Rassegna stampa 28 marzo

 

Giustizia: mediare e non punire, contro ogni forma di violenza

 

Liberazione, 28 marzo 2007

 

Cosa c’entra Silvio Sircana con un convegno dal titolo "Mediare, non punire"? Tutto e niente. Nel senso che si potrebbe partire anche da lì, dal paradosso, per capire quanta strada c’è da fare. E forse il "Caso S.", come lo chiama Luigi Manconi, quella gogna mediatica, quello straordinario esercizio di ipocrisia, è l’esempio più calzante per tracciare la distanza tra la nostra Italia e i propositi stessi della tavola rotonda promossa venerdì scorso da Antigone (l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale): azzardare, provare ad immaginare una giustizia senza pena.

Perché proprio mentre gli interlocutori si inerpicano sulla montagna di una nuova filosofia morale che metta in discussione il sistema penale e valorizzi la pratica alternativa della "mediazione", ecco che l’Italia ostenta con goffaggine il suo ritardo, la sua impreparazione. La sua cultura giuridica - inutile farsi illusioni - marcia in direzione opposta. Se è vero, per tornare al "Caso S.", che siamo arrivati a quello che Manconi battezza il "pan-penalismo", dove tutto è reato e tutto deve essere sanzione. E nel caso del malcapitato neo portavoce unico del governo, persino alla penalizzazione senza pena materiale, lo stigma sociale, la colpevolizzazione della mera pulsione, "qualcosa di più intimo e ingiudicabile dello stesso desiderio".

Il sottosegretario alla Giustizia la prende alla larga. Eppure l’affresco di questa Italia costretta tra voyeurismo e riprovazione è certamente un modo per riflettere sugli ostacoli di un’operazione ardua, che Antigone ha avuto il merito di sollecitare con una serie di interrogativi. E cioè: questo sistema penale assicura giustizia? Comprime il crimine?

Ripaga le vittime? Redime il colpevole? Elargisce "sicurezza"? Le domande suonano volutamente retoriche e Patrizio Gonnella, che venerdì ha fatto gli onori di casa, le ha offerte in pasto a studiosi, esperti e accademici che si interrogano da anni sul tema di una giustizia riparativa fondata sulla mediazione.

Louk Hulsman, giurista olandese considerato il padre dell’abolizionismo penale, parla per primo e arriva dritto al cuore della questione. Il sistema penale è in grado di intercettare solo una minima parte degli eventi criminosi. Dunque colpisce in modo inevitabilmente selettivo, talora casuale, e per di più sull’altare di alcuni diritti ne sacrifica altri: come quello alla libertà personale o a trattamenti umani. Studi e statistiche sono lì a dimostrare, inoltre, che l’inasprimento della pena, la modulazione della sua quantità, non ha effetti dissuasivi sulla devianza sociale.

Il punto di partenza è proprio il fallimento del sistema delle pene. Dal lato delle "vittime", come dal lato del reo. Con il torchio dell’accanimento penale la vita della parte offesa resta inalterata e quella del colpevole affidata ad un’incerta, imperscrutabile espiazione. E non sopravvive neppure l’argomentazione della deterrenza: poco più di un pretesto, per il filosofo del diritto Eligio Resta, una lente distorta con cui si guarda al sistema penale, che nasce non già a tutela della vittima, ma a garanzia dell’imputato: è uno di quei tranelli - spiega - che la società escogita per ingannare la propria violenza, per evitare l’arbitrio della punizione e la vendetta. Il problema è che spesso il sistema penale non inganna la violenza ma l’asseconda. Diventa, per dirla con Nietzsche, il suo "mimo".

Se allora non soddisfa le sue basilari esigenze, a cosa serve il sistema penale? L’interrogativo prelude ad una scommessa certamente affascinante e provocatoria: andare oltre la sanzione, ma non solo. Superare il sistema penale nel suo insieme, come struttura in grado di dare risposta ai conflitti della società. O almeno - senza scivolare sul terreno dell’utopia - ragionare in parallelo attorno ad una impalcatura giuridica del tutto differente: la mediazione. Un esperimento già avviato in alcuni paesi europei, che ha per presupposto l’incontro delle volontà dei soggetti coinvolti nell’evento criminoso e che trova la sua esplicazione e la sua soluzione al di fuori del recinto penale.

Una rivoluzione copernicana. Perché si tratta di indagare "un altro vocabolario, un’altra semantica", spiega Resta. Un linguaggio alternativo a quello del controllo punitivo-repressivo, un topos, un luogo pubblico in cui la società si fa carico delle proprie violenze, negozia e non strumentalizza le sue fratture.

La mediazione come pratica spontanea, necessariamente condivisa e mai eterodiretta, che si pone l’obiettivo di erodere gli spazi della pressione penale. Una ricomposizione del conflitto sociale che si può realizzare - ragiona Sergio Moccia, componente della commissione che lavora alla riforma del codice penale - solo in piena autonomia, con l’incontro di due volontà libere, che mediano su un fatto acclarato e con reciproche assunzioni di responsabilità.

Circostanze, aggiunge il penalista Carlo Fiorio, che devono intervenire prima del penale, in una fase pre-processuale o investigativa. Ma dove, concretamente, è possibile portare avanti questa pratica alternativa? L’esperienza europea, specialmente nei paesi scandinavi, suggerisce un ambito di applicazione possibile che è quello della dimensione comunitaria e meglio ancora della prossimità dei conflitti: in famiglia, tra amici, colleghi, vicini. Ambiti dove la giustizia penale produce molto spesso più danni che benefici, fa anzi l’effetto - ironizza il sociologo francese Jacques Faget - di un elefante che entra in un negozio di porcellane.

Dunque partire dalla pratica per arrivare ad una nuova filosofia del diritto. Nel laboratorio per la riforma del codice, è l’auspicio degli studiosi intervenuti al convegno, ci deve essere spazio anche per queste suggestioni. Da tempo, assicura il sottosegretario Manconi, si lavora perché all’interno del ministero della Giustizia sia istituita una struttura apposita per studiare e rendere operativa questa pratica. Ma la mediazione penale in Italia è un concetto ancora esile che fatica ad affermarsi per tante resistenze, e non tutte strumentali.

Perché, fa notare Moccia, non bisogna ignorare che il nuovo linguaggio, quello della mediazione, intacca la corteccia della stessa civiltà giuridica, mette in crisi il paradigma della certezza del diritto e fa persino a pugni con le previsioni costituzionali: il principio di legalità assicurato dall’obbligatorietà dell’azione penale, dalla presunzione di non colpevolezza (che contraddice ab origine l’acclaramento "mediato" del fatto). Se è vero che il sistema penale è un "rozzo strumento per intervenire sulla società", esso fissa pur sempre dei paletti oltre i quali è inverosimile, o quantomeno rischioso, avventurarsi.

Giustizia: Chiamparino; non usare sicurezza come clava politica

 

L’Unità, 28 marzo 2007

 

Che cosa ci resta dopo la recita grottesca della donna più ricca di Milano e dell’uomo più ricco d’Italia, alleati in nome della sicurezza contro il "buonismo" della sinistra? Solo un giochino politico per ricucirsi addosso una maggioranza che non la sopporta... Oppure, per Milano, la tranquillità ritrovata?

Lo chiediamo al sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, che ha la fortuna di osservare da lontano le liti milanesi.

"Non commento. Vorrei solo dire che è molto pericoloso usare la sicurezza per politiche di parte. Spesso la strumentalizzazione si ritorce contro. Perché tutti sanno che a Milano hanno governato a lungo le destre, all’inizio con Formentini, poi con Albertini, adesso con la Moratti, con l’appoggio di un governo di destra. Se i milanesi sentono la necessità di scendere in piazza o le amministrazioni di centrodestra s’erano dimenticate della sicurezza oppure se n’erano occupate ma con risultati disastrosi. Accusano me e i miei predecessori di sinistra di lassismo, ma Albertini con i suoi slogan da tolleranza zero che cosa ha combinato? Quando si usa la questione sicurezza come una clava politica non si va da nessuna parte".

 

D’accordo. Albertini non ha combinato nulla, se la Moratti dopo sei mesi deve scendere in piazza. Ma che possono i sindaci contro delinquenza, droga, prostituzione...

"Intanto penso che si debbano muovere considerando quali siano i loro compiti istituzionali e quindi quali siano le strade istituzionali. A Torino ne ho seguito due: un tavolo sulla sicurezza con tutte le forze politiche, tranne la Lega che ha preferito autoe-scludersi, un tavolo permanente con il governo...".

 

Mi sembra che la parola sicurezza sia vittima di malversazioni di vario genere. Dal suo punto di vista che cosa vuol dire sicurezza, quanta ce n’è, quanta ne manca?

"Semplicemente c’è sicurezza se una persona si sente sicura in ogni momento della sua vita quotidiana, quando va a far la spesa o quando si presenta al banco postale a ritirare la pensione. Oggi non è così, non solo perché di reati, piccoli o grandi, se ne commettono tanti, ma anche perché la percezione che se ne ha acuisce la paura e la paura rende più acuta la percezione dei motivi dell’insicurezza. Quando scali una parete in montagna, se ti senti insicuro è un disastro. È ovvio che ci vuole qualcosa ad alimentare in senso negativo la percezione, ma bastano il degrado e la sporcizia a moltiplicare l’effetto...".

 

Chissà se la Moratti ha mai provato ad attraversare il piazzale della sua Stazione...

"L’altro giorno, durante una trasmissione televisiva, mi telefona una signora che lamentava l’assenza di vigili nel giardinetto dove porta a giocare le bambine. Le ho chiesto se fosse mai successo qualcosa di sgradevole. Mi ha risposto: no. Che cosa avrà turbato la signora? Forse gli schiamazzi di qualche ragazzo in un angolo del parco? Questo per dire come il senso di insicurezza diventi una suggestione continua, una sensazione di pericolo anche quando il pericolo non c’è...".

 

Pericolo che sta implicito nella complessità di questa società, delle nostre città. Forse dovremmo imparare a convivere con l’insicurezza?

"Non siamo alle prese con un destino ineluttabile. Certo bisogna imparare. Anche la conoscenza è un’arma contro la paura... Convivere vuol dire attrezzarsi dentro un mondo in cui la differenza è un fattore caratterizzante".

 

Giusto, la conoscenza. Ma, per spiegarci, come affrontiamo ad esempio il problema dei problemi, cioè lo spaccio della droga?

"Intanto si è visto che l’intervento della polizia serve a poco. Sposta gli spacciatori, li mette in fuga per un paio di giorni. Proviamo a discutere, con lucidità, mettiamo una accanto all’altra la risposta di sinistra e quella di destra. Di fronte a un’area di tossicodipendenza vera, chi sta a sinistra potrebbe proporre strutture sanitarie garantite, con esperti che sappiano agganciare i disperati del buco, sottraendoli al mercato della strada, agli spacciatori, evitando loro il piccolo reato per pagarsi la dose. Dico strutture sanitarie come si è provato in tante parti d’Europa. La sperimentazione dovrebbe diventarne obbligatoria".

 

Verrebbe meno una ragione di insicurezza per il cittadino?

"Credo di sì. Verrebbe eliminato il disagio di chi passa, vede, purtroppo è vittima dello scippo. Proviamo adesso a ipotizzare una risposta di destra allo spaccio più frequente che alimenta lo sballo del sabato sera. Colpire gli spacciatori s’è dimostrato una fatica vana. Forse sarebbe il caso di propone pene alternative per i consumatori. Soprattutto pene di rapida applicazione. Se non affronti il problema della domanda, colpendo a valle risultati significativi non se ne raggiungono".

 

Sono proposte di segno diverso: proviamo a discuterne...

"La sicurezza è questione complicata, di fronte alla quale abbiamo, da amministratori pubblici, le nostre responsabilità. Lo riconosco e per questo chiamo in causa non il governo, ma lo Stato. Perché chiedo poteri che mi consentano risposte rapide. Un potere di tipo commissariale che mi consenta di attivare risorse straordinarie, se devo ad esempio risanare un’area o allestire un campo rom provvisorio".

Giustizia: Colombo; decisione di lasciare è stata molto sofferta

 

Corriere della Sera, 28 marzo 2007

 

"È stata una decisione molto sofferta. Non è stato facile lasciare la magistratura dopo 33 anni. Ma non smetto per ritirarmi, lo faccio per fare altre cose che ritengo, in questo momento, più utili che fare il magistrato": Gherardo Colombo, uno dei simboli di Mani Pulite, a circa due settimane dall’annuncio delle sue dimissioni, effettive dal 7 maggio, spiega la sua scelta ai giovani che ieri sera affollavano la sala dell’Ambra Jovinelli durante la presentazione del nuovo libro di Marco Travaglio, "La scomparsa dei fatti".

Per Colombo, "essere magistrato significa essere indipendente". E, riferendosi alla situazione descritta dal libro di Travaglio (il sottotitolo recita ‘si prega di abolire le notizie per non disturbare le opinioni’) e raccontata in diretta dagli altri ospiti della serata, Michele Santoro, Curzio Maltese e lo stesso Travaglio, commenta: "Sembra che manchi il senso dell’indipendenza".

E dopo le affermazioni di Travaglio ("ci sono giornalisti che scrivono non per i lettori ma per i colleghi, per fare affari e per diventare addetti stampa", "i politici non hanno nulla da dire, ma impediscono che si dica qualcosa", "è stato dato più spazio al litigio Baudo - Del Noce che al sequestro di Abu Omar’), il magistrato sottolinea l’importanza dell’informazione: "Se non si sa, non si può scegliere, occorre una capacità critica.

Ma esiste anche una responsabilità dei cittadini". Dopo aver ammesso l’influenza dei media sulla storia delle indagini di Mani Pulite, Colombo fa in qualche modo capire i suoi progetti futuri. "Perché si va sempre a parlare di giustizia, e non come incide sulla società l’insegnamento?". A suo avviso la nostra è una società in cui "le cose funzionano in modo a dir poco approssimativo. È molto importante individuarle e impegnarsi perché le cose funzionino in un altro modo. La cosa più difficile è essere convinti di ciò che si dice, la coerenza poi viene da sé". Sul sistema giudiziario: "È stato inventato per affrontare situazioni marginali" e "la soluzione di tanti problemi della magistratura è spesso fuori dalla magistratura stessa".

Giustizia: politici e trans, c’è poco da ridere

di Andrea Boraschi e Luigi Manconi (Associazione "A Buon Diritto")

 

L’Unità, 28 marzo 2007

 

"Pensate a Sircana, quando gli hanno detto quella cosa delle fotografie... si è sentito male, poveraccio. E ci credo: era roba da andare in trans... Come si fa? Sircana lo conosco bene, siamo usciti spesso di sera a cercar donne, prostitute, viados. Ma lo giuro a quegli ipocriti: non siamo mai andati dai trans, non gli piacciono nemmeno".

Ah, ah, oh oh... Divertente, no? E mica finisce qui. Sentite quest’altra: "E poi, si parla di un politico famoso... Sircana? Non era mica lui il politico famoso, ma il trans... che era Maroni! Se era lì con un trans, era per conto di qualcun altro. Cosa fa di mestiere, Sircana? Il portavoce di Prodi. Era lì per combinare tutto per Prodi". Ah ah, oh oh... Mi scompiscio, avrebbe detto Totò. E riprendiamo un po’ di contegno.

Le battute d’apertura non sono tratte da uno spettacolo del Bagaglino. Anzi, ci scusiamo (ma davvero) della tentazione di tirare in ballo la ditta Oreste Lionello & Co. per commentare la qualità e il tono di tale e tanta ironia; e sorvoliamo sul fatto che si trattasse dell’ultima, applauditissima performance di Roberto Benigni a Milano.

Colpisce il fatto, piuttosto, che "Maroni-trans" possa indurre qualcuno (molti?) alla risata; laddove, mai come in questo caso, l’allegria suscitata ha qualcosa di esorcistico e isterico (e attendiamo che, con maggiore modestia e senza impalcature culturali dantesche, qualche altro comico chieda il nostro applauso con un più modesto "Lo sapevate che Arturo Parisi è ricchione? E che Fabio Mussi è una donna? ...").

Sin da piccini, sin da quando studiavamo semiotica al Dams di Palombara Sabina, sotto l’alto magistero del professor Amerigo La Paletta, sappiamo che l’essenza del Comico, e la sua fondazione ontologica, risiede innanzitutto nell’Uomo che Scivola sulla Buccia di Banana: e tuttavia, su, un piccolo sforzo non guasterebbe. Detto questo, colpisce, ancora, che Silvio Sircana rappresenti, oggi, l’oggetto di un gossip da Capocotta quanto, per altri versi e con diverse sfumature, lo fu Lapo Elkann qualche tempo addietro.

C’è un elemento assai significativo nella morbosità (sia chiaro: condivisa da tutti) che circonda queste e altre vicende; morbosità che non consiste nello scoprire che anche uomini pubblici possano (o possano essere tentati di) fare ricorso alle prestazioni di una prostituta o di un prostituto (e sai che scoperta!); non sta nemmeno nella pruderie (ancora: condivisa da tutti) che sempre, o quasi, circonda le questioni di letto (o di marciapiede); e non sta neppure negli elementi accessori di questi casi, Vallettopoli & Corona o abuso di stupefacenti che sia.

Il vero, taciuto e rimosso, fattore di arrapamento mediatico e di turbamento dell’inconscio collettivo è - ovviamente - "la questione transessuale". Va da sé: degli orientamenti e delle preferenze sessuali di questo o quello nulla ci importa. Siamo con il Giorgio Gaber che, nei primi anni 70, cantava "Vedi cara, per me l’amore... Non ho problemi. È una cosa normale, sì. Uno lo può fare con chi vuole, certo. Donne, uomini, animali, caloriferi".

Tuttavia, dobbiamo constatare che - in una società largamente consumistico - liberale, in cui parlare delle proprie opzioni sessuali sta diventando una tentazione per molti - la "questione transessuale" sembra avvolta da un clima di imbarazzata omertà; e appare come uno dei pochi condimenti possibili per ridare gusto a una pietanza oramai per molti versi sciapa, qual è il pettegolezzo a sfondo erotico.

Dei trans si parla, per lo più, come appetibile elemento di contorno a qualche scandalo ormai appannato e di qualche vicenda scollacciata (termine sublime, caduto in disuso), ma non troppo. Eppure, a giudicare da un mercato della prostituzione che appare florido, quella preferenza sessuale sembra stabilmente acquisita per una fascia consistente della popolazione maschile adulta del nostro Paese.

Dunque, perché tanto silenzio e poi, inopinatamente, tanto clamore? Forse perché analizzare quel fenomeno (e con quali strumenti, poi?) appare difficile e delicato? La possibilità che un maschio (eterosessuale o no) possa prediligere un transessuale come oggetto del suo desiderio e come partner, sembra intaccare ancora una qualche idea di "normalità" - dunque, comportare rapporti problematici con l’idea della "perversione" - di quanto non possa la semplice scelta omosessuale.

E, intorno a questo vulnus, si va costruendo un clima sociale che interessa sì ogni possibile utente di quel mercato: ma che riguarda, ancor più e molto più crudamente, i transessuali stessi. Che sono (non tutti, evidentemente) sulle nostre strade di notte e nei nostri negozi, nei nostri uffici postali, sui nostri mezzi pubblici, di giorno. E che pure sembrano oggetto di una strana forma di rimozione collettiva.

Insomma, è possibile che i transessuali rappresentino qualcosa di ineffabile: ovvero di indicibile e inquietante, fattore d’insidia per le nostre identità (e alle nostre nevrosi) di genere. Per l’intanto, restano due ingombranti detriti di queste allucinate settimane: a) il fatto che un uomo pubblico si trovi a dover riflettere seriamente sulle sue dimissioni a causa di un gesto: quello sporgersi sul sedile del passeggero e parlare attraverso il finestrino; b) il fatto che si possa arrivare a una sorta di pan-penalizzazione della vita sociale, tale che diventi oggetto di stigmatizzazione e riprovazione collettiva una pulsione.

Tutto ciò preoccupa e non fa ridere (nemmeno noi, che al Dams di Palombara Sabina abbiamo discusso la tesi "Il ruolo di Max Cipollino nell’evoluzione dell’ares comica di Massimo Boldi"). Non fa ridere neppure pensare a Bobo Maroni come a un trans.

Giustizia: una piccola supplica al Garante della privacy

 

Il Riformista, 28 marzo 2007

 

Abbiamo sempre nutrito molti dubbi sull’utilità delle cosiddette autorità di garanzia. Ne siamo stati, però, sempre un po’ sospettosi - anche quando davano buona prova ai tempi dei Rodotà e dei Tesauro - perché non riusciamo a dimenticare che erano state escogitate negli anni Novanta, in piena crisi del sistema dei partiti, per far credere che la politica cedesse qualcosa a favore di una supposta imparzialità. Ci sembrava, allora, un modo per scaricare responsabilità e per costruire amministrazioni parallele, che avrebbero finito al momento buono per ricadere sotto il controllo politico. Cosa che è puntualmente avvenuta nel modo peggiore.

Lasciamo perdere il povero Sircana, che non ha voluto dimettersi. Pazienza: tanto il conto lo pagherà, al momento opportuno, il centrosinistra tutto. Certo, ci resta la curiosità per un supercomunicatore che tra annunci, pentimenti, interviste, lettere combina un tale disastro comunicativo.

Incuriosisce invece il destino del professor Pizzetti che continua a "garantire". E vero che anche in questo caso il conto lo pagherà qualcun altro, ma sarà più salato. Questa volta sarà la classe politica tutta, di destra e di sinistra, che apparirà come apparivano i "gatti grassi", la nomenclatura, nel tramonto del socialismo reale: disposti a pagare i loro conti, ma solo un "pochino di più", come dice, da noi, l’ineffabile Pierre Casini. Non troppo, cioè.

Vogliamo però approfittare dell’occasione per esercitare un vecchio diritto dell’Occidente, il Petition Right, il diritto di supplica. Supplichiamo il professor Pizzetti, almeno, di non scrivere più cose che ci facciano pensare che leggere sia un vizio.

Ci fa sentire perversi, infatti, apprendere che un provvedimento che sarebbe da citare come esempio da manuale di slealtà politica, un provvedimento che più ad personam non si poteva, è stato preso con la "morte nel cuore". Ci mette egualmente a disagio venir a sapere, dopo una settimana di polemiche, che forse il provvedimento era collegiale, che il vero responsabile è un altro, che lui, forse, non voleva.

Alla nostra supplica vogliamo aggiungere una postilla. In un’altra parte del mondo, tra gli imperialisti, Alberto Gonzales, ministro della Giustizia di Bush, rischia seriamente il suo posto. Egli è accusato di aver dichiarato di non saper nulla di un piano del presidente, nel 2004, per la sostituzione di alcuni District Attorneys, che sono funzionari federali, non "giudici", che il presidente può rimuovere quando vuole, sotto la sua responsabilità politica. È risultato che Gonzales invece lo sapeva: per questo rischia. Sembra poco, ma nel mondo dei cattivi, che saranno anche tali, ma che si prendono le loro responsabilità, è sufficiente.

Ora, Gonzales è un terribile destro e non è tanto simpatico. Per questo non ci sentiamo di inviargli la nostra solidarietà. Non potrebbe mandargliela il professor Pizzetti, dopo aver consultato qualche esperto di relazioni con gli americani del nostro governo, da giurista imparziale a giurista imparziale? Insomma, una sfida che è anche perplessità: chi è disposto a cambiare linguaggio?

Roma: detenuto omosessuale costretto a vivere in isolamento

 

Garante detenuti del Lazio, 28 marzo 2007

 

Potrebbe essere trasferito nella sezione che ospita i transessuali a Rebibbia, ma per il Prap non ha i "requisiti fisici". La denuncia del Garante dei diritti dei detenuti: "Un aggravio pesante di condanna per colpe non sue".

Omosessuale trentenne, alla prima esperienza in carcere, è costretto a trascorrere le giornate fra il Centro Clinico di Regina Coeli e una delle sezioni del carcere (dove vive in una cella da solo), per evitare possibili problemi con una popolazione maschile. A darne notizia è il Garante regionale dei diritti dei detenuti, Angiolo Marroni, secondo cui le condizioni di vita del detenuto potrebbero migliorare con il trasferimento nella sezione "trans" del carcere di Rebibbia Nuovo Complesso (dove sono abitualmente reclusi anche detenuti gay), ma secondo il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria del Lazio, non avrebbe i "requisiti fisici" per essere spostato. Protagonista di questa vicenda incredibile kafkiana un detenuto brasiliano di 30 anni, Luciano M., del cui caso si sta ora occupando proprio il Garante regionale

"Quello del carcere è un contesto ambientale difficile è questa persona - ha detto Marroni - ora detenuta da sola in una cella in VII sezione e fino alla settimana scorsa rinchiuso nel Centro Clinico di Regina Coeli, subisce conseguenze devastanti per il suo morale e la sua psiche. Costringere una persona a non avere la possibilità di usufruire anche solo dell’ora d’aria e dei momenti di socialità, è un caso eclatante di diritti negati.

Luciano sta subendo un aggravio pesante della propria condanna per colpe che non sono sue, costretto com’è a vivere in un ambiente che non gli consente di scontare dignitosamente ed umanamente la sua pena".

A quanto risulta all’Ufficio del Garante, Luciano è solo in Italia. La sua famiglia è infatti in Brasile e quindi in carcere non riceve visite. I soli colloqui che svolge sono con gli operatori penitenziari, con il Garante regionale dei diritti dei detenuti e con i volontari.

Di recente un perito nominato dal giudice lo avrebbe visitato per valutarne la sua compatibilità con il regime carcerario. Nel frattempo, Luciano vive in totale isolamento perché per il Prap "non ha i requisiti fisici" per essere trasferito nell’unico luogo dove potrebbe stare meglio: la sezione trans di Rebibbia Nuovo Complesso.

Roma: assessore Dante Pomponi; bisogna ripensare il carcere

 

Ansa, 28 marzo 2007

 

Dopo gli episodi odierni a Regina Coeli e a Rebibbia, interviene l’assessore con delega all’Ufficio Carceri del Comune di Roma.

"L’episodio del detenuto a Regina Coeli costretto all’isolamento perché omosessuale e quello del taglio alle docenze nel carcere di Rebibbia - dichiara l’assessore alle Politiche per le Periferie, lo Sviluppo Locale, il Lavoro, Dante Pomponi - dimostrano come il nostro sistema carcerario sia un sistema punitivo che somma in maniera arbitraria la privazione della libertà personale sancita dalla Costituzione alla spersonalizzazione degli uomini e delle donne che in carcere vivono.

Il carcere - prosegue Pomponi - diventa così sempre più un luogo di negazione dei diritti e della dignità umana. Non è più possibile rimandare una riflessione critica sul sistema carcerario: bisogna ripartire dalle persone in carne ed ossa, bisogna recuperare la funzione degli istituti penitenziari come luoghi di reinserimento sociale.

Mi aspetto che il Governo cominci al più presto ad affrontare il tema della detenzione non solo come punizione ma come un momento di opportunità e di riscatto sociale. Non è più possibile assistere a queste gravi violazioni dei diritti: si entra in carcere come persone che hanno sì commesso un reato ma si è costretti a subire anche profonde ferite della propria dignità, si è costretti a diventare anonimi e invisibili".

Roma: moglie di un detenuto s’incatena davanti al Quirinale

 

Ansa, 28 marzo 2007

 

Ha avviato un’azione di sensibilizzazione dapprima al Ministero della Giustizia dove ha chiesto udienza al ministro Clemente Mastella e martedì davanti al Quirinale dove si è incatenata, Sonia Franco, figlia di Michele, reggino, di 59 anni, condannato a dieci anni per associazione mafiosa e traffico di droga. Chiede di avere notizie sulle condizioni di salute del padre detenuto sottoposto al regime del 41 bis nel carcere di Cuneo.

All’uomo, condannato a dieci anni nel procedimento denominato "Olimpia", è stato diagnosticato un tumore al rene destro. Franco ha già subito due operazioni a Cuneo e, recentemente, è stato trasferito al Centro clinico di Pisa per un nuovo intervento eseguito 15 giorni fa.

"Non discuto l’applicazione del 41 bis - afferma la signora Franco raggiunta telefonicamente dall’Ansa - tantomeno la posizione di mio padre, ma quello che è disumano e inaccettabile è che si impedisca a noi di sapere alcunché delle sue condizioni di salute. Quello che mi preme sapere è come sta, potendo in qualche modo stargli vicino. Non chiedo altro".

"Abbiamo ricevuto giorni fa - prosegue la donna - una lettera scritta forse da un infermiere in cui mio padre ha espresso come forma di preghiera al Signore il desiderio di poterci rivedere. Mi rivolgo per questo al ministro Mastella che parla di diritti al reinserimento per i detenuti, mentre al ministero mi si dice di attendere i tempi burocratici. Ma quanto tempo abbiamo a disposizione prima che accada l’irreparabile? Sono disperata e disposta a tutto anche a mettere in gioco la mia vita".

Napoli: detenuto vuol donare un rene per rivedere figlia malata

 

Ansa, 28 marzo 2007

 

Per vedere la figlia sarebbe disposto a fare qualunque cosa, compreso donare il proprio rene. La richiesta è di un detenuto, un presunto boss di Bari, rinchiuso nel carcere a Napoli, che in questo modo potrebbe ottenere il trasferimento nel capoluogo pugliese e incontrare la ragazza, malata e impossibilitata a viaggiare per problemi di salute, almeno ogni 15 giorni.

L’insolita richiesta è di un detenuto, dall’8 luglio 2006 nel carcere napoletano di Poggioreale. Nella lettera spiega che la figlia è nata tre mesi dopo il suo arresto. La ragazza, ora adolescente, sentirebbe molto la mancanza del padre perché da undici mesi non può vederlo. Il motivo: problemi di salute. "Per questa ragione - scrive l’uomo - ho deciso, quasi come uno scambio morale, di fare donazione di un mio rene a chi ne ha bisogno affinché il ministero della Giustizia mi dia la possibilità di un avvicinamento permanente nei pressi di Bari in modo da poter avere finalmente la possibilità di vedere mia figlia almeno ogni 15 giorni".

Roma: incontro dei Garanti dei detenuti con Bertinotti e Salvi

 

Comunicato stampa, 28 marzo 2007

 

Lunedì 19 marzo si è svolto un lungo incontro dei Garanti di Roma Gianfranco Spadaccia, di Firenze Franco Corleone, di Brescia Mario Fappani, di Torino Maria Pia Brunato e di Bologna Desi Bruno, con il Presidente della Camera Fausto Bertinotti.

L’incontro si è svolto in un clima molto cordiale partendo dalla valutazione degli effetti positivi dell’indulto e con una riflessione sulla successiva campagna che si è rivolta contro un provvedimento indispensabile per far tornare a condizioni minime di vivibilità e legalità le carceri italiane. I Garanti hanno sottolineato la necessità di non fermarsi a questo provvedimento ma di affrontare alla radice le cause del disagio penitenziario.

È stata quindi ribadita l’importanza di inserire nella agenda politica l’approvazione del nuovo codice penale e la modifica profonda delle leggi che provocano sovraffollamento ed emergenza: legge Bossi-Fini, legge Fini-Giovanardi e legge ex Cirielli.

Sono state poste anche altre questioni aperte in particolare la questione della salute in carcere, il superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, l’approvazione della legge sul Garante nazionale, l’Ordinamento Penitenziario, le detenute madri, l’affettività, un rinnovato rapporto tra carcere e città. I Garanti hanno sottolineato l’opportunità di concepire in qualche modo una sorta di sessione di lavori parlamentari, riservata ai problemi della giustizia, per affrontare complessivamente i nodi irrisolti.

Il Presidente Bertinotti ha manifestato interesse e disponibilità per il merito delle proposte e ha dato assicurazione per una rapida approvazione della legge sul Garante nazionale e ha espresso l’opinione che si possa definire rapidamente l’iter parlamentare del prossimo provvedimento del Governo sull’immigrazione.

Per quanto riguarda le altre questioni ha prospettato una ipotesi: quella di individuare una sede prestigiosa all’interno del Parlamento per un confronto tra i garanti, i giuristi impegnati nella riforma del Codice Penale e i parlamentari, per una riflessione generale sul carcere, il senso della pena e i principi costituzionali in materia.

 

Incontro con il Presidente della Commissione Giustizia del Senato Senatore Cesare Salvi

 

Lunedì 22 gennaio 2007 si è svolto presso l’ufficio del Presidente della Commissione Giustizia del Senato, sen. Cesare Salvi, un incontro con il Coordinamento dei Garanti dei diritti delle persone private della libertà personale.

L’incontro si è svolto in un clima molto cordiale partendo dalla valutazione degli effetti positivi dell’indulto e con una riflessione sulla successiva campagna che si è rivolta contro un provvedimento indispensabile per far tornare a condizioni minime di vivibilità e legalità le carceri italiane. I Garanti hanno sottolineato la necessità di non fermarsi a questo provvedimento ma di affrontare alla radice le cause del disagio penitenziario.

È stata quindi ribadita l’importanza di inserire nella agenda politica l’approvazione del nuovo codice penale e la modifica profonda delle leggi che provocano sovraffollamento ed emergenza: legge Bossi-Fini, legge Fini-Giovanardi e legge ex Cirielli.

Sono state poste anche altre questioni aperte in particolare la questione della salute in carcere, il superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, l’approvazione della legge sul Garante nazionale, l’Ordinamento Penitenziario, le detenute madri, l’affettività, un rinnovato rapporto tra carcere e città.

I Garanti hanno sottolineato l’opportunità di concepire in qualche modo una sorta di sessione di lavori parlamentari, riservata ai problemi della giustizia, per affrontare complessivamente i nodi irrisolti, tra cui la riforma dell’articolo 67 dell’Ordinamento Penitenziario in merito all’accesso nei luoghi di detenzione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia, dei sindaci e dei presidenti di provincia e dei Garanti dei diritti dei detenuti, ove costituiti presso la regione, la provincia, il comune nel territorio in cui è situato l’istituto penitenziario. .

Il Presidente Salvi ha manifestato interesse e disponibilità per il merito delle proposte e ha in seguito, il 21 marzo 2007, presentato l’Atto Senato n. 1421 "Modifica dell’articolo 67 della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di visite agli istituti penitenziari".

 

Avv. Desi Bruno

Coordinamento Garanti dei diritti delle persone private della libertà personale

Ascoli: agenti penitenziari protestano per le condizioni di lavoro

 

Corriere Adriatico, 28 marzo 2007

 

La segreteria provinciale dell’Ugl ha stilato un comunicato in cui vengono elencate tutte le problematiche, in particolare quelle riguardanti il personale, che da tempo affliggono la casa circondariale di Marino del Tronto.

La struttura ascolana viene considerata, a livello nazionale, all’avanguardia nel garantire la massima sicurezza ma decisamente inadeguata per quanto concerne la fornitura di servizi agli agenti di custodia impegnati giorno dopo giorno nella vigilanza e nell’assistenza dei detenuti.

Di recente il sindacalista Sarno, che per 20 anni ha svolto il lavoro di agente penitenziario, ha visitato la casa circondariale di Ascoli al termine della quale ha evidenziato quale primo problema da risolvere le condizioni di vita in cui sono costretti ad operare gli agenti. Secondo la Ugl il grande malumore che serpeggia all’interno della struttura carceraria ha lontane origini e diverse motivazioni.

"L’accordo quadro nazionale viene completamente disatteso. Non vi è equanime distribuzione del lavoro straordinario fra il personale, sia per i notturni che i festivi. I servizi di turnazione premiano soltanto pochi noti e agli ispettori - sempre secondo la segreteria provinciale - non vengono riconosciuti gli incentivi economici stabiliti dal contratto nazionale.

I servizi di regia e di ordine pubblico sono programmati in violazione delle disposizioni del comandante. Al termine di un servizio è stato negato agli agenti un buono mensa a cui avevano diritto e alle loro rimostranze per la concessione negata si sono visti sanzionare". Alle stesse risultanze di Sarno sono giunti anche gli agenti che esprimono un giudizio estremamente negativo circa la conduzione e la gestione del penitenziario tanto da spingerli a manifestare "un sentimento di frustrazione per le continue vessazioni" di cui sono fatti oggetto.

Sono stati adottati strumenti punitivi nei confronti del personale come l’abbassamento di qualifica a seguito di valutazioni negative. Nei confronti del sindacalista Luca Iannotta sono stati adottati ben 12 provvedimenti, 6 di natura disciplinare e 6 denunce di carattere penale. Per fortuna, però, i primi sono stati derubricati e le seconde archiviate.

"In un clima tanto ostile il personale - sottolinea la segreteria dell’Ugl - non ha la possibilità di lavorare serenamente per il pieno recupero dei detenuti. Il carcere è diviso in due sezioni: il giudiziario che accoglie detenuti che devono scontare pene più lievi mentre nel penale ci sono personaggi di grosso spessore delinquenziale".

Altra nota dolente riguarda l’igiene e la sicurezza del personale che opera all’interno della struttura carceraria. Nelle stanze che ospitano gli agenti, prive di docce, sono stati stivati barattoli di vernice, altamente infiammabili.

Nel pentolame che contiene il cibo da somministrare è stata riscontrata la presenza di residui di fosfato e sempre in sala mensa non sono state installate cappe da cucina volte ad evitare la caduta di grassi liquidi negli alimenti in fase di cottura. L’Ugl si riunirà il prossimo 4 aprile. Alla riunione parteciperanno Stefano Cannelli, Giuseppe Moretti e Romeo Cerchia per la segreteria nazionale per chiedere l’interessamento del Dipartimento e l’intervento del Ministero di Grazia e Giustizia affinché venga rivisitato l’ordine gerarchico delle cariche dirigenziali all’interno del carcere di Ascoli. Problematiche annose che hanno contraddistinto il carcere ascolano senza che chi di dovere sia intervenuto per ristabilire il giusto equilibrio.

Perugia: dieci comuni dicono "no" a sconti di pena per Chiatti

 

Ansa, 28 marzo 2007

 

Dieci comuni del comprensorio di Foligno si coalizzano per dire "no" agli sconti di pena per Luigi Chiatti. Il geometra di Foligno, condannato a 30 anni di reclusione per l’omicidio dei piccoli Simone Allegretti e Lorenzo Paolucci, ha ottenuto l’applicazione dell’indulto e quindi uno sconto di pena di tre anni. Sollecitati dal primo cittadino di Bevagna, Enrico Bastioli, i sindaci dei paesi limitrofi hanno firmato un documento per mettere in guardia i giudici che dovranno decidere suoi rischi che potrebbero esserci per la comunità se Chiatti dovesse tornare libero.

Cinema: "La partita di biglie", storia di riscatto sociale a Napoli

 

Internapoli.it, 28 marzo 2007

 

"La partita di biglie", una storia di riscatto sociale nella periferia di Napoli. Interpreti Patrizio Rispo e Daniela De Nuntis, insieme con venti baby protagonisti. Due volti per il personaggio principale: Manuel Loffredo, in età infantile, e Gennaro Limatola, per l’età adolescenziale.

La presentazione del cast a Palazzo Palumbo, insieme con le autrici e co-registe Mara D’Onofrio e Marina Lo i, entrambe docenti del Dams di Roma, il responsabile della produzione Giovanni Brusatori (Play World Film Theatre), l’assessore Andrea Morniroli che patrocina il progetto. Sarà una storia di riscatto sociale, con un messaggio positivo. Così hanno voluto i ragazzi detenuti a Nisida, coinvolti nella stesura del finale del cortometraggio "La partita di biglie" che è stato illustrato al pubblico stamattina nella sede dell’Istituto per gli Studi Europei a Palazzo Palumbo, in piazza Matteotti a Giugliano.

"La partita di biglie" verrà girato a Giugliano, tra il centro storico e il quartiere Casacelle, dal 2 aprile. Il progetto è stato definito dal Ministero dei beni culturali "una piccola storia emozionante e coinvolgente che mette in luce una condizione di degrado sociale e culturale in cui versa la periferia di Napoli".

Il film avrà come protagonisti l’attore Patrizio Rispo, il Raffaele della soap di Raitre "Un posto al sole", e l’attrice Daniela De Nuntis mentre il ruolo del baby protagonista è stato affidato al piccolo Manuel Loffredo di 8 anni, scelto tra duecento aspiranti provinati nella scuola media "Peppino Impastato". Il suo ruolo in età adolescenziale, verrà interpretato da Gennaro Limatola.

"Il Cinema e l’arte in genere - da detto Patrizio Rispo - servono a sensibilizzare i giovani a cambiare strada". Alla presentazione anche Gaetano Di Vaio, dell’associazione "I figli del Bronx" che ha curato il percorso formativo all’interno del carcere minorile di Nisida.

Il progetto, nato da un’idea di Mara D’Onofrio, scritto in collaborazione con Marina Loi, entrambe docenti del Dams di Roma, ha trovato il sostegno del Ministero dei beni culturali, della Terza università di Roma e dell’assessorato ai servizi sociali del Comune di Giugliano, oltre alla collaborazione della Film Commission.

"Fornire ai ragazzi uno strumento per raccontare e raccontarsi - ha dichiarato l’assessore alle politiche sociali, Andrea Morniroli - amplifica l’attenzione sulle problematiche sociali e consente a noi operatori di interagire con loro e comprendere sempre meglio le loro esigenze".

Il film è prodotto da Giovanni Brusatori per la società "Play world film theatre", con l’organizzazione di Vincenzo Ferraro. " La partita di biglie racconta la storia di un bambino che, per aiutare la famiglia, finisce per commettere piccoli reati: da un gesto d’amore quindi finisce per prendere la strada sbagliata".

Ma quella che racconterà Giugliano è una storia di riscatto. "Abbiamo coinvolto i ragazzi che sono stati detenuti nei centri minorili - aggiunge Mara D’Onofrio - per farci raccontare come vedono il loro futuro alla fine del percorso di recupero". La realizzazione del corto rientra in un progetto formativo che ha coinvolto anche i giovani detenuti a Nisida, grazie alla disponibilità del direttore Gianluca Guidi.

Lo scorso 20 marzo sono stati protagonisti di un seminario sugli audiovisivi a conclusione del quale hanno partecipato alla stesura del finale del corto, lasciato volutamente in sospeso dalle due autrici. "I ragazzi hanno accolto con entusiasmo la nostra richiesta di collaborare alla stesura e alla realizzazione del corto - continuano le autrici - e siamo convinte che apporteranno un contributo significativo al nostro lavoro".

Libri: "I territori della pena", il carcere visto da Pietro Buffa

 

Ansa, 28 marzo 2007

 

Il carcere raccontato dalla voce dei detenuti e nelle riflessioni di un direttore penitenziario. L’opera di Pietro Buffa pubblicata da Ega Editore nella collana "Studi e ricerche".

Giovedì 29 marzo 2007, ore 17:00, EGA Editore in collaborazione con Università degli Studi di Torino, Facoltà di Scienze Politiche, Dip. Studi politici, Dip. Scienze Sociali invitano alla presentazione del volume: "I territori della pena", di Pietro Buffa, presso la Sala Lauree Palazzo Venturi, via Verdi 25 Torino. Intervengono insieme all’autore: prof. Guido Neppi Modana; prof. Franco Prina; prof. Odillo Vidoni Guidoni. Modera: prof.ssa Maria Teresa Picchetto.

L’opera in breve. Un inedito dietro le quinte del carcere e del suo funzionamento. In dodici anni di attività come direttore penitenziario, Pietro Buffa ha raccolto, ordinato e analizzato le lettere che gli sono state indirizzate dai detenuti, utilizzando come filtro la sua esperienza professionale e la letteratura scientifica a disposizione. Sono pagine dove, nella descrizione minuta dei bisogni, delle proteste e delle afflizioni dei detenuti sembra emergere il significato reale di "pena detentiva".

In questo senso le lettere diventano un formidabile strumento di conoscenza della quotidianità penitenziaria dalla quale partire per provare a ripensare le attuali prassi della detenzione e stimolare una riflessione professionale e istituzionale sull’argomento.

L’autore. Pietro Buffa dopo la laurea in Scienze Politiche e la specializzazione in Criminologia clinica, inizia a lavorare in qualità di esperto presso il tribunale di sorveglianza. Nel 2000 assume la direzione dell’istituto penale di Torino. Negli anni collabora all’elaborazione e gestione di progetti formativi per il personale e di progetti trattamentali per i detenuti. È autore di diversi contributi scientifici in materia. Per informazioni: Ega Editore. C.so Trapani 95, 10141 Torino. Tel. 011.3859500 - ega@egalibri.it - www.egalibri.it

Roma: il 30 via Crucis con i detenuti del carcere di Rebibbia

 

www.zenit.org, 28 marzo 2007

 

Venerdì prossimo, 30 marzo, la Caritas diocesana di Roma organizzerà una Via Crucis con i detenuti del carcere romano di Rebibbia. Un comunicato stampa ricorda che l’evento si inserisce nell’ambito delle iniziative della Quaresima di Carità.

"La liturgia, tradizionale appuntamento della Chiesa di Roma, vedrà la partecipazione dei detenuti, del personale carcerario, dei volontari delle organizzazioni che operano all’interno dei quattro istituti di Rebibbia e di rappresentanti delle parrocchie romane", spiega il testo.

L’iniziativa è organizzata dai "Volontari in Carcere" della Caritas di Roma in collaborazione con i detenuti ed il personale carcerario di Rebibbia. "L’incontro con la popolazione carceraria durante la Quaresima è il modo per stare vicini ad un mondo segnato più di ogni altro dalla solitudine", ha affermato monsignor Guerino Di Tora, direttore della Caritas diocesana di Roma.

"Andremo a pregare con i nostri fratelli detenuti per stare insieme e per prepararci alla Pasqua, confermando una vicinanza della Chiesa di Roma che si sostanzia in molte iniziative di solidarietà e nell’opera di centinaia di volontari. Proprio lo scorso 3 marzo, nell’ambito della Quaresima, la Caritas di Roma ha inaugurato una nuova comunità alloggio per detenuti realizzata anche grazie alla colletta svolta nelle parrocchie romane", ha aggiunto.

Droghe: una "terza via" nella riforma del ministro Ferrero

 

Redattore Sociale, 28 marzo 2007

 

Decriminalizzare il consumo, riprendere in carico il problema, potenziando i Ser.T. e la prevenzione. Il ministro espone alla Consulta degli esperti le linee per superare la Fini-Giovanardi. "Dobbiamo capire il perché dell’uso di sostanze".

Dopo il passaggio ("costruttivo", secondo i commenti) nel comitato interministeriale di venerdì scorso, Paolo Ferrero ha esposto oggi ai 70 componenti della Consulta degli esperti sulle tossicodipendenze le linee della riforma della legge sulle droghe.

Quella che il governo vorrebbe presentare entro poche settimane non sarà una proposta "in opposizione" alla Fini-Giovanardi, quanto piuttosto un "superamento" dell’approccio avuto negli ultimi anni verso il problema; facendo però tesoro delle esperienze migliori maturate sui territori. È questo il messaggio politico lanciato dal ministro della Solidarietà sociale, che a quanto sembra sta consolidando il suo ruolo di coordinatore dei vari ministeri interessati.

Un ruolo costruito attorno a quella che vari osservatori già definiscono come la "terza via" delle politiche sulle dipendenze e che si potrebbe così sintetizzare: è ormai assodato che né la repressione, né la liberalizzazione sono risposte adeguate alla complessità del problema: occorre dunque operare sia per decriminalizzare il consumo, sia per disincentivarlo; ma lo Stato deve comunque riappropriarsi del suo ruolo di presa in carico del problema. Come fare? Con un deciso potenziamento dei servizi e del lavoro di prevenzione, ha insistito il ministro, prima di lasciare spazio a Leopoldo Grosso, il coordinatore della Consulta, per scendere nei dettagli tecnici.

Prevenzione significa "capire il significato del consumo", "leggere le tendenze sempre più diffuse all’alterazione di sé", non solo tramite le droghe classiche, ma anche con l’alcool, il doping, gli psicofarmaci. Per fare questo, è stato ribadito, occorre "tornare in strada", lavorare sull’educazione ma anche incontrare i consumatori, e soprattutto evitare quanto più possibile che questi finiscano nel circuito penale. A questo proposito, ha sottolineato Grosso, è necessario rendere prassi comuni alcune esperienze maturate in questi anni. Ad esempio due in Lombardia, come "il Sert in pretura" e l’invio ai servizi dei ragazzi segnalati dalle forze dell’ordine per possesso di piccole quantità.

Nel primo caso, gli operatori del servizio pubblico operavano per costruire entro 48 ore un canale alternativo al carcere per i soggetti arrestati. Nel secondo, già raccontato da Redattore Sociale, si è consentito per 5 anni agli operatori del Ser.T., invece che al Prefetto, di "agganciare" i ragazzi evitando in molti casi le sanzioni amministrative e quanto di negativo spesso ne consegue.

Insieme alla prevenzione, è stata proprio la parola "servizi" quella più usata nelle due ore di discussione di stamattina al ministero della Solidarietà sociale. I Sert, è stato sottolineato, devono essere messi in grado di rispondere ai problemi legati ai nuovi consumi, devono poter operare dentro il carcere, attuare ovunque esperienze come quelle lombarde. "Ma con quali mezzi? - ha chiesto ad esempio Riccardo De Facci del Cnca - Da anni assistiamo alla riduzione di risorse economiche e di personale ai Sert. Se si vuole che i servizi pubblici, insieme a quelli del privato sociale, diventino un sistema efficace anche sul fronte della prevenzione, serve un investimento molto convinto da parte della politica".

Quasi tutti gli intervenuti, ad eccezione di don Oreste Benzi e del rappresentante della Comunità di San Patrignano, hanno comunque convenuto che il "superamento" della Fini-Giovanardi va attuato al più presto e che la parola chiave è proprio prevenzione. "Se questo sarà il nuovo quadro di intervento - ha commentato ancora De Facci - da parte di noi operatori sarà molto più accettabile il rischio legato al ritorno alla piena discrezionalità di forze dell’ordine e magistrati nello stabilire il confine tra consumatore e spacciatore (uno dei cardini della prossima riforma, ndr): il ricorso alle sanzioni diventerà infatti più limitato se si riesce ad intervenire prima e comunque a stabilire un rapporto precoce con chi è coinvolto nell’uso di sostanze. E non solo quando questo coinvolgimento è in fase avanzata".

Droghe: Casini; una battaglia contro le "stragi sabato sera"

 

Notiziario Aduc, 28 marzo 2007

 

Quelle definite come "le stragi del sabato sera" sono effettivamente "una emergenza nazionale" e proprio per questo è necessaria "una battaglia contro droga e alcol, perché è una emergenza nazionale": così il presidente dell’Udc, Pier Ferdinando Casini ha applaudito a Monza, visitando una comunità di accoglienza di ragazze madri e donne in difficoltà, l’iniziativa di un gruppo di volontariato monzese che, appunto, si occupa a Monza di prevenire il consumo di alcol e droga parlando con i ragazzi fuori dai locali.

"La vostra iniziativa merita senz’altro un plauso, perché la battaglia contro droga e alcol è oggi una emergenza nazionale. E il buon esempio lo devono dare i quartieri alti, perché il consumo di droga è ormai diventato una sorta abitudine della buona società. Per questo dico che siamo di fronte a una emergenza nazionale, per questo dico che opere di volontariato come la vostra vanno assolutamente sostenute. Il volontariato fuori dalle discoteche è fondamentale". Casini ha ricordato che lui per primo, come genitore, il sabato sera non riesce ad andare a dormire fino a quando le sue figlie non hanno fatto rientro a casa. "Sono preoccupato come, credo, tutti i genitori che hanno figli in quella fascia di età".

Immigrazione: rumeni delinquenti? no, siamo come tutti gli altri

 

Giornal.it, 28 marzo 2007

 

"Purtroppo, spesso i rumeni sono associati alla criminalità, ma tale affermazione è smentita dal fatto che i reati commessi dai cittadini Rumeni in Italia non è superiore a quella di altri gruppi etnici: infatti, alla data del 30 giugno 2006 dei 20.000 detenuti stranieri i Rumeni costituivano soltanto il 14,5 per cento".

Chi ci scrive è Marian Mocanu della Lega dei Rumeni in Italia, ospite ieri pomeriggio ad Alessandria al convegno-dibattito: "Cittadini Rumeni, Cittadini Europei", di cui si era già parlato, soprattutto per le polemiche intorno la presunta ricerca di voti per le prossime elezioni amministrative dei neocomunitari.

"Il Rapporto Annuale Caritas 2004 (dati al 31.12.2003) segnala che in Piemonte si trova il 7,8% degli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia. Gli incrementi maggiori rispetto agli anni precedenti si sono verificati nelle province di Cuneo e Alessandria, mentre le province di Biella e Vercelli hanno conosciuto le variazioni minori.

In tale quadro, gli immigrati rumeni sono diventati di gran lunga la nazionalità più numerosa (29,8%), distaccando di più di dieci punti percentuali la storica presenza dei marocchini (18,5%). Secondo i dati dell’Ufficio Statistica del Comune di Torino, a fine 2005 risultavano residenti in città più di 77.000 stranieri, pari all’8,6% del totale della popolazione.

Tali dati sono confermati anche delle nascite, laddove la media regionale rispecchia la forte concentrazione nel capoluogo piemontese (30% contro il 20% regionale). Ciò premesso, si sottolinea comunque che nel capoluogo piemontese solo nell’anno 2004 gli avviamenti lavorativi hanno subito un incremento pari all’86%, mentre sono nate 1.700 imprese individuali a fronte di un aumento di 500 imprese con titolari cittadini italiani (gli imprenditori rumeni prediligono il settore edile).

Inoltre, non può non rilevarsi come a seguito dell’ingresso ufficiale nell’Unione Europea degli stati della Romania, gli uffici dell’Agenzia delle Entrate hanno ricevuto moltissime richieste per il rilascio di codici fiscali da parte dei cittadini neocomunitari che, rispetto alle cifre medie rilevate negli scorsi anni, nei primi giorni del 2007 è più che triplicato.

Tra le iniziative di maggior rilievo intraprese a favore della comunità rumena in Piemonte, ricordo l’impegno della Provincia di Cuneo, riconosciuta dalla Regione quale valido soggetto di sperimentazione per una collaborazione internazionale tra servizi pubblici per l’impiego di Paesi europei occidentali e di Paesi dell’Europa dell’Est, al fine di favorire la mobilità professionale e la collaborazione in tema di iniziative di inserimento lavorativo e di formazione. La Provincia di Cuneo ha, infatti aderito al progetto Si.Spi. "Supporto internazionale dei Servizi Pubblici per l’impiego", insieme ad altre Regioni italiane.

Il progetto può contare sul sostegno da parte di altri soggetti: Settore Politiche del Lavoro, la Direzione provinciale del Lavoro, il Settore Politiche sociali della Provincia, la Coldiretti, l’Unione provinciale agricoltori, Confagricoltura, Camera di Commercio, le Organizzazioni sindacali dei lavoratori, Enaip e l’Ente bilaterale Edile".

 

Marian Mocanu

Lega dei Rumeni in Italia

Immigrazione: Ferrero; alla fine l’integrazione ci fa risparmiare

 

Il Sole 24 Ore, 28 marzo 2007

 

Segni di crescente integrazione degli immigrati nel territorio italiano, mentre si conferma una netta differenza tra regioni. Il Nord-Est guida la classifica della massima capacità di integrare gli stranieri, il Sud e le isole sono all’estremo opposto. Lo rileva il quinto Rapporto sugli indici di integrazione degli immigrati in Italia redatto dal Cnel con la Caritas-Migrantes.

Sono dati che chiedono una lettura non banale. Le differenze qualitative e quantitative, con l’ovvia prevalenza del Nord, celano eccezioni che emergono dal confronto tra province. Un ruolo fondamentale, nel processo di integrazione, è svolto infatti dalle realtà territoriali minori, dove i problemi sono meglio gestibili.

Il ministro della Solidarietà Paolo Ferrerò ha confrontato la situazione italiana con quella, più difficile, di altri Paesi pur di più antica immigrazione. In Italia, ha detto, gli ingressi avvengono in un contesto post-fordista: non c’è più il richiamo di poche, grandi metropoli industriali. Il fenomeno, pertanto, si ripartisce meglio sul territorio.

Ma i problemi non mancano. Quello della casa è, per il ministro, "devastante": manca da noi una politica della casa, cui Francia e Spagna destinano enormi risorse, Non secondaria, la questione della lingua: Ferrerò ha annunciato una grande campagna nazionale. La conoscenza della lingua, ha detto, è determinante per l’accesso degli immigrati al welfare.

Per Ferrero, gli immigrati non arrivano "per oziare in piazza", ma perché richiamati dalle nostre esigenze. L’arrivo di persone in età lavorativa, è la sua stima, fa risparmiare allo Stato i isomila euro che spende per accompagnare un neonato fino ai vent’anni. Poi, gli immigrati versano 3 miliardi di imposte l’anno: in confronto a queste cifre, quel che viene loro restituito è ben poco.

L’indice di integrazione su base regionale (dati 2004) conferma con il massimo punteggio, rispetto alla precedente stima, cinque regioni, col Trentino Alto Adige passato in testa seguito da Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, Marche e Friuli-Venezia Giulia. Ad alta integrazione sono Valle d’Aosta, Piemonte e Umbria cui si aggiunge, migliorando, la Toscana. Media integrazione per Abruzzo, Liguria e Lazio, tutte conferme. Bassa integrazione per Sardegna e Molise cui si aggiunge, in progresso, la Calabria. Minima integrazione per Basilicata, Puglia (che perde quattro posizioni), Campania e Sicilia.

Se però si passa alle 103 province, l’integrazione risulta in forte aumento: quelle a livello massimo, Trento e Brescia in testa, passano da 11 a 25, tutte settentrionali con le eccezioni di Prato, Ancona e Macerata. Milano fa parte di questa fascia con altre sei province delle 11 lombarde. Bologna (28) è ai vertici della fascia subito inferiore, ad alta integrazione. Sei grandi capoluoghi di regione si situano a metà classifica: Torino (50), Perugia, Roma (54), Firenze, Pescara e Genova (63). Distaccate Bari, Cagliari e Napoli, tra l’81 e l’83 posto mentre Palermo (90), è il solo capoluogo di regione a figurare tra le 18 città a minima capacità di integrazione.

Trento e Brescia le province dove l’integrazione è maggiore Marche e Abruzzo le regioni in cui la stabilità sociale raggiunge i livelli più elevati. Napoli è risalita di 20 posizioni (era ultima) grazie a indicatori prima non considerati. In generale, il quadro è soddisfacente: quasi metà delle province (48 su 103) ha massime o alte potenzialità di integrazione. Solo 35 le hanno basse o minime.

Il massimo potere di attrarre e trattenere gli stranieri continua a essere esercitato dalle grandi regioni del Nord-Est, come Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Ma il miglior inserimento sociale e lavorativo si trova in realtà minori: Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Valle d’Aosta. La stabilità sociale vede sempre in testa le Marche, con Abruzzo e Sardegna a precedere Piemonte, Toscana e Lombardia.

Cina: "Lettere dal braccio della morte", esce libro di denuncia

 

Ips, 28 marzo 2007

 

Il loro numero è tabù. Le loro storie, condannate all’oblio. Il mondo dei detenuti nel braccio della morte in Cina è troppo spaventoso, e le ragioni delle esecuzioni troppo sordide, perché se ne possa scrivere senza sfuggire al controllo dei censori di stato comunisti.

Ma proprio in virtù della sua semplicità, "Lettere dal braccio della morte", di recente pubblicazione, ha avuto successo, laddove altri lavori più ambiziosi avrebbero probabilmente fallito. Il volume narra la storia di 22 prigionieri cinesi nel braccio della morte, uomini e donne. Raccontati direttamente dalle celle delle loro prigioni. La storia è avvincente perché lascia trapelare la rara onestà dei condannati, a poche ore dalla loro morte.

Il libro non aspira a diventare ciò che fu il resoconto romanzato di Truman Capote di un omicidio sensazionale negli Stati Uniti degli anni ‘60, "A sangue freddo". Huan Jingting, l’autore, ha dichiarato che il suo intento non era discutere del valore della pena di morte; e nemmeno scrivere un’analisi sulle divisioni sociali. "Questo libro è stato scritto come un tributo alla vita umana", ha detto. "A mio parere, non c’è niente di più umile della vita umana".

Ciò che suggerisce parallelismi con il lavoro di Capote, tuttavia, sono le osservazioni comprensive di Huan sulla mente criminale. Le sue pagine sono popolate di criminali comuni - rapinatori e contrabbandieri, la cui lotta per la vita finisce, per qualche motivo inspiegabile e crudele, nella camera d’esecuzione.

Così è la storia di Wen Shou, un ingenuo ragazzo di 19 anni di Chongqing, nella Cina centrale, che viene usato da spacciatori senza scrupoli come intermediario in una catena di consegne, e poco a poco trasformato in un tossicodipendente. Quando gli viene offerta la prima costosa sigaretta "straniera", con una indulgente pacca sulla spalla, Wen non sa che questo sarà l’inizio di una spirale verso il basso, destinata a trascinarlo fino nel braccio della morte. "Mentre inalava quell’odore pungente, pensava: che differenza, tra questa roba straniera e le sigarette cinesi economiche che vendono nei chioschi per strada".

Oppure la storia del ragazzo di campagna Liu Yuan, che a vent’anni era stato arrestato e rieducato nei campi di lavoro per piccoli furti così tante volte, che non riuscirà più a trovare un lavoro nel suo villaggio. Lascerà la campagna per la fiorente città di Shenzhen, nel sud della Cina, dove milioni di migranti lavorano in fabbriche che sfruttano la manodopera.

Il suo carattere rude di teppista di campagna piace al delicato boss di un’agenzia di casting di Shenzhen, e invece di lavorare come trasportatore, Liu diventa un "modello che interpreta il ruolo di gangster". Per mantenere il profilo "cool" di questa sua nuova immagine, Liu si ritrova alla fine costretto a diventare un vero gangster.

A Huan Jingting non è stato permesso registrare le ultime parole di funzionari di alto livello condannati a morte per corruzione, poiché costoro, ha detto, vengono tenuti in un carcere speciale. Il suo libro è quindi uno studio sulla morte nella vita delle persone svantaggiate. Anche gli assassini di cui traccia il profilo vengono rappresentati in una luce compassionevole, quasi tutti perpetratori involontari dei crimini di cui sono imputati.

"Mamma, mia cara mamma, spero che non ti affliggerai troppo a lungo, e che potrai presto perdonare questo tuo figlio ignorante", si legge nella lettera di addio di Ai Qiang, un ragazzo di appena 20 anni che aspetta la morte per aver derubato e ucciso uno straniero per strada. "È a causa dell’ignoranza che ho rovinato la mia vita. È a causa dell’ignoranza che lascerò questo mondo. Spero di essere un figlio migliore nell’aldilà. Addio. Il tuo figlio indegno".

"Oserei dire che è il primo libro in Cina che ritrae il lato umano delle persone che siamo abituati a considerare irrimediabilmente cattive", ha detto Huan, intervistato dall’IPS. "Esistono pile e pile di reportage di crimini, ma l’ottica dello scrittore è sempre che i criminali sono nati tali".

In Cina, più di 60 tipi di crimini - tra cui delitti non violenti come la corruzione e l’evasione fiscale - sono punibili con la morte. Gli attivisti per i diritti umani condannano il fatto che le sentenze di morte vengano emesse con troppa leggerezza, portando a terribili errori giudiziari. Le autorità cinesi non rivelano il numero delle esecuzioni ordinate dai tribunali. Nel 2005, Amnesty International ha registrato 1.770 esecuzioni in Cina, o più dell’80 per cento di tutte le sentenze di morte eseguite nel mondo. Ma secondo gli esperti il numero effettivo di pene capitali raggiunge addirittura le 10.000 esecuzioni l’anno.

Anche se negli ultimi anni sembra essersi intensificato il dibattito pubblico sulla necessità di limitare una così ampia applicazione della pena di morte, la maggioranza della popolazione, secondo gli esperti, sarebbe in sostanza favorevole alla pena capitale come l’unico modo per assicurare che i grandi criminali abbiano ciò che meritano.

Il progetto di un libro incentrato su un tema così delicato come la pena di morte non era qualcosa in cui Huan Jingting aveva mai pensato di imbarcarsi di sua spontanea volontà. Ma alla fine degli anni ‘90 fu condannato per frode, e fu detenuto, con una pena di un anno e mezzo da scontare in una prigione di Chongqing. Proprio perché sapeva leggere e scrivere, gli fu chiesto di scrivere le ultime volontà dei prigionieri condannati a morte, alla scadenza della sua pena. E così ha riportato le storie dei carcerati nel braccio della morte. "È stata un’esperienza che ha cambiato irrevocabilmente la mia vita", ricorda Huan. "Mi ha reso più tollerante". Ha imparato a portare con sé un pacchetto di sigarette ogni volta che entrava nelle celle dei prigionieri nel braccio della morte, nelle ore precedenti le esecuzioni. I detenuti pensano che fumando una sigaretta nelle ultime ore di vita, la loro morte sarà meno dolorosa, e gli sarà garantita la rinascita in una buona famiglia.

Huan trascrive solo i fatti principali, passando più tempo ad ascoltare le loro storie. In vero stile Capote, i suoi resoconti fondono con successo il reportage giornalistico dei fatti con lo stile narrativo del romanzo.

Ha cambiato i nomi di tutti i prigionieri, riportando meticolosamente la topografia e i veri nomi dei luoghi. Le prime dodici storie sono state pubblicate nel 2001, ma la raccolta completa è uscita solo nell’autunno dello scorso anno. Pur rifiutando intenti di critica sociale, il volume di Huan è un potente ritratto del sottoproletariato cinese, che dovrà sostenere il peso delle riforme economiche.

 

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