il valore dell’onestà e del rispetto delle regole sociali condivise; impegnarsi, per quanto di propria competenza, per garantire il rispetto di valori costituzionali, quali la tutela della salute, arricchisce di valore e di senso l’esistenza.

A livello professionale tale branca, se praticata con passione, stimola ad una crescita delle proprie capacità di gestire il "management sanitario", cercando di contribuire (ognuno con il proprio ruolo) ad un’efficace riorganizzazione delle Aree Sanitarie. ad un approfondimento di materie, quali l’infettivologia, la medicina legale, la psichiatria, la psichiatria forense e la tossicologia, altrimenti poco "frequentabili" facendo il medico in altri settori; a studiare ed a mettersi in gioco, consapevoli di non essere avallati (a prescindere dalla propria bravura) da un titolo di specializzazione.

Cosa hanno aggiunto di specifico alla mia esperienza professionale questi ultimi cinque anni? la consapevolezza che anche per la "malattia" denominata "privazione della libertà" non vi sono medicine efficaci, ma nobile ed indispensabile è l’intervento di chi sa "curare", vale a dire "assumere (per quanto di propria competenza) il disagio dell’altro, come esperienza verso la quale esprimere concreta e sincera solidarietà".

"Mi hai lasciato il profumo/ d’un lungo volo d’ali/ una rabbia stretta in pugno/ e nell’alba…/ La sorpresa di un sorriso." (da "Pezzi di una storia" di F.G. - G. Editori - 2004).

L’autore di questa poesia era in stato di detenzione quando l’ho conosciuto. Non siamo diventati amici, perché i ruoli non lo consentono, ma abbiamo imparato a rispettarci e ad individuarci come persone, ognuna con il suo bagaglio di esperienze, di realtà e di pene (detentive o meno) da scontare o scontate. So di non averlo guarito con il mio intervento; so anche che si potrebbe fare di più e (spesso) meglio, per non sprecare le risorse disponibili.

So, però, di avercela messa tutta e che lui, nonostante le difficoltà ed i problemi, lo comprendeva ed apprezzava. Metamorfosi della Medicina Penitenziaria…ne ho colto i segni, essendo giunto in tale amministrazione in un momento in cui tale cambiamento si stava chiaramente manifestando. Più che in termini generali posso affermare (riferendomi alla mia esperienza) che la mia professione, le attività che svolgo anche all’esterno sono vissute con uno spirito ed una capacità di gestione diverse: le conoscenze e le esperienze vissute ed acquisite in questo ambito hanno potenziato la mia capacità di intervenire e di guardare all’essere umano con occhi diversi, più grandi e più "limpidi".

Campania: per le cure dei detenuti nel 2006 spesi 13,5 milioni

 

Il Denaro, 6 marzo 2007

 

Nel 2006 l’amministrazione penitenziaria della Campania ha speso, nel settore sanitario, 13 milioni e 500 mila euro. Il dato è stato fornito da Tommaso Contestabile, provveditore Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) della Campania, durante la visita al carcere di Secondigliano del ministro della Giustizia Clemente Mastella, in occasione della presentazione dell’iniziativa medico-sociale "Diritto al cuore", proposto dalla Takeda Italia farmaceutici al ministero della Giustizia e che prevede controlli gratuiti per i detenuti.

"A Napoli ci sono, tra Secondigliano e Poggioreale, 5.541 detenuti - dice Contestabile - 41 sono ricoverati nel centro clinico di Poggioreale, 81 in quello di Secondigliano, 31 dei quali con l’Hiv". Negli istituti psichiatrici di Napoli e Aversa sono invece rinchiusi rispettivamente 107 e 302 detenuti. Per quanto riguarda l’organico medico in Campania, sono 37 i medici dipendenti, 122 quelli di guardia medica, 224 gli specialisti in convenzione, 131 del personale parasanitario effettivo e 358 del personale parasanitario in convenzione".

Lodi: una serata con le testimonianze delle ex detenute

 

Il Cittadino, 6 marzo 2007

 

La società tende spesso a identificare chi è stato in carcere con il reato commesso, togliendogli così la possibilità di un meritato riscatto. Per questo nessuno tra i quaranta partecipanti della serata del 2 febbraio, che la Casa del popolo ha dedicato al tema della reclusione femminile, ha domandato delucidazioni circa la fedina penale di Grazia, Laura e Giulia. Ben più interessanti le storie che hanno scelto di raccontare, nel tentativo di abbattere la barriera di diffidenza che separa i liberi dai prigionieri, i buoni dai cattivi.

Vivere nei pochi metri quadrati di una cella non è facile per nessuno, tanto meno per una donna. "Prima dell’indulto la popolazione femminile delle carceri italiane ammontava al 4 per cento del totale" ricorda Grazia Grena, animatrice della serata. "Questo è un fattore penalizzante perché rende difficile l’aggregazione e impedisce di esprimere con efficacia le proprie esigenze". Lo sa bene Laura, oggi libera dopo diciassette anni di reclusione: "In un ambiente numericamente così ristretto sei obbligata a relazionarti sempre con le stesse persone, che ti piaccia o no.

Io per fortuna ho trovato un ambiente tutto sommato positivo, che mi ha permesso di mantenere i contatti con la mia famiglia e soprattutto con i miei due figli". Già perché quando a finire dietro le sbarre è una madre, il carcere si trasforma da esperienza dolorosa in un incubo di solitudine e disperazione. Continua Laura: "L’impossibilità per una mamma di esprimere con gesti concreti l’amore verso i propri figli uccide il suo universo affettivo e minaccia la sopravvivenza di quei sentimenti che la tengono ancora legata al mondo esterno".

Consapevoli di aver espiato fino in fondo le passate colpe, le donne come Laura possono trovare nella stessa società che le ha condannate la speranza di una nuova vita. "Ora ho molta fiducia nel futuro e mi piacerebbe riuscire a comunicarla anche a chi non è ancora riuscito a superare il trauma del carcere.

Con l’aiuto dei miei figli ho creato a San Giuliano "Il Germoglio", una cooperativa sociale che offre lavoro ad ex detenuti".Non sempre però la via della riabilitazione è piana e diritta. Ricorda Giulia: "Appena uscita di prigione sono stata costretta a combattere contro la diffidenza della gente e mille impedimenti burocratici.

Anche la volontà più determinata può arrestarsi di fronte ad ostacoli di questo genere".Un primo passo allora può essere portare fuori dal carcere un disagio altrimenti condannato a restare chiuso tra le spoglie pareti di una cella, e ricordare ciò che l’articolo 27 della nostra Costituzione sancisce: qualunque sia il reato commesso la pena deve mirare alla rieducazione e non alla sterile vendetta.

Viterbo: Rc visita il carcere; c'è poco spazio e poco lavoro

 

Viterbo News, 6 marzo 2007

 

Continueremo a lavorare per migliorare le condizioni di vita della popolazione detenuta all’interno del carcere Mammagialla di Viterbo: c’è ancora molto da fare per arrivare a un sostanziale cambiamento di questa realtà penitenziaria". Lo ha detto Ivano Peduzzi, capogruppo del Prc alla Regione Lazio che ieri mattina insieme al segretario del Prc della Federazione di Viterbo Mario Ricci, e alla coordinatrice dell’Osservatorio sulle carceri dell’Associazione Antigone Susanna Marietti, ha fatto visita al carcere di Viterbo.

"Certamente - ha detto Peduzzi - in seguito al provvedimento di indulto il problema del sovraffollamento è stato ridimensionato, ma non risolto. A fronte dei 680 detenuti presenti al Mammagialla prima di agosto, oggi ce ne sono 470, cifra che tuttavia non risponde alla capienza regolamentare che è di 433.

Inoltre, la chiusura a rotazione di due sezioni del carcere per eseguire, secondo quanto riferito dalla direzione, lavori di manutenzione ordinaria, ha determinato che quasi tutte le celle, molto piccole e pensate come singole, sono di fatto occupate da due detenuti. Peraltro, molte di queste celle, non hanno luce naturale sufficiente e sono prive di acqua calda. Altro problema poi - ha aggiunto il capogruppo del Prc alla Pisana - riguarda le scarse opportunità di lavoro e le altrettante poche attività formative e di socializzazione previste per l’inserimento dei detenuti, nonostante esistano numerosi progetti di formazione professionale e di inserimento in settori come l’agricoltura, la raccolta differenziata e lo sviluppo delle energie alternative.

In merito, ancora una volta, abbiamo riscontrato carenze da parte della magistratura di sorveglianza che rendono ancora più difficile la vita dei detenuti che non possono usufruire dei benefici e delle misure alternative previste dalla legge. Infine - ha concluso Peduzzi - permangono le difficoltà nell’accesso ai servizi sanitari.

La visita di ieri, infatti, che si colloca nell’ambito della campagna semestrale che il Prc ha organizzato a livello nazionale con Antigone per monitorare le carceri nel post-indulto, con particolare attenzione all’applicazione del regolamento penitenziario e allo stato dell’assistenza sanitaria, ci ha confermato l’urgenza di approvare quella legge regionale voluta fortemente da Rifondazione comunista che prevede l’assunzione diretta di responsabilità per il trattamento sanitario penitenziario da parte della Regione."

Bergamo: "Foto da galera", apre la mostra di Davide Ferrario

 

L’Eco di Bergamo, 6 marzo 2007

 

Giovedì 8 marzo p.v., alle ore 18 presso Porta Sant’Agostino a Bergamo, si inaugura la mostra dal titolo "Davide Ferrario: foto da galera" .

"Foto da galera è un’esposizione di fotografie realizzate nel 2002 dal regista cinematografico Davide Ferrario, che si trasforma, per la prima volta nella sua carriera, in fotografo. Nell’estate del 2002 la direzione del carcere milanese di San Vittore ordina la ristrutturazione del quarto e quinto braccio dell’istituto di detenzione. Si tratta di celle sovraffollate, occupate da più di ottocento detenuti in attesa di giudizio.

Ferrario ottiene il permesso di entrare nei bracci svuotati prima della ristrutturazione. Porta con sé una macchina fotografica e per un giorno intero scatta fotografie a quei muri scrostati, fissando immagini di speranza e rassegnazione, congelando tracce di vita e di attesa in quegli spazi angusti e decadenti. Ferrario sceglie la strada più ardua e, forse, più vera per raccontare il carcere: quella delle cose.

Non c’è un volto fotografato, non il viso di un solo recluso. "Confesso di non aver avuto mai il coraggio di fotografare la faccia di un detenuto - dice il regista - mi sembrava che l’esposizione del dolore personale fosse un’ulteriore furto, un’altra beffa". Così, fotografa liste della spesa, messaggi che i carcerati hanno scritto a loro stessi, carte geografiche annerite, fantasiose costruzioni con pacchetti di sigarette o di pasta, donnine discinte, sovente accostate a Gesù Cristi e Madonne".

New Landscapes ha curato il progetto di allestimento della mostra. "Il progetto prende avvio dalla rielaborazione dei temi di ricerca propri dell’architettura carceraria, dei quali mette in scena un rovesciamento critico. Due volumi di cemento, introversi e allungati (16x2m, 11x2m), si dispongono parallelamente nello spazio ospitante, assecondandone la simmetria e rafforzandone il carattere monumentale. Percorrendoli all’interno essi rivelano la propria natura, severa ed essenziale, determinata da una superficie continua in malta di cemento, fredda al tatto e dalla consistenza ruvida e opaca. Il cemento, lasciato a vista, rappresenta ciò che rimane dopo una espoliazione.

Le proprietà del materiale sono messe in rilievo da una illuminazione ottenuta attraverso nastri continui di tubi fluorescenti. Se l’interno si presenta austero e disadorno, la superficie esterna, in legno naturale, rimanda ai materiali dello spazio ospitante. La superficie delle pareti è modulata da una serie di piccole aperture poste a differenti altezze, così da rivelare il contenuto dello spazio interno. La presenza delle bucature pone il visitatore nella doppia condizione di osservatore e osservato". La mostra rimarrà aperta fino al 9 aprile, da martedì a venerdì ore 16,30-19,30 e sabato e domenica ore 11,30-19,30.

Diritti: omosessualità; è bufera sulla senatrice Paola Binetti

 

L’Unità, 6 marzo 2007

 

È bufera su Paola Binetti e sul suo giudizio sui gay. "L’omosessualità è una devianza della personalità", aveva detto la senatrice della Margherita a Tetris su La7 sabato sera, in un acceso contrasto con Franco Grillini dell’Arcigay. E giù polemiche che hanno spinto lo stesso leader DI, Francesco Rutelli a definire l’esponente teodem "naif" e invitarla a "calibrare bene le parole".

Durissimo Gianluca Lioni, vicepresidente dei giovani Ds: "La Binetti sembra uscita dalla fantasia di Dan Brown". E critico anche il prodiano Franco Monaco che attacca il termine teodem: "blasfemo" e contrario allo spirito del nascente Pd. Il verde Angelo Bonelli dice "no agli estremismi di centro" e Roberto Vinetti (Rnp) rimprovera Rutelli: "non deve scandalizzarsi perché ha scelto Ruini come suo nuovo maestro".

Il leader ds invece bacchetta la Binetti: "È una donna di grande intelligenza e candore e partecipa a trasmissioni che un politico avvezzo avrebbe evitato". Lei non commenta, ma i suoi collaboratori riferiscono che a quelle parole ha annuito dicendo "ha ragione, è proprio così". Dispiaciuta del clamore ha spiegato di "essere stata trascinata in una polemica dalla quale avrebbe preferito stare fuori". Travolta un po’ dalla verve aggressiva di Grillini un po’ dallo show: quel tirare in ballo il suo indossare il cilicio, faccenda che ritiene privata. "Sorpresa" dalle parole di Monaco, a chi le suggeriva una replica la Binetti ha scosso la testa dicendo: "Non è il momento dei conflitti e delle esasperazioni ogni mio tentativo di spiegare potrebbe acuirli".

 

Cara Binetti, facci guarire

 

Benvenuti nel Campionato Nazionale dell’Omofobia. No, non ci troviamo ad un raduno di forze neonaziste o sulla curva di uno stadio. È la politica italiana, bellezza, è il nostro Parlamento ad essersi ridotto ad un ricettacolo di battutacce di pessimo gusto e di dichiarazioni discriminatorie. Il tutto, ovviamente, sulla pelle di quelle cittadine e cittadini italiani, gli omosessuali, che in queste settimane guardano alla discussione politica del nostro Paese con crescente sconcerto. Perché è di loro che si sta parlando, delle loro vite, dei loro affetti, della loro dignità, e non di questioni astratte. Ha iniziato il leader della sedicente Casa delle Libertà, Silvio Berlusconi, che qualche settimana fa ha pubblicamente esclamato di fronte ai suoi elettori che "I gay stanno tutti dall’altra parte", cioè la nostra, quella dell’Unione.

Forse a suo modo di vedere, voleva essere una battuta di scherno sugli elettori di centrosinistra, ma noi preferiamo interpretarlo come un buon auspicio per il (nostro) futuro. Ha proseguito Lady Mastella dichiarando che certo, i gay sono i benvenuti alla sua tavola, ce ne sono pure tra i suoi amici, compreso il suo parrucchiere, ma che di diritti da concedere loro, no, neanche a parlarne.

Ma il culmine lo abbiamo toccato all’indomani delle dimissioni del premier, quando la senatrice dell’Ulivo Paola Binetti ha ringraziato il buon Dio per aver mandato la crisi giusto in tempo per affossare i Dico, e, dopo la replica di Prodi, il senatore Bobba ha esultato dichiarando che ora bisognava cancellare tutto e tornare al punto di partenza. Come se avessimo scherzato, come se la discussione di settimane e il prezioso lavoro delle ministre Bindi e Pollastrini non fosse mai esistito.

D’altra parte - e lo ricordiamo a tutti quelli che si affannano a spiegarci che sarebbe stato meglio lasciare il tema nelle mani del Parlamento senza produrre un testo governativo - si tratta degli stessi senatori che alla vigilia del voto al Senato sulla Finanziaria scrissero una lettera alla loro capogruppo Anna Finocchiaro per minacciare di non votare la Finanziaria se fosse rimasto l’emendamento sui diritti dei conviventi nelle successioni, lettera che portò alla cancellazione di tale emendamento e alla contestuale presentazione di una mozione che impegnava il governo a elaborare un testo condiviso sulle unioni civili.

Riteniamo che le dichiarazioni di questi ultimi giorni stanno andando oltre e certo non ce la possiamo cavare col "benaltrismo" di certi nostri dirigenti che, non paghi dell’assenza dei Dico nel dodecalogo con cui Prodi ha riottenuto la fiducia dal Parlamento, non si rassegnano al fatto che il tredicesimo punto di quel dodecalogo, quello non scritto, è ormai diventata una questione ineludibile. E che quindi, anziché fare come gli struzzi, che nascondono la testa sotto la sabbia, bisogna saper mettere in campo una grande risposta culturale, consapevoli che in gioco è ben più che la concessione di qualche diritto a una minoranza, ma è l’idea stessa dell’Italia che vogliamo costruire.

Ecco quindi che nei giorni scorsi il senatore Andreotti (come direbbe Battisti "Ancora tu? Ma non dovevamo vederci più?") ha dato il meglio del peggio di sé, ricordandoci come sua madre l’avesse sempre messo in guardia da piccolo dall’andare al cinema da solo per non incorrere nelle molestie degli omosessuali. Proprio lui che negli ultimi decenni ha allietato la politica italiana con altre ben più pericolose frequentazioni e compagnie!

E per tutta risposta la solita senatrice Binetti, in evidente competizione con Andreotti per la vittoria del suddetto campionato, ha affermato in tv che gli omosessuali sono dei deviati, che non sono persone normali. Di nuovo le equazione omosessuale uguale pedofilo molestatore, omosessuale uguale malato da curare.

Cara Binetti, caro Andreotti, cari tutti, non vi chiediamo il silenzio, è inutile e poi siamo persone estremamente democratiche. Ma sapendo che è inutile convincervi e presi da sfinimento, a questo punto vi prendiamo sul serio e vi chiediamo di aiutarci a "guarire". E allora ci piacerebbe sapere, però, qual è la branca della medicina a cui possiamo rivolgerci (psichiatria? malattie infettive?).

Soprattutto a lei, senatrice Binetti, che è un medico, chiediamo: qual è la medicina? Perché sa, le multinazionali dei farmaci sono molto interessate al mercato, ma hanno bisogno di risposte precise. E comunque sappiate che se siamo veramente malati, allora, i Dico non servono più a niente e quindi tenetevi pure le vostre pensioni di reversibilità. Ma in cambio dateci almeno la pensione di invalidità.

Diritti: Milano; Andreotti contestato, "meglio gay che mafiosi"

 

Corriere della Sera, 6 marzo 2007

 

Non s’interrompe un attimo, non perde il filo della sua oratoria allusiva, non ha un’incrinatura nella voce. Neppure quando le contestazioni, che avrà sentito infinite volte nell’ultimo quarto di secolo, smettono di rimbombare da dietro le porte e irrompono in sala. Giulio Andreotti, 88 anni, si limita a un ricordo di gioventù per rimarcare sottilmente la sua tenuta anche al ragazzo con un megafono che gli dà del mafioso dal fondo dell’aula: "Fui scartato al corso di allievi ufficiali per insufficienza toracica. "Quanto pensi di campare con quel torace", mi chiese il maggiore. Quando divenni ministro del Tesoro lo ricercai, ma era morto".

Dalla cattedra dell’Aula Magna della Bocconi, per uno dei seminari organizzati dall’università, dalla Fondazione Ugo La Malfa e dal "Sole 24 Ore" per riunire i ministri del Tesoro della Repubblica (lui lo fu nel ‘58-’59), Andreotti appare soddisfatto. Ha l’aria di essere perfettamente a suo agio nella nuova centralità che ha ritrovato per la politica italiana dopo le polemiche sui Dico anche per gli omosessuali e i voti sempre sul filo in Senato.

Poco importa che il ritrovato protagonismo comporti anche un ritorno di certe vecchie contestazioni. Ad aspettarlo all’ingresso della Bocconi ci sono una trentina di ragazzi, solo pochi di loro davvero studenti dell’università, che lo prendono di mira: "Meglio gay che mafiosi" recita una scritta, mentre un volantino del gruppo "Qui Milano Libera" riporta ì passaggi più controversi della sua sentenza d’assoluzione della Corte d’appello di Palermo. Il gruppetto è guidato da Piero Ricca, lo stesso che entrò in una lunga battaglia giudiziaria con Silvio Berlusconi per avergli gridato "buffone" in un’aula di Tribunale.

Andreotti all’arrivo in Bocconi cammina davanti al drappello di Ricca, lo ignora e si abbandona a un tocco d’auto derisione solo una volta dentro, tartassato dalle domande sulle sue posizioni riguardo ai gay: "Mio figlio mi ha fatto presente che non vale la pena entrare in queste polemiche, forse ha davvero ragione lui". Ma è probabilmente solo un modo per farsi pregare, prendere un po’ di rincorsa e proporre il suo compromesso: offrire garanzie e diritti alle coppie conviventi sì, ma solo per gli eterosessuali.

"Non sono contrario a una regolamentazione, del resto non si parte da zero perché ci sono già delle norme - propone -, Però mettere nella legge anche coppie dello stesso sesso mi sembra vada oltre". Il senatore a vita concede anche il suo appoggio, sempre prudente, anche alla manifestazione prevista per il prossimo 10 marzo. "Ma ho 88 anni e in piazza scendo difficilmente".

Molto più nel suo elemento l’ex presidente del Consiglio è nel ripercorrere le vicende della Prima Repubblica per gli studenti venuti ad ascoltarlo. Da fuori continuano ad arrivare gli slogan sui processi per mafia. Seduto in prima fila, il presidente della Bocconi Mario Monti riceve ogni tanto foglietti di carta che tracciano l’andamento della contestazione. Ma anche lui, come tutta la platea, ride di gusto alla narcisistica autoironia del senatore: "Mi piaceva il diritto finanziario e poco la scienza delle finanze dove ho preso il mio unico 18", confessa Andreotti. "Successivamente sono diventato ministro delle Finanze. Per questo, forse, non sono portato al pessimismo".

Droghe: l'Onu dice "no" all’acquisto di oppio per fini terapeutici

 

La Stampa, 6 marzo 2007

 

Antonio Maria Costa, direttore dell’agenzia delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc), è a Kabul. La mozione, presentata da Rifondazione, Verdi e Rosa nel pugno, che impegna il governo a promuovere nelle sedi internazionali anche l’acquisto di oppio afghano ai fini di una sua utilizzazione nella terapia antidolorifica non lo trova d’accordo, pur apprezzando il suo spirito "umanitario".

Per l’Afghanistan - dice Costa - è una proposta pericolosa. Per certi versi banale. Proprio questo pomeriggio abbiamo incontrato il presidente Karzai e le autorità afghane e a loro abbiamo presentato lo stato dell’arte: quasi la metà delle province sono liberate, o stanno per esserlo, dalla produzione di oppio, e questo grazie ai progetti di riconversione e di assistenza allo sviluppo. In quelle cinque, sei province del sud in mano ai Talebani e ai terroristi, invece, si registra un aumento della produzione.

L’oppio ai fini terapeutici costa 25-30 dollari al chilo, quello che finisce nel mercato illegale viene venduto a 130 dollari al chilo. Il raccolto di oppio nel 2006 in Afghanistan è stato pari a tre volte il fabbisogno mondiale di morfina".

La mozione della sinistra è stata irrisa dagli esponenti della opposizione: "Bei tempi - è stato il commento di Alfredo Mantovano, An - quelli in cui Marx ed Engels tuonavano contro la religione, definendola "oppio dei popoli"... Essendo viva e vitale la religione, ai comunisti e ai post-comunisti è rimasto soltanto l’oppio".

Per il leghista Roberto Calderoli, invece, "questa maggioranza vuole giocare al piccolo chimico, con effetti stupefacenti". Mentre per Maurizio Gasparri, An, la proposta di far comprare oppio dagli Stati sarebbe quasi un "narcotraffico istituzionalizzato". Gasparri, forse, ignora che diversi grandi paesi occidentali producono l’oppio a fini farmaceutici: paesi come l’India, la Turchia, l’Inghilterra, la Francia trasformano l’oppio in morfina a fini terapeutici.

È molto importante - riflette Antonio Maria Costa, direttore dell’Unodc - che si sviluppi la terapia antidolorifica e da questo punto di vista capisco lo spirito umanitario della proposta di Rifondazione. Ma a livello mondiale, non c’è carenza di offerta di materia prima, di oppio. Nei paesi dove si produce sono occorsi decenni per diffondere una cultura antidolorifica nelle scuole, università, aziende farmaceutiche per esercitare così un controllo sul suo uso. In Afghanistan, è solo un sogno parlare di meccanismi di controllo del raccolto di oppio".

Insomma, a sentire uno dei massimi esperti dell’Afghanistan che produce oppio, la proposta italiana, pur avendo cittadinanza, è molto difficile che possa decollare. Del resto, questa proposta non è nuova. Da tempo la rilanciano diverse associazioni o organizzazioni non governative, alcune delle quali finanziate da George Soros. Nel settembre scorso, il "Senlis Council" ha accusato che in Afghanistan, negli ultimi cinque anni, la strategia antidroga "ha favorito le insurrezioni, rendendo il terreno fertile per il ritorno dei talebani".

Nel 1996, si legge nel rapporto "Senlis", "c’erano 60 mila ettari di coltivazioni di papavero, nel 2006 sono circa 165 mila". Numeri e cifre contestate dall’Unodc e da altre istituzioni internazionali: "Con i talebani al potere, le coltivazioni di oppio raddoppiarono: da 44.000 a 90.000 ettari.

Alla vigilia dell’11 settembre, effettivamente i Talebani bloccarono la produzione di oppio. Ma quello stoccato fu rivalutato quasi del 2000 per cento: da 40 a 700 dollari al chilo". Nel 2006 la coltivazione di oppio ha raggiunto i 165.000 ettari, con un incremento del 59% rispetto al 2005. Il che, tradotto, significa una produzione di 6.100 tonnellate di oppio. "Le coltivazioni - denuncia Costa, direttore di Unodc - si sono concentrate nel sud del Paese, con l’80% dei contadini impegnati in questa produzione. In sei province del nord, invece, non si coltiva più, in altre sei si coltivano meno di cento ettari per provincia".

 

Arlacchi: idea buona in teoria, ma farebbe aumentare i prezzi

 

"Idea buona in linea di principio, ma impossibile da realizzare": lo sostiene Pino Arlacchi, ex direttore dell’ufficio Onu per gli stupefacenti e il crimine.

 

Perché giudica irrealistica questa soluzione?

"Per due motivi. Il primo è che la domanda di farmaci antidolorifici nel mondo è già ampiamente soddisfatta. Il secondo è che il mercato illegale paga sempre di più rispetto a quello legale. I contadini afgani continuerebbero a vendere il prodotto ai contrabbandieri".

 

Chi soddisfa oggi la domanda di antidolorifici?

"Quattro paesi producono oppio legalmente: India, Turchia, Francia e Australia. I controlli cui sono sottoposti sono stringenti ed efficaci, e la produzione riesce a coprire la domanda mondiale senza affanno. Il sistema industriale usato, poi, non prevede che i papaveri vengano incisi uno a uno: procedura che richiede tempo e rende difficile la supervisione. Tutto il raccolto viene portato negli stabilimenti. Qui il controllo è più facile che non nei campi".

 

Non sarà la soluzione più economica, ma perché non provare lo stesso a usare l’oppio afgano?

"Perché i contadini dei quattro paesi sono facili da controllare: il sistema è rodato e noi siamo certi dell’assenza di diversioni verso il mercato illegale. Pensare di sottoporre le coltivazioni in Afghanistan a procedure di controllo simili è assurdo. Se ne fossimo capaci, avremmo già risolto il problema da tempo".

 

I contadini afgani potrebbero preferire il mercato legale rispetto a quello di contrabbando.

"No, usare parte dell’oppio prodotto per scopi legali vuol dire far crescere il prezzo sul mercato illegale. Il sistema potrebbe funzionare per un anno, poi vedremmo schizzare in alto le quotazioni, dagli attuali 100-150 dollari al chilo fino a 300 dollari e oltre".

Immigrazione: Manconi; dobbiamo pensare ad una nuova legge

 

Il Riformista, 6 marzo 2007

 

Molti intellettuali e politici utilizzano il termine multiculturalismo come sinonimo di costruzione di una società ideale, composta da individui liberi ed eguali, appartenenti a etnie, religioni e culture diverse. Non rientra in questa categoria Luigi Manconi, sottosegretario alla Giustizia e membro della direzione nazionale dei Ds, che subito precisa: "Io non uso questo termine, ma se vi sono costretto lo faccio solo a fini descrittivi". Cos’è allora il multiculturalismo? "È il prodotto ultimo, che si manifesta sotto i nostri occhi, di processi planetari in atto da decenni, rispetto ai quali noi possiamo intervenire con politiche intelligenti e razionali, non per ostacolare tali processi, ma - se possibile, ed è certo arduo - per governarli, contribuire a indirizzarli, ridurne gli effetti negativi".

Infatti, se non si interviene con saggezza e rapidità, il rischio è quello di trovarsi in una società divisa in "nicchie". "Gli stranieri che arrivano nel nostro Paese - spiega Manconi - legittimamente si costituiscono e si riconoscono in comunità, valorizzando la propria identità e la propria cultura, altrimenti rischierebbero l’anomia: una sorta di spaesamento senza radici e senza ritorno. Ma questa giusta tendenza si può trasformare nella tentazione dell’autosufficienza". L’esito non può che essere una società "differenzialista", organizzata e divisa in nicchie, reciprocamente indifferenti, se non ostili. Per evitare ciò, sono

necessarie politiche pubbliche di integrazione. Qualcosa di totalmente diverso dalla legge Bossi-Fini, che Manconi definisce "nei fatti discriminatoria, perché riduce lo straniero a forza lavoro e mezzo di produzione, senza alcun riconoscimento di quel lavoratore come cittadino tendenzialmente a pieno titolo". Per questo Manconi afferma che l’Italia "ha ora una grande occasione, perché le linee guida della legge sull’immigrazione, che il governo ha elaborato e che verrà presentata nelle prossime settimane, contengono già questa strategia".

Tornando a parlare del "problema" multiculturalismo, il sottosegretario alla Giustizia ne individua il nocciolo concreto: "Le questioni etico-giuridiche che l’immigrazione solleva". Si tratta di tutti quei temi (il velo islamico, la poligamia, l’infibulazione, le scuole religiose) difficili da affrontare, perché, da una parte, ci sono le nostre leggi e, dall’altra, gli stili di vita e le consuetudini culturali degli immigrati, che possono essere radicalmente diversi.

"Occorre essere - spiega Manconi - rigorosi e flessibili, insieme. Rigorosi nell’affermare il primato dell’ordinamento giuridico del nostro Paese e i valori cui si ispira: ovvero i diritti universali della persona. Flessibili nei confronti di tutto ciò che non contraddice i fondamenti morali di quello stesso ordinamento: cioè gli stili di vita, le espressioni culturali, i simboli religiosi, le pratiche di culto, le abitudini alimentari.

Per capirci, la questione del velo islamico può essere risolta dall’incrocio tra le esigenze di sicurezza (i documenti di identificazione devono portare foto a viso scoperto) e quelle di libertà (perché impedire l’uso di quei veli che non nascondono il volto?). Altre volte si tratterà di assumere decisioni in nome del "male minore", concedendo deroghe rispetto a una norma universale o a una regola generale".

È il caso, per esempio, delle scuole: la nostra organizzazione scolastica vieta la formazione di classi a esclusiva composizione confessionale. "Sappiamo bene però - afferma Manconi - che molti studenti stranieri non sono disposti a frequentare classi miste e, di conseguenza, andranno in una scuola confessionale, non pubblica, clandestina o semiclandestina. Dobbiamo trovare, allora, soluzioni alternative concedendo delle deroghe.

E questo significa che, forse, una classe musulmana saremo costretti ad aprirla, sapendo però che dovrà essere provvisoria e, soprattutto, che non può costituire un modello. È solo una necessità contingente, imposta da una situazione di emergenza: una deroga, appunto. Questo esempio spiega bene come la società multiculturale non sia né un radioso orizzonte da conquistare né una armoniosa organizzazione sociale. È, piuttosto, una faticosa impresa, che può costituire un’importante opportunità di crescita collettiva, ma che richiede una ininterrotta capacità di mediazione e sagge politiche pubbliche".

 

Ranieri (Ds): ma intanto superiamo la Bossi-Fini

 

"L’Italia ha avuto un problema di percezione del fenomeno migratorio. Non essendo mai stato un Paese di immigrazione, non ha mai predisposto degli strumenti con il dovuto anticipo: in questo senso, l’Italia si è mossa sotto la pressione di un fenomeno che non conosceva. E un esempio che lo dimostra è stata la legge Bossi-Fini.

A differenza di Paesi come la Francia, la Germania, l’Inghilterra, dove l’immigrato proviene, in massima parte, da una stessa etnia, l’Italia riceve immigrati delle etnie più diverse, rendendo molto difficile un discorso unitario in vista di una riforma della nostra legislazione in materia. È chiaro, quindi, come sia giunto il momento di modificarla e, per farlo, il nostro primo obiettivo deve essere quello di trasformare la parola "immigrazione" da negativa a positiva".

Così il diessino Umberto Ranieri, presidente della commissione Affari Esteri della Camera, che accetta di parlare a 360 gradi del fenomeno dell’immigrazione in Italia. Nel nostro Paese, infatti, vivono tre milioni di stranieri, provenienti da quasi 200 Paesi diversi. In questi anni si è realizzata una silenziosa "invasione" di etnie, culture e fedi religiose di provenienza assai diversa, un’"invasione" che nell’immediato futuro sembra destinata a crescere. È evidente, quindi, che occorrano dei criteri perché il processo integrativo venga guidato nel giusto modo e l’immigrazione non degeneri fino a risultare incontrollata.

"Alla parola immigrazione - spiega Ranieri entrando nel merito - è necessario dare un senso positivo: dobbiamo porre l’accento sul termine "integrazione"". E ancora: "L’integrazione dell’immigrato è e deve essere l’obiettivo della nostra azione. Un processo di reale integrazione significa permettere all’immigrato di entrare nel nostro sistema, capirlo e carpirne i lati positivi, attraverso dei "percorsi di integrazione".

Immigrazione come integrazione, dunque. E per questo c’è bisogno di una concreta traduzione dei principi nel campo legislativo. Si è da tempo accesa, in Italia, la discussione sulla revisione della legge sulla cittadinanza. Sul tappeto ci sono gli anni necessari per avere diritto a inoltrare la domanda di cittadinanza e insieme i requisiti richiesti: oltre alla conoscenza della lingua italiana, che cosa sarebbe necessario esigere dai "candidati"?

E come poterlo verificare? "Personalmente - spiga ancora Ranieri -, credo che accorciare i tempi per avere la cittadinanza debba essere direttamente proporzionale al livello di integrazione raggiunto dall’immigrato. In questo senso, sarebbe interessante studiare delle formule che permettano alla persona interessata, desiderosa di ottenere la cittadinanza italiana (e, quindi, in prospettiva, europea) di avvicinarsi e per quanto possibile penetrare la nostra cultura.

L’immigrato deve avere la possibilità di ricevere le "chiavi di lettura" del nostro "mondo", attraverso la creazione di appositi corsi propedeutici all’ottenimento della cittadinanza, incentrati sulla conoscenza delle nozioni di base della nostra lingua, del diritto civico, di storia dell’Italia e dell’Europa. Solo così, da questo incontro, potremmo uscire tutti migliorati".

I flussi migratori e il continuo arrivo di clandestini in Italia (specie quelli attraverso la "frontiera liquida" del Mediterraneo) restano problemi ancora da risolvere. In particolare, si sente la necessità di politiche di governo efficaci. E in questo senso un "concerto" a livello europeo resta quantomeno auspicabile.

Eppure proprio l’Unione Europea, al di là delle dichiarazioni periodicamente rilanciate da Bruxelles, appare a questo livello latitante o inefficace. Cosa può fare realisticamente l’Europa? E cosa può fare l’Italia, uno dei Paesi più "esposti", per premere sulla Ue"?

"L’Europa - dice Ranieri - ogni anno si fa carico, in termini di immigrazione clandestina, di un numero che si stima intorno alle duecentomila persone, senza contare le altre circa centomila che tentano di arrivare ma non ce la fanno. È chiaro che con queste cifre occorre un piano d’immigrazione globale concertato con gli altri partner europei e con i Paesi dai quali provengono i flussi migratori più consistenti.

L’apertura delle frontiere europee dovrebbe essere subordinata alla effettiva capacità d’assorbimento del mercato del lavoro e dei suoi diversi settori. Il possesso di alcuni requisiti fondamentali da parte dello straniero, sia dal punto di vista della salute che dei mezzi minimi di sussistenza, e l’istituzione di liste di collocamento presso i consolati (magari unificati sotto il nome di "consolati Schengen") potrebbero essere degli strumenti utili per un controllo efficace dei flussi migratori".

E ancora: "L’Italia, più degli altri Paesi, deve spingere affinché l’Europa adotti delle misure concrete e vada al di là delle solite dichiarazioni di principio. Il nostro Paese, proprio per una questione geografica, paga i costi più alti di un’immigrazione senza controllo e clandestina; è giusto che tali costi siano più equamente distribuiti e che l’Europa tutta si faccia carico di quello che non è più solo un problema strutturale della società italiana". Perché tutto questo si possa attuare e possano seguire presto soluzioni concrete, servono una politica strategica di relazioni bilaterali e multilaterali che coinvolgano i governi dei Paesi di partenza nella gestione dei flussi migratori e nella preparazione di chi si candida all’emigrazione.

Immigrazione: bando con 4 mln di euro per le vittime della tratta

 

Italia Oggi, 6 marzo 2007

 

Quattro milioni di euro per chi aiuta le vittime della tratta a rifarsi una vita. Finanzieranno i progetti di assistenza e integrazione previsti dall’articolo 18 del Testo Unico. Possono presentare domanda enti locali e associazioni.

A stanziarli è il Dipartimento per i Diritti e le Pari Opportunità per progetti a favore di chi sfugge a situazioni di violenza e grave sfruttamento, il più delle volte donne straniere finite nel racket della prostituzione. L’articolo 18 del testo Unico prevede in questi casi il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione sociale e la partecipazione a programmi di assistenza e integrazione.

Il bando è stato pubblicato il 27 febbraio in Gazzetta Ufficiale e finanzierà "i progetti rivolti specificamente ad assicurare un percorso di assistenza e protezione, ivi compresa l’attività per ottenere lo speciale permesso di soggiorno di cui all’art 18". I destinatari dovranno essere "persone straniere che intendano sottrarsi alla violenza ed ai condizionamenti di soggetti dediti al traffico di persone a scopo di sfruttamento, nonché i cittadini di Stati membri dell’Unione europea che si trovino in una situazione di gravità ed attualità di pericolo".

Possono presentare domanda Regioni, Province e Comuni, ma anche i soggetti privati convenzionati con questi enti e iscritti nel registro delle associazioni che svolgono attività a favore degli immigrati. I progetti dovranno avere la durata di una anno e saranno finanziarti per il 70% con risorse statali, mentre il resto sarà a carico dell’ente locale dove verrà realizzato il progetto. Il tetto massimo finanziabile per ogni progetto è di euro 571.400.

Le domande vanno presentate entro il 29 marzo al Dipartimento per i Diritti e le Pari Opportunità - Segreteria tecnica della Commissione interministeriale per l’attuazione dell’art. 18, Largo Chigi 19 - 00187 Roma. Per maggiori informazioni si può chiamare lo 06.67792450 o scrivere a: progettiarticolo18@palazzochigi.it.

 

 

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