Rassegna stampa 29 maggio

 

Roma: detenuto polacco 26enne muore suicida a Rebibbia

 

Apcom, 29 maggio 2007

 

Si è tolto la vita impiccandosi nella notte nella sua cella del braccio G9 del carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso. La vittima era un cittadino polacco di 26 anni, Y.O., era da 13 mesi in attesa di essere giudicato per un duplice omicidio. A quanto risulta al garante regionale dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni, che ha segnalato l’accaduto, l’uomo era entrato in carcere ad aprile 2006 accusato di un duplice omicidio di cui si era dichiarato innocente.

In questi mesi a Rebibbia il cittadino polacco - approdato in Italia da cinque anni e con una figlia di sette in Polonia - occupava una cella singola e lavorava come imbianchino. Sempre a quanto risulta al Garante, l’uomo non era sottoposto a particolari misure di sicurezza e non aveva mai chiesto colloqui con gli psicologi e con gli educatori. Ad accorgersi della morte, questa notte stessa, un agente di polizia penitenziaria nel corso di un giro di controllo

"Questa morte è la conferma di come, a volte, i tempi della giustizia possano essere drammaticamente lunghi", ha sottolineato Marroni: "A quanto ci risulta questo ragazzo non aveva manifestato esigenze particolari tali da richiedere sorveglianze speciali, e tuttavia è probabile che il peso di un’accusa di cui si dichiarava estraneo alla lunga lo abbia schiacciato".

"Credo che questa morte, in apparenza inspiegabile, conferma ancora di più la necessità da un lato di sveltire i tempi della giustizia e, dall’altro, di approntare misure di supporto psicologico e di accompagnamento per quanti soprattutto in stranieri entrano in carcere. Un mondo duro, difficile, che - ha concluso il garante dei detenuti - può schiacciare chi non è preparato ad affrontarlo".

Giustizia: il giustiziere televisivo

di Patrizio Gonnella (Presidente dell'Associazione Antigone)

 

Il Manifesto, 29 maggio 2007

 

Il dibattito lanciato da Repubblica su sicurezza e legalità ha ricevuto il contributo determinante di Marco Travaglio e Michele Santoro. La puntata di Annozero di giovedì scorso su immigrati e indulto è stata un condensato di luoghi comuni, travisamenti di fatti, confusioni concettuali, qualunquismo mediatico

Il dibattito lanciato da Repubblica su sicurezza e legalità ha ricevuto il contributo determinante di Marco Travaglio e Michele Santoro. La puntata di Annozero di giovedì scorso su immigrati e indulto è stata un condensato di luoghi comuni, travisamenti di fatti, confusioni concettuali, qualunquismo mediatico. In quel salotto ben si trovava infatti Alessandra Mussolini. Travaglio ha dato il meglio di sé. Tutti d’accordo erano nel dire che la giustizia deve essere dura e inflessibile, che la clemenza è roba da democristiani, che l’Italia è un paese dove si rischia la vita ogni minuto e puoi essere stuprato a ogni angolo di strada, che la punizione deve essere sempre esemplare, che è assurdo assicurare diritti e garanzie alla difesa.

Travaglio con un’ironia facile e senza una parvenza di contraddittorio ha sparato a zero contro l’indulto, ha mistificato i dati sulla criminalità e sulla recidiva degli indultati. Tutto questo è però secondario rispetto a una affermazione buttata là nel dibattito, stupefacente e che ha ripetuto per ben due volte. Una frase più o meno così riassumibile: "Si sapeva che coloro che usufruivano dell’indulto avrebbero commesso un nuovo reato. Non avevano alternativa sociale. Per questo dovevano rimanere dentro".

Se Travaglio si fosse limitato a dire, accedendo a tesi neo-lombrosiane, che i poveri e gli immigrati hanno un dna criminale, allora ne avremmo contestato il fondamento scientifico e tutto sarebbe finito lì. Ma lui, usando un contenitore televisivo che sa essere in particolare visto dal popolo della sinistra, fa un ragionamento alla Rudolph Giuliani: la società è una coperta troppo corta per coprire testa e piedi; coloro che per forza di cose ne restano fuori, piuttosto che vederli nelle strade li mettiamo in galera, così avremo fatto un servizio completo almeno a quelli sotto la coperta.

Marco Travaglio è un giustiziere della notte televisiva, un sobillatore di allarmi sociali, taglia tutto con l’accetta, trasforma le vittime in colpevoli. E lo fa cercando di pescare consensi nel mondo anti-berlusconiano di sinistra. A quel mondo chiediamo di opporre una resistenza culturale all’ondata populista, illiberale e violenta della giustizia televisiva. Speriamo che a sinistra non si arrivi a rinunciare almeno all’orizzonte culturale di una società capace di includere tutte e tutti.

Molti, anche a sinistra, ritengono oggi che chi sbaglia debba pagare scontando una pena afflittiva e in odor di vendetta. A loro chiedo di fare due gesti interiori: 1) di indignarsi per una società che sceglie di mandare al macero una parte di sé, non offrendole a monte altra opportunità che la delinquenza e sbattendola in galera non appena a valle. Può sbagliare solo chi aveva la possibilità di agire altrimenti.

"Non avevano alternative", continuava ieri a dire Travaglio. Poveri, senza integrazione lavorativa, senza rete sociale, si sapeva che per sopravvivere avrebbero commesso un reato; 2) non rinunciare all’orizzonte culturale di una giustizia mite, fondata su garanzie liberali e rispettosa dei diritti umani. Spero che i miei interlocutori vogliano seguirmi su entrambi i punti. Ma se sceglieranno di non farlo sul secondo - seguendo invece la deriva di questi tempi, segnati da campagne stampa di media "democratici" e da prediche di guru dell’informazione - non potranno non farlo sul primo, una volta lo abbiano riconosciuto nelle parole di Travaglio.

Carlo Levi intitolava il suo duro libro di condanna della situazione italiana "Le parole sono pietre". Le parole sono pietre, macigni, possono far male. Se recitate dall’altare televisivo, senza contraddittorio, fanno ancora più male. Speriamo che i grandi media italiani ridiventino luoghi di un pensiero articolato e non si riducano a scontati megafoni di battaglie law and order.

Polizia Penitenziaria negli Uepe: un nuovo rinvio dell’incontro

 

Ansa, 29 maggio 2007

 

Comunicato del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, 28 maggio 2007. Ai fini della sperimentazione riguardante l’utilizzo della polizia penitenziaria nell’esecuzione penale esterna, si comunica che si è ritenuto di disciplinare il progetto attraverso un decreto interministeriale della Giustizia e del Ministero dell’Interno.

Poiché il predetto iter comporta una procedura più articolata - peraltro già in corso - si rende necessario rinviare la riunione già fissata per domani 29 maggio. Sarà cura di questo Ufficio far conoscere appena possibile la nuova data della riunione. Per completamento d’informazione, si comunica che in ragione delle attuali risorse umane e strumentali, la sperimentazione potrebbe avvenire nei distretti regionali di Puglia, Lazio, Campania e Sicilia".

Ferrara: i Radicali vanno in visita al carcere di Via Arginone

 

www.estense.com, 29 maggio 2007

 

Mentre a Mosca entrano, a Ferrara i radicali escono dal carcere. "Fa parte del nostro impegno costante visitare tutte le carceri italiane. Ferrara mancava all’appello ed ora anche questa casa circondariale è stata esaminata dai radicali". È durata circa due ore e mezza la visita del deputato della Rosa nel Pugno Marco Beltrandi al carcere di via Arginone, "un carcere che presenta problemi strutturali come tutti i carceri italiani e non è ancora a norma di legge". Questo il giudizio del parlamentare pannelliano che considera comunque positivo il fatto che "su 100 scarcerati a seguito dell’indulto ne siano rientrati solo una decina, garantendo anche un sollievo al sovraffollamento delle celle".

Il problema carcerario è particolarmente sentito dai radicali, che a Ferrara si stanno battendo per l’istituzione del garante per i diritti dei detenuti, "una figura fondamentale - riprende Beltrandi -, perché a seconda di come sono trattati i detenuti si giudica il livello di civiltà di un Paese". Il "blitz" dei radicali crea anche una singolare coincidenza con i tristi episodi di Mosca, dove esponenti radicali, insieme alla deputata di Rifondazione Vladimir Luxuria, sono stati incarcerati per alcune ore. "Marco Cappato, insieme ad altri manifestanti, è stato messo in galera - accusa il deputato della Rosa nel Pugno - solo perché hanno provato a difendere i diritti di gay e trans gender. Loro sono stati liberati, ma aspettano ancora nelle loro celle un processo altri compagni che hanno manifestato in modo assolutamente pacifico. E questo non può che farci preoccupare".

Beltrandi era a Ferrara anche per presenziare all’incontro nella sala Agnelli della biblioteca Ariostea sulla moratoria Onu contro le esecuzioni capitali, una battaglia che vede il leader Marco Pannella seguire da oltre un mese lo sciopero della fame "e da mercoledì quello della sete - anticipa il radicale -: questo perché dopo aver superato in sede Onu gli ostacoli di natura politica, ora occorre evitare quelli di natura burocratica, non meno pericolosi".

Nisida: l’esperienza di don Paolo tra i giovani detenuti dell'Ipm

 

www.korazym.org, 29 maggio 2007

 

Incontriamo don Paolo Auricchio, sacerdote napoletano della diocesi di Pozzuoli, cantautore, rettore del seminario diocesano e da di diversi anni cappellano del carcere minorile di Nisida.

Don Paolo Auricchio è un sacerdote napoletano della diocesi di Pozzuoli, cantautore, rettore del seminario diocesano e da di diversi anni cappellano del carcere minorile di Nisida: una poliedrica attività a servizio degli uomini e della Chiesa. Lo abbiamo incontrato per parlare della sua esperienza con i giovani detenuti e della collocazione delle carceri all’interno della vita della Chiesa.

 

Da quanti anni svolge questo ministero e come è stato l’inizio?

"Ho iniziato nell’autunno del 1993, dunque, a settembre saranno 14 anni che svolgo questo servizio al carcere minorile di Nisida. Si è trattato di un inizio in tutti i sensi perché non avevo una particolare esperienza nel campo, se non quella della pastorale giovanile, e siccome si tratta comunque di un carcere minorile, ha a che fare, almeno secondo me, con la pastorale giovanile. Poiché mancava da almeno una decina d’anni la figura del cappellano, all’inizio ho avuto la difficoltà di farmi riconoscere come figura di sacerdote più o meno presente in maniera permanente all’interno di questa realtà. Mi sono imbattuto nella difficoltà di farmi riconoscere quale persona al servizio dei ragazzi all’interno di una struttura non confessionale, quindi avendo a che fare con figure professionali diverse: agenti, educatori, psicologi. Direi che in una prima fase ho dovuto farmi riconoscere per quello che ero e per i motivi per cui ero inviato lì".

 

Quale pensa che sia il ruolo e il senso della presenza di un cappellano in una casa circondariale?

"Di fronte a questa domanda tendo sempre a smitizzare l’idea che in questi luoghi bisogna avere chissà quali requisiti. Credo che la presenza del sacerdote nel carcere, come negli ospedali, debba diventare una presenza sempre più ordinaria della Chiesa, che poi si esprime innanzitutto con la presenza del sacerdote. Il "come", penso che sia legato a filo stretto con quel riferimento evangelico in cui Gesù dice che lo si può incontrare negli ammalati, nei carcerati, negli affamati... Andare ad incontrare da un lato la presenza di Gesù che si manifesta nelle sofferenze fisiche e non di queste persone, ma allo stesso tempo portare a queste persone la speranza cristiana. Il ministero sacerdotale, in questi luoghi, dovrebbe connotarsi nell’annuncio della speranza cristiana".

 

Su cosa fonda la relazione con questi ragazzi?

"Innanzitutto sull’impegno di riuscire a stabilire un rapporto di amicizia nei confronti di un minore che ha commesso dei reati, anche pesanti in certi casi. Realmente per il cristiano e per il sacerdote deve valere molto di più il "non giudicate per non essere giudicati". Il giovane detenuto deve sentire sulla sua pelle che tu, con la tua presenza, non lo stai giudicando ma stai cercando di amarlo, di far sentire il tuo amore non soltanto a parole, ma anche attraverso la simpatia, l’allegria, il gesto amichevole che puoi porre. Questo come premessa fondamentale".

 

Come vive, da sacerdote, il fatto di seminare il Vangelo in persone che molto probabilmente, una volta fuori, riprenderanno la vita di sempre? Prova frustrazione?

"Certe volte c’è frustrazione, ma fondamentalmente no. Io credo moltissimo alla forza della Parola di Dio che, anche se con tempi lunghi, scava, perché questo è successo innanzitutto a me. Su questo fondo essenzialmente il mio ministero.: se la Parola di Dio riesce a farsi strada anche nell’esperienza personale di una continua conversione della vita nei confronti di Dio, non escludo che questo possa avvenire nella vita di chi delinque. Certo, se si guarda statisticamente ai numeri… Però poi se si va a vedere alcune storie, si scopre che alcuni, inaspettatamente, poi cambiano".

 

Quanto sente che sia all’attenzione della Chiesa questa realtà così delicata?

"Attenzione ce n’è, giacché almeno in ogni istituto penale in tutta Italia c’è almeno la presenza di un sacerdote, in alcuni casi anche di volontari di provenienza cattolica. Noto quindi un grande impegno. Quello che io rimarco spesso è che secondo me, forse la comunità ecclesiale, le comunità parrocchiali vicine, potrebbero o dovrebbero nutrire uno sguardo nuovo nei confronti di queste realtà. Non dico che non accada, però a volte ho la sensazione che la presenza di un carcere in un territorio è una presenza un po’ rimossa da parte delle comunità cristiane. Io mi aspetterei una partecipazione più significativa"."

 

Le va di raccontare una storia a lieto fine che le è rimasta impressa?

"Ne ho due. Un giovane, Vincenzo che pur avendo un carico abbastanza grosso di pena da espiare, con la nostra Caritas di Pozzuoli ha iniziato una esperienza di lavoro a tempo indeterminato in una realtà della nostra diocesi. Ha avuto alloggio nella nostra Caritas perché non può tornare a casa. È una storia che vede un giovane coinvolto in un autentico cammino di riscatto, impegnato anche in attività di volontariato. La seconda storia, invece, riguarda una ragazza, che tra l’altro proprio in questi giorni mi sta chiamando dopo tanti anni: faceva parte di un clan rom, e alla fine del percorso penale decise di non tornare alla vita di prima. Con grande fatica e con grande pericolo riuscimmo ad inserirla in una casa famiglia dell’associazione di don Oreste Benzi - la Comunità Giovanni XXIII - e adesso è riuscita a riscattarsi e rifarsi una vita, vive al nord, è felice".

Senza dimora: gli "Avvocati di strada" invitati al Quirinale

 

Comunicato stampa, 29 maggio 2007

 

Antonio Mumolo, in qualità di Presidente dell’Associazione Nazionale "Avvocato di strada", è stato invitato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al ricevimento che avrà luogo nei Giardini del Quirinale venerdì 1 giugno 2007 in occasione della Festa Nazionale della Repubblica.

L’invito è un significativo segnale di attenzione da parte della massima carica istituzionale del Paese nei confronti di un’esperienza di volontariato che da anni si occupa di tutelare i diritti delle fasce più svantaggiate della società. Nato a Bologna all’interno dell’Associazione Amici di Piazza Grande, con il sostegno dell’Associazione Nuovamente, il progetto Avvocato di strada dal 2001 offre consulenza ed assistenza legale gratuita a tutte le persone senza dimora che altrimenti sarebbero nell’impossibilità di far valere i propri diritti.

In pochi anni Avvocato di strada si è distinto per l’efficacia dell’intervento di tipo sociale proposto, e, grazie all’apporto offerto dai propri volontari, è cresciuto molto: oggi in Italia esistono sportelli di Avvocato di strada in sedici città dislocate in tutto il territorio nazionale, da Trieste a Lecce. I volontari impegnati sono circa quattrocento ed i vari sportelli hanno offerto tutela a più di millecinquecento persone senza tetto.

Dalla sua nascita ad oggi Avvocato di strada ha ricevuto vari riconoscimenti. Tra questi, il Premio Fivol come miglior progetto di volontariato in Italia destinato alle persone senza dimora, consegnato ad Antonio Mumolo dal sindaco di Roma Walter Veltroni. All’ultima Conferenza Nazionale del Volontariato organizzata a Napoli dal Ministero della Solidarietà sociale, Avvocato di strada era tra le nove realtà di volontariato selezionate in tutta Italia e invitate dal Ministro Ferrero a presentare la propria esperienza. L’invito del Capo dello Stato Giorgio Napoletano ci riempie di orgoglio e ci consentirà, in un occasione così importante, di rappresentare e rendere visibili tutte quelle persone che abitualmente sono confinate in una condizione di assoluta invisibilità.

Droghe: Fassino; famiglie preoccupate, il governo intervenga

 

Adnkronos, 29 maggio 2007

 

"È necessario assumere iniziative che ci consentano di combattere la tossicodipendenza con strumenti che convincano i giovani a non fare questa scelta". Lo ha detto il segretario dei Ds Piero Fassino commentando, a margine di un convegno romano, la proposta del ministro della Salute Livia Turco di inviare i Nas nelle scuole in funzione antidroga. Quanto agli strumenti Fassino ha detto che "saranno gli esperti a scegliere quelli più adatti, ma non possiamo non vedere la crescita dell’uso di sostanze dopanti, tossiche, e il contemporaneo abbassamento dell’età di accesso" all’uso di tali sostanze, circostanza che "rappresenta un problema per le famiglie ed è giusto - ha concluso il leader della Quercia - che il governo se ne preoccupi e assuma iniziative: occorrono saggezza, intelligenza e attenzione a questo problema".

Droghe: Turco; i Nas non faranno irruzioni nelle scuole

 

Notiziario Aduc, 29 maggio 2007

 

Le possibili ispezioni dei Nas nelle scuole non sarebbero "irruzioni" da parte dei carabinieri: ma il "lavoro di un corpo specializzato, prezioso, che con scrupolo, competenza e discrezione potrà essere utilizzato in collaborazione con i presidi" di cui non si intende mettere in discussione l’autorità. Il ministro della Salute, Livia Turco, torna a parlare della sua proposta di disporre ispezioni dei Nas all’interno delle scuole per contrastare la diffusione delle droghe.

Questa mattina, intervenendo al programma Radio Tre Mondo, in onda su Radiotre, il ministro definisce la sua proposta "una forma di collaborazione con le autorità scolastiche, perché è essenziale creare delle alleanze per risolvere la dilagante diffusione delle sostanze stupefacenti fra i giovani".

"Noi abbiamo lavorato fin dall’inizio del mandato a questo problema, istituendo anche una consulta di esperti, e sempre seguendo la cultura politica del centrosinistra, cioè prevenire, non incarcerare, non punire. Nel corso dell’anno abbiamo costruito un programma di azioni per la prevenzione, come "Guadagnare in salute", e stiamo lavorando con il ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni sul progetto di inserire l’educazione alla salute nelle scuole, rendendola un’attività curriculare. Abbiamo inoltre avviato una ricognizione sullo stato dei servizi pubblici come i Sert e le comunità. Tutto questo però pare non fare notizia".

"All’interno di questo lavoro è importante che il ministro guardi anche i dati: non solo si stanno diffondendo fra i giovani più tipi droghe, ma anche quelle più leggere raggiungono i ragazzi alterate, tagliate male, e dunque molto più pericolose. A partire da questo dato, e non solo in relazione ai recenti fatti di cronaca, mi è parso doveroso offrire alla scuola pubblica, dove i ragazzi passano più tempo, il "sistema sanitario" nel suo insieme. Quindi medici di base, operatori delle dipendenze, specialisti, e questo corpo che apprezzo moltissimo che sono i Nas. Sono nuclei che lavorano in maniera specializzata e spesso vengono acclamati dai cittadini".

Il ministro spiega inoltre di essere rimasta stupita dal clamore suscitato dalla sua proposta: "Non me l’aspettavo e sono preoccupata, perché penso che il tema meriti non uno slogan, ma che si entri nel merito. E mi colpisce che non si sappia che quando parlo di ispezioni Nas non intendo irruzioni con cani. Ma dove siamo? Le alzate di scudi non servono a nulla, e i ragazzi vanno tutelati, non incarcerati. Con il lavoro dei Nas anche in condizioni normali, e non solo nelle emergenze, si possono creare ambienti sicuri per i nostri figli".

Proprio davanti a questa sempre maggiore diffusione del fenomeno droga tra i giovani, secondo il ministro "è doveroso offrire alla scuola pubblica, che è il luogo dove i ragazzi si formano e dove dovrebbero essere di più tutelati, il sistema sanitario nel suo insieme". "Siamo di fronte all’innegabile aumento della diffusione delle droghe e dunque al fallimento totale di una legge", la Fini-Giovanardi, "che aveva detto pugno di ferro contro tutte le sostanze, ponendo limiti oltre i quali scatta la presunzione di spaccio. Tutto questo dimostra che l’impianto proibizionista non funziona. Nella riforma della legge ci dovrà essere anche la quotidianità, per creare sicurezza, prevenzione e presa in carico".

Droghe: Cancrini; Turco parla più da mamma che da ministro

 

Apcom, 29 maggio 2007

 

Le parole del ministro della Salute, Livia Turco vengono percepite dal deputato del Prc e neuropsichiatra infantile, Luigi Cancrini più come il "grido di una mamma" che come le parole di un esponente di Governo, mentre l’esponente del Prc spiega di essere pienamente in linea con la posizione del ministro dell’Istruzione, Giuseppe Fioroni secondo il quale "devono essere i singoli presidi semmai a decidere" e comunque per ora non se ne parla.

"Sinceramente - afferma Cancrini - non ho capito la proposta del ministro Turco e non capisco il senso delle ispezioni dei Nas. Cosa dovrebbero controllare: i ragazzi? Le aule? Le strutture? Ecco perché mi sembra che il ministro sia stata spinta a dire quello che ha detto più da una ragione emozionale che di governo". Inoltre il prof. Cancrini sottolinea come "se si vuole veramente tenere i giovani lontani dalla droga bisogna averli dalla nostra parte. E questo non accade facendoli controllare dai Nas".

Cancrini, dunque, ritiene l’esternazione del ministro Turco "strana" anche alla luce del fatto che "se ci fosse davvero il problema della droga nelle scuole e quindi fosse necessario un controllo, forse sarebbe meglio farlo senza tutte queste polemiche e magari senza neanche annunciarlo ufficialmente. Io sono convinto - aggiunge - che non esista il problema droga nelle scuole ma piuttosto esiste la realtà di alcuni singoli ragazzi che ne fanno uso per i quali non sono le ispezioni dei Nas a poter risolvere il problema". "Per me - conclude - è proprio una proposta insensata e incongruente che urta contro difficoltà insuperabili. È una proposta che, se messa in atto, alla fine produrrebbe più effetti negativi che altro".

Droghe: Silvestri (Verdi); Nas in Parlamento, non nelle scuole

 

Adnkronos, 29 maggio 2007

 

"I Nas nelle scuole? Dopo il ticket della Moratti per le famiglie abbiamo l’incredibile trovata del ministro Turco che vuole mandare i Nas nelle scuole. Non c’è limite alla stupidità umana: se proprio si vogliono inviare i Nas, si mandino in Parlamento e nei Ministeri". Così il senatore dei Verdi Gianpaolo Silvestri, vicepresidente della commissione Sanità di palazzo Madama, commenta la proposta del Ministro Turco di inviare i Nas nelle scuole.

"Non si combatte la droga militarizzando la scuola. Non occorre essere dei pedagoghi per sapere che simili iniziative nei confronti dei giovani rischiano di accentuare il fascino del proibito, tanto più quando questo proibito indossa una divisa - accusa -.

Proposte come quella del Ministro Turco servono solo a reprimere, non certo ad aiutare chi della droga è una vittima. Sono innanzitutto importanti una propaganda ed una informazione capillari che permettano una conoscenza approfondita dei rischi e dei pericoli connessi all’uso di sostanze stupefacenti. Tra l’altro, le scuole sono luoghi di crescita e non possono diventare un’anticamera carceraria fatta di paura e controllo. Serve, casomai, - conclude l’esponente dei Verdi - un progetto educativo condiviso".

Droghe: Antigone lascia Gruppo di lavoro sulle dipendenze

 

Dire, 29 maggio 2007

 

Gonnella: la proposta del ministro Livia Turco non ha nulla a che fare con prevenzione.

"Per questa e altre motivazioni che richiedono una analisi ben più approfondita, ritengo di dover rinunciare alla mia partecipazione in qualità di membro al gruppo di lavoro ministeriale sulle dipendenze". È così che si conclude la lettera aperta che Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, scrive al ministro della Salute, Livia Turco, all’indomani della proposta di inviare i Nas nelle scuole contro l’uso di sostanze stupefacenti.

"Ho avuto modo di leggere sui giornali la proposta, definita choc - si legge nel testo della missiva indirizzata a Turco - di inviare i Nas nelle scuole per contrastare il consumo e lo spaccio di droghe. Non so fino a che punto vi sia stata una forzatura giornalistica, so per certo che di questo non vi era stata discussione all’interno della Consulta sulle Dipendenze da lei istituita e di cui faccio parte". Secondo il presidente dell’associazione che si occupa del mondo delle carceri, "si tratta di una proposta che nulla ha a che fare con la prevenzione e sposta l’asse culturale e operativo tutto sul piano della repressione".

Per Gonnella è chiaro che chiunque oggi si occupa di tossicodipendenze "sa perfettamente che non saranno i carabinieri né i cani anti-droga a dissuadere stili di vita giovanili". Una scelta del genere, se diventasse operativa, creerebbe "un’ulteriore frattura sociale tra la vita reale e la vita politica. Inoltre si trasformerà la scuola in uno strano e ibrido luogo - conclude Gonnella - dove le ragazze e i ragazzi avranno paura ad andare".

Droghe: il governo ha perso la bussola

di Susanna Ronconi (Forum Droghe)

 

Fuoriluogo, 29 maggio 2007

 

Un mix impressionante di improvvisazione, pressappochismo ondivago, incompetenza e neo autoritarismo si è impossessato dei nostri governanti.

Su droghe e consumi giovanili il governo ha ormai perso la bussola. Un mix impressionante di improvvisazione, pressappochismo ondivago, incompetenza e neo autoritarismo si è impossessato dei nostri governanti.

Mai come oggi è stato tra sordi il dialogo tra chi interviene sul campo, studia, conosce e educa e chi amministra e legifera. Ma come si fa ad avere nel proprio programma politico l’abrogazione di una legge repressiva e dannosa come la Fini Giovanardi e al contempo sostenere "l’educazione chimica" del kit alla milanese e quella olfattiva dei cani antidroga? E poi, quando i cani e i kit hanno fatto il loro mestiere, che si fa? Si punisce, si sospende, si fa perdere l’anno scolastico? Insomma, si commina una sanzione.

Come si fa a credere davvero che un fenomeno di massa - sociale e culturale assai più e ben prima che "patologico" - come il consumo di marijuana tra i giovani si possa gestire all’insegna del controllo di polizia? Il governo è allo sbando, il dialogo con noi che su questo da decenni lavoriamo a questo punto è seriamente a rischio.

Perché possiamo discutere di tutto ma a partire da dati di realtà, con chi li nega è davvero dura continuare a pensare una alleanza. E la realtà è fatta di un consumo di massa ludico, per lo più non problematico e a volte esposto a rischi che vanno prevenuti. Ed è fatta da decenni di dimostrazione pratica di fallimento dell’approccio punitivo.

Vogliamo continuare in eterno nella porta girevole degli appelli morali? Per questo andava benissimo anche il governo Berlusconi. Quando entriamo in una classe delle medie superiori ci troviamo di fronte a una netta maggioranza che ha usato una sostanza illegale almeno una volta: come entriamo in contatto con questa loro esperienza?

Chi governa ci deve dire - ma davvero, e una volta per tutte - se pensa, attraverso le sue politiche, di gestire e governare un fenomeno di massa al fine di far sì che i giovani abbiano più consapevolezza critica, capacità di autocontrollo e possibilità di tutelare la propria salute o se, all’opposto, ritiene che sia sufficiente biasimare consumo e consumatori, lasciandoli nell’ignoranza e destinandoli a correre per i fatti loro, da soli, i rischi che il consumo può comportare.

Perché delle due l’una: o l’azione educativa e di promozione del benessere dei giovani parte dai loro comportamenti reali, dalle loro culture, ne tiene conto e con esse entra in dialogo, in alleanza con i ragazzi, aiutandoli a evitare e minimizzare i potenziali rischi, oppure si continua a vagheggiare di un mondo a consumo zero, dove nessun adolescente sperimenta, prova, rischia, sceglie, e dove l’imperativo morale della società adulta (ma quale? Quella del fiume di cocaina illegale e del mare di psicofarmaci legali?) sa solo dire just say no! attraverso Nas e cani nelle scuole. Ce lo dicano, perché noi dell’educazione, della prevenzione e della limitazione dei rischi abbiamo un’altra idea.

Droghe: l’alibi dell’emergenza condiziona la vita delle città

 

La Repubblica, 29 maggio 2007

 

Dalla meditata abiura del sindaco Chiamparino sull’antiproibizionismo al cosiddetto "giro di vite" cofferatiano sulla difficile convivenza urbana a Bologna, nella sinistra italiana è ben percepibile un nascente clima anti-permissivo. Che trova ulteriore conferma nella dichiarazione di intenti del ministro della Salute, Livia Turco, favorevole all’invio dei carabinieri dei Nas nelle scuole per "attività ispettiva" anti-droga.

Il quadro politico e psicologico nel quale matura questo genere di prese di posizione non è da prendere alla leggera. L’impressione di una de-regulation civile è diffusa. L’idea che l’antiautoritarismo quasi congenito in una classe dirigente formatasi negli anni Sessanta (noi, insomma) abbia indebolito oltre il lecito, nelle famiglie e nelle scuole, anche ogni necessario principio di autorità, è tutt’altro che immotivata.

Se il problema è che in una società senza regole si vive male e si cresce anche peggio, il problema c’è. Di pari passo, però, maturano anche l’impressione, e il timore, che il ritardo e le omissioni accumulati su questo terreno possano essere cattivi consiglieri. Che l’ansia e il senso di colpa degli adulti possano generare un interventismo potenzialmente maldestro.

I carabinieri nelle scuole, per quanto sorvegliata e cauta sia la loro presenza, costituiscono pur sempre un’intrusione molto drastica: il segnale che l’autorità scolastica non è più in grado di riacciuffare per suo conto il bandolo della situazione. Cosa che sarebbe tanto più grave in un’istituzione, la scuola, che ha nella sua autonomia (anche regolamentare) il fondamento della sua autorità: già assediata com’è, povera scuola, da genitori ansiosi e da istanze politiche non sempre limpide.

L’esercizio dell’autorità, male o bene esercitato che sia, compete ai presidi, agli insegnanti, al personale non docente, quei bidelli che un tempo, perfino nella temperie della contestazione, spesso aiutarono ad evitare il peggio. La disciplina, e perfino la tutela della salute dei ragazzi, diventano un problema di ordine pubblico (un problema extra-scolastico, dunque) solamente in casi estremi.

Nell’ordinaria amministrazione - quella che conta, quella che regola e indirizza le tendenze sociali - di solito la cultura dell’emergenza peggiora la situazione. Lo stesso ministro Turco, nel dichiarare che "c’è un lavoro educativo da fare, è la cosa più faticosa ma è fondamentale", mostra di sapere perfettamente che non solo la scuola, ma neanche le stracitate famiglie, neanche la società nel suo complesso, sono in grado di mettere le mani nel disordine etico e comportamentale di molti ragazzi (non tutti) se non partendo dalle proprie competenze e dalla propria impallidita autorità. Dai propri comportamenti e dal proprio aplomb sociale: non sempre, si sa, quello degli adulti è esemplare agli occhi dei più giovani.

Ci sono sirene che suonano perché devono suonare, perché un’emergenza è in atto. Ma sarebbe un bel guaio se il suono di una sirena, o un lampeggiante dei carabinieri davanti a scuola, servissero da alibi alle inadempienze di chi ha già il potere quotidiano di sorvegliare, di intervenire, di educare, di aiutare. È la cosa più difficile, come dice il ministro Turco, ma è anche l’unica che conta davvero, che incide, che cambia le cose. Per questo servirebbe limitare le sirene alle sole vere emergenze, e smetterla (raccomandazione che vale per la politica ma anche per i media, forse soprattutto per i media) di trattare ogni fenomeno sociale come una perenne "emergenza".

Le emergenze, tra l’altro, hanno il difetto, ormai conclamato, di durare qualche settimana e poi svanire, lasciando il palcoscenico alle emergenze di nuovo conio. E lasciando i problemi irrisolti. Se tutto è un’emergenza, allora vuol dire che niente lo è: meglio, dunque, caricare la soma della responsabilità quotidiana su chi quotidianamente deve esercitarla: nella scuola, i presidi, gli insegnanti, i bidelli.

Un carabiniere in ogni scuola e in ogni casa, oltre a essere un lusso che neanche lo Stato più ricco del mondo potrebbe concedersi, servirebbe forse a garantire più sicurezza. Ma scaricherebbe la coscienza degli adulti dal compito di occuparsi dei ragazzi: di essere noi i primi carabinieri, le prime autorità sanitarie e etiche, senza divisa e senza potere di arresto, ma favoriti da una prossimità, e da un amore, che troppo spesso dimentichiamo di avere, dimentichiamo di usare.

Droghe: Nas nelle scuole; lo Stato di Diritto e lo Stato di Polizia

di Pietro Yates Moretti (Presidente Associazione Utenti e Consumatori)

 

Notiziario Aduc, 29 maggio 2007

 

La proposta del ministro della Salute, Livia Turco, di inviare i Nas nelle scuole per controlli antidroga non è un’idea nuova. È infatti una politica ideata da Ronald Reagan e attuata con vigore dall’attuale Amministrazione Bush. Controlli con cani antidroga degli armadietti, degli zaini, delle classi; test antidroga obbligatori; guardie armate assunte dalle scuole per reprimere il fumo di sigarette e di spinelli; metaldetector all’entrata in classe. In questo modo, i genitori potranno stare tranquilli: niente droga o armi a scuola.

Questo è il messaggio che il ministro della Salute, insieme a quello dell’Istruzione, vogliono mandare alle famiglie italiane. Ed è un messaggio certamente apprezzabile per chiunque sia terrorizzato dall’idea di un figlio che si fa una canna a scuola. Ma qual è il prezzo da pagare?

Prima di tutto, questo tipo di controlli viola alcuni principi essenziali dello Stato di Diritto e della nostra democrazia. Un sacrificio non da poco che possiamo anche decidere di fare in casi eccezionali (ad esempio, in stato di guerra), ma almeno si rifletta bene su ciò che significa.

In uno Stato di Diritto, la perquisizione è autorizzata da un magistrato su base individuale e sulla base di indizi concreti presentati dalle autorità inquirenti. È impensabile che sia autorizzata, ad esempio, la perquisizione di un intero quartiere o di un intero paese per assicurarsi che nessuno stia violando la legge, a meno che non vi siano motivazioni gravissime di ordine pubblico (ad esempio, se sappiamo che in quel quartiere o paese vi è un ordigno nucleare che sta per spazzare via migliaia di vite).

Quando la perquisizione, che è una violazione straordinaria della libertà individuale, viene impiegata diffusamente e preventivamente, essa rischia di trasformarsi in uno strumento di repressione collettiva, dove tutti diventano sospettati di qualcosa. Davvero siamo di fronte ad una emergenza tale da autorizzare perquisizioni preventive collettive? E se sì, perché non perquisire allora anche le case di tutti gli studenti, dove probabilmente nascondono gli spinelli? Perché non perquisire anche fuori dalla scuola tutti coloro che sono in età scolastica? Se infatti si vuole prevenire il consumo di spinelli, che avviene sicuramente quasi al 100% fuori dalle scuole, perché non fare test antidroga ai tutti i ragazzi fra i 10 ed i 18 anni?

A pensarci bene, se è emergenza uno spinello a scuola, ve ne sono altre che appaiono molto più preoccupanti (forse ci sbagliamo). La cronaca riporta spesso episodi in cui un genitore uccide i figli. Perché allora non perquisire e fare perizie psichiatriche su tutti i genitori di famiglia? Perché non fermare e perquisire tutti gli albanesi o tutti i rumeni, che così spesso appaiono coinvolti in atti criminali? Perché non perquisire infatti tutti gli italiani, nei luoghi di lavoro, nei loro centri di svago, nelle loro case? Sicuramente troveremo in questo modo decine di migliaia di criminali, qualche terrorista, tre o quattro milioni di consumatori di cannabis, decine di milioni di evasori fiscali.

La risposta ci pare scontata: uno Stato di Diritto non può coesistere con uno Stato di Polizia. La cultura del "tutti sospetti" è ciò che caratterizza i regimi assolutisti, in cui il controllo del comportamento della collettività è preventivo, e non frutto di indagini mirate, individuali e controllate dalla magistratura.

Ma anche ove fossimo disponibili a sacrificare parte delle nostre libertà civili, le perquisizioni collettive sarebbero utili a far diminuire il consumo di cannabis fra i giovani?

L’esperienza americana ci dimostra che non è così. Prima di tutto, perché il consumo di cannabis avviene nella stragrande maggioranza dei casi fuori dalla scuola. Fumare a scuola può essere un gesto machista, di bravado, di alcuni studenti "ribelli", ma la gran parte dei giovani fumano altrove.

L’orario scolastico è di cinque ore al giorno, ed i giovani hanno a disposizione altre 19 ore in una giornata per fumare marijuana (a casa di amici, in discoteca, etc.). I controlli dei Nas nelle scuole potrebbero scoraggiare alcuni degli studenti più "ribelli" a non portare cannabis a scuola, ma questo non servirà a diminuire in alcun modo il consumo fra i giovani.

Lo dimostrano diversi studi americani, dove la proposta del ministro Turco è da anni una realtà. Secondo uno studio dell’Università del Michigan, ad esempio, non vi è differenza fra i livelli di consumo di droghe in quelle scuole dove avvengono regolarmente controlli e le altre. Questo studio di quattro anni, pubblicato sulla rivista scientifica Journal of School Health, conclude: "I test antidroga degli studenti non sono un deterrente al consumo... I ricercatori hanno rilevato livelli di consumo di droghe praticamente identici nelle scuole che fanno controlli antidroga e quelle che non lo fanno".

Infine, si rischia di danneggiare un giovane molto di più della sostanza che ingerisce. Il consumo di cannabis non è infatti legato ad una diminuzione del rendimento scolastico, e certamente essa non impedisce agli studenti di crescere e realizzarsi. Basti pensare che anche i leader di molti Paesi, incluso gli ultimi due presidenti Usa, hanno ammesso di aver fumato spinelli a scuola.

Pensiamo ora a cosa accadrà ad uno studente che viene sorpreso a scuola con della cannabis. Se ha una quantità di sostanza attiva (impossibile da misurare senza una analisi chimica approfondita) superiore allo 0,5 grammi, egli sarà arrestato per detenzione ai fini di spaccio e rischierà una condanna da 1 a 6 anni o anche da 6 a 20 anni.

Se persone come Bill Clinton e George Bush, ma anche numerosi scrittori, accademici, etc., fossero stati trovati dalla polizia con cannabis a scuola durante la loro gioventù, con la legge attualmente in vigore in Italia sarebbero oggi ignoti ex-galeotti, segnati da una esperienza carceraria e post-carceraria che difficilmente potrebbero superare.

Da genitore, preferirei senza ombra di dubbio i danni provocati dalla marijuana da quelli certi del carcere. Specialmente perché l’enorme rischio che pone il carcere alla salute mentale e fisica di mio figlio, nonché al suo futuro, non serve in alcun modo a diminuire le chance che fumi cannabis a scuola e altrove.

Ma alla fine, ciò che non voglio è che mio figlio sia sospettato solo per il fatto di essere un adolescente che va a scuola. Prima di rinunciare alla inviolabilità della sua persona e della sua privacy, pretendo da uno Stato di Diritto che ci siano forniti elementi concreti che giustifichino questa straordinaria intrusione. Questo vale per mio figlio, ma anche per tutti coloro che sono intercettati telefonicamente senza giustificato motivo, magari perché di una certa etnia o religione.

Il percorso tracciato dal ministro Turco ci porta in una direzione dalla quale difficilmente potremo uscire: la cultura del sospetto collettivo quale principale mezzo per ripristinare la legalità. Come già accade da decenni sul versante della guerra alla droga, sarà il mezzo che prevarrà sul fine, allontanandolo sempre più. Alcuni ragazzi finiranno in gattabuia insieme alle loro aspirazioni, altri saranno segnalati e dovranno fare test antidroga per mesi ed anni. Tutti gli altri continueranno a fare quello che hanno sempre fatto.

Lo faranno sempre più di nascosto, adottando tutte le misure precauzionali per non essere beccati da genitori o carabinieri. E così si allontana sempre di più la possibilità di informarli senza pregiudizi, di essergli vicini, di poterli aiutare quando sono pronti ad essere aiutati. Noi i controllori, loro i controllati. Un rapporto che spingerà sempre più il consumo di droghe nel luogo dove esso diviene veramente letale: la clandestinità.

P.S. Mentre scrivo, è giunta la notizia che il quindicenne deceduto a scuola dopo aver fumato uno spinello, in realtà aveva fumato crack cocaine, una delle tante sostanze sintetiche prodotte dal mercato illegale realmente letale. Insomma, niente pistola fumante per coloro che in questi giorni ed ore sostengono l’ipotesi dello "spinello killer".

Forse è il caso di cominciare a spiegare ai nostri figli non solo che le droghe fanno male - dal caffè all’alcool, dal tabacco alla cocaina -, ma anche quali sono i rischi di ciascuna droga. Forse, se avessimo insegnato a quel ragazzo la differenza fra crack cocaine e cannabis, egli oggi sarebbe ancora vivo.

Svezia: ricerca; fumo cannabis danneggia il cervello del feto

 

Notiziario Aduc, 29 maggio 2007

 

Gli scienziati, che hanno fatto l’importante scoperta sul funzionamento della crescita del cervello, avvertono che secondo i risultati della loro ultima ricerca "la cannabis fumata durante la gravidanza arriva al feto e lo danneggia". I ricercatori hanno scoperto, infatti, che per lo sviluppo del cervello del feto i cannabinoidi prodotti naturalmente dal corpo umano sono importanti e che il fumo (aggiuntivo) della cannabis intacca il delicato equilibrio, causando conseguentemente danni cerebrali. Il gruppo di scienziati, guidati dal dottor Tibor Harkany del Karolinska Institute di Stoccolma, hanno pubblicato la ricerca dal titolo "Hardwiring the Brain: How Endocannabinoids Shape Neuronal Connectivity" sulla rivista Science.

 

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