Rassegna stampa 25 maggio

 

Giustizia: Padova; sono persone, non reati che camminano

 

Redattore Sociale, 25 maggio 2007

 

Oggi nella casa di Reclusione di Padova si è svolto l’annuale convegno di "Ristretti Orizzonti". Favero: "Stare in carcere e non capire il senso della pena e ritenere di stare subendo una ingiustizia è quanto di meno rieducativo ci sia nella vita di una persona detenuta".

Sono persone, non reati che camminano. Questa l’affermazione da cui è partito l’annuale convegno organizzato da Ristretti Orizzonti, per riflettere sul carcere, sulle misure alternative, sulla legislazione vigente e su quella che sembra non arrivare mai. Venerdì 25 maggio all’interno della casa di reclusione Due Palazzi di Padova operatori, direttori di carceri, magistrati, docenti universitari si sono confrontati sul mondo dietro le sbarre e sulla necessità di ripensare la pena.

L’assunto che ha trovato tutti concordi è che il carcere debba essere necessariamente l’estrema ratio, l’ultimo possibile intervento della giustizia. Prima devono essere considerate e previste tutte le misure alternative, cercando di favorire il reinserimento della persona nella società. E se proprio reclusione deve essere, allora si devono trovare sistemi per dare un senso al tempo che si trascorre reclusi, per non far credere ai detenuti di essere "un morto che respira".

"Stare in carcere e non capire il senso della pena e ritenere di stare subendo una ingiustizia è quanto di meno rieducativo ci sia nella vita di una persona detenuta - scrive Ornella Favero, di Ristretti orizzonti -. Una pena scontata dove si può fare buon uso del tempo è radicalmente diversa da una pena fatta di tempo morto". Poi c’è lo scoglio dell’uscita, come spiega Elton Kalica, della redazione interna di Ristretti Orizzonti: "Il detenuto che non ha potuto seguire un percorso di reinserimento quasi sicuramente si ritrova a fine pena buttato in mezzo a una strada, senza un soldo e senza un lavoro. E tutti i sogni e i progetti di vita finiscono sotto il ponte dove andrà a dormire o accanto alla panchina del giardinetto dove si metterà a spacciare".

Il magistrato Alessandro Margara, presidente della Fondazione Michelucci, ha sottolineato nel corso del suo intervento come "il carcere dovrebbe essere l’estrema ratio, invece adesso è quasi routine". Margara, autore di una proposta di riforma dell’ordinamento penitenziario, ha anche descritto come è perché deve essere modificato il Codice penale proprio alla luce del ripensamento della pena. Se, dunque, le misure alternative sono la strada maestra da seguire, alcuni di coloro che vivono dentro il carcere per lavoro cercano di attenuare i possibili effetti peggiorativi della detenzione. È il caso di Lucia Castellano, direttrice della casa circondariale di Bollate, che ha raccontato la propria esperienza: "Il carcere per la stragrande maggioranza delle persone che lo abitano non ha effetti migliorativi, tutt’altro. Detto questo, cosa fare per rendere il tempo al suo interno sensato? Il carcere deve essere inteso come un servizio, perdendo la mistica del controllo totale della persona reclusa.

A Bollate ad esempio abbiamo permesso ai detenuti, con le cooperative che operano all’interno, la gestione economica dell’istituto". Un secondo aspetto su cui insiste la direttrice è che "bastano i muri di cinta a contenere le persone, non serve aggiungere altro. Le celle dovrebbero essere aperte, lasciando liberi i detenuti di muoversi nell’istituto senza doverli controllare ogni secondo, perché tanto è impossibile". La gestione partecipata del carcere, dunque, serve a dare un senso al luogo e allo spazio nel quale le persone vivono. Paolo Cavenelli, magistrato dell’Ufficio sorveglianza di Roma, ha voluto infine evidenziare che il 60% dei detenuti in Italia oggi si trovano in carcere in condizione di custodia cautelare, senza avere una sentenza definitiva, mentre in fase esecutiva la carcerazione non è frequente. "Molti detenuti sono ancora reclusi per reati commessi 10-15 anni fa e questo non mi sembra civile".

Giustizia: Padova; recidive al 19% grazie alle misure alternative

 

Redattore Sociale, 25 maggio 2007

 

Ancora troppo scarso il ricorso alle misure alternative. Cesaris: "Tolleranza zero? Il nemico è sempre lo stesso: l’immigrato, il terrorista, il tossicodipendente"

Articolati gli interventi nel corso del convegno organizzato da Ristretti Orizzonti venerdì 25 maggio a Padova, nella casa di reclusione Due Palazzi, dove un folto gruppo di esperti ha messo a confronto esperienze, professionalità e anche idee diverse. Non sono mancati gli spunti tecnici relativi alla legislazione, al futuro di alcune norme, agli effetti di leggi - l’indulto - che sono state recentemente varate.

E non sono mancati i dati, necessari per inquadrare un aspetto della società così rilevante. Luciano Eusebi, ordinario di Diritto penale nella facoltà di Giurisprudenza di Piacenza e membro della commissione di studio per la riforma del Codice Penale: "Se vogliamo fare una buona prevenzione non possiamo rinunciare al contributo della società e alla presenza dello Stato.

Prima ancora che il diritto penale devono essere tutti gli altri diritti a trovare soluzioni per prevenire i reati: il penale non può essere un alibi per non applicare tutti quegli interventi che a monte impediscano comportamenti criminosi. Ecco perché più che a un nuovo Codice penale bisognerebbe guardare a una nuova struttura preventiva". E l"esperto continua nella riflessione: "Nel momento in cui viene commesso il reato, però, come procedere? Nulla rafforza di più l’autorevolezza delle norme che una persona che viene recuperata. La pena deve diventare un percorso, anche se difficile, verso il reinserimento".

Sui dati e le statistiche si è soffermata Chiara Ghetti, direttrice dell’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna di Venezia, Belluno e Treviso: "Dal 1975, quando sono state introdotte, le misure alternative sono state ampliate, ma non hanno ancora guadagnato la rilevanza che invece spetterebbe loro. Dal 1998 al 2005 la recidiva è stata del 19%. Ciò vuol dire che l’81% delle persone non è tornato a delinquere e questo dato è particolarmente confortante.

Le persone che si trovano in condizione di affidamento ai servizi sociali fanno un percorso, entrano in una dimensione dinamica che contrasta con la staticità negativa del carcere". Protagonista del convegno è stato anche l’indulto, che si appresta a compiere un anno di vita. Ne ha spiegato la logica, gli obiettivi, il significato e gli effetti benefici Luigi Manconi, sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri.

Franco Corleone, garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Firenze non ha esitato a definire questa legge "un miracolo, che però rischia quasi di essere vanificato dalla mancanza di leggi emanate da parte del Parlamento e del Dipartimento di amministrazione penitenziaria". E ha sottolineato che l’indulto non deve avere come effetto che vengano annullate le misure alternative per chi non ha beneficiato della legge. Scoppiettante e non da tutti condivisa una parte dell’intervento, relativa ai tossicodipendenti, che altro non sarebbero che "persone che consumano sostanze che qualcun altro ha deciso essere illegali. Criminale non è chi le consuma, ma la logica proibizionista" ha detto con in sottofondo un’ovazione.

Laura Cesaris, ricercatrice di Procedura penale all’Università di Pavia ha invece sollecitato a uscire da una logica di legge emergenziale, strumenti normativi troppo spesso usati a sproposito e nati per combattere una minaccia ben definita, quella del terrorismo negli Anni di piombo: "Il sistema normativo vigente manca di una struttura coordinata e unitaria. Le leggi emergenziali danno corpo a quell’esigenza di giustizia che adotta un linguaggio usato per ricevere soltanto consenso, come lo slogan "Tolleranza zero". Il nemico è sempre lo stesso: l’immigrato, il terrorista, il tossicodipendente".

Polizia Penitenziaria negli Uepe: comunicato assistenti sociali Casg

 

Comunicato Casg, 25 maggio 2007

 

C’è ancora chi si chiede perché il progetto del Dap, di inserire la Polizia Penitenziaria negli Uepe, abbia incontrato tanta resistenza tra gli assistenti sociali, ma anche tra i volontari, i giuristi, le organizzazioni sindacali, i parlamentari, l’ ordine professionale degli assistenti sociali. Non ci sono più parole per spiegare le nostre buone ragioni, non basta dire che:

non esistono provvedimenti normativi che lo consentono;

le leggi esistenti agli art. 47 O.P. e art. 118 del nuovo regolamento di esecuzione lo escludono esplicitamente;

non è possibile modificare una legge attraverso un decreto non avente natura delegata;

non è accettabile presentare sotto forma di sperimentazione un modo di operare che - almeno per l’affidamento in prova - altererebbe in modo determinante il tipo di trattamento previsto dalla normativa

le misure alternative funzionano da oltre 30 anni con un tasso di recidiva bassissimo (come dimostrato da statistiche e ricerche)

i costi per la collettività aumenterebbero in modo notevole perché non si tratta di aumentare solo il numero di poliziotti sul territorio (dato che può risultare utile ai fini preventivi generali) ma, si tratta di un nuovo corpo di polizia che si aggiunge a quelli già presenti. Conseguentemente sarà necessario prevedere mezzi, strutture organizzative, supporti tecnici completamente nuovi.

esiste il rischio di spostare l’attenzione prevalentemente sul controllo penalizzando politiche che favoriscano l’inclusine sociale dei condannati.

e tutte le altre motivazioni che non vale la pena elencare, perché sono stati spesi fiumi di parole per spiegare.

Ma c’è qualcuno che ha voglia di ascoltare? Non esistono buone ragioni per chi ha già deciso e non ha alcuna intenzione di tornare sui propri passi, almeno per riflettere se la strada intrapresa è quella giusta.

Constatiamo che il decreto che prevede la sperimentazione appare confuso su tempi, modalità e campo d’intervento, il preambolo sembra riferirsi all’esecuzione di tutte le misure alternative mentre l’art. l specifica volersi trattare solo della detenzione domiciliare e dell’affidamento in prova.

 

Se dunque sperimentazione deve esserci:

che avvenga per quelle misure per le quali l’intervento delle autorità di pubblica sicurezza presenti sul territorio è espressamente previsto dalla legge e risulta funzionale rispetto alle esigenze tipiche della misura: i detenuti domiciliari. Non vengano però trascurati accordi tra Dap e Ministero degli Interni per evitare inutili e dannose sovrapposizioni di controlli.

i nuclei che dovrebbero essere coordinati dai Prap, dipendano funzionalmente da questi e siano allocati in strutture esterne agli Uepe, affinché sia chiaro che la Polizia Penitenziaria va a sostituirsi alla Polizia di Stato e ai Carabinieri, senza alcuna confusione tra operatori dell’inclusione, quali gli assistenti sociali, e operatori di polizia.

 

Appare d’obbligo chiarire che gli assistenti sociali non nutrono alcuna idea preconcetta nei confronti del personale di polizia penitenziaria, non hanno dubbi sulla loro professionalità e competenza, né ritengono che questi debbano svolgere solo funzioni di supporto all’attività degli assistenti sociali, funzioni che potrebbero essere tranquillamente svolte da personale civile, previsto ma mai assunto, ma è importante che per risultare le funzioni di entrambe le figure professionali utili ed efficaci, debbano essere ben distinte.

In vista della riforma del codice penale e del sistema sanzionatorio, sarebbe importante predisporre un sistema organizzativo dei servizi, articolato e coerente con tali riforme nel rispetto della norma costituzionale e delle raccomandazioni europee.

Occorre accompagnare il processo di riforma con un ampio dibattito tra tutti gli attori coinvolti, compresi: la comunità locale, le associazioni di volontariato e del terzo settore, le FF.OO. e non ultimi gli operatori che tale settore hanno gestito per circa 32 anni. Uno strumento utile potrebbe essere la convocazione di una Conferenza Nazionale sulle Misure Alternative, che metta in evidenza i risultati raggiunti e le possibilità di sviluppo dell’esecuzione penale esterna, per far sì che il carcere diventi seriamente l’extrema-ratio.

 

A nome del Consiglio Nazionale Casg

Coordinamento Assistenti Sociali Giustizia

Anna Muschitiello, Segretaria nazionale

Medicina: contro trapianti illegali pene fino a 15 anni di carcere

 

L’Espresso, 25 maggio 2007

 

Il mercato di organi si può combattere solo abbattendo la domanda. Con lunghe pene detentive per chi va ad acquistarli. La proposta-choc di un chirurgo che fa politica.

Quindici anni di galera per chi torna da un paese del Terzo mondo con un organo di cui non può provare la provenienza, quindi acquistato con ogni probabilità al mercato nero. E questa la proposta-choc di Ignazio Marino, noto trapiantologo e ora presidente della commissione Salute del Senato, per stroncare il fenomeno del turismo medico illegale denunciato sullo scorso numero de "L’espresso".

Solo disincentivando duramente la domanda in Occidente, secondo Marino, si può combattere l’offerta nei paesi poveri. A questa azione di tipo legale va però affiancata una diversa politica per incrementare in Italia le donazioni "vere" - cioè quelle tra persone legate affettivamente - con campagne di comunicazione robuste e mirate.

 

Se io fossi un malato di reni che sta per andare in Asia ad acquistare un rene lei che cosa mi direbbe?

"Primo, le direi che se un chirurgo è così privo di scrupoli da eseguire un trapianto illegale, come può pensare che sia scrupoloso nel verificare la compatibilità del donatore? Secondo, le direi che gli studi internazionali dimostrano la crescente incidenza di malattie come epatite C e Aids in pazienti con organi comprati illegalmente. Terzo, ma ancora più importante, le direi che sta per compiere un crimine contro l’umanità".

 

E io le risponderei che sono disperato, che voglio solo salvarmi la vita...

"Lo so. Nel corso della mia carriera ho visto centinaia di pazienti disperati e la prima domanda che ogni malato pone, appena entra in lista d’attesa, è sempre la stessa: quando arriverà l’organo per me? L’ansia è tremenda e andare in questi paesi può sembrare una scorciatoia. Ma la necessità personale del malato non può giustificare mai una rivalsa su altri uomini più deboli perché economicamente disagiati. Non ci sono scuse, comprare un organo è un crimine orrendo. Nella donazione non ci possono essere contropartite economiche di alcun tipo".

 

Quindi?

"Quindi, anche se può sembrare un po’ duro, l’unico modo per combattere questo crimine è agire sulla domanda. Sappiamo che nei paesi in cui abbonda l’offerta le leggi non ci sono o vengono tranquillamente aggirate, come ha dimostrato L’Espresso con la sua inchiesta. E agire sulla domanda significa punire chi torna dall’estero con un organo acquistato illegalmente. Non sarebbe difficile né scoprire né perseguire chi prima era in dialisi e ora improvvisamente non lo è più, senza che possa dimostrare la provenienza legale del suo nuovo rene. La prospettiva di passare 15 anni in carcere stroncherebbe il fenomeno all’origine".

 

Ancora più colpevoli però sono i chirurghi che eseguono i trapianti consapevoli della compravendita che c’è dietro...

"Certo, ha ragione. Non riesco nemmeno a chiamare "colleghi" dei medici che agiscono così: sono dei banditi e basta. Ma il problema è che questi signori operano in paesi - come India, Pakistan, Cina, Filippine, Turchia, Cile e molti altri - dove la giustizia non li persegue. E ovvio che andrebbero messi in galera anche loro, ma da qui noi non possiamo farlo. E allora dobbiamo incidere dove abbiamo la possibilità: andando a prendere i trapiantati quando rientrano all’aeroporto e trasferendoli subito dietro le sbarre. Non per accanimento, ma perché solo così si elimina il traffico".

 

Eppure anche nella comunità scientifica c’è chi vorrebbe legalizzare la compravendita per sottrarla alla malavita e garantire una certa sicurezza sanitaria...

"Sì, se ne parla spesso anche ai congressi medici. Ma sarebbe una terribile resa morale. Come si fa ad accettare l’idea che un malato si rifaccia su un altro uomo perché ha più potere economico di lui? Se si apre questa porta - quella della liceità del trapianto a fini di lucro - poi si rischia di arrivare a situazioni come quella cinese".

 

Si riferisce agli organi estratti dai condannati a morte?

"Esatto. Anche questa a volte viene ritenuta una leggenda metropolitana, invece è tutto drammaticamente vero: nel 2002 l’allora presidente della Transplantation Society, Cari Groth, è andato in Cina e ha visto con i suoi occhi i condannati a morte che subito dopo l’esecuzione - con il cuore che ancora batteva - venivano portati in sala operatoria per l’espianto di cuore, fegato, reni e così via. E in buona parte quegli organi vengono venduti al mercato estero. Possiamo essere complici di questa pratica?".

 

Ma se parliamo di donatori consenzienti forse la vendita di un rene può consentire loro di uscire dalla miseria...

"No. Uno studio realizzato nel 2002 dal Journal of the American Medicai Association dimostra il contrario. Su 305 persone che hanno venduto il loro rene a Chennai, in India, a sei anni dall’operazione la loro condizione di povertà era mediamente peggiorata: normale, in un contesto come quello in cui vivono quei donatori. Tre quarti dei quali sei anni dopo erano di nuovo coperti di debiti. Più del 70 per cento quindi ha sconsigliato ad altri di ripetere la loro esperienza. La vendita degli organi dunque non costituisce uno strumento a lungo termine per l’emancipazione dalla miseria. Questa è una bugia che ci raccontiamo noi per giustificare un crimine".

 

Ma allora che cosa può fare un malato di reni? Solo aspettare attaccato alla macchina per l’emodialisi?

"Qui arriviamo al secondo corno della questione. In Italia il tempo medio di attesa per un rene supera i tre anni e spesso arriva a cinque o sei. E questo perché da noi è molto cresciuto il numero di donazioni da persone in stato di morte cerebrale - quella che noi chiamiamo "da cadavere" - ma non si è altrettanto diffusa la donazione da vivente, che implica tempi molto più ridotti (anche meno di un mese) e in caso di consanguineità offre una maggiore compatibilità, quindi un rischio minore di rigetto. Ed è su questo che bisogna lavorare con le campagne di comunicazione: la cessione di un rene - esecrabile quando avviene per mercimonio - diventa invece un bellissimo atto d’amore se è fatto per una persona a cui vogliamo bene".

 

Perché in Italia la donazione da vivente è poco diffusa?

"È una questione d’informazione. Molta gente ha ancora paura, non sa che con un rene solo si può vivere benissimo. Il primo italiano che ne ha donato uno lo ha fatto nel 1954 ed è ancora vivo. Senza contare che i donatori vengono sottoposti ogni anno a un check-up completo che già diverse volte ci ha permesso di individuare l’insorgere di altri problemi che altrimenti non sarebbero emersi".

 

Quest’opera di educazione civile spetterebbe proprio a voi politici...

"Certo. Quando era ministro della Sanità Umberto Veronesi aveva messo a punto una serie di campagne che poi sono state tutte stoppate dal suo successore, Girolamo Sirchia, radicalmente contrario alle donazioni da vivente. Adesso stiamo riprendendo con difficoltà la strada iniziata da Veronesi. Il nostro modello dovrebbero essere gli Stati Uniti, dove le campagne informative hanno funzionato e le donazioni da vivente hanno addirittura superato quelle cadaveriche. Da noi invece sono meno di un decimo. Il che rappresenta un problema anche dal punto di vista delle casse dello Stato: un paziente in dialisi costa al sistema sanitario nazionale tra i 50 e i 60 mila euro l’anno. Un trapianto di reni invece costa 40 mila euro "one shot", poi restano da pagare solo i farmaci immuno-depressivi".

 

Se lei fosse malato di reni a quale struttura si rivolgerebbe in Italia?

"Il centro della professoressa Luisa Berardinelli, al Policlinico di Milano, e quello con più tradizione ed esperienza. Ma ce ne sono molti altri ottimi".

 

Quindi non c’è bisogno di andare in America...

"Come risultati direi di no, ma per la tempistica purtroppo si. Al Jefferson Medical College di Philadelphia, ad esempio l’attesa è anche inferiore all’anno e mezzo. Per questo bisogna incentivare le donazioni qui da noi".

Lazio: Nieri; legge sulle carceri è un atto di giustizia e umanità

 

Roma One, 25 maggio 2007

 

"L’approvazione della legge in materia di interventi a tutela delle persone detenute nel Lazio mi riempie di orgoglio - è quanto dichiara Luigi Nieri, assessore al Bilancio, programmazione economico-finanziaria e partecipazione e primo firmatario della legge - . È un atto di grande umanità nonché di giustizia. Il Lazio si pone all’avanguardia nazionale sul difficile tema dei diritti civili e sociali. È una legge quadro che tocca tutti i punti della vita detentiva. È una legge ispirata a principi di equità e solidarietà. La sicurezza si costruisce assicurando legalità e diritti, dando fiducia. In questo modo avremo una comunità più coesa e meno rischi di fratture sociali. Ufficio Stampa Assessorato Bilancio Regione Lazio.

"L’approvazione della legge in materia di interventi a tutela delle persone detenute nel Lazio mi riempie di orgoglio - è quanto dichiara Luigi Nieri, assessore al Bilancio, programmazione economico-finanziaria e partecipazione e primo firmatario della legge - . È un atto di grande umanità nonché di giustizia. Il Lazio si pone all’avanguardia nazionale sul difficile tema dei diritti civili e sociali. È una legge quadro che tocca tutti i punti della vita detentiva.

È una legge ispirata a principi di equità e solidarietà. La sicurezza si costruisce assicurando legalità e diritti, dando fiducia. In questo modo avremo una comunità più coesa e meno rischi di fratture sociali. I diritti alla salute, al lavoro, alla formazione professionale, all’istruzione sono diritti costituzionali e universali.

Valgono per tutti, a prescindere dalla condizione reclusa o libera. Questo abbiamo voluto ribadire nella legge, prevedendo azioni e iniziative concrete, supportate da dichiarazioni di principio. Il tutto nel pieno rispetto delle prerogative statali. Ringrazio tutto il Consiglio per la discussione ampia, profonda, di qualità." La legge riguarda i 4.425 detenuti ristretti negli istituti penitenziari del Lazio (ad oggi la capienza regolamentare è di 4.629 unità) e si compone delle seguenti parti.

 

Sanità

 

La Regione Lazio si rende disponibile a prendersi cura della salute dei detenuti nel Lazio. Sino ad oggi la competenza è stata di esclusiva pertinenza del Ministero della Giustizia. La legge del 1999 prevedeva il passaggio di competenze della medicina penitenziaria dall’amministrazione penitenziaria alle Asl. Il passaggio era finora avvenuto solo per le tossicodipendenze. Ora, a seguito di protocolli di intesa, verrà assicurata l’integrazione dei servizi. La salute della popolazione detenuta, nel rispetto del principio della universalità delle prestazioni, sarà anche di competenza del Servizio Sanitario Nazionale che dovrà attrezzarsi a riguardo assicurando la prevenzione, la cura, la diagnosi, la terapia. In particolare dovrà essere prestata attenzione ai nuovi giunti, i quali sono maggiormente a rischio suicidario.

La Giunta regionale del Lazio dovrà inoltre approvare un progetto obiettivo triennale per la salute dei detenuti che prevede:

1) mappe di rischio e degli obiettivi di salute da raggiungere in ciascuno degli istituti con priorità per la prevenzione, per l’assistenza ai tossicodipendenti, ai minori e ai malati mentali

2) modalità organizzative del servizio sanitario presso gli istituti attraverso modelli integrati con la rete dei presidi e dei servizi sanitari regionali, differenziati sulla base della tipologia degli istituti

3) i criteri e le modalità per l’assistenza di base, specialistica e ospedaliera

4) i programmi di formazione e di aggiornamento specifico degli operatori, tenendo conto delle specificità professionali e delle tipologie assistenziali

5) programmi di assistenza medico-specialistica e di prevenzione a favore degli operatori, con particolare attenzione alle malattie professionali e ai rischi di chi opera a contatto con detenuti affetti da malattie infettive

 

Lavoro e formazione professionale

 

La legge intende favorire l’accesso al lavoro di persone in esecuzione penale promuovendo tra l’altro:

1) iniziative di sensibilizzazione verso i privati affinché assumano detenuti, in applicazione della legge 22 giugno 2000 n. 193 (Norme per favorire l’attività lavorativa dei detenuti).

2) misure di defiscalizzazione degli oneri sociali per chi assume persone detenute.

3) Si promuove la partecipazione di persone in esecuzione penale a programmi e iniziative, in particolare sotto forma di cooperazione, di imprenditorialità e autopromozione sociale. Previsti anche stage, tirocini, nonché altri percorsi mirati di lavoro.

Ogni anno infine la Giunta redige il piano annuale per la formazione professionale negli istituti. Il piano sarà preceduto da una ricognizione dei bisogni formativi della popolazione detenuta e terrà conto dell’offerta formativa pubblica e privata esistente e delle esigenze specifiche del mercato del lavoro.

 

Qualità della vita penitenziaria

 

Per migliorare la qualità della vita dei detenuti la Regione interviene:

1) sostenendo il ricorso a misure alternative, potenziando il sistema integrato di rete sociale.

2) Saranno inoltre finanziate attività culturali in coordinamento con l’amministrazione penitenziaria e favorito il diritto allo studio dei detenuti mediante la creazione di poli universitari.

3) Per favorire l’attività motoria dei reclusi ci si avvarrà del supporto di associazioni e organizzazione del settore e si procederà all’ammodernamento delle strutture sportive esistenti all’interno delle carceri.

4) Sono previste anche iniziative finalizzate a valorizzare la professionalità e a migliorare le condizioni di lavoro degli operatori penitenziari.

 

Personale

 

Si dispongono appositi finanziamenti in favore dei comuni per l’assunzione di educatori, mediatori culturali, psicologi e assistenti sociali da destinare alle attività individuate dall’ente locale per la rieducazione e il reinserimento sociale dei detenuti.

 

Regia per l’applicazione della legge

 

Viene istituito un tavolo interassessorile per il trattamento dei detenuti, composto dagli assessori al bilancio, politiche sociali, scuola, formazione professionale, lavoro, cultura, enti locali e sport. Il tavolo, di cui faranno parte anche i Garanti regionale e comunale, si riunirà entro i primi 3 mesi dell’anno al fine di approvare le linee di intervento e sarà coordinato dall’assessore agli Affari istituzionali Daniele Fichera.

Lazio: Prc; sicurezza sociale, un buon esempio dalla regione

 

Comunicato stampa Prc, 25 maggio 2007

 

 

Si plaude l’approvazione della legge sulla popolazione detenuta da parte del consiglio regionale del Lazio. Finalmente un’istituzione come la regione prende seriamente in considerazione la tutela della dignità dei detenuti durante l’esecuzione della pena e il percorso di reingresso in società.

Assicurare la tutela della salute è interesse non solo dei detenuti ma dell’intera collettività. Oggi il diritto alla salute in carcere è allo sfascio: è l’unico settore gestito ancora dal Ministero della giustizia nonostante la riforma Bindi del 1999 sancisca il definitivo passaggio al sistema sanitario nazionale e alle Regioni. In molte carceri non è assicurata la presenza dei medici h24, ci sono problemi per l’approvvigionamento dei farmaci e vi sono molti sprechi. Bisogna poi considerare che, seconda una nostra indagine sul campo, sul piano nazionale, si registra che oltre il 50% dei detenuti fa uso di psicofarmaci e sono diffuse in maniera abnormemente maggiore che nella società libera gli episodi suicidari o di autolesionismo così come malattie quali le epatiti e le malattie della pelle.

Per altro verso la legge interviene sull’avviamento al lavoro e alla formazione professionale di detenuti ed ex detenuti, ovvero aumenta le possibilità che gli interessati, una volta fuori, non commettano più reati e si dedichino ad attività lecite.

secondo le statistiche ufficiali, là dove intervengono le istituzioni e la società libera, come avviene nell’esecuzione delle misure alternative al carcere, il tasso di recidiva è del 19%. Chi invece esce dal carcere cade in un nuovo reato e nella conseguente carcerazione nel 68% dei casi.

La regione Lazio con questa legge, voluta fortemente dall’assessore al bilancio partecipato del PRC, Luigi Nieri, contribuisce quindi in maniera seria e rigorosa ad implementare la sicurezza urbana e sociale, sottraendo manovalanza alla criminalità attraverso percorsi di reinserimento partecipato dalle istituzioni e dalla società civile i cui benefici non possono che giovare anche alla tanto declamata sicurezza urbana. A dimostrazione che le politiche attive, preventive e di integrazione dei detenuti, come di altre categorie deboli, sono la vera risposta ai conflitti sociali. Ci auguriamo che anche le altre regioni seguano l’esempio laziale, considerando il carcere un luogo del territorio dove la garanzia dei diritti dei detenuti significa anche maggiore sicurezza urbana.

 

Imma Barbarossa (segreteria nazionale Prc)

Arturo Salerni (responsabile carceri Prc)

Gennaro Santoro (Coordinatore campagna Antigone - Prc "Il carcere dopo l’indulto")

Lazio: Arcigay; con nuova legge diritti anche ai partner di fatto

 

www.gay.it, 25 maggio 2007

 

È certamente più difficile in carcere la permanenza per le persone i cui legami affettivi e familiari non sono riconosciuti. La Regione Lazio ha approvato una nuova legge all’avanguardia.

Il Consiglio regionale del Lazio ha approvato un’innovativa legge quadro riguardante i diritti della popolazione carceraria che, per la prima volta, estende anche ai partner dello stesso sesso quel trattamento che finora era riservato esclusivamente ai detenuti eterosessuali. Basti pensare, ad esempio, al diritto di poter avere dei colloqui. Essi sono consentiti solo in caso di parentela o di matrimonio, che devono essere provati con certificati.

È evidente che questo tipo di normativa penalizza fortemente la popolazione gay, lesbica e transgender dal momento che in Italia le unioni che non siano matrimonio tra uomo e donna semplicemente per lo Stato non esistono, per cui è impossibile per certi detenuti anche solo poter parlare o vedere di tanto in tanto il partner, quando dello stesso sesso.

Il Presidente della regione Lazio, Piero Marrazzo, ha commentato l’approvazione dicendo che "il Lazio, con questa legge, si pone all’avanguardia in Italia. Una legge - ha spiegato - che è arrivata dopo un lungo iter che ha coinvolto molte commissioni consiliari, il garante dei detenuti Angiolo Marroni e i ministeri della Giustizia e della Salute." Marrazzo ha anche ricordato un recente appello lanciato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano durante una visita al carcere di Rebibbia, quando ha invitato ad attivarsi per un miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri.

Peppe Mariani, Presidente della Commissione lavoro e pari opportunità regionale, afferma in una nota che ci si impegnati "affinché la legge contenesse come cardine fondamentale questo diritto all’affettività, inteso come mantenimento dell’insieme dei rapporti e dei legami affettivi. Dopo un lavoro d’aula lungo ed estenuante la Regione Lazio ha iniziato il percorso per il riconoscimento dei diritti delle coppie di fatto, scavalcando il dibattito poco significativo e spesso elusivo mai arrivato all’approvazione dei Dico o dei Pacs.

Per la prima volta in Italia - conclude Mariani - è stata approvata una legge che consentirà non solo ai familiari dei detenuti, ma anche a tutta la comunità affettiva di mantenere relazioni sociali all’interno degli istituti di pena. Abbiamo abbattuto le prigioni mentali del pregiudizio e del rifiuto".

Positivi anche i commenti di Cesare Caiazza, segretario Cgil Roma e Lazio, Gianni Nigro, Segretario Generale della Fp Cgil e Salvatore Marra, responsabile dell’Ufficio Nuovi Diritti, che in una nota auspicano che "si crei un nuovo clima di solidarietà e integrazione anche per i tanti detenuti appartenenti a minoranze, in particolare i trans e gli omosessuali, che spesso sono stati e sono vittime di atti di violenza e discriminazione a causa della scarsa possibilità di mediazione nelle strutture di detenzione." Questo grazie a una legge che, sottolinea la Cgil, "ha come obiettivo il reinserimento sociale" dei detenuti.

"Siamo soddisfatti per questa legge - dice anche Fabrizio Marrazzo, presidente Arcigay Roma - che con il termine estensione dei diritti per le persone che hanno "una relazione affettiva", estende i diritti dei carcerati di coppie sposate anche alle coppie di fatto, senza distinzione di orientamento sessuale.

Questo è un primo passo verso la parità dei diritti delle persone lesbiche e gay, è la prima legge della Regione Lazio che estende diritti anche alle persone lesbiche e gay. Facciamo i complimenti alla Commissione Sicurezza, presidiata da Luisa Laurelli e Giuseppe Mariani, ed ai suoi membri, per aver elaborato tale emendamento" e "speriamo - conclude Marrazzo - che presto il riconoscimento delle relazioni affettive delle coppie di fatto, venga esteso a tutti i settori di competenza della Regione Lazio".

Caserta: Bruno Contrada in cella; ho 76 anni, morirò qui dentro

 

Il Mattino, 25 maggio 2007

 

Di colui che è stato prima, prima della condanna, c’è un solo segno visibile, il calendarietto della Polizia di Stato poggiato sul piccolo scrittoio della cella, la prima, proprio di fronte alla scalinata che porta all’ingresso del carcere. Sul comodino, una vecchia edizione de "Il resto di niente", testimonianza di una passione antica, quella per la storia della Rivoluzione antiborbonica del 1799 e per Eleonora Pimentel Fonseca.

"Lo sto rileggendo, l’ho preso qui in biblioteca", spiega, condividendo la sua conoscenza di Napoli, e di palazzo Serra di Cassano, con il parlamentare campano che è andato a fargli visita. Cortese, gentile, ha lo sguardo sconfitto del leone ferito che ritrova un baluginio di fierezza - quella che tante volte aveva catturato la telecamera durante il lungo processo di Palermo - e di curiosità quando chiede dei presenti, e accenna alla sua vita che fu.

Di poliziotto, di numero tre dei servizi di sicurezza, di uomo dei misteri d’Italia che un tribunale ha condannato a dieci anni per aver favorito la mafia. Bruno Contrada, detenuto eccellente del carcere militare "Andolfato" di Santa Maria Capua Vetere, dovrà trascorrere in quella stanza, grande e spoglia, i prossimi sette anni della sua vita. Non parla del processo, non parla della sentenza diventata definitiva il 10 maggio, accenna alla sua lunga detenzione a Forte Boccea ("Era quindici anni fa, lo sa?") - dal 24 dicembre del 1992, per trentuno mesi - solo per raccontare un episodio che lo aveva divertito, mettendo in imbarazzo la direzione di quel carcere: l’arrivo di un militare "transgender" per il quale non era prevista collocazione. Una battuta, un po’ di conversazione.

E l’occasione per una stoccata ai magistrati, che lo hanno accusato e giudicato, arriva mentre racconta a Pierino Squeglia, deputato della Margherita, del buon rapporto con il direttore del carcere, Antonio Del Monaco, e con la struttura militare. "Sembra impossibile ma è così: qui si riesce a coniugare la severità del regolamento carcerario e di quello militare con l’umanità. Non lo dico per fare un favore al direttore, che è qui presente, ma perché è così. Conosco bene l’ambiente delle carceri, lo conoscevo prima, per ragioni di servizio, quando vi entravo per lavoro, per esempio durante la rivolta a Termini Imerese, quando presero di mira Dalla Chiesa. Ho trovato persone che mettono l’uomo al centro della loro attività. Un’umanità che non hanno visto, non hanno riconosciuto, quegli uomini che indossano la toga nera". Parla a bassa voce, senza alterarsi, ma la rabbia si vede tutta.

E si vede anche dai pochi oggetti personali che ha portato con sé, il giorno che si è consegnato alla giustizia per scontare la condanna che ha sempre definito ingiusta, che ha sempre considerato come la vendetta degli uomini di Cosa Nostra contro chi li aveva inquisiti e fatti condannare. Sul tavolino c’è una cartellina color rosa scuro; a penna, visibile anche a distanza, il titolo: articoli di stampa sul processo. Li ha portati tutti in cella, per non dimenticare le tappe di una vicenda che gli ha stravolto l’esistenza, prima che la carriera. Chiede dei lavori del parlamento, si informa sulla nascita e sulla formazione del Partito democratico, sulla solidità del progetto politico.

Fa un breve cenno ai nipotini, nessuno ai compagni di processo - altri funzionari dello Stato - che hanno condiviso percorso giudiziario e condanna. A Santa Maria Capua Vetere ha però ritrovato un vecchio amico, Ignazio D’Antone, suo collaboratore nella questura siciliana e al Sisde, capo della squadra mobile a Palermo, pure condannato a dieci anni di reclusione per associazione mafiosa. È stato D’Antone il primo a vederlo, la settimana scorsa, dopo le 24 ore di isolamento imposte dal regolamento carcerario, a dividere con lui gli oggetti - soprattutto i libri - che conserva in cella.

Detenuto già da qualche anno (la sua sentenza, è diventata definitiva nel 2004), mentre studia per verificare la percorribilità della revisione, ora insegna diritto all’interno del carcere ai militari volontari che partecipano al concorso per la ferma triennale. Un percorso, quello del lavoro, che al momento a Contrada è precluso. Così come la scarcerazione anticipata per ragioni di età, vietata a chi è stato condannato per fatti di mafia. "Ho 76 anni, qui sono venuto a morire", dice a occhi bassi. "E loro lo sapevano".

Trieste: diritti di detenuti e vittime e carcere aperto al lavoro

 

Il Gazzettino, 25 maggio 2007

 

Diritti delle persone che si trovano in carcere, e diritti di chi vuole tutelata la giustizia. Moderno concetto di restrizione della libertà, e apertura del carcere al lavoro e al mondo del business. Sono questi i temi che l’Istituto Internazionale per i Diritti dell’Uomo ha affrontato nell’incontro in programma oggi, dalle 9.30, nell’Aula Magna dell’Università di Trieste.

Un incontro di estrema attualità e di grande valore sociopolitico ed economico, aperto al pubblico, che ha chiamato a raccolta docenti universitari, magistrati, direttori di carceri e rappresentanti delle istituzioni (dal rettore Francesco Peroni al prefetto Giovanni Balsamo, dall’assessore regionale alla Cultura Antonaz fino al Giureconsulto alla Corte europea dei diritti dell’uomo, Michele de Salvia), e che punta a riflettere su una serie di temi di primo piano: qual è il moderno concetto di pena detentiva, e come saranno le carceri del futuro?

Il programma del convegno prevede, dopo il saluto delle autorità, alle 9.30, la sessione scientifica, che coinvolgerà Enrico Sbriglia nella veste di segretario nazionale del Sindacato dei direttori penitenziari, il senatore Renato Meduri, il magistrato Fulvio Rocco e i docenti Fulvio Longato, Marco Cossutta e Pierpaolo Matucci.

Nella sessione pomeridiana parleranno i direttori del carcere di Capodistria e di Heilbronn, in Germania. A seguire, si svolgerà una tavola rotonda moderata da Riccardo Arena, direttore di Radio Carcere, alla presenza del presidente dell’associazione industriali Corrado Antonini e dei direttori delle carceri di Terni e Vercelli. Saranno esposti anche i capi di abbigliamento prodotti in un carcere con il marchio "Codice a sbarre".

Roma: "In tutte le direzioni", serie di spettacoli nelle carceri

 

Adnkronos, 25 maggio 2007

 

"Un progetto che permette alle carceri di essere non solo luoghi di recupero ma anche di cultura e della città ed a noi tutti di scoprire le carceri anche come luoghi di produzione culturale". Queste le parole con le quali Silvio Di Francia, assessore alle Politiche Culturali del comune di Roma, ha salutato la meritoria iniziativa dal titolo "In tutte le direzioni - Artisti dentro, in scena" grazie alla quale i cinque istituti di pena capitolini saranno animati per l’intero anno da spettacoli di musica, danza, teatro, cinema, letteratura e sport.

Una rassegna resa possibile dal contributo di artisti di spicco che hanno deciso di aderire esibendosi nelle carceri romane a titolo gratuito ed uniti dal medesimo stimolo. Grandi e numerosi nomi della cultura e dello spettacolo, da Carofiglio a Barbarossa, da Piovani ai fratelli Guzzanti, tutti uniti a regalare uno spaccato di vita attraverso la lente distorta ed affascinate della performance dal vivo, della cultura che si fa solidarietà.

"Pur privati della libertà, pur in condizioni di reclusione - ha aggiunto l’assessore Silvio Di Francia - sono sempre dei cittadini che non hanno perso, con lo scontare una pena, molte caratteristiche della personalità umana come l’accesso alla cultura, a momenti di svago ed alla possibilità di poter partecipare. Sono stati condannati dalla giustizia ad essere temporaneamente privati della libertà e non a vivere una vita spersonalizzata e d’inferno".

Svizzera: sono detenute, ma sono soprattutto mamme

 

Ticino on-line, 25 maggio 2007

 

Genitori detenuti, separati dai propri figli, con una verità che scotta. Chiusa la sezione femminile alla Stampa: madri trasferite in altri cantoni e lontane dalla famiglia.

Genitori detenuti e separati forzatamente dai propri figli. È una situazione che si trovano a vivere diverse mamme straniere e ticinesi. Tutte però si trovano nella medesima situazione: gestire il difficile e delicato rapporto con i figli. Dentro le mura, se il figlio ha meno di 3 anni. Attraverso incontri settimanali quando il figlio è più grande.

Come si fa a vivere la maternità o la paternità in un contesto come quello del carcere? Lo abbiamo chiesto ad Edith Cohen, psicologa e psicanalista, responsabile di un progetto all’interno del carcere la Stampa di Lugano.

 

Come si svolge e in cosa consiste il vostro lavoro con le madri e i padri detenuti?

Il progetto "Pollicino" si colloca nel campo della prevenzione di fenomeni come la rottura dei legami genitori-figli conseguente l’incarcerazione. La maternità e la paternità non si interrompono con la detenzione. La relazione coi genitori è un diritto per i bambini, perché ne va della costruzione della loro identità, della capacità di sapere chi sono e di mettere in atto delle relazioni positive.

I detenuti che sono interessati a questa proposta devono richiedere il colloquio, che può essere anche individuale oltre che familiare. Questo incontro li interroga sulla loro responsabilità verso la realtà esterna e verso i ruoli che hanno oltre a quello di carcerato. Spesso infatti prevalgono atteggiamenti di perdita di responsabilità e infantilizzazione dal momento che quasi ogni aspetto della propria vita è gestito dal penitenziario.

Pollicino è un luogo dove si cerca di ritornare se stessi, cioè soggetti: un padre, una madre, un figlio, prima che un detenuto, una sposa infelice, o un bambino solo.

 

Madri prima ancora che detenute. Fino ai 3 anni la possibilità di tenere il figlio con sé. La maternità è possibile in questo contesto?

Credo che non sia una maternità diversa da quella delle altre madri. È fondamentale per un bambino non separarsi fisicamente e psichicamente dalla mamma, nei primi mesi soprattutto. L’educazione non si ferma alle porte del carcere, è un processo che deve continuare anche qui. Il genitore deve essere un punto di riferimento importante a prescindere dal fatto che abbia commesso un reato. Un altro aspetto importante che avviene qui è la socializzazione tra le mamme che è un fattore positivo e che paradossalmente è più forte che all’esterno.

 

Ritiene giusto raccontare la verità ai figli sul perché ci si ritrovi detenute e lontane dalla famiglia?

Assolutamente sì. Lontani fisicamente non significa psicologicamente. La verità permette di salvaguardare la vicinanza psichica con il genitore. Il piccolo deve sapere dove si trova il genitore. Il "Dove" gli permette rappresentarsi, ovvero di pensare, la presenza di un genitore che c’è, esiste, non è misteriosamente scomparso e che può incontrare. È poter parlare e vedere che preserva dai traumi. La menzogna genera un conflitto tra quello che il bambino intuisce o gli dicono a scuola, e quello che gli viene raccontato, in altri termini traumatizza. Occorre però raccontare la verità con parole che è in grado di capire, non crude né brutali. Spiegargli ad esempio, che esistono regole che se vengono infrante ci sono certe conseguenze. Il problema non sono tanto le sbarre ma è il poter incontrare i propri genitori in un contesto reso dagli operatori "normale", più quotidiano. Il luogo di incontro è infatti una stanza colorata, accogliente, piena di giochi all’interno del carcere

 

Di recente la sezione femminile alla Stampa è stata chiusa. Che conseguenze ha avuto?

Dopo la chiusura dell’inchiesta, le donne vengono trasferite dal nuovo carcere preventivo la Farera, adiacente alla Stampa, ai penitenziari di altri cantoni. Le mamme che hanno una famiglia qui in Ticino devono, per ragioni di distanza, troncare o allentare notevolmente i rapporti con la famiglia.

 

Oppure chiedere di rimanere alla Farera…

La questione è che non è un contesto accettabile né pensato per portare in visita dei bambini né tantomeno idoneo per una permanenza stabile dei detenuti.

 

Il progetto Pollicino

 

Il progetto Pollicino è attivo nel carcere cantonale La Stampa di Lugano dal 23 aprile 1995 ed è nato a partire da un incontro tra alcuni membri dell’Associazione per la Prevenzione e l’Autonomia della piccola infanzia (Oasi) e l’Ufficio di Patronato del Cantone Ticino (Servizio Sociale della Giustizia); quest’ultimo è un servizio di controllo e di assistenza per il reinserimento sociale e lavorativo del detenuto ed il mandante è l’autorità giudiziaria. Lo spazio Pollicino è gestito da due operatori, il Dottor Gabriele Solcà e la Dottoressa Edith -Lea Cohen.

 

Per invio materiali e informazioni sul notiziario
Ufficio Stampa - Centro Studi di Ristretti Orizzonti
Via Citolo da Perugia n° 35 - 35138 - Padova
Tel. e fax 049.8712059 - Cell: 3490788637
E-mail: redazione@ristretti.it
 

 

 

 

 

Precedente Home Su Successiva