Rassegna stampa 27 marzo

 

Giustizia: oltre il diritto, la dannazione della memoria

di Mauro Palma (Presidente del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura)

 

Fuoriluogo, 27 marzo 2007

 

Si chiamava Salvia, dal nome dell’odorosa pianta abbondante sui suoi monti che circondano il paese. Il suo nome è stato mutato in Savoia di Lucania, come omaggio al re Umberto I, scampato a un attentato che aveva una scarsa probabilità di riuscita, e come ammenda per aver generato il suo attentatore: Giovanni Passannante. A quest’ultimo, rinchiuso all’Isola d’Elba per scontare la pena dell’ergastolo, non venne mai concesso divedere alcuno né la luce del sole durante gli anni della sua prigionia; né di poter mai alzarsi in piedi, essendola cella alta soltanto un metro e quaranta. Venne poi trasferito al Manicomio criminale - che oggi con meno violenza verbale chiameremmo Ospedale Psichiatrico Giudiziario - dove finì i suoi giorni in un’Italia che si avviava alla prima guerra mondiale. Ma la pena non bastò: il suo corpo non ebbe mai totale sepoltura, fu dato all’analisi dei tardo-positivisti lombrosiani che volevano ricercare l’origine organica del suo crimine e teschio e cervello da allora furono posti in mostra al Museo criminologico. La pena espiata così atrocemente non era stata considerata sufficiente. Si voleva la dannazione della memoria.

La dannazione della memoria, come metodo per non indagare il passato e per non leggerne possibili ragioni, tracce lasciate e modificazioni indotte, ha accompagnato quasi sempre le grandi lacerazioni storiche e l’incapacità sociale di elaborare consapevolmente i lutti subiti. Ce la ricordano l’Antigone sofoclea, così come le frequenti anonimie delle sepolture dei vinti, fino alla vicenda ricordata, che pur avveniva in una società che era passata attraverso il secolo dei Lumi. Riemerge, la dannazione della memoria, ogni volta che si tenta di capire i perché, pur nel rischio di essere accusati non di voler fare un’operazione di comprensione e, quindi, di effettiva prevenzione rispetto al ripetersi degli accadimenti, quanto piuttosto un’operazione di tardiva acquiescenza e forse di complicità postuma. Quando poi alcuni eventi riemergono, seppur in forme diverse e in contesti diversi, questo rischio diventa altissimo e le poche voci dubbiose vengono ridotte immediatamente al silenzio.

Eppure, senza comprensione non si procede, senza capire i perché di chi ha effettuato alcune scelte, dolorose per le vittime e spesso anche per gli artefici, non si ha un’effettiva rielaborazione di quanto accaduto, non si gettano le basi per un vero superamento. E interrogare coloro che di tale scelte ed errori furono protagonisti è aiuto essenziale per l’azione di comprensione. È una necessità. È metodo irrinunciabile anche per ridare a essi un ruolo utile, realmente in grado di ritessere quel filo sociale che si è reciso con la commissione del reato.

Di tutto ciò non si parla oggi mentre si chiede il silenzio ai protagonisti di vicende gravi connesse agli episodi di lotta armata degli anni settanta e ottanta. Sono passati più di due decenni, le pene inflitte allora, hanno per molti esaurito, come è

normale e giusto, il loro corso e, quindi, è possibile oggi interrogare e interrogarsi. L’operazione però non sembra interessare: quella drammatica esperienza diviene una tessera di un mosaico fatto di chiacchiericcio, di rumore di fondo, di sollecitazione di interviste e di immediata indignazione per averle concesse. È parte di una rappresentazione mediatica che ha il doppio effetto, da un lato di non aiutare alla riflessione effettiva, dall’altro di cristallizzare l’immagine degli attori di allora al tempo e alla scena di quanto commesso ormai più di un ventennio fa. Che tutto ciò strida con il dettato costituzionale che vuole la finalizzazione delle pene nel reinserimento sociale, non sembra interessare i commentatori. Già, perché, oltre a dannare la memoria, si vuole in fondo che venga implicitamente comminata una pena accessoria, non legale, non detta, quella del restare ai margini, del non avere più diritto di parola, dello scomparire.

Certamente - e lo ha ricordato anche il Capo dello Stato - il criterio del rispetto del dolore delle vittime e dei loro parenti è punto fermo nella valutazione dell’opportunità del dove e come intervenire. Ma la riduzione alla non esistenza sociale, al silenzio imposto per chi ha scontato una pena, non è accettabile in nessun ordinamento moderno, perché significherebbe non tenere in alcun conto il percorso che gli anni hanno inevitabilmente fatto compiere, tanto più quando li si è trascorsi privati della libertà, con ampio tempo di riflessione sul proprio passato. Molte delle persone di cui si parla in questi giorni hanno compiuto percorsi di ripensamento, documentabili e anche collettivi: come non ricordare l’espressione di rielaborazione compiuta all’interno delle mura carcerarie nelle cosiddette aree omogenee, nella volontà di dissociarsi silenziosamente dall’esperienza passata, rompendo la dicotomia tra chi irriducibilmente restava ancorato ad essa e chi la superava con una attiva e premiata denuncia dei propri compagni di un tempo? Come non vedere che proprio tale rottura ha significato allora l’effettivo superamento dell’esperienza passata?

Non fu un cammino semplice: la legge sulla dissociazione"silenziosa" dalla passata esperienza trovò molti ostacoli nel suo percorso parlamentare e, quando, all’inizio del 1987, venne approvata, il suo testo non rispondeva più a quanto auspicato da chine aveva seguito origine e itinerario, sfociando in una richiesta di implicita abiura del proprio passato che male si coniugava con il fondamento giuridico di uno Stato moderno, che mai deve divenire soggetto etico volto a modificare le coscienze, anche di chi ha commesso gravi reati.

Eppure, l’esperienza costruita durante le fasi della sua discussione rimane fondamentale nella maturazione di una cesura,nella rilettura del passato e nella costruzione per molti di una nuova, diversa, prospettiva: gli effetti ebbero un significato di rielaborazione personale e culturale ben superiore alla lettera del testo approvato.

Oggi, anche a coloro che di tale cammino furono protagonisti viene richiesto di ritrarsi da ogni attività che dia visibilità al proprio nuovo agire: a Susanna Ronconi, da decenni attiva nel mondo della riduzione dei danni prodotti dalla spirale tossicodipendenza - repressione, viene chiesto e imposto di rinunciare a rappresentare l’associazione entro cui ha sviluppato tale esperienza, all’interno di un tavolo tecnico che avrebbe potuto giovarsi proprio della complessità del percorso che lei rappresenta.

Analoga la situazione per altri, protagonisti di altre personali elaborazioni: a Renato Curcio si chiede di non presentare il prodotto della propria attività editoriale all’interno di una manifestazione sull’editoria. Non scampa anche chi si è sempre dichiarato estraneo e distante: la presenza di Adriano Sofri a un dibattito è oggetto di rampogna.

Non si tratta, quindi, di evitare giustamente la spettacolarizzazione del dolore altrui o la proposizione di ciò che si è commesso quale fonte di un nuovo protagonismo. C’è nell’attuale campagna contro ogni presenza e parola, qualche cosa di aggiuntivo che inquieta: il desiderio di una pena oltre la pena, ormai scontata. Una richiesta che oltre a essere irricevibile interroga la società che la pone, perché svela come essa sia ferma sul passato senza permettere che divenga memoria rielaborata.

Giustizia: le scelte di allora, le dimenticanze di oggi

di Alessandro Margara (Presidente della Fondazione Michelucci)

 

Fuoriluogo, 27 marzo 2007

 

Il discorso che oggi si fa strada è semplice: gli ex terroristi devono tacere. Se parlano, salgono in cattedra e questo offende le vittime delle loro colpe passate. Sono colpe non recenti in quanto interessano i gruppi che condussero una lotta armata, indubbiamente sanguinosa, negli anni settanta e nei primi anni ottanta.

Quello che mi colpisce è la differenza fra le reazioni politiche e più generalmente pubbliche di allora, che accompagnarono la conclusione della parabola terroristica, e quelle attuali. Ricordo quelle di allora: furono politiche, penal-costituzionali e di pratica di inserimento sociale.

Quelle politiche: la scelta di accogliere la proposta di dissociazione dalla lotta armata che veniva dai terroristi detenuti. I vari movimenti erano stati indubbiamente colpiti in profondità dal contrasto di polizia e giudiziario, ma erano tante le persone ormai arrestate e quelle che arrivavano in carcere, perché erano stati scoperti gli organici dei singoli gruppi.

La dissociazione proposta dagli imputati consisteva nel riconoscimento delle proprie colpe in sede penale, nella presa d’atto della sconfitta della lotta armata e nella conseguente rinuncia alla stessa. Il contenuto era completato dalla disponibilità ad impegnarsi, quando maturavano i tempi penitenziari, inattività socialmente utili. Lo Stato accettò questa proposta. Non era una tregua, era la pace che seguiva alla sconfitta del terrorismo. Le manifestazioni che seguirono restarono molto lontane dai livelli delle precedenti.

Sul piano penale e penitenziario, in un rilancio dei principi costituzionali, seguirono due leggi. La prima (fine 86) fu la legge Gozzini, che, soprattutto ma non solo, allargò l’accesso alle misure alternative, rimuovendo i limiti precedenti: non riguardò i soli terroristi, ma tutti i condannati. La seconda (inizio 87) fu la legge sulla dissociazione, che riduceva le pene a chi si dissociava. Il carcere, negli anni di piombo precedenti era stato uno dei terreni di scontro e, parallelamente a quello che accadeva all’esterno, non si era usato la mano leggera.

La legge Gozzini dava respiro alle stesse indicazioni della Corte Costituzionale, che, con sentenze precedenti e con altre che sarebbero seguite, ribadiva il senso della finalizzazione della pena al reinserimento sociale del condannato e concepiva le misure alternative come lo strumento indispensabile per realizzarlo in una esecuzione della pena detentiva con progressivi e sempre più ampi spazi alternativi.

La legge Gozzini, come si è detto, riguardava tutti i detenuti ed era un segno del recupero di ordine e tranquillità in carcere. Gli ultimi interventi erano di ordine pratico. Le carceri si aprivano alle forze sociali interessate, istituzioni, enti locali e volontariato, che proponevano progetti di inserimento sociale per i detenuti, d’altronde in attuazione della competenza in materia di assistenza post-penitenziaria, specifica, dal 1977, degli enti locali.

Le aree del carcere in cui si trovavano gli ex terroristi erano sicuramente le più attive nel ricercare contatti, che, in tante carceri, si allargavano comunque all’intera popolazione detenuta. Tutto questo interesse per i colpevoli non era e non veniva considerato affatto come disinteresse nei confronti delle vittime, per le quali non erano mancati gli atti di rispetto e di aiuto. È vero che l’efficienza e la memoria dello Stato non è sempre all’altezza dovuta, ma non mi pare che oggi si discuta di questo.

Eccoci all’oggi: di cosa si discute oggi? Prima, però, mi chiedo: cosa si dovrebbe discutere? Mi parrebbe opportuno che si discutesse della giustezza e dell’efficacia delle politiche avviate 20 anni fa. Coloro che scelsero la dissociazione e, successivamente, anche quelli che non la scelsero, ma che poi ottennero le misure alternative, in gran parte per iniziative socialmente utili, salve isolatissime eccezioni, hanno tenuto fede ai loro impegni.

Quelle politiche, quindi, erano giuste perché avevano battuto la strada di una esecuzione della pena costituzionale; ed erano efficaci perché le persone che ne avevano fruito si erano inserite correttamente: molto spesso collaborando ad iniziative utili per tante aree sociali, particolarmente per quelle più critiche.

No, non è stata questa la materia di discussione, ma un’altra. Consentitemi di prescindere dai casi particolari, nei quali, peraltro, si cela un nodo analogo a quello dei casi generali e di esaminare questi. Un giornale ha addirittura dedicato una pagina intera ai vari inserimenti degli ex terroristi, qualche volta anche come collaboratori di politici, ma spesso come collaboratori del privato sociale.

Quale è il nodo posto dalla discussione? Ritengo di doverlo sintetizzare così: la parola data ai colpevoli offende le vittime. Non è questo il nodo? Prescindiamo dai servizi giornalistici ad effetto in cui il luogo del delitto diventa quello dell’intervista: in questo caso c’è il cattivo giornalismo del giornalista e la mancata resistenza dell’interessato. Ma il nodo resta quello: la colpa sopravvive alla espiazione della pena; il colpevole dovrebbe tacere.

Ma quel porsi come chi possa essere ascoltato e, quindi, possa parlare è offensivo per le vittime: è un salire in cattedra, come si è detto. I colpevoli sono ascoltati per conoscere le loro azioni di allora, i loro pensieri di allora, le valutazione di oggi rispetto ad allora; addirittura possono essere ascoltati sul lavoro che svolgono oggi e su quanto sono in grado di dire sulle situazioni di cui si interessano. Questo non va bene. Dovrebbero tacere o essere disponibili solo per esporsi alla sempre pronta gogna mediatica.

E se poi il loro inserimento sociale, nel quale sono stati aiutati allora, per la loro costante risposta agli impegni sopravvive anche oggi, anche questo appare scandaloso, come se il dovere dei condannati dovesse essere quello di arrangiarsi e non di servirsi delle istituzioni: il cui ruolo, però, è proprio quello di aiutare il reinserimento sociale dei condannati.

Ripeto: il nodo è che la pena non finisce mai. Cosa vuol dire il reinserimento sociale, che deve essere la finalità di una esecuzione penale conforme a Costituzione? Che il condannato colpevole ritorna nella società e che questo ritorno significa parità di diritti e di doveri, normali relazioni con gli altri, diritto di parlare e dovere di ascoltare.

Certo, anche ascoltare: tutti e ovviamente le vittime. Ma non mi risulta che ci sia stato un rifiuto in questa direzione. Ed evo aggiungere che nelle trasmissioni che ho veduto erano sentiti i colpevoli, ma anche le vittime. E in un caso ricordo un dialogo particolarmente costruttivo fra vittima e colpevole, disturbato dalla scarsa misura del conduttore televisivo. Qualche volta può essere anche lo Stato ad avere poco interesse e poca memoria verso le vittime e a scaricare, poi, le sue responsabilità sugli autori delle passate colpe. Quindi: profonde differenze fra ieri e oggi. Chi e cosa è cambiato? Mi risulta che la Costituzione, in proposito, sia sempre la stessa.

Giustizia: le pene accessorie e il dettato costituzionale

di Patrizio Gonnella (Presidente Associazione Antigone)

 

Fuoriluogo, 27 marzo 2007

 

Capitò a Sergio Segio a Torino quando fu invitato dalla locale Camera Penale a un convegno sul carcere e la sola sua possibile presenza provocò le reazioni indignate del procuratore Armando Spataro. Segio rinunciò all’intervento. È capitato ad Adriano Sofri a Roma, quando il suo invito alla convention per il Partito democratico ha sollevato le dure critiche di Olga D’Antona che ha messo in discussione il suo diritto di parola in una assemblea politica. E infine, in questa sequenza censoria, è accaduto che Susanna Ronconi, nonostante la sua consolidata esperienza sul tema, sia stata costretta a dimettersi dalla Consulta sulle tossicodipendenze del Ministero della solidarietà sociale.

Tutto questo senza tener conto delle decine di volte in cui è stata negata la possibilità di tenere seminari in un’aula universitaria a Renato Curcio. Storie personali e processuali diverse. C’è chi ha finito di scontare la pena, chi ha visto la pena addirittura dichiarata estinta, chi è fuori per ragioni di salute.

A volte a reagire sono i giudici, a volte i politici, a volte i parenti delle vittime. Sempre più spesso accade che i politici siano anche parenti delle vittime. È questo uno degli ultimi criteri di selezione della nostra classe dirigente. Il Papa si è recato domenica 23 marzo a Casal del Marmo e ha parlato di quanto sia utile la disciplina per correggere le devianze.

Anche in questo si legge la sua differenza rispetto al cardinal Martini. Punizione, disciplina, correzione sono le parole chiave di una idea di giustizia che impedisce che la pena sia interpretata solo come una provvisoria restrizione della libertà di movimento. Sin dalla scorsa legislatura (primo firmatario Giuliano Pisapia) il gruppo di Rifondazione Comunista alla Camera ha presentato - su iniziativa di Antigone - una proposta di legge diretta a togliere dal novero delle pene accessorie l’interdizione dai pubblici uffici. La risocializzazione di cui all’articolo 27 della Costituzione, se non contiene la possibilità di partecipazione democratica e politica, non è risocializzazione ma assistenza paternalistica.

Non si vede perché agli ex detenuti (ma anche ai detenuti) debba essere tolto il diritto di voto. Oggi nelle carceri italiane ci sono 40mila persone circa. Un terzo è composto da stranieri che comunque non voterebbe perché manca una legislazione che lo consenta. Gli altri due terzi - ossia circa 26mila detenuti - sono persone che, se avessero votato alle ultime elezioni, sarebbero risultate essenziali per far vincere una delle due coalizioni.

In questa legislatura la proposta di legge è stata ripresentata a febbraio 2007 da Daniele Farina, vice presidente della Commissione Giustizia di Montecitorio, proprio all’indomani delle vicende riguardanti la partecipazione di Sofri all’assise dei Ds. Si tratta di aspettare gli esiti dei lavori della commissione di riforma del codice penale presieduta da Giuliano Pisapia, nella speranza che le pene accessorie siano espunte dal codice penale che verrà e che le pene interdittive diventino pene principali, non sommabili a quella carceraria.

Giustizia: il Medioevo dell’Opg di Sant’Eframo (Napoli)

di Dario Stefano Dell’Aquila (Associazione Antigone Napoli)

 

Il Manifesto, 27 marzo 2007

 

Nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli il tempo si è fermato. I detenuti vivono in condizioni igieniche inesistenti e spesso abbandonati a loro stessi.

Il vecchio monastero di Sant’Eframo, all’angolo della centrale e trafficata via Matteo Renato Imbriani, è un’isola nella quale non giungono i rumori della città. Ma non è un’isola felice. Perché qui, in quello che oggi è l’Ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli, non arriva nemmeno l’eco delle riforme penitenziarie e psichiatriche.

Con Sergio Piro, figura storica della psichiatria democratica e Francesco Caruso, deputato indipendente del Prc, varchiamo le porte di una struttura che ad oggi "ospita" circa 100 internati. L’odore di urina è forte e si avverte sin dalla prima rampa di scale che ci porta alla seconda sezione minorati. Un odore che si mischia alla scarsa igiene e alle cicche di sigarette sparse un po’ ovunque.

Lungo il corridoio, da una cella, un internato molto giovane, Giovanni M. riconosce un profilo noto, "uà i no-global!" esclama e, euforico, ci invita ad entrare. La scena che ci si presenta è agghiacciante. La cella è in condizioni igieniche indescrivibili, avanzi di pasti, sigarette, bucce di arance, sporcizia. Allo sporco fa da contrappeso l’assenza di ogni tipo di suppellettili. Qui sono ammassate sei persone. I letti, l’uno all’altro adiacenti, sono coperti da lenzuola di un grigio imprecisato, che emanano un odore molto forte.

Un internato più anziano ci invita ad entrare in bagno, mentre Sergio Piro dialoga con alcuni ragazzi. I bagni sembrano uscire da un’altra epoca. Tre cessi, affiancati, divisi da una sorta di paratia di ferro, sono pieni di ruggine e liquami. Il lavabo, di quelli che si usa per lavare i panni, è pieno di acqua limacciosa, così come l’acqua copre completamente il pavimento perché il tubo perde. Non c’è acqua calda, non c’è una doccia.

Non mancano solo nella cella, mancano su tutto il piano, ci dicono. Incredibile ma è così. Non ci sono docce nelle celle né in tutto reparto. Giovanni M., che ha ventiquattro anni, è qui da un anno. Faceva uso di sostanze, è stato denunciato dalla famiglia. Estorsione, per una somma di 12 euro. Le storie si sovrappongono, tutti in attesa di un parere medico o di una perizia. Giovanni sveglia un compagno che, nonostante il nostro arrivo è rimasto immobile sul letto.

Quando Andrea D. si volta, mette in mostra i suoi avambracci, devastati da piaghe. All’altezza del polso due buchi, come quelli da piaghe da decubito con una lesione della pelle che sembra molto profonda sino a raggiungere l’osso. Andrea dice che è colpa della droga, che lui prima si drogava, ma ora non più, se solo tornasse a casa il padre saprebbe come curarlo. Tutti vestono panni vecchi, molto sporchi, l’aspetto è estremamente dimesso, ma riescono a raccontare, seppur confusamente, le loro storie.

Proseguiamo lungo i corridoi, dalle celle richieste di aiuto, di assistenza legale, di alloggio, spesso semplicemente anche di una sola sigaretta. Camillo De Lucia, psichiatra dell’istituto che ci accompagna, di fronte alle nostre perplessità ci dice che sbagliamo a confrontare le loro condizioni con quanto prevede l’ordinamento penitenziario, ma che come riferimento dobbiamo prendere le condizioni dei vecchi manicomi giudiziari. Confrontato con l’orribile del passato, l’indecenza del presente dovrebbe essere meglio tollerata.

In una cella, solitario, tremante, a piedi nudi, un uomo è inginocchiato appoggiato alle sbarre della porta. Gli passano tutti di fronte con estrema indifferenza. Sergio Piro si ferma, si inginocchia gli stringe la mano ("stringete le mani ci dice, è importante il contatto è importante", ripete). Gli domanda il nome. Lorenzo M. ha circa cinquanta anni, tremante biascica qualcosa e ci chiede una sigaretta. La sua cella come tutte quelle che incontriamo, salvo rare eccezioni, è desolatamente vuota e sporca. Nei corridoi l’odore di urina è spesso fortissimo, in diverse celle, piene di rifiuti, manca il televisore. Li rompono, ci dice Salvatore De Feo, il direttore, molti di quelli che ci sono li ha donati il Pio Monte della Misericordia.

Chiediamo di vedere la sala di contenzione, ma dopo un primo giro in un corridoio chiuso, ci viene detto che non c’è, qui non si usa. Ci basterebbe vedere anche quella in disuso, ma forse per difetto di comunicazione o forse perché siamo viandanti distratti non ci viene concesso questo onore. Così come, in quei corridoi, non abbiamo avuto il piacere di incrociare un medico o un infermiere.

In una cella incontriamo Fabio M., che avevamo incontrato durante la nostra visita all’Opg di Aversa. Detto "bambolella", perché gira sempre con una bambola di Barbie in mano. È felice di vederci. Ci aveva raccontato, nell’occasione precedente, di subire molestie. Ne avevamo parlato con il direttore. Il trasferimento l’ha rinfrancato, ci chiede di ringraziare "la dottoressa Roberta" (Roberta Moscatelli del Forum Salute Mentale, ndr) che l’ha fatto trasferire. Non è merito nostro, ma Fabio è convinto del contrario. Un agente che ci accompagna, con poetica chiosa, ci dice: "Non so se è omosessuale, ma di sicuro è ricchione". Parte della struttura è chiusa, una piccola ala, con circa venti internati è stata da poco rifatta ed almeno qui non si sente odore di urina.

Giungiamo all’aperto, al passeggio. Un cortile di cemento, di pochi metri quadri con una grata molto alta attorno. L’effetto di una gabbia, con dentro uomini poco più che animali. I visi e le storie si sovrappongono. Dai buchi delle grate passiamo le sigarette, una fila ordinata, ogni mano una sigaretta, i più pronti passano per un secondo giro. Un internato, che abbiamo incontrato nel giro, è felice, la stretta di mano di Piro l’ha illuminato: "Ciao grande Sergio", grida mentre ci allontaniamo.

C’è ancora tempo per un gesto. Mentre Francesco raccoglie le ultime storie e distribuiamo le ultime sigarette, Giovanni M. si avvicina, estrae dalla tasca il suo pacchetto di sigarette e dice: "Facciamo uno scambio, tu mi dai una tua diana blu e io ti do una mia rossa". Sorride, il baratto, così lo chiama, lo rende felice, mentre pochi metri più in là un internato obeso è preso in giro dai suo compagni di pena. Ce ne andiamo così, con quella sofferenza che nessuno di noi sa spiegare e con quella sigaretta che ancora adesso aspettiamo a fumare.

 

Sono 1.200 gli internati in Italia

 

Nell’Opg di Napoli vi sono circa 104 internati, 40 infermieri, di cui 18 a contratto, tre educatori, cinque psichiatri a contratto e due psicologi. La struttura risale al 1.500 circa ed in origine era un convento. Gli internati sono persone che hanno commesso un reato e sono ritenute affette da una patologia mentale e riconosciuti socialmente pericolosi. Sono condannati ad una misura di sicurezza di 2, 5 o 10 anni prorogabile, un meccanismo che fa si che le persone entrate con una misura di due anni possano rimanete in Opg per decenni, indipendentemente dal reato commesso. Gli Opg in Italia sono sei, gli internati circa 1.200

Giustizia: con il codice penale "Pisapia" l'abolizione degli Opg

 

Il Manifesto, 27 marzo 2007

 

La Commissione Pisapia ha terminato i suoi lavori. Per i "non imputabili" si stabilisce una "scala" di misure di controllo. Previste "strutture psichiatriche" per i casi più gravi, ma senza la polizia penitenziaria.

La riforma del codice penale è pronta. La commissione istituita a luglio presso il ministero della giustizia, e presieduta dall’avvocato Giuliano Pisapia, ha concluso i suoi lavori a tempo di record. Tra due settimane le proposte per rivedere il codice saranno sul tavolo del Guardasigilli Clemente Mastella. Ne uscirà un disegno di legge delega che dovrà essere approvato dal consiglio dei ministri. Poi inizieranno i lavori parlamentari.

Un passo avanti, se si considera che i precedenti tentativi di riformare il codice sono rimasti in un cassetto. Proprio quindici giorni fa il presidente Pisapia ha illustrato le linee guida alla commissione giustizia del senato "riscontrando - spiega Pisapia - una generale approvazione sulle linee di fondo. Mi sembra che stiamo iniziando con il passo giusto".

La riforma cambierà la faccia del codice penale italiano sotto diversi aspetti, uno di questi è l’idea di abolire l’ergastolo, tra i nodi più delicati. Ma una delle novità contenute dalla riforma della commissione Pisapia è l’eliminazione delle misure di sicurezza (o detentive) per le persone non imputabili. Ovvero, l’abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari. "È un punto che ha ricevuto l’unanimità della Commissione - spiega Pisapia - Le misure detentive per tutte quelle persone che commettono un reato ma non sono imputabili per i motivi più diversi quali la malattia psichica o uno stato cronico di tossicodipendenza o alcolismo si sono dimostrate inefficaci e anacronistiche".

Questi i principali elementi della riforma: sarà rivista anche la concezione della "incapacità di intendere e volere". La valutazione medico legale, infatti, dovrà considerare non soltanto le malattie psichiche ma, ad esempio, anche i gravi disturbi della personalità.

Al posto degli attuali Opg, saranno applicate "misure di cura e di sostegno". La proposta stabilisce una specie di "scala" di interventi. Rimane la previsione di strutture sanitarie specifiche, "ma solo nei casi in cui è assolutamente necessario un controllo quotidiano". E in ogni modo il controllo non sarà affidato alla polizia penitenziaria ma esclusivamente a personale medico.

Quando la salute del reo lo consente saranno previste - a scalare - misure simili alla "libertà controllata". Ad esempio l’obbligo di presentarsi in strutture mediche per assumere farmaci o per incontrare gli psichiatri. In caso di violazione delle prescrizioni, interverranno le forze dell’ordine e verranno comminate misure di maggior controllo. Si prevede, inoltre, la possibilità che alcune misure siano svolte in ambito famigliare. Altra importante novità è la specificazione che l’applicazione delle misure di sostegno non potranno superare l’entità della pena. Mentre oggi, con il meccanismo della "proroga", succede che le persone vengano lasciate negli Opg anche per decenni, indipendentemente dal tipo di reato commesso. In secondo luogo - ma questo avviene già oggi - ci sarà una valutazione periodica dell’efficacia della cura. Se funziona, la misura applicata sarà più leggera. Viceversa, si provvederà a un maggiore controllo.

Roma: l'immobiliarista Coppola in carcere si taglia le vene

 

Ansa, 27 marzo 2007

 

L’immobiliarista romano Danilo Coppola ha tentato il suicidio. Venerdì scorso, secondo quanto si è appreso, si è tagliato le vene nella sua cella nel carcere di Regina Coeli dove è detenuto dal primo marzo scorso per il crack da 130 milioni di euro del suo gruppo. Coppola è stato subito soccorso dal personale penitenziario e condotto nell’infermeria.

Quando le sue condizioni sono migliorate è stato riportato in cella dove, stando alle indiscrezioni, viene guardato a vista. Il gesto dell’immobiliarista sarebbe stato motivato con lo stato di depressione in cui è piombato dopo il suo arresto e per la claustrofobia da cui è affetto.

Sabato scorso Coppola, in carcere per associazione per delinquere, bancarotta, falso in atto pubblico, aggiotaggio e falso in bilancio, ha ricevuto la visita dei suoi legali i quali stanno predisponendo una serie di iniziative per superare le conseguenze legate al crack delle società a lui collegate.

In particolare, sono in corso una serie di attività per saldare il cumulo di debiti e per questo gli avvocati dell’immobiliarista hanno deciso di farsi affiancare da un commercialista. Sulla dinamica di queste attività gli stessi legali hanno già parlato con i pm Giuseppe Cascini, Rodolfo Sabelli e Lucia Lotti, titolari del fascicolo processuale. Nella vicenda giudiziaria sono coinvolte altre sette persone, tra collaboratori e prestanome di Coppola, tutte raggiunte da ordinanze di custodia cautelare, ad eccezione di Andrea Raccis, attualmente irreperibile.

 

Ministero Giustizia, da detenuto solo gesto dimostrativo

 

"Il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, ha telefonato al direttore del carcere di Regina Coeli per informarsi sullo stato di salute di Danilo Coppola, detenuto dal primo marzo, non appena appresa la notizia del gesto di autolesionismo con il quale si è ferito l’immobiliarista romano", lo riferisce il Ministero in una nota, specificando che "il guardasigilli è stato rassicurato dal direttore Mauro Mariani, che ha precisato come si sia trattato di un’azione dimostrativa per protestare contro la propria situazione detentiva e per il danno economico che starebbero subendo le aziende di cui Coppola è proprietario".

Ancona: Procura; mancano i soldi per comperare nuovi codici

 

Ansa, 27 marzo 2007

 

Alla procura di Ancona mancano i soldi perfino per acquistare nuovi codici di legge aggiornati. Lo ha rivelato il procuratore della Repubblica Vincenzo Luzi, che già in passato aveva fatto presenti le difficoltà di amministrare la giustizia senza fondi ministeriali per le spese di base. In questi giorni Luzi si è visto rispondere picche dal ministero della giustizia anche alla richiesta di 600 euro per rinnovare il "parco codici".

"È come se il chirurgo - ha lamentato il procuratore, dicendosi "sconcertato" - si dovesse portare il bisturi da casa quando deve operare un paziente". "I codici che abbiamo sono ancora quelli del 2005. Ma al ministero mi hanno detto che soldi non ne hanno". Due anni fa, Luzi e il procuratore generale della Repubblica Gaetano Dragotto avevano prospettato la necessità di dar vita ad una colletta in procura per raggranellare 500 euro per saldare la fattura di un fornitore.

Ferrara: progetto ambientale, il carcere diventa "sostenibile"

 

Estense.com, 27 marzo 2007

 

L’educazione ambientale valica le mura del carcere dell’Arginone ed entra nella celle e nella vita quotidiana dei detenuti. Si chiama "Un fiore dietro le sbarre" l’iniziativa della Provincia di Ferrara e dello sportello Ecoidea per educare al risparmio energetico anche le fasce della popolazione tradizionalmente più escluse dalla vita pubblica.

Un seminario all’interno della Casa circondariale ha fatto il punto questa mattina sui risultati raggiunti con questa sperimentazione. L’idea nasce dopo la sperimentazione positiva di "Condomini sostenibili", realizzato nel 2005 in uno stabile di via Padova a Ferrara, i cui obiettivi erano stati quello di agire sui condomini sensibilizzandoli al risparmio energetico ed economico e quello di agire sull’edificio apportando modifiche alla struttura che permettono di renderla più efficiente a livello ambientale.

"Anche il carcere può essere considerato un grande condominio. Da qui il progetto "Casa circondariale sostenibile", spiega l’assessore Sergio Golinelli, descrivendo come "il progetto si sviluppa lungo cinque fasi. Un corso di formazione rivolto ai Centri di educazione ambientale, educazione ambientale rivolta ai detenuti, attività di sensibilizzazione, potenziamento della raccolta differenziata nell’istituto, stop alle pile usa e getta".

Dopo dieci lezioni di educazione ambientale di due ore ciascuna, la sensibilizzazione ha avuto un momento pratico con il concorso "Innocenti evasioni" e con la possibilità di un percorso di lavoro di due giorni dal vivo presso la Lipu e il museo delle Valli di Argenta. Il concorso invitava a partecipare presentando elaborati artistici, letterari e umoristici sui principali temi della sostenibilità ambientali affrontati durante le lezioni: biodiversità, cambiamenti climatici, rifiuti ed energie alternative, acqua, sostanze inquinanti e salute.

Hera ha partecipato per il potenziamento della raccolta differenziata con corsi di formazione e la creazione di un’isola ecologica all’interno del carcere. Da giugno 2006 a gennaio 2007 i detenuti hanno acquistato ben 2604 pile usa e getta. Nello stesso periodo Hera ha raccolto 3 kg di pile esauste. È stata distribuita a tutti i detenuti una brochure in quattro lingue (italiano, inglese, arabo, francese) che illustra i vantaggi dell’uso delle pile ricaricabili. Sono stati inoltre acquistati e distribuiti per tutti i detenuti 240 caricabatterie a 8 posti (uno per ogni cella) e 800 pile ricaricabili, più ecocompatibili e più vantaggiose dal punto di vista economico.

Lucca: "Un libro in carcere", in un anno 1.800 i volumi donati

 

www.osservatoriosullalegalita.org, 27 marzo 2007

 

Poco più di un anno fa noi, giovani dei progetti di servizio civile del Gruppo Volontari Carcere di Lucca, ci rivolgemmo alle librerie, alle case editrici locali e a tutti i cittadini lucchesi per lanciare loro una sfida: raccogliere dei libri per poter migliorare la biblioteca del carcere di San Giorgio.

La nostra richiesta è stata accolta con entusiasmo da molti cittadini e quotidianamente sono arrivati nella sede dell’associazione moltissimi libri. Tutti questi libri sono stati portati all’interno del carcere e adesso la biblioteca vanta più di 1.800 volumi catalogati, 700 grazie a voi, che sono disposti nella ormai ricche librerie della casa circondariale di Lucca.

Ad oggi siamo qui per ringraziarvi per l’entusiasmo e la disponibilità con cui avete aderito alla nostra iniziativa e a chiedervi ancora un piccolo aiuto. Vorremmo aggiungere altri libri, cercando di rispondere alle richieste dei detenuti che ci chiedono spesso di raccoglierne ancora. I testi che ci chiedono sono i più vari, ma in particolar modo cerchiamo libri moderni e di autori contemporanei.

Oltre a questo, visto che le persone "ospiti" del carcere di San Giorgio sono a grande maggioranza stranieri (più dell’ ù80%), e in particolare provenienti dall’area del magreb, vi chiediamo un ulteriore sforzo: fornirci libri in lingua straniera, spagnolo, francese e inglese e se potete, testi in lingua araba.

Quindi, se avete ancora voglia di darci una mano, potete portare i prossimi volumi presso la sede della nostra associazione (Casa San Francesco, Piazza San Francesco 19, tel. 349.1067623) o lasciarli alla libreria Lucca Libri in corso Garibaldi 65, che gentilmente offre i suoi spazi come ulteriore centro di raccolta.

Vi ringraziamo per l’attenzione e per tutto quello che avete fatto fino ad ora per la biblioteca del carcere e per tutti i detenuti che possono usufruirne. E se davvero un libro può portarci in contrade lontane, allora, anche se solo con la fantasia, siamo riusciti a donare a chi si trova rinchiuso qualche attimo di libertà.

 

I volontari dei Progetti di Servizio Civile

Pesaro: Teatro "Aenigma", una festa con detenuti e studenti

 

Corriere Adriatico, 27 marzo 2007

 

Con il Teatro Aenigma e sotto gli auspici dell’Unesco, nel segno di Brecht e della Commedia dell’Arte del Seicento, si celebra in Carcere a Pesaro e in Università a Urbino la 456° Giornata Mondiale del Teatro. In programma iniziative da oggi a giovedì 29 marzo. Tutto ciò grazie al Teatro Universitario Aenigma.

Dallo scorso anno - dichiara Vito Minoia, docente alla Facoltà di Scienze della Formazione - abbiamo deciso di far diventare stabile l’appuntamento del 27 Marzo, organizzando nel nostro territorio importanti iniziative. Giovani e persone in situazioni svantaggiate sono i nostri interlocutori privilegiati, ma non solo. L’Università e il Carcere, infatti, sono i due luoghi nei quali si articoleranno le iniziative in programma per questa seconda edizione italiana del World Theatre Day.

Nella Casa Circondariale di Villa Fastiggi a Pesaro è attivo dal 2002, a cura del Teatro Aenigma, il Laboratorio La Comunicazione Teatrale che ha coinvolto, nell’arco degli ultimi cinque anni, oltre centoventi detenuti e detenute in attività di creazione scenica con l’allestimento di significativi spettacoli in collaborazione con i ragazzi della Scuola Media Galilei. Sarà Umberto Ceriani, uno degli attori storici del Piccolo Teatro di Milano di Giorgio Strehler, alle ore 13.30 presso il Teatro della Casa Circondariale di Villa Fastiggi, dopo un’introduzione di Emilio Pozzi (docente di Teatro e Spettacolo all’Università di Urbino) e la lettura del messaggio di Bin Mohammed Al Rasimi, a proporre al pubblico dei detenuti il recital Vita di Galileo di Bertolt Brecht.

Domani, alle ore 12, l’evento si replicherà presso l’Istituto di Comunicazione e Spettacolo, alla Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Urbino in Via Saffi 15, davanti ad un pubblico di studenti universitari di diverse Facoltà. La tre giorni si concluderà con la presentazione al pubblico del saggio conclusivo del laboratorio teatrale che il Teatro Aenigma rivolge ogni anno ai giovani, studenti universitari e non, che frequentano le attività del Centro di Aggregazione Golem di Urbino.

L’evento, presso il Teatro La Vela (Collegi Universitari) alle ore 21 di Giovedì 29 marzo, prevede la rappresentazione al pubblico dell’opera Comedia in Comedia diretta da Vito Minoia e Paolo Polverini. Protagonista d’eccezione, nei panni di Pulcinella, Pasquale Pepe, giovane ex-detenuto.

Usa: 435mila persone sono nella lista dei "sospetti terroristi"

 

Ansa, 27 marzo 2007

 

Si chiama Tide, come il famoso detersivo, e continua a crescere come una ameba impazzita. È la lista centralizzata usata dall’intelligence Usa per accumulare dati sui sospetti terroristi: nel 2003 aveva meno di 100 mila nomi, quattro anni dopo contiene 435 mila cartelle e continua ad espandersi a ritmo preoccupante. Chi ha la sfortuna di avere il suo nome inserito nel Tide (una sigla per Terrorist Identities Datamart Environment) non ha alcuna probabilità di uscirne anche quando si tratta di evidenti errori.

Nella lista dei sospetti terroristi è finita anche Catherine Stevens, moglie del senatore americano Ted Stevens, perché la abbreviazione del nome della donna coincide con quello di Cat Stevens, il cantante pop britannico convertitosi all’Islam e inserito nella lista per motivi mai spiegati dalle autorità americane. Tempo fa la presenza del cantante su un volo diretto verso gli Stati Uniti (col suo nuovo nome Yusef Islam) provocò un atterraggio d’emergenza dell’aereo di linea. La lista dei 435 mila potenziali terroristi contiene solo 20 mila americani. I nuovi nomi e le nuove informazioni sui sospetti terroristi giungono ogni giorno a valanga nel quartiere generale del Tide, situato non lontano dalla Cia, dove una ottantina di analisti esamina migliaia di messaggi ogni giorno per tenere costantemente aggiornata la lista.

Tutte le sere, alle ore 22, una versione "non classificata" degli aggiornamenti quotidiani viene trasmessa ai computer del "Terrorist Screening Center" dell’Fbi, che la mette a disposizione a sua volta agli analisti delle altre agenzie e degli altri organismi federali interessati a compilare liste proprie: dal ministro della Giustizia al dipartimento di Stato, dal dipartimento per la Sicurezza nazionale alla Transportation Security Administration (Tsa), l’agenzia che pubblica la lista di "non volo" trasmessa alle compagnie aeree americane o con voli verso gli Stati Uniti. Da notare che è proprio la lista della Tsa a creare gli incidenti spesso più clamorosi con i suoi 30 mila nomi di persone interdette dal recarsi negli Usa e con altre decine di migliaia di persone che, pur non essendo messe al bando, sono tenute d’occhio e perquisite con particolare attenzione dagli addetti alla sicurezza e dalle autorità americane.

Il ritmo massiccio di espansione del Tide preoccupa i responsabili dell’intelligence Usa perché esiste il rischio concreto che l’elenco diventi troppo ampio per essere ancora utile. Nel frattempo, sul fronte della lotta al terrorismo, il New York Times ha sottolineato ieri il disagio esistente alla Cia per la incertezza ancora esistente sulle tecniche di interrogatorio che gli agenti della famosa agenzia possono adottare nei confronti dei loro prigionieri. Il presidente George W. Bush ha ammesso solo nel settembre scorso l’esistenza di carceri segrete della Cia, dove i detenuti venivano interrogati con tecniche più aggressive di quelle concesse al Pentagono, annunciando il trasferimento a Guantanamo dei 14 detenuti ancora nelle carceri della Cia.

Ma Bush ha anche detto che l’agenzia continuerà in futuro a detenere e a interrogare sospetti di terrorismo ad alto livello. Ma la Cia è da allora in attesa di ricevere "luce verde" sull’uso di tecniche più aggressive: i legali del ministero della Giustizia stanno esaminando se alcune di queste tecniche (equiparate dai gruppi per i diritti umani a "tortura") sono in sintonia con gli standard della Convenzione di Ginevra.

Usa: automobilista omicida deve esporre la foto della vittima

 

Ansa, 27 marzo 2007

 

Un giudice della Florida ha condannato un automobilista che ha ucciso un pedone ad esporre con evidenza nella sua abitazione una grande foto della vittima. L’immagine di Chelsi Gregory, la vittima diciassettenne, dovrà essere larga almeno 60 centimetri, dovrà campeggiare in un posto di rilievo in casa dell’automobilista condannato, Arthur Pierce, 31 anni, ed essere accompagnata dalla scritta "Sono spiacente di averti ucciso". Ma prima Pierce, che aveva investito la sua vittima nella cittadina di Bartow (Florida) su una strada di grande traffico, dovrà trascorrere due anni in carcere. Il giudice ha decretato che l’agente incaricato di seguire l’automobilista omicida dopo l’uscita dal carcere dovrà compiere ispezioni a sorpresa nella casa per verificare che la foto della vittima sia sempre esposta.

Dubai: fermato con una "canna", rischia la pena di morte

 

Ansa, 27 marzo 2007

 

Rischia una dura condanna, al limite anche la pena di morte, Lorenzo Bassano, 40 anni, cesenate, regista di spot pubblicitari, che è stato fermato all’aeroporto di Dubai City, negli Emirati arabi con 0,8 grammi di hashish in tasca. La legislazione in materia di droga del paese arabo è ferrea: Bassano, che si trova in carcere da mercoledì, rischia, se sarà ritenuto colpevole di spaccio, l’ergastolo o la pena di morte. L’allarme è stato lanciato dal fratello Marco, che nella vita fa il cameraman, e che ha raccontato tutto al "Corriere di Romagna". Lorenzo Bassano conosce bene la legislazione araba, ma, dopo una perquisizione all’aeroporto, è stato trovato con una cartina in tasca.

La polizia gli ha controllato il bagaglio e dentro un paio di pantaloni ha trovato un pezzetto di hashish che il regista aveva dimenticato. Il regista cesenate è affetto dal morbo di Crohn, una patologia infiammatoria dell’apparato digerente, che per essere combattuta ha bisogno di una speciale alimentazione. L’unica speranza per mettere fine al suo incubo è la grazia da parte dello sceicco. Del caso saranno investiti il consolato e l’ambasciata di Dubai City. Lorenzo Bassano è un affermato regista di spot e da qualche anno sta girando campagne pubblicitarie in Medio Oriente. Suo anche il film "Natale in casa Deejay", con attori protagonisti i personaggi della radio.

Germania: 16enne marina scuola; passerà 7 giorni di carcere

 

Ansa, 27 marzo 2007

 

Certo che in Germania ci vanno pesante con le punizioni da dare ai ragazzini che decidono di marinare la scuola. C’è infatti una 16enne di Goerlitz che quest’estate dovrà rimanere in carcere per una settimana, per avere deciso di non andare a scuola per un mese intero. Secondo il giudice che ha giudicato il suo caso saltare giorni di scuola senza giustificazione è una "trasgressione che non si può perdonare".

"La studentessa che ha trasgredito andrà in prigione". Questo il racconto del giornale "Der Spiegel". La sentenza è stata emanata lo scorso dicembre. La scuola si era già mossa per punire la famiglia della ragazza con tre sanzioni. Ma i risultati voluti non erano stati ottenuti. E così la decisione di rivolgersi ad un tribunale. Che non è stato affatto clemente con la ragazzina: una settimana di prigione!

Svizzera: è vietato somministrare cannabis... alle mucche

 

Notiziario Aduc, 27 marzo 2007

 

È vietato somministrare canapa alle mucche. Lo ribadisce oggi il ministero dell’Agricoltura svizzero allarmato perché "ultimamente sulla stampa agricola si moltiplicano gli annunci che raccomandano la coltivazione di canapa nonché il rispettivo impiego quale foraggio per animali da reddito".

Queste informazioni - si legge in una nota - "sono fallaci e disorientano i contadini". Dal 1° marzo 2005 vige in Svizzera il divieto di somministrare canapa al bestiame e di coltivarla a scopo di foraggio. Il divieto è motivato dal fatto che il tetraidrocannabinolo (Thc), una sostanza psicotropa che costituisce il principio attivo della canapa, passa dal foraggio somministrato alle vacche al latte. "Sotto il profilo della tutela della salute ciò è inaccettabile, in particolar modo considerato che il latte viene consumato anche dai neonati", ricorda il ministero. "Gli stessi presupposti sono sufficienti per affermare che attraverso il foraggiamento il Thc può giungere anche nel tessuto adiposo degli animali da macello". Ultima considerazione: "Infine, va considerato che anche nei Paesi verso cui la Svizzera esporta latticini la presenza di residui di Thc non è tollerata e queste esportazioni, segnatamente quelle di formaggio, sono di vitale importanza per l’agricoltura svizzera". Misure amministrative e azioni penali colpiranno chi impiega la canapa per nutrire i vitelli.

 

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