Rassegna stampa 30 maggio

 

Giustizia: Sofri; quando i "Servizi" mi chiesero di eliminare i Nap

 

Il Foglio, 30 maggio 2007

 

Un po’ più di cinque anni dopo il 12 dicembre 1969 di piazza Fontana, rinominato (e anestetizzato) ormai ufficialmente Strage di stato, Federico Umberto D’Amato, già responsabile dell’ufficio Affari riservati, il più noto e influente titolare dei servizi italiani nel dopoguerra, mi chiese un incontro, tramite un conoscente comune, accampando una ragione privata. Non avendo io, né allora né mai, motivo per rifiutare di vedere qualcuno, consentii: trattandosi di un colloquio privato, e chiesto da lui, si sarebbe svolto a casa mia.

Una sera D’Amato venne a casa mia. Era un vecchio appartamento in un vicolo del rione Monti, che definire modesto è già troppo benigno, in cui abitai dal 1973 al 1976 con Randi, cani, e un perenne viavai di persone, come usava. D’Amato salutò galantemente Randi, che si sbrigò a lasciarci soli, e lo stesso fece il suo accompagnatore. La conversazione si trastullò per un po’, con un certo impegno da parte sua, uomo che sapeva (fin troppo) stare al mondo, e che sapeva ancor meglio che cosa Lotta continua pensasse e scrivesse di lui.

Meno impegnato, io consideravo quel balzacchiano gastronomo dall’eloquio forbito, dalla faccia irreparabile e dal profumo di barbiere. Mi sembrò che per un po’, come succede in certe circostanze, volesse mostrarsi persona di cultura. Avendolo io interrotto su un anello che spiccava su una mano assai curata, così madornale da sembrare d’ordinanza, me ne spiegò il legame - se la memoria non m’inganna - con la morte di sua moglie, e il fresco dolore che ne provava. Quando lo invitai a venire al suo proposito, mi disse, con la stessa amabile naturalezza, che si trattava dei Nap, i Nuclei armati proletari.

Che tutti sapevano come alcuni fra i loro membri avessero rotto con Lc accusandola di non voler passare alla lotta armata. Che erano pochi, che avrebbero continuato a seguire la loro natura di criminali comuni, contro lo stato, ma anche nuocendo gravemente a noi e al movimento in cui ci riconoscevamo. Che la normale repressione ne sarebbe venuta a capo, ma chissà in quanto tempo e dopo quanti guasti. Che era dunque interesse comune toglierli fisicamente di mezzo ("Fisicamente?" "Fisicamente!"), ciò che avrebbe potuto avvenire con una mutua collaborazione e la sicurezza dell’impunità.

Prima che finisse gli avevo indicato la porta, e lui la prese senza battere ciglio. Dunque quel signore non mi propose di prender parte a un omicidio, ma, seppure in un linguaggio da dopobarba, e senza avere il tempo di entrare nel dettaglio, un mazzetto di omicidii. Quel linguaggio, e la brusca fine dell’intrattenimento, mi impediscono ancora oggi di decidere a che cosa davvero mirasse, benché comunque la provocazione fosse spettacolosa. Ecco. Misi a parte dell’episodio poche persone, che fossero in grado di capire e rispondere se la cosa avesse avuto seguiti imprevedibili. Non ne parlai pubblicamente: non avevo prove del tema (io non avevo congegni spionistici, forse lui sì) e nella pubblicità poteva magari risiedere la provocazione. Soprattutto, a parte l’impudenza, non c’era niente che fosse capace di meravigliarci nell’operato di D’Amato e dei suoi uffici: e caso mai è grossa che qualcuno mostri di meravigliarsene oggi.

Ci fu, qualche tempo dopo, una circostanza tragicomica: un paio di persone, che erano state a me molto legate, avevano aderito ai Nap e mi rinfacciavano di non approvare e anzi di non capeggiare la loro guerra - si leggevano i Cent’anni di solitudine in carcere, e io ero stato l’Aureliano Buendia dei loro sogni - mi tesero una specie di agguato alle porte di casa, che si tramutò in un parapiglia e poi si accontentò di uno scambio di insulti e di accenni di rimpianto. Ripetei loro ancora una volta, e a ragion più veduta, quello che mi ero sforzato di dire dall’inizio della loro impazienza: che andavano allo sbaraglio, che lo stato giocava con loro come il gatto col topo, che avrebbero fatto male alla loro causa e perduto se stessi.

Le stesse cose che si leggono sulle pagine del nostro giornale di allora. Fu quello che si consumò nella breve stagione dei Nap, autori di azioni sanguinose, e manovrati e trucidati senza scampo. Fra loro persone specialmente generose, trascinate oltre e contro le proprie convinzioni da una solidarietà invincibile di compagni di galera e di lotta. Così, già nel 1974, il giovane Sergio Romeo e Luca Mantini in una rapina fiorentina seguita, se non promossa, dalle forze dell’ordine, e lasciata svolgere fino all’uccisione dei suoi autori.

Così nella tragedia della sorella di Mantini. Così nell’attentato romano culminato nel "fuoco amico" che uccide Martino Zicchitella nel 1976. Così nell’esecuzione di Antonio Lo Muscio nel 1977. Questo dunque l’episodio cui avevo fatto cenno. "Perché ora?" Perché ora ho scritto a proposito di una memoria che, avendo lodevolmente cura di rendere giustizia a persone ed eventi trascurati o offesi o calunniati, inclina a una opposta deformazione. Ho ricordato, benché non ce ne fosse bisogno, che lo stato di quegli anni Sessanta e Settanta aveva uomini e organi capaci di ogni illegalità e di veri crimini. Io non sono attaccato alle formule sistematrici, e piuttosto ne diffido: non sono affar mio né il "doppio stato", né le "deviazioni", né altre semplificazioni di una gran porcheria durata troppo a lungo.

La mia "rivelazione" non rivela niente di più di quello che è evidente per mille prove: per me, fu un personale saggio di quello che sapevo. D’Amato è morto, da dieci anni. Come succede, molti - troppi - lo protessero e ne furono protetti, a destra (soprattutto) ma anche a sinistra, e probabilmente strada facendo dimenticarono, come conviene, a chi convenisse.

Ebbe anche lui parecchie vite, e molti lo frequentarono, anche persone degnissime, e trovarono delle buone e piacevoli ragioni per farlo: il mio carissimo amico Federico Bugno, per esempio, collega suo all’Espresso e compagno di gusti letterari e culinari. Resta che se con ogni uomo che muore è un’intera biblioteca che scompare, con D’Amato se n’è andato un intero archivio: e anzi, siccome non ci stava tutto, sepolto lui furono lasciati alla rinfusa nella via Appia 150 mila fascicoli non catalogati

 

Adriano Sofri

Giustizia: entrando in carcere, se sei drogato… drogato rimani

 

www.radiocarcere.com, 30 maggio 2007

 

A Roma si dice che se non sali gli scalini di Regina Coeli non sei romano. Beh, io te dico che se sali quei gradini da drogato, diventerai pure romano, ma drogato ce rimani.

A me m’hanno arrestato più di un anno fa. Detenzione di droga a fine di spaccio. Il bello è che c’avevano ragione. M’hanno beccato con in tasca un po’ de pezzi di cocaina, che saranno stati un grammo. Io, come tanti, vendevo la cocaina per poi potermi comprare l’eroina per me. Vedi il fatto è che i piccoli spacciatori sò quasi sempre grandi drogati.

E c’è un motivo. Chi si droga e non c’ha nà lira o ruba o spaccia. È ovvio. Insomma me se so bevuto, cioè m’hanno arrestato, che era notte e per di più era la vigilia di Natale. Te puoi immaginà. Oh! In carcere c’erano solo 5 agenti e pure belli nervosetti. D’altra parte non fa piacere a nessuno lavorà la vigilia di Natale. Figurati in carcere.

Io stavo male, stavo a rota de eroina. Nel senso che non m’ero riuscito a farmi una dose e sentivo che mi saliva l’angoscia. Stavo in crisi d’astinenza. In carcere, all’ufficio matricola, sé creata un po’ di tensione. Tra gli agenti che mi facevano fa le flessioni, per vedè se c’avevo qualcosa nel sedere, e io che m’agitavo e che chiedevo un medico… insomma per farla breve, tra spintoni e cose varie mi so trovato nella cella liscia, la cella d’isolamento. Mentre casco dentro sta cella, dico: "Oh! Datemi qualcosa sto male, chiamate il medico".

Dallo spioncino una voce mi fa: "Stai qui e non rompere i coglioni, domani vedrai che starai meglio". In un angolo di quella cella sono rimasto rannicchiato per ore. Il corpo che si contorceva. Mi faceva male tutto. Stavo a fà la scimmia.

Sì, la scimmia, così si chiama la crisi d’astinenza. Sbatti sui muri, urli, vomiti, piangi e imprechi. Ma intanto lì resti. Io non mi ricordo quanto ci so stato. Dopo un po’ di giorni ero ridotto uno straccio. Sporco, puzzavo, non riuscivo a camminare. Mi trascinavo. Finalmente è arrivato il medico e m’ha prescritto il metadone, che giustamente mi hanno dato due giorni più tardi. Che jè frega a loro, sei solo un drogato, l’ultimo degli ultimi anche in galera.

Uscito dalla cella di isolamento mi hanno messo nella cella normale, quella con altri detenuti. Eravamo in tre, di cui uno tossico come me. Gli ho chiesto "Ma com’è sto medico è bravo?" E lui me fa "Ma chi Schumacher! Si è bravo, è bravo a scalà".

Traduco. In carcere il metadone certi medici te lo danno a scalare. Cioè ogni tot di giorni te ne danno di meno, fino a smettere. Ecco, il medico che è capitato a me scalava troppo! Nel senso che dopo poco tempo il metadone non te lo dava più. Per questo lo chiamavano Schumacher. Così dopo un po’ ho ricominciato a drogarmi.

E già, perché mica credete alle papere cò i pattini? Che ve pensate che in carcere non se trova la droga? Ma in carcere trovi tutto, la differenza è solo che tutto costa di più. Trovi quello che vuoi: eroina, cocaina, fumo e pasticche.

Io penso che è più facile trovà la droga in carcere che a piazza dei Cinqucento. In tante celle tra sigarette e canne non c’è molta differenza. Anzi ti dirò che la droga che gira di più, e meno male, è il fumo, cioè l’hashish. È un calmante che te fa sta tranquillo. Poi c’è l’eroina.

Costa di più, ma c’è. È come se stai a Londra e te viè voglia di mozzarella. La trovi, ma la paghi cara. Ecco, la stessa cosa è l’eroina in carcere. Casomai il problema sò le siringhe. Spesso in una cella o all’ora d’aria ci si fa in 3 o in 4 con la stessa siringa.

Oppure, se riesci a fregartene una in infermeria, la siringa diventa merce di scambio. Ti faccio usare la siringa mia, in cambio di una dose. Se c’hai l’eroina e non c’hai la siringa viè il bello. E già perché a quel punto o te la sniffi, ma non è la stessa cosa, oppure si usa la penna bic. Istruzioni per l’uso: trovi un ago, lo metti al posto della punta a sfera della bic e usi la penna come stantuffo. Facile no? Mò io la butto in caciara, ma tanti tra siringhe scambiate e penne bic si sò presi l’hiv in carcere!

Poi ci sono quelli, soprattutto extracomunitari, che proprio non c’hanno niente e allora si drogano con le bombolette del gas che si usano in cella per cucinare. Mettono la testa dentro una busta di plastica e ci fanno entrare il gas. Per loro questo è lo "sballo". Uno "sballo" facile ma pericoloso. Tanti rimangono con la testa dentro al sacchetto e muoiono così.

Questo è quanto. Mò io stò in comunità, ma ti dico che non è stato facile capire che era la strada giusta. Anche se tanti si riempiono la bocca con il recupero dei drogati in carcere, la verità stà dentro le celle.

E se la vedi quella verità ti accorgi che ancora oggi poco si fa per il detenuto tossico. Certo è meglio rispetto a prima, ma tanto c’è ancora da fare. Ancora oggi un drogato in carcere è uno che sta dentro un girone infernale e per lui è difficile trovare l’uscita. I più fortunati, o quelli selezionati come più recuperabili, vengono seguiti meglio e inseriti in comunità, ma gli altri?

La colpa, va detto, è pure dei detenuti. Nel senso che tanti vivono l’andare in comunità come una debolezza. Come dire "Hai visto quello è in comunità, ha ceduto!". Anche io la pensavo così, ma sbagliavo. Entravo e uscivo dalla galera, ed era sempre peggio, sempre più buio. Ora va meglio. Certo, sulle mie braccia ci sono i segni del mio passato, ma non mi sento migliore di chi ora in una cella si sta infilando una penna bic nella vena. Casomai sono solo più fortunato.

 

Osvaldo, 32 anni

Lettere: detenuti di varie città scrivono a "Radio Carcere"

 

www.radiocarcere.com, 30 maggio 2007

 

Vito dal carcere di Sollicciano

"Carissimo Arena, mi trovo in carcere dal 1991. Sono entrato che ero un ragazzo e ora dopo 16 anni di galera mi ritrovo pieno di varie patologie. Patologie che puoi leggere nel certificato che ti allego e che difficilmente vengono curate in carcere. Dico questo perché si parla tanto di pena di morte, ma la gente lo sa che nelle carceri italiane la gente viene lasciata morire piano piano? Come se non bastassero le mie malattie, sono costretto anche a scontare il carcere lontano dalla mia famiglia, che risiede a Mantova. Inutili fino ad oggi le mie richieste di trasferimento in un carcere della Lombardia o dell’Emilia. Questa la mia testimonianza".

 

Francesco e 26 persone detenute nella C.R. di Padova

"Caro Riccardo, noi sottoscritti detenuti nel carcere di Padova ti mandiamo questa nostra lettera firmata perché lamentiamo che in questo carcere ci sono delle serie anomalie per quanto riguarda le lettere che inviamo e riceviamo. Prima di tutto il 30% delle lettere che i nostri familiari ci spediscono risultano misteriosamente smarrite. Inoltre quelle lettere che ci arrivano, ci vengono consegnate con diversi giorni di ritardo da quando arrivano in carcere.

Infine molte lettere ci vengono consegnate aperte. Abbiamo fatto presente il problema al vice direttore, il quale ci ha risposto che non può farsi carico di questi problemi. Abbiamo anche denunciato la cosa al magistrato di sorveglianza, ma mai ci è arrivata una risposta. A questo punto ci chiediamo, a chi possiamo rivolgerci? Grazie a radio carcere!".

 

Abo El Enin dal carcere di Cremona

 

"Caro Arena, le invio la mia lettera, la mia storia, la mia ingiustizia. Spero che qualcuno al Ministero della Giustizia l’ascolti. Sono un cittadino egiziano, dall’ottobre del 2004 sono in carcere per scontare la mia pena di 7 anni e 6 mesi. Sono stato condannato in contumacia e quando mi hanno arrestato non ho potuto impugnare la condanna perché non ho trovato un avvocato disponibile che mi difendesse e che mi rimettesse in termini per potermi difendere nel processo. Anche se sono innocente, ho accettato la condanna. Poi è arrivato l’indulto che mi ha tolto 3 anni di pena e mi permette di chiedere una misura alternativa.

Mi sono dato da fare e ho trovato un lavoro fuori, che è condizione necessaria per l’affidamento in prova. Inoltre ho anche trovato chi mi può ospitare, chi mi può dare una casa. Per poter consegnare il contratto di lavoro e l’accordo di ospitalità ho chiesto un permesso per poter uscire dal carcere. L’educatore mi ha detto che era tutto a posto, ma a gennaio 2007 la richiesta di permesso mi è stata rigettata perché la relazione comportamentale non era finita. Ora io chiedo, che deve far un detenuto per avere un minimo di attenzione? Un minimo di diritto? Chiedo solo di poter essere messo in condizione di poter far esaminare dai magistrati di sorveglianza la mia richiesta. Solo questo. È semplice in apparenza, ma per me, fino ad ora, è quasi impossibile".

 

Francesco dal carcere Rebibbia di Roma

"Carissima radio carcere, ho 34 anni e mi trovo in carcere per una serie di condanne per spaccio. Ogni mia condanna non superava 10 grammi di hascisc e per ogni episodio ho preso un anno di galera. Così adesso, condanna dopo condanna mi trovo a stare in carcere per più di 6 anni. E questo solo per qualche canna. Nella sfortuna posso dire che, entrato nel carcere di Rebibbia sono stato fortunato. Qui, ti sembrerà incredibile, ho trovato lavoro e ho già preso la mia prima busta paga! Non puoi immaginare che soddisfazione!! Anche perché così posso aiutare mia moglie e i nostri 5 figli. Dopo l’indulto ero nei termini per poter chiedere una misura alternativa ala carcere, ma il magistrato di sorveglianza ha respinto la mia richiesta sulla base della legge Cirielli per i recidivi. Ora io chiedo perché se la Cirielli è uscita quando io ero già carcerato, mi è stata applicata lo stesso? Grazie per quello che fate. Un abbraccio".

Piemonte: protocollo intesa sull'assistenza sanitaria ai detenuti

 

Ansa, 30 maggio 2007

 

"La firma di oggi conferma la volontà di dare il via a un nuovo percorso di collaborazione tra la Regione Piemonte e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, per definire un’organizzazione più coordinata dell’assistenza sanitaria nelle carceri. L’impegno ad agire per la tutela della salute nelle strutture di detenzione è confermato anche dall’inserimento della medicina penitenziaria nella proposta di piano socio-sanitario".

La presidente Mercedes Bresso ha così commentato, questa mattina, la firma del protocollo di intesa tra i due enti, che non solo riconferma tutte le attività di assistenza ai detenuti tossicodipendenti svolte finora dal Servizio sanitario regionale, ma che pone anche le basi per estendere la prevenzione e la cura a tutti i soggetti che si trovano all’interno delle strutture carcerarie piemontesi.

La riforma della medicina penitenziaria avviata nel 1999, infatti, prevede il trasferimento delle competenze assistenziali al Servizio sanitario nazionale, ma è stata, fino ad oggi, limitata al settore della cura delle dipendenze. Un apposito tavolo tecnico, composto dai rappresentanti della Regione, del Prap (Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria) e dei Sert (Servizio tossicodipendenze), ha portato alla stesura del protocollo d’intesa, fondato sul principio dell’universalità del diritto alla salute e finalizzato al potenziamento dei servizi attraverso un sistema organizzativo funzionale alle esigenze di assistenza e cura, ma anche di ordine e sicurezza.

"La Regione Piemonte già da tempo garantisce prestazioni sanitarie nelle carceri - ha affermato Aldo Fabozzi, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria per il Piemonte e la Valle d’Aosta - Con la firma di oggi si fa un ulteriore passo avanti in questa direzione, per delineare una linea comune volta a dare una valida risposta al processo di riordino del sistema sanitario penitenziario. Da parte nostra ci impegneremo a fornire collaboratori ed esperti di alto livello".

Modena: teatro; "Frammenti" di vita dal carcere di Castelfranco

 

Sesto Potere, 30 maggio 2007

 

Sarà presentato stasera, alle ore 21, alla Tenda di viale Molza a Modena nell’ambito delle iniziative di "Spazio libero" il progetto di spettacolo "Frammenti" realizzato nella casa di reclusione di Castelfranco Emilia dal Teatro dei Venti di Modena con la collaborazione della Provincia e del Comune di Modena e dell’associazione Gruppo Carcere-città.

Lo spettacolo, al quale partecipano i detenuti-attori Gjoni Alkedi, Giorgio Ciavarella, Ciro Lista e Francesco Mitrano, andrà in scena venerdì 15 giugno a Faenza, nella fase finale del Premio Ustica, concorso teatrale biennale dedicato ai temi dell’impegno civile e della memoria che, per la prima volta, ha ammesso una produzione realizzata all’interno di un carcere. Il laboratorio è uno studio di messa in scena che fonde stralci di vita, emozioni e bisogno di riscatto di un gruppo di detenuti rappresentando con ironia e leggerezza le tappe che hanno segnato il percorso verso la delinquenza. E mercoledì 30, sul palco modenese della tenda, a raccontare come è nato e si è sviluppato il laboratorio teatrale ci saranno Stefano Tè, regista dello spettacolo ed Elisa Romagnoli, assessore alle Politiche giovanili del Comune di Modena. La presentazione accompagna lo spettacolo "Vita prigioniera" di e con Beatrice Skiros, tratto dal reportage sul mondo del carcere "Sembrano proprio come noi" di Daniela de Robert e si inserisce nell’ambito di "Spazio libero", rassegna di iniziative che ha l’obiettivo di creare attenzione sulla qualità della vita in carcere e dare risalto all’impegno di specialisti e volontari che operano all’interno degli istituti. Tra le proposte anche la mostra "Arte dai luoghi di reclusione", un percorso tra dipinti, stampe, installazioni e video realizzati dai detenuti di alcune carceri italiane, visitabile fino al 17 giugno nella chiesa di San Paolo a Modena.

Libri: "Il male minore"; sui ragazzi detenuti all'Ipm Beccaria 

 

Famiglia Cristiana, 30 maggio 2007

 

In "Il male minore" don Gino Rigoldi parla di loro, i minori detenuti al Beccaria di Milano. Molti li ospita in casa come figli: "Gli stranieri sono privi di mezzi, gli italiani soprattutto di valori".

Più di trent’anni come cappellano al Beccaria, il carcere minorile di Milano, lo hanno forgiato ad affrontare qualunque tipo di delinquenza giovanile, ad ascoltare il piccolo rapinatore e il pusher di droga come il ragazzo che ha preso una pistola e ha ucciso.

Don Gino Rigoldi non si stupisce più di nulla, non ha paura di nessuno di quei ragazzi, li guarda dritto negli occhi, e li ama uno per uno, così come sono, con i loro sbagli, le loro incoscienze, le debolezze di adolescenti sbandati e confusi. "Un ragazzo che ha commesso un omicidio non mi spaventa", osserva, "non mi fa un grande effetto, dopo tanti anni ne ho viste di cotte e di crude. E, poi, non sono mai stato minacciato dai ragazzi. Le uniche minacce che ho ricevuto nella mia vita sono di adulti".

Don Gino non è mai stato un "obbediente", uno che segue schemi prefissati. Nel suo studio della sede di Comunità Nuova, l’associazione non profit per il recupero del disagio giovanile che ha fondato a Milano nel 1973, racconta della sua esperienza di educatore, ripercorre anche con un pizzico di ironia la maturazione della sua vocazione sacerdotale, intorno ai 18 anni.

 

Tutti possono essere recuperati

 

"I seminari mi sembravano luoghi così tristi, noiosi. Poi, a un certo punto, ci sono entrato e ci sono rimasto. Ancora oggi non mi spiego come ho fatto. Forse perché anche lì dentro riuscivo a ritagliarmi qualche spazio di libertà".

Dalla sua esperienza di vita in mezzo ai ragazzi del carcere e della comunità ora è scaturito un libro, Il male minore (Mondadori), in cui il cappellano del Beccaria analizza con molta semplicità e lucidità il problema della devianza giovanile. "Il titolo del libro fa riferimento al gioco di parole sul termine "minore". Ma soprattutto vuole dire che i ragazzi non sono mai perduti, dietro ogni delinquenza c’è sempre una speranza. Tutti possono essere recuperati".

 

Il delitto rimane come un peso

 

Chi ha ucciso, forse no. Per i giovani assassini, purtroppo, il discorso è differente: "Un ragazzo che ha commesso un omicidio, una volta scontata la pena, difficilmente riesce a superare il senso di colpa, il dolore per il male procurato, a dimenticare, a riconciliarsi del tutto con sé stesso. Per lui sarà più difficile tornare a una vita normale. Il delitto gli rimarrà dentro come un peso".

Eppure, sono proprio i ragazzi che si sono macchiati dei reati più gravi che don Rigoldi prende con più benevolenza in casa sua, alla Cascina Sant’Alberto di Rozzano, hinterland meridionale di Milano. In questa ex casa padronale, da tanti anni il prete accoglie mediamente 14-15 ragazzi usciti dal carcere, che rimangono a vivere con lui finché non trovano una casa e un lavoro e si sistemano per conto loro.

"Sono di diverse nazionalità", spiega don Gino, "al momento ci sono due italiani, poi tunisini, marocchini, albanesi, e presto arriveranno due rumeni. Fra gli italiani, io tendo a prendere con me i casi più difficili, i giovani che hanno commesso un omicidio, perché per loro il recupero e il reinserimento nella società, dopo l’istituto penale, è più lento e complicato". Per loro, don Gino è molto di più di un prete, è un padre.

Comprensivo, ma anche intransigente, perché non è con il buonismo e la pietà, ma con l’autorevolezza che si conquistano fiducia e rispetto dei giovani: "Fin da piccolo sono stato abituato a non classificare le persone come "buone" o "cattive". I giovani bisogna fissarli negli occhi e trattarli da grandi. Ma io sono anche uno che si arrabbia molto, i miei ragazzi lo sanno. E quando dico un "no", lo dico ben forte. La convivenza in casa è serena. Se vogliono litigare io li lascio fare, perché i conflitti non risolti logorano, lo scontro aperto è necessario per risolvere i problemi".

 

In carcere sempre più italiani

 

Oggi Comunità Nuova è diventata una struttura vasta e capillare di sostegno e recupero sui fronti delle devianze dei minori, delle tossicodipendenze, dell’immigrazione, con 80 impiegati assunti, una serie di servizi residenziali a Milano e fuori e un impegno molto attivo nelle periferie e nei quartieri più degradati. "Ora lavoriamo tanto con i giovani sudamericani", spiega don Rigoldi, "e anche con i rumeni, andandoli a incontrare nei loro luoghi di aggregazione e in quelli della prostituzione".

Ma la delinquenza giovanile sta cambiando volto: "Anni fa, il 90 per cento dei detenuti al Beccaria erano stranieri; oggi metà sono italiani. Ho paura che il lavoro di assistenza e recupero dei giovani connazionali sarà la grande difficoltà del prossimo futuro. Se per gli immigrati la criminalità è quasi sempre legata a povertà materiale ed emarginazione, per gli italiani la delinquenza è legata a una povertà di valori, è diventata una forma di affermazione di sé, un modo per sentirsi forti, per riscattarsi dal degrado della periferia".

Droghe: la favola del governo amico sta finendo

di Franco Corleone (Forum Droghe)

 

Il Manifesto, 30 maggio 2007

 

Dalla "palla di neve" Chiamparino alla "valanga" Turco. Costernati più che indignati, tremiamo pensando alla prossima esternazione di qualche altro sindaco o ministro in cerca di facile notorietà.

Livia Turco, al contrario del sindaco di Torino, non si è trastullata su antiproibizionismo e pentitismo, ma ha abbracciato senza travagli interiori la svolta poliziesca dentro le scuole, gettando nello sconcerto non solo le associazioni dei genitori e degli insegnanti democratici ma anche il ministro Fioroni, di provata e indiscussa fede moderata.

Si potrebbe ironizzare sulla richiesta di intervento del Nucleo Antisofisticazione dei carabinieri (dovrebbero forse garantire la qualità della marijuana presente negli istituti scolastici?). In realtà quel che preoccupa della svolta della ministra della sanità è la clamorosa strumentalità politica di questa riedizione postuma della nefasta tolleranza zero: inaugurata oltre vent’anni fa (alla faccia del "nuovo che avanza")da Nancy Reagan, al grido appunto di consumo zero. Infatti ambienti bene informati del ministero fanno sapere che la spinta a questa presa di posizione sarebbe venuta da uno stretto collaboratore che, impressionato dai sondaggi negativi avrebbe sollecitato un "riposizionamento" dopo gli effetti negativi del decreto sul raddoppio del quantitativo di cannabis detenibile senza incorrere nel reato di spaccio.

Insomma, invece di prendere atto della sentenza tutta politica e ammazza-diritto del Tar del Lazio e rilanciare una battaglia di grande respiro culturale, si sceglie l’appiattimento sotto la bandiera del law and order.

Già qualche giorno fa, Livia Turco aveva manifestato interesse ed apprezzamento per l’iniziativa del sindaco di Milano di inviare a tutte le famiglie con figli adolescenti un kit antidroga. Anche questa è un’idea copiata pari pari dall’America di Bush: demagogica, costosa e fallimentare, come abbiamo con tenacia documentato da almeno tre anni a questa parte con articoli di Fuoriluogo e perfino con un volume che raccoglie gli scritti di sociologi e pedagogisti statunitensi (intitolato, appunto, Oltre la tolleranza zero).

Bisogna prendere atto che il cosiddetto "problema droga" è tornato al centro dell’interesse mediatico e che la politica va squallidamente a rimorchio. Non importa se l’autista di Novara non era sotto effetto di stupefacenti e che quindi la causa dell’incidente non sia imputabile alla canapa, così come non fa notizia che lo studente di Paderno Dugnano non sia morto per uno spinello. Non importa, perché semplicemente non asseconda la campagna di criminalizzazione in atto. È possibile che Livia Turco non si renda conto che il compito dei carabinieri è di indagare e denunciare, con ciò pregiudicando la finalità educativa propria della scuola? Oppure anche il famoso slogan Educare e non punire va archiviato e sostituito dalla scelta muscolare?

Il 21 giugno è prevista una iniziativa del governo sulla prevenzione. Sarà una occasione per il movimento e per i Cartelli di associazioni che si sono battuti in questi anni contro la svolta proibizionista e punitiva per chiedere conto dopo un anno del destino del programma dell’Unione che senza equivoci affermava la necessità non solo dell’abrogazione della Fini-Giovanardi, ma anche del superamento della Jervolino-Vassalli. La favola del governo amico sta arrivando al capolinea.

Sembra di assistere alla rivincita di Bettino Craxi (l’ombra sua torna ch’era dipartita…) che scelse la droga come tema discriminante per ricollocare il partito socialista come forza moderata, e prendere le distanze alla sua sinistra. È noto com’è andata a finire. Per il Partito Democratico la storia si ripeterebbe, non come tragedia ma come farsa.

Droghe: la missione impossibile della legge penale

di Grazia Zuffa (Forum Droghe)

 

Fuoriluogo, 30 maggio 2007

 

Il 10 maggio la sesta sezione della Corte Cassazione ha mandato assolto un signore a cui erano state sequestrate cinque piante di marijuana, che coltivava per farne uso personale. È una decisa inversione di tendenza. Difatti dopo alcune pronunce di segno opposto, rese sulla scorta del referendum che nel 1993 aveva dato spazio all’uso personale, la Corte Suprema aveva sempre sanzionato la coltivazione. Determinante in senso repressivo era stata, difatti, la sentenza n. 360 del 1995 della Corte Costituzionale, cui poi la giurisprudenza di legittimità si era in modo compatto conformata. Secondo il Giudice delle leggi la coltivazione non poteva mai essere fatta rientrare nella condotta della detenzione per uso personale. Intanto perché ancora, sotto un profilo per così dire empirico, non c’era nella disponibilità del consumatore lo stupefacente, mancando quindi un rapporto diretto con la sostanza.

E poi perché il legislatore, liberamente, per sua esclusiva scelta politica, non interpretabile in ambito giurisdizionale, aveva ritenuto ex se "pericolosa" per la collettività l’attività del coltivare sostanza stupefacente. E da questa libera valutazione di "pericolosità" derivava la scelta di sanzionare comunque penalmente la coltivazione. Il "coltivatore diretto" poteva scamparla solo se le piantine non fossero risultate in grado di produrre sostanza idonea a determinare un effetto stupefacente sull’assuntore. Perché tale inidoneità non rendeva possibile offendere il bene giuridico protetto dalla norma (la salute dell’assuntore) rendendo il reato impossibile.

Ancora più rigido pareva l’indirizzo della giurisprudenza dopo le modifiche introdotte dal legislatore in materia di stupefacenti nel febbraio 2006. Con cui si è determinata una virata in senso decisamente restrittivo rispetto alla tolleranza dell’uso personale. Apparendo subito particolarmente severo il dato letterale della norma. Secondo il testo di legge l’uso personale può avere effetto depenalizzante, unicamente rispetto alle condotte dell’importare, esportare, acquistare, ricevere o comunque detenere. Resta escluso il coltivare.

Eppure, nonostante un dato letterale che non pareva lasciare spazio ad alcuna interpretazione alternativa (tanto che i primi commenti titolavano : "Così la coltivazione casalinga è sempre punibile", G. Amato) la Cassazione ha "creato" un provvedimento con cui si è giudicato irrilevante penalmente la coltivazione per uso personale.

La sentenza ha giustificato questa svolta affermando che il termine "coltivare", richiamato dalla norma, deve essere inteso in senso specifico. Facendo lo stesso riferimento ad un concetto di coltivazione "tecnico-agricola" (di cui parla la stessa legge stupefacenti quando disciplina l’ipotesi di coltivazione autorizzata), distinta e diversa da quella cosiddetta "domestica". Che a questo punto, essendo qualcosa di diverso sotto un profilo ontologico, deve rientrare nella categoria della detenzione, che come tale diviene penalmente irrilevante se per uso personale. La coltivazione punita è quella fatta su larga scala, con destinazione di un appezzamento e con delle procedure di raccolta e distribuzione. Attività diversa, quindi, dalla coltivazione domestica.

Abbiamo però usato il termine "creare" perché comunque la sentenza della Cassazione effettua una interpretazione che, seppur condivisibile nel risultato, supera la lettera della legge e lo spirito del legislatore. Si ha inoltre la sensazione, leggendo per intero il provvedimento, che parte importante nel determinare la Corte abbia avuto il ragionamento ivi esposto secondo cui sarebbe da escludersi che un legislatore ragionevole possa avere previsto di punire con una pena severissima (da sei a venti anni) chi si limiti a coltivare qualche pianticella di cannabis per uso personale. In tutta sincerità pare invece a chi scrive, che il legislatore (irragionevolmente!) abbia voluto proprio ciò.

Come d’altronde (irragionevolmente!) ha voluto punire con la medesima pena chi cede uno spinello - si può dire: quasi innocuo - e chi cede una dose di eroina. I cui effetti sul bene giuridico protetto dalla norma (la salute dell’assuntore) non possono certo essere equiparati. Ecco perché forse, pur condividendosi il risultato finale, più coerente e rispettosa della legge poteva essere una denuncia di irragionevolezza alla Corte Costituzionale, e non su quell’unico aspetto, della normativa in materia di stupefacenti.

Cesare Placanica.

Droghe: una ricerca inglese sconfessa il proibizionismo

 

Fuoriluogo, 30 maggio 2007

 

Regno Unito, uno studio svela l’infondatezza scientifica delle politiche antidroga. La politica ha chiari i suoi obiettivi quando disegna e mette in atto le strategie antidroga? Questa è la domanda chiave che si impone al termine della lettura del recente studio sulle politiche della droga nel Regno Unito (An Analysis of UK Drug Policy): il rapporto, redatto da due esperti, Peter Reuter e Alex Stevens, è stato commissionato dalla Commissione per la politica delle droghe (Ukdpc), un organismo indipendente che si propone di promuovere politiche "scientificamente fondate".

Il quesito è d’obbligo sin dalle prime battute, quando Reuter e Stevens abbattono il luogo comune secondo cui i controlli legali (imperniati sulla proibizione e la punizione) avrebbero la finalità di eliminare o quanto meno diminuire i consumi fra la popolazione. Col conseguente corollario: nei paesi con un approccio più punitivo, si registrerebbe una prevalenza di consumi più bassa, il contrario nei paesi più "liberali". Come ama ripetere il capo dell’agenzia Onu sulle droghe (Unodc), Antonio Costa, "ogni paese ha il problema droga che si merita".

Mai slogan si rivela più infondato, solo guardando all’esempio di due paesi europei dalle politiche opposte, la Svezia e l’Olanda: "ambedue - sostengono gli autori - hanno percentuali più basse di consumo complessivo (ma anche di consumo problematico) del Regno Unito". In altre parole, sembra che i fattori socioculturali abbiano più influenza dei controlli legali nel modellare i consumi. Una riprova si ha guardando alla declassificazione della canapa, entrata in vigore in Gran Bretagna nel 2004, con effetti di sostanziale depenalizzazione dell’uso personale: gli oppositori sostenevano che l’allentamento repressivo avrebbe comportato un aumento dei consumi. Al contrario, c’è stato un declino, o, per meglio dire, è continuata la lenta flessione della prevalenza della canapa, senza che la modifica normativa incidesse sull’evoluzione del fenomeno.

Se non possiamo giudicare le politiche dal livello dei consumi, quali possono essere i criteri di giudizio? Risponde il rapporto: si dovrebbe guardare non tanto al consumo in generale, quanto alla "problematicità" di alcuni tipi o modelli di consumo. In altri termini, le droghe illegali vanno "allineate" a quelle legali: come per l’alcol, la sanità pubblica guarda agli stili rischiosi e dannosi di consumo, più che all’uso in sé.

Dunque, "le politiche di contrasto alle droghe dovrebbero proporsi di ridurre il livello dei danni correlati (mortalità, salute, crimine)". C’è da notare che questo nuovo obiettivo non semplifica le cose, se non altro perché il consumo di droga interagisce con altri problemi, come ad esempio la povertà. Sembra infatti che "i modelli più dannosi di consumo siano più diffusi fra le persone disoccupate, non qualificate, in difficoltà finanziarie e senza casa o comunque senza una dimora stabile".

Un’associazione fra consumi intensivi e deprivazione socio economica che andrebbe tenuta in maggiore considerazione nel disegnare le politiche, anche perché la classica interpretazione (o luogo comune ) che vede la droga come causa della "miseria" del tossicodipendente non trova conferma dall’esame dei differenti stili di consumo: infatti, il consumo ricreazionale non è prerogativa dei gruppi socialmente esclusi. Quanto è opportuno allora concentrare attenzione e risorse sul "problema droga" e non sulle politiche sociali?

La domanda è per certi versi ingenua, perché la politica, lungi dal lasciarsi guidare dalle evidenze scientifiche, o semplicemente dal buon senso, è sempre più impegnata alla rincorsa del "cattivo senso" mediatico. Non a caso, l’interpretazione sociale del fenomeno droga trova poca fortuna, mentre - lamenta il documento - è soprattutto l’associazione causale droga-crimine a occupare il dibattito britannico. Il che non stupisce, poiché dell’ossessione securitaria di Downing Street abbiamo avuto conferma in questi giorni, col lancio della singolare "prevenzione" rivolta ai piccoli futuri delinquenti annidati nel ventre materno.

Guardiamo dunque da vicino il pilastro principale delle politiche antidroga britanniche: il law enforcement, la legge penale e la sua applicazione.

Con la declassificazione della canapa nel 2004, gli arresti per detenzione di quella sostanza sono diminuiti di un terzo. Ciononostante, se si esaminano le cifre sul lungo periodo, l’impatto repressivo del Drug Misuse Act è aumentato: nel 2004/05, 85.000 persone sono state arrestate in Inghilterra e Galles, e 42.000 in Scozia. Dal 1994, sia il numero delle persone condannate che la lunghezza media delle condanne sono cresciuti.

Il numero delle persone incarcerate per detenzione di droga ha raggiunto il picco nel 1998 per poi decrescere, tuttavia nel 2004 era ancora l’8% più alto del 1994. Interessante è il confronto fra l’andamento della lunghezza delle condanne per droga rispetto a tutte le altre. Anche queste ultime sono aumentate dal 1994, tuttavia l’aumento degli anni inflitti per droga è incomparabilmente più alto.

L’incremento della penalità è andato di pari passo con l’aumento delle persone in trattamento, poiché il piano d’azione del 1998 ha privilegiato forme para-coercitive di accesso alla cura. Così, il Drug Treatment and Testing Order dà ai tribunali la facoltà di "condannare" al trattamento gli imputati per reati di droga (l’alternativa è il carcere); mentre, con il Drug Abstinence Order, chi sconta la pena sul territorio può essere sottoposto a test antidroga. Il giudice può inoltre ordinare il requisito dell’astinenza, come condizione per rimanere fuori dal carcere. Uno studio di valutazione ha mostrato la scarsa efficacia di queste misure nel diminuire il consumo delle droghe più rischiose, mentre è alta la percentuale di coloro che rientrano in prigione per aver violato queste ordinanze.

Nonostante la centralità strategica della repressione nella politica inglese, questa ha fallito i suoi obiettivi. "Se fosse efficace - argomenta il documento - i prezzi della droga sarebbero più alti e ci sarebbe meno droga in circolazione". Il che non è, anzi i prezzi sono diminuiti negli ultimi anni. Possiamo riformulare la domanda iniziale: la politica si preoccupa di governare al meglio i fenomeni o di "lanciare messaggi" contro la (immoralità della) droga?

Droghe: il 50% degli studenti universitari ne ha fatto uso

 

Corriere della Sera, 30 maggio 2007

 

Droga in aula. A fiumi. Non solo a scuola, anche nelle università. Con oltre uno studente su due che ha provato sostanze illegali. Per curiosità, per omologazione, per provare sensazioni nuove. L’Asl di Milano ha indagato sulle abitudini di settecento giovani iscritti in cinque atenei cittadini (Statale, Cattolica, Politecnico, Bocconi, Bicocca) tra i 19 e 24 anni.

E loro, i professionisti che nei prossimi anni lavoreranno in ambito sociale, sanitario e amministrativo, hanno risposto. Secondo lo studio (presentato alla Cattolica durante il convegno "Atteggiamenti e comportamenti degli studenti universitari verso la droga: una ricerca della Asl di Milano", organizzato dalla professoressa Bianca Barbero Avanzini), più del 50 per cento degli intervistati ha sperimentato le droghe più in voga tra le giovani generazioni.

Il 54,7 per cento ha fatto uso di hashish e marijuana, il 14 per cento di popper (inalante che provoca euforia e stordimento venduto nei sexy shop e non catalogato come droga), l’11 di cocaina, il 5,5 di funghi allucinogeni, il 4,6 di ecstasy. Lo studio rientra nel progetto di prevenzione "In3venti" avviato alla fine del 2004 dalla Asl. Il responsabile, Corrado Celata, precisa: "L’indagine non è statisticamente significativa, ma è rappresentativa del comportamento degli universitari". Ovvero, giovani che nei confronti delle droghe hanno un approccio "sperimentativo e consumistico-passivo".

Che alla domanda "Conosci qualcuno che ha fatto uso di droga?", nell’ 80 per cento di casi rispondono sì. Milano, gli universitari, la droga. Risposte molto simili senza grosse differenze tra indirizzi di studio. E un consumo che sotto i 35 anni perde l’idea di trasgressione e si avvicina pericolosamente a quella di "normalità". In linea, quindi, con le tendenze generali della città.

I motivi che spingono a provare droghe: curiosità prima di tutto. Solo chi sniffa cocaina dichiara di farlo per provare nuove sensazioni. E in questa cornice, con le droghe che assomigliano sempre di più a medicinali da assumere a seconda dei casi, anche i prezzi si abbassano: l’80 per cento di chi ha provato una droga dichiara di aver speso meno di 50 euro. I rimedi: "La vera sfida culturale - continua Celata - è intervenire con iniziative mirate". Quanto poi alla presenza dei Nas nelle scuole, come ha proposto il ministro della Salute, Livia Turco, l’esperto precisa: "Servirebbe uno statuto speciale che permettesse a docenti e presidi di costruire progetti con noi senza diventare poliziotti. Sarebbe un modo per far sì che le scuole non siano commissariati ma veri luoghi educativi". Combattere l’indifferenza nei confronti delle droghe, è questa la battaglia. Lo spiega Bianca Barbero Avanzini: "Più che di tossicodipendenza, a Milano si può parlare di accettazione culturale del consumo di sostanze stupefacenti e di farmaci. Noi dobbiamo combattere questa tendenza".

Gran Bretagna: oltre 80mila detenuti, è il "record" storico

 

Apcom, 30 maggio 2007

 

Le carceri inglesi sono sul punto di scoppiare. L’allarme è scattato dopo gli ultimi dati resi noti sul livello della popolazione carceraria: la cifra ha toccato ieri il numero record di 80.846 detenuti. Secondo quanto riportato oggi dal Guardian, le stime parlano di meno di 300 spazi ancora liberi nelle carceri di Inghilterra e Galles. Appena 100, invece, le celle di detenzione provvisoria nei Tribunali, il cui utilizzo, consentito solo in casi di emergenza, causerebbero non pochi problemi alla macchina della giustizia inglese.

E la crisi potrebbe anche peggiorare quando, a partire dal 1 luglio, entrerà in vigore il divieto di fumo, limitando ulteriormente il numero di detenuti per cella. Ovviamente nono sono mancate le polemiche e le pressioni su Lord Falconer, ministro della giustizia inglese che ha annunciato proprio in queste settimane misure per ridurre la popolazione carceraria.

Intanto alcune proposte concrete sono arrivate dal sindacato secondo cui il passo più ovvio sarebbe quello di permettere ai circa 2000 detenuti a cui è già consentito di lasciare il carcere durante il giorno, di non dovere rientrare la sera.

 

Per invio materiali e informazioni sul notiziario
Ufficio Stampa - Centro Studi di Ristretti Orizzonti
Via Citolo da Perugia n° 35 - 35138 - Padova
Tel. e fax 049.8712059 - Cell: 3490788637
E-mail: redazione@ristretti.it
 

 

 

 

 

Precedente Home Su Successiva