Rassegna stampa 29 giugno

 

Messina: un detenuto romeno di 38 anni si suicida in cella

 

Adnkronos, 29 giugno 2007

 

Un romeno di 38 anni si è tolto la vita nel carcere messinese di Gazzi. Cristian Francisc Butnaru si è impiccato nella sua cella con due lacci di scarpe. A scoprirlo un agente di custodia che stava effettuando la conta e che, trovato l'uomo, ha tentato di rianimarlo.

Il direttore del carcere, Calogero Tessitore, ha disposto il sequestro della cella numero 4 del piano terra. Il romeno era stato arrestato lo scorso 23 giugno dai carabinieri per violenza, resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento. Sarebbe dovuto comparire al processo per direttissima davanti al giudice monocratico Caterina Bagnato.

Giustizia: il carcere, popolato da uomini e donne come noi

di Daniele Barbieri

 

Liberazione, 29 giugno 2007

 

"Persone, non reati che camminano, ripensare la pena". Poche settimane fa dentro il carcere Due Palazzi di Padova giornalisti, politici, magistrati, studiosi e detenuti si sono incontrati per una importante "giornata nazionale di studi" così intitolata. È stata la giornalista (del Tg2) Daniela De Robert a condurre il dibattito: da anni è volontaria a Rebibbia e l’anno scorso ha pubblicato da Bollati Boringhieri "Sembrano proprio come noi. Frammenti di vita prigioniera".

È uno dei rarissimi libri che parla di galere con una conoscenza diretta e con curiosità non velata da ideologie. La spiegazione del titolo è in questo sintomatico racconto iniziale: "In carcere ci sono persone normali, uomini e donne come noi, ed è questo che colpisce subito nell’entrare per la prima volta. È uno schiaffo che arriva violento […] quando cerchi qualcosa di straordinario e incontri l’ordinario".

E poche righe dopo De Robert ci agghiaccia con quest’altro piccolo squarcio di carcerati e carcerieri: "Discutendo con un operatore del carcere, gli raccontavo l’emozione di un detenuto senza famiglia quando per la prima volta dopo tanti anni aveva visto di nuovo bambini correre, giocare, ridere. La sua risposta è stata: "Magari era un pedofilo". Forse i sentimenti dietro le sbarre fanno paura anche a chi li deve custodire". O forse le gabbie stanno soprattutto nelle teste.

Il bel libro della De Robert non ha avuto dai cosiddetti grandi media l’attenzione che meritava. Troppo controcorrente. Una ossessiva campagna stampa ora suggerisce e ora urla l’idea che chiunque si trovi a commettere crimini - evidentemente non quelli dei "colletti bianchi" per i quali c’è un trattamento di riguardo che oscilla fra omissioni e strizzata d’occhio - sia molto diverso da "noi", se non addirittura un mostro. E che il recupero sia impossibile.

Negli Usa la convinzione che se sbagli un paio di volte allora è meglio buttare via la chiave… è diventata legge: "Three Strikes and You’re Out" è l’espressione del baseball per indicare che al terzo colpo mancato il battitore viene eliminato ma ora è anche la regola con cui chi è ritenuto colpevole di tre crimini considerati gravi automaticamente viene condannato al carcere a vita, senza possibilità di condizionarle.

Elisabetta Grande ha appena pubblicato, per Sellerio, "Il terzo strike: la prigione in America", un libro importante anche perché molti considerano gli Usa, soprattutto per quel che riguarda la cosiddetta sicurezza, il nostro modello futuro.

Forse vi siete distratti e dunque non avete registrato che negli ultimi decenni gli Stati Uniti si sono trasformati in una gigantesca galera. In questo caso il libro della Grande vi sconvolgerà e probabilmente vi verrà voglia di indagarne i passaggi storici e le ragioni più profonde.

Bene non fatevi spaventare dalla mole e recuperate "Punire i poveri: il nuovo governo dell’insicurezza sociale" (Derive Approdi) di Loic Wacquant, uscito nell’ottobre scorso. Spiega nei minimi dettagli la svolta delle politiche penali in Usa negli ultimi decenni e la parallela deregulation economica. Come nei filmacci horror gli zombi che credevamo di aver sepolto resuscitano, ecco nel nostro mondo presunto razionale carceri e polizie ritrovare la loro funzione primitiva: piegare all’ordine economico - e morale - dominante.

La strombazzata lotta contro la delinquenza fa da schermo alla nuova (e censurata) questione sociale: i libri di Wacquant e della Grande non lasciano dubbi al riguardo. Due conti ed è evidente a tutti: i soldi tolti alle spese sociali servono a tirar su nuove galere. Triste necessità, si obietterà, per far fronte negli Usa a un’ondata di violenza criminale senza precedenti. Macché, i reati gravi sono in calo; se si arresta di più è per reati decisamente minori per i quali in passato era prevista solo una sanzione.

Torniamo in Italia. Oltre al meritorio libro della De Robert cosa c’è da leggere di serio? A fine 2006 l’associazione Antigone ha pubblicato (con Carocci) "Dentro ogni carcere", un’indagine dettagliata sui 208 istituti di pena italiani. Mentre l’ultimo rapporto - ha scadenza biennale - di Antigone andava in stampa, il Parlamento ha approvato l’indulto e dunque i numeri risultano decisamente superati.

Ma l’impianto dell’indagine e le analisi restano validi. In misura minore rispetto agli Usa ma anche in Italia la popolazione reclusa è in forte aumento. Il libro si chiude con proposte per i prossimi 5 anni: "Tutto quello che di buono può venire per le carceri italiane richiede il coraggio di scelte non necessariamente popolari, come l’indulto. Ma è popolare aumentare le tasse? Eppure a volte può essere giusto e necessario".

Al dettagliato rapporto di Antigone sulle nostre galere si potrebbe affiancare un caso particolare, talmente poco indagato che "Donne in carcere: una ricerca in Emilia Romagna" (edito da Franco Angeli) risulta il primo libro sulla specificità delle detenute - ma anche delle operatrici - fra istanze di reinserimento e pulsioni punitive o isolazioniste: un lavoro prezioso al quale avrebbe forse giovato una scrittura meno burocratica.

Questa veloce miscellanea si conclude con Studi sulla questione criminale (Carocci): nuova serie, quadrimestrale, di "Dei delitti e delle pene", sotto la direzione di Dario Melossi, Giuseppe Mosconi, Massimo Pavarini e Tamar Pitch. Nel primo numero, accanto a utilissimi saggi e ricerche sulla prevenzione della devianza, sulle politiche penali della destra, sulla criminalità dei potenti o sulla mafia, c’è Suvendrini Perera a porre una domanda inquietante: "Di che sesso è il panico da confine"? Ovvero come e perché le donne finiscono nei circuiti di sicurezza dello Stato, della localizzazione "e del nuovo (e vecchio) impero"?

Ogni volta che ci si trova a ragionare seriamente sulle cause della criminalità e il modo di combatterle riemergono le questioni sociali innominabili accanto all’uso strumentale delle statistiche ma persino delle parole. I dati statunitensi se ben letti dicono che i crimini gravi scendono se salgono le spese sociali non quando - come accade dal ‘95 in Alabama - si torna a mettere le catene ai piedi dei detenuti. La parola più usata è sicurezza: ma perché finisce sempre in compagnia di reati e mai associata al lavoro, al reddito, all’alloggio?

Giustizia: il volontariato; passare dalla vendetta al perdono

 

Redattore Sociale, 29 giugno 2007

 

Ferrari (Cnvg): "Fondamentale ridare significato a qualsiasi vita". Don Simonazzi: "È importante il dialogo. Per molti che sono in carcere il fatto di scontare la pena li induce a credersi a posto con la coscienza".

È entrato subito nel vivo il seminario "Quale giustizia tra vendetta e perdono (La società di fronte al carcere)", in corso ad Asiago fino a domani a cura del Seac e del Csv di Vicenza. Molti i temi messi sul piatto, gli spunti di riflessione sulla condizione dei detenuti, sul concetto di vendetta e quello di perdono. Un’unica, chiara visione: il carcere non è la risposta.

Lasciare vivere le persone in strutture ignobili, tuttora sovraffollate, figlie di una cultura di un secolo fa non è la soluzione che porta alla redenzione, al riscatto. È solo vendetta. Ma la vendetta non restituisce le vittime di un reato ai propri cari e comunque non annulla il dolore. Ecco perché c’è bisogno di lavorare a una mentalità nuova, che preveda la pena ma non la vendetta, che reinserisca le persone in società e non le abbandoni.

Tanto più che ad affollare le carceri non sono gli autori di reati gravi, di sangue: la stragrande maggioranza dei detenuti ha compiuto piccoli reati o infranto leggi, come quella sull’immigrazione attuale, che non lasciano scampo agli emarginati e ai borderline. A farsi portavoce di tutte queste istanze sono quelle persone che da anni lavorano all’interno del carcere come volontari. "Gli attuali penitenziari sono stati pensati in un secolo diverso e vanno rivisti - ha spiegato Livio Ferrari, fondatore della Conferenza nazionale volontariato giustizia, direttore del Centro francescano d’ascolto e in passato presidente del Seac -. Alcune cose possono essere tenute, altre cambiate. Bisogna rivedere sostanzialmente le politiche del Welfare perché non possiamo continuare a vivere in una società che mette in carcere chi non ce la fa. È fondamentale ridare significato a qualsiasi vita. Qui in Italia c’è una dimensione sociale in cui non si investe".

Don Daniele Simonazzi, ex presidente della Fondazione Effatà e cappellano dell’Opg di Reggio Emilia, ha portato ai volontari la propria esperienza di anni all’interno del manicomio criminale. "Io suggerisco di parlare di come passare dalla vendetta al perdono - ha detto, citando la storia di Caino e Abele a supporto delle sue parole -. Per raggiungere questo scopo serve prima di tutto il dialogo. Per molti che sono in carcere il fatto di scontare la pena li induce a credersi a posto con la coscienza".

Don Daniele ha sottolineato quindi come sia difficile il recupero, che "richiede un lavoro di conversione non indifferente. Un aspetto che va sottolineato è che all’Opg spesso le persone pregano per le loro vittime e le loro famiglie". Concludendo, ha aggiunto: "Dio crede negli agenti del reato più di quanto loro credano in se stessi. Passare dal perdono alla vendetta vuol dire osare di essere quello che Dio osa con noi".

Sergio Segio, responsabile della Società Informazione, ha invece insistito sull’indulto inteso come un "grande orfano", nato quasi per caso e disconosciuto da molti. "Ha lasciato purtroppo il posto al rancore sociale, che è palpabile, nato anche per mezzo di una stampa che tuttora gli è contraria".

Tuttavia, ha spiegato, "la recidiva è bassissima, le cifre sono incredibili". Ha poi riflettuto sul fatto che se prendiamo ad esempio il modello carcerario degli Stati Uniti "non possiamo che definirlo un grande internamento di massa, nel quale rimangono incastrati soprattutto neri e ispanici. Non possiamo prendere questo sistema ad esempio. In carcere al 90% ci sono i poveri, diventa un deposito di vittime, oltre che di carnefici". In chiusura, ha ricordato come "per le vittime il carcere non è un risarcimento".

Ferrari ha annunciato, presiedendo i primi interventi, che il prossimo novembre in occasione delle assise nazionali con il Ministero in materia di nuovo codice penale, i volontari di giustizia avranno voce in capitolo per spiegare, forti delle proprie esperienze, cosa deve essere necessariamente archiviato e cosa introdotto.

Giustizia: la triste storia di Fadi, un bambino nato prigioniero

 

Rivist@, 29 giugno 2007

 

Il 24 giugno scorso è venuto alla luce Fadi. La sua mamma, una giovane Rom di 23 anni che sconta un pena detentiva di sei mesi per furto, al momento della nascita era rinchiusa nel carcere romano di Rebibbia. La magistratura di sorveglianza non fa in tempo a confermare il trasferimento in ospedale della gestante, che le acque le si rompono fra le celle del carcere.

Il meglio che si è riusciti a fare è sistemare una sala parto nell’infermeria, nell’attesa che arrivasse un’ambulanza. La donna ha finito per partorire nell’infermeria del carcere dando alla luce un bambino. Reso difficile anche dalle complicazioni subentrate al ritardo dell’ambulanza, e dalle precarie condizioni di salute della madre, il parto ha purtroppo causato alcuni problemi alla madre e al bambino.

Trasportata d’urgenza all’ospedale Sandro Pertini per accertamenti immediati, la giovane rom viene subito dimessa e rispedita fra le mura di Rebibbia. Il neonato si trova attualmente all’ospedale Bambin Gesù, venuto al mondo con gravi malformazioni congenite è in prognosi riservata, senza che alla madre sia stata data la possibilità di vederlo, almeno per adesso.

Riportiamo qui di seguito l’interpellanza dell’On Paola Balducci, relatrice della proposta di legge recante "disposizioni per la tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori" (n. 528), al ministro della giustizia: "da quanto è emerso dalle prime ricostruzioni, sembra infatti che la giovane detenuta fosse in carcere dal 6 di giugno di quest’anno per scontare una pena a soli sei mesi di reclusione per furto aggravato, e che, durante la breve detenzione, era stata inoltrata la richiesta di applicazione della c.d. legge Finocchiaro; non essendo intervenuta risposta da parte della magistratura di sorveglianza, la donna - già alla quarta gravidanza - ha finito per partorire nell’infermeria del carcere femminile di Rebibbia, prima ancora dell’intervento dell’ambulanza che avrebbe dovuto portarla in ospedale; ci si deve allora chiedere se una solerte applicazione della legge avrebbe potuto evitare questo triste episodio. Vorrei rammentare che, secondo il combinato disposto degli artt. 146, n. 1, c.p. e 684, 1° comma, c.p.p., il tribunale di sorveglianza deve provvedere in ordine al rinvio della pena, che è obbligatorio "se deve aver luogo nei confronti di una donna incinta"; d’altro canto, il 2° comma, prima parte, dell’art. 684 c.p.p. prescrive che "quando vi è fondato motivo per ritenere che sussistono i presupposti perché il tribunale disponga il rinvio, il magistrato di sorveglianza può ordinare il differimento dell’esecuzione, o se la protrazione della detenzione può cagionare grave pregiudizio al condannato, la liberazione del detenuto […]"; il quadro normativo vigente delinea quindi, da un lato, l’obbligatorietà del rinvio della pena ai sensi dell’art. 146 c.p., e, dall’altro, la possibilità che il magistrato di sorveglianza possa attivarsi, anche prima dell’intervento del tribunale, al fine di ordinare il differimento dell’esecuzione; ci chiediamo, quindi, come sia possibile che una donna prossima al parto possa essere tenuta in carcere per oltre venti giorni, e poi essere costretta a partorirvi, quando la legge italiana rende obbligatorio il rinvio della pena; attualmente nel carcere romano di Rebibbia vivono altre donne in stato di gravidanza, che daranno alla luce delle giovani vittime di un sistema che non pare cercare una soluzione.

Una proposta di legge è stata presentata al Parlamento, ma l’attuale realtà è quella di molti bambini che vivono la carcerazione assieme alle loro madri. Una cella che può essere umida, fredda e certamente poco idonea alla crescita di un neonato. Non sono rari i casi di danni psicologici e traumi infantili, che questi bambini si porteranno dietro per tutta la vita, pur loro mal grado. Lo Stato dovrebbe intervenire immediatamente, iniziando ad applicare quanto previsto dal codice penale, e dalle norme sulla tutela dei minori, presenti da tempo nell’ordinamento italiano. Nell’attesa che venga approvata una Legge che dia "pari dignità agli individui" come disposto dall’art 3 della Costituzione Italiana.

Giustizia: Mastella; se c’è ostruzionismo "fiducia" sulla riforma 

 

Il Campanile, 29 giugno 2007

 

Per il Guardasigilli Mastella il provvedimento ha bisogno dell’apporto di tutti e se ci sarà collaborazione da parte dell’opposizione non occorre "arrivare alla fiducia o dimezzare il dibattito" in Parlamento

La tregua è stata siglata. Ma per una vera pace in grado di far camminare spedita a Palazzo Madama la riforma Mastella dell’ordinamento giudiziario serve ben altra volontà. Dopo essersi coperto il fianco a "sinistra" con l’intesa raggiunta fra governo e maggioranza nel corso di una riunione chiesta e ottenuta proprio dal Guardasigilli, il ministro di via Arenula deve farsi carico del fronte parlamentare di "destra". In sostanza, Mastella apre al confronto con l’opposizione ma a determinate condizioni: la riforma della giustizia "ha bisogno dell’apporto di tutti", osserva, e se ci sarà collaborazione "non c’è voglia di arrivare alla fiducia o di dimezzare il dibattito". Ma qualora "emergessero elementi ostruzionistici, sarò costretto a fare cose che non vorrei fare".

Insomma, spiega Mastella, occorre "realizzare la riforma con grande equilibrio senza ledere la dignità dei soggetti protagonisti dell’ordinamento giudiziario". Quindi, "spero che tutto possa avvenire con il concorso delle opposizioni", trovando "da parte della maggioranza la piena consapevolezza delle ragioni del governo e viceversa". Così com’è accaduto mercoledì. Con l’intesa dell’altro ieri, infatti, l’esecutivo ha rinunciato a "buona parte dei propri emendamenti", come ha spiegato Mastella, lasciando inalterato il testo del relatore del provvedimento, il bertinottiano Giuseppe Di Lello, laddove prevede per i magistrati il vincolo di poter chiedere di cambiare funzioni per non più di quattro volte durante la carriera e ogni cinque anni.

Mentre per quanto riguarda l’obbligo di cambiare regione (oltre che distretto di Corte d’appello) se si vuole passare da una funzione ad un’altra, questo resta. Ma con una sola eccezione: se dalla funzione requirente si passa a quella giudicante nel settore civile. Vale a dire che se un magistrato decide di passare dalla funzione di pm a quella di giudice, potrà evitare di abbandonare la regione in cui ha abitato sino a quel momento solo se diventerà giudice civile. Solo se, insomma, non si occuperà più di penale.

Intanto sul fronte della lotta al terrorismo, il ministro Mastella fa sapere di aver "immediatamente invitato i vertici del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria a verificare se si siano determinate eventuali disfunzioni o negligenze sulla possibilità di controllare, nel rispetto della normativa vigente, la corrispondenza attribuita ad alcuni presunti brigatisti che, detenuti, scriverebbero dalle celle messaggi di stampo terroristico".

Il Guardasigilli inoltre sottolinea che, "laddove i controlli preventivi sulla corrispondenza dei detenuti siano stati disposti secondo la legge ed evidenzino elementi rilevanti", è "competenza dell’autorità giudiziaria decidere se tale corrispondenza possa essere inoltrata o meno". La richiesta di controlli arriva dopo che il capogruppo dell’Udc alla Camera Luca Volontè aveva sollecitato un intervento del ministro sottolineando che una lettera del Br Davide Bortolato era stata pubblicata da un sito.

Sofri: procura chiede i domiciliari, la sorveglianza si riserva

 

Ansa, 29 giugno 2007

 

Il tribunale di sorveglianza di Firenze si è riservato di decidere su un ulteriore differimento dell’esecuzione della pena per Sofri. La richiesta di concedere all’ex leader di Lotta continua la detenzione domiciliare speciale per sopravvenuta malattia è stata avanzata dal procuratore generale nel corso dell’udienza.

La decisione è attesa per i prossimi giorni. Nel caso in cui la richiesta del Pg venisse accolta, Sofri - condannato a 22 anni di carcere per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi, avvenuto il 17 maggio del 1972 - sconterebbe la pena nella sua abitazione nei pressi di Firenze e potrebbe partecipare ad avvenimenti pubblici dopo autorizzazione. Sofri, difeso dall’avvocato Alessandro Gamberini, ha già beneficiato a più riprese del differimento della pena dopo gli interventi chirurgici subiti per la rottura dell’esofago avvenuta nel novembre del 2005 durante il periodo di detenzione nel carcere pisano don Bosco.

Nel giugno del 2005, Sofri venne autorizzato al lavoro esterno dal carcere, da svolgere alla Scuola Normale di Pisa. Dopo l’operazione subita il 26 novembre del 2005, l’ex leader di Lotta continua aveva beneficiato del differimento della pena, che gli permise di essere assistito fuori dal carcere, ma che - a differenza della detenzione domiciliare - non consentiva all’ex leader di Lotta continua di continuare a scontare la pena, sospendendola soltanto.

Il provvedimento è stato poi prorogato nell’aprile e nel dicembre del 2006. In quest’ultima occasione, su richiesta del ministero della giustizia, la procura generale ha chiesto una perizia medica su Sofri. La richiesta di stamani del Pg si è basata, così come avverrà per la decisione del Tribunale di Sorveglianza, sulla perizia medica su Sofri e sulla compatibilità del suo stato di salute con la carcerazione. In base a quanto appreso, la perizia non escluderebbe la persistenza di rischi per la salute di Sofri.

Coppola: concessi gli arresti domiciliari all'immobiliarista

 

Il Giornale, 29 giugno 2007

 

Il tribunale del Riesame ha concesso gli arresti domiciliari a Danilo Coppola. A renderlo noto sono gli avvocati Bruno Assumma e Antonio Fiorella, legali dell’immobiliarista. Coppola lascia così il carcere dopo quasi quattro mesi di detenzione, trascorsa tra Regina Coeli e Rebibbia. Il collegio del riesame, presieduto da Carmelo Asaro, ha preso atto delle conclusioni dei periti d’ufficio secondo cui lo stato di salute dell’imprenditore è incompatibile con il regime carcerario.

L’imprenditore romano era stato arrestato dalla Guardia di Finanza il 1° marzo scorso con l’accusa di bancarotta, riciclaggio e appropriazione indebita. "Sto male, non riesco a mangiare, se mi lasciano ancora dentro muoio". Aveva detto queste cose al deputato dell’Italia dei Valori Silvana Mura, nell’incontro avvenuto il 25 giugno scorso nel carcere romano di Rebibbia raccontato dal numero in edicola domani de "L’Espresso".

"Cosa vogliono da me? Ho fornito spiegazioni a ogni domanda, non mi sono mai avvalso della facoltà di non rispondere. Perché non mi fanno uscire? Mi stanno annientando", dice l’ex re del mattone che, per le sue precarie condizioni di salute, più volte nelle scorse settimane ha chiesto gli arresti domiciliari.

E ancora: "Ho subito 104 giorni di isolamento, non ho commesso alcun crimine che lo giustifichi. C’è un accanimento nei miei confronti, ma io dico: prendetemi tutto il patrimonio, sequestratemelo, ma non perseguitatemi. Preferirei tagliarmi le dita della mano piuttosto che rimanere altri 4 giorni in carcere". "Se esco dal carcere me ne vado all’estero - giura - non voglio più avere niente a che fare con quello che succede qui".

Ricoverato nella sezione psichiatrica dell’infermeria del carcere (ha tentato il suicidio dopo l’arresto, soffre di anoressia oltre a essere claustrofobico), accusato di associazione per delinquere, appropriazione indebita e riciclaggio (ma è indagato pure per le scalate Antonveneta e Bnl), quando ha incontrato l’esponente dell’Idv Coppola si trovava nella cosiddetta area verde, uno spazio aperto attrezzato riservato per le visite familiari ai detenuti con figli di età inferiore ai sei anni.

E lì, sotto un gazebo, ai 40 gradi della torrida estate romana, la Mura lo aveva trovato sofferente: maglietta aderente e pantaloni della tuta, dimagrito da far paura ("Quando si gira puoi contargli le vertebre" racconta l’onorevole), un ematoma sulla testa conseguenza di una caduta in cella (secondo la madre avrebbe una doppia frattura, alla fronte e al naso), sguardo assente.

Venezia: un progetto-lavoro per voltare le spalle al carcere

 

Il Gazzettino, 29 giugno 2007

 

Un progetto dell’agenzia Italia Lavoro con Province e Comuni aiuta gli ex detenuti usciti grazie al "perdono". È già partito a Venezia e verrà esteso anche ad altre aree italiane.

Il primo ostacolo da superare è il tempo. Per chi è stato abituato a lasciare scorrere le lancette dell’orologio dietro le sbarre, rispettare un appuntamento ogni giorno è un problema. Il secondo, strano a dirsi, è legato alla prima busta paga.

"Quando arriva il primo stipendio - spiega Sandro, tutor di alcuni speciali neo-assunti - possono venire a galla vecchi problemi". Come la tentazione di affogare in un bicchiere le insidie della libertà. Per loro, del resto, quello della vita libera è un concetto da assaporare a piccoli sorsi. Alle spalle si sono lasciati una condanna e, da pochi mesi, l’indulto. La vera sfida, tutto sommato, è cominciata dopo, quando dopo avere azzerato i conti con la giustizia si sono trovati ad affrontare altri problemi: la casa, la famiglia, i soldi.

A loro, duemila "indultati" usciti dal carcere e residenti nelle 14 aree metropolitane del Paese, si rivolge il progetto avviato, un po’ in sordina, da alcuni mesi a questa parte, grazie a Italia Lavoro (braccio operativo dei ministeri del lavoro e della Giustizia) e di una rete costituita dalle Province, dai Comuni di residenza con i relativi servizi sociali, dall’Ufficio esecuzione penale e dal sistema delle cooperative.

"Mission" del progetto, favorire l’occupazione degli ex carcerati che hanno beneficiato dell’indulto, attraverso un percorso di formazione che porti i soggetti a svolgere un tirocinio nelle aziende che hanno dato la loro disponibilità. Un’operazione complessa, se si considerano soltanto le dimensioni del problema. Alla fine di maggio nell’area metropolitana di Venezia risultano uscite dal carcere grazie all’indulto 265 persone, 141 delle quali italiane. "Di queste - spiega Simonetta Randi - coordinatrice per Italia Lavoro del progetto veneziano - finora siamo riusciti a rintracciarne 114".

Circa la metà di questi aveva già trovato un’occupazione, mentre il 10-12 per cento è tornato in carcere. "Ma è ai soggetti più fragili - prosegue Adriano Fanzaga, responsabile regionale di Italia Lavoro - che si rivolge il nostro progetto di recupero". Con risultati che, a circa due mesi dall’avvio ufficiale, cominciano ad arrivare: sono già una decina le persone che, grazie alla cooperazione fra gli enti locali, i servizi e le cooperative sociali, hanno trovato una nuova occupazione.

I soldi li mette lo Stato, attraverso un assegno mensile ai tirocinanti di 450 euro. Le aziende, in cambio della loro disponibilità, non devono pagare neppure i contributi Inail e la responsabilità civile. E nel caso che il tirocinio si trasformi in un lavoro stabile, alle imprese spetta un ulteriore contributo a fondo perduto di mille euro.

A fare il primo passo, però, dev’essere chi ha voltato le spalle al carcere. "La prima cosa da fare è rivolgersi ai Centri per l’impiego - prosegue Simonetta Randi - Poi entra in campo la rete dell’agenzia, dei servizi sociali e degli enti locali, per valutare la disponibilità del soggetto e le sue attitudini, compresa l’abitudine ai ritmi del lavoro".

Contemporaneamente si sonda il terreno in campo imprenditoriale, con un occhio di riguardo per le cooperative associate a Confservizi, Lega coop e Confcooperative. Se domanda e offerta coincidono, si organizza un incontro: "Le aziende - sottolinea la coordinatrice del progetto - sono garantite dalla presenza di un tutor che, per tutta la durata del tirocinio, segue il lavoratore nel suo percorso lavorativo.

E in ogni caso è garantita la possibilità di recesso". Un’eventualità che, per adesso, non si è verificata. "Dalle aziende semmai sono giunti segnali di disponibilità - prosegue Randi - come nel caso di chi, pur non essendovi tenuto, ha pagato al lavoratore i buoni pasto e l’abbonamento dell’autobus".

Siracusa: i dolci dei detenuti-pasticceri vanno negli autogrill

 

Redattore Sociale, 29 giugno 2007

 

L’iniziativa è della cooperativa sociale "L’Arcolaio", dal 2004 è socia di Libera, che attualmente gestisce il panificio-biscottificio del carcere.

Con l’aiuto della cooperativa sociale "L"Arcolaio" alcuni detenuti producono biscotti alle mandorle e al pistacchio nonostante si trovino reclusi presso il carcere di Siracusa. La cooperativa sociale "L’Arcolaio" impegna, attualmente, sei detenuti che come operai realizzano pane, biscotti e merendine da agricoltura biologica.

Questi prodotti con il marchio "Dolci evocazioni" fra pochi giorni usciranno dalla Casa circondariale per essere distribuiti sul territorio nazionale all’interno della Rete autogrill. La cooperativa sociale L’Arcolaio è nata nel 2003, con l’obiettivo di creare attività di inserimento lavorativo all’interno della Casa Circondariale di Siracusa. Dal 2004 la cooperativa è socia di Libera. Attualmente gestisce il panificio-biscottificio del carcere, mentre sono in fase avanzata di programmazione una tessitoria e coltivazioni agricole biologiche.

L’iniziativa è solo il primo risultato del progetto Asis, presentato presso l’hotel La Torre di Mondello e collegato al programma nazionale di recupero dei soggetti con esperienze carcerarie del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia.

Lo scopo principale del progetto Asis è quello di creare una rete tra i diversi operatori presenti sul campo per affrontare e risolvere il problema del reinserimento sociale dei detenuti; un azione di sistema finalizzata all’inclusione sociale dei soggetti in esecuzione penale che vede coinvolti Regione, Enti locali, prefetture, associazioni di volontariato e cooperative e mira a realizzare un forte partenariato socio-economico istituzionale.

"Lavoriamo nel profondo convincimento - ha dichiarato Gianfranco De Gesù vicario del provveditore regionale per la Sicilia - che bisogna operare non sugli esclusi ma sugli inclusi". Il progetto del Dipartimento Amministrazione penitenziaria, in Sicilia coinvolge cinque consorzi di cooperative che puntano su una progettazione comune e non personalizzata per i soggetti svantaggiati.

A Piana degli Albanesi, ad esempio, dieci giovani tossicodipendenti, si sono affiancati ad alcuni maestri calzaturieri per apprendere, in tre anni, l’intero processo di produzione delle scarpe. L’obiettivo è quello di far nascere una cooperativa per il confezionamento di calzature d’alta moda per donne. L’idea è anche quella di auspicare la creazione di imprese che possano coinvolgere le persone in esecuzione penale sia all’interno che all’esterno delle carceri.

Il primo risultato del progetto si è avuto proprio con i prodotti dolciari dal marchio "Dolci evocazioni" realizzati dai detenuti della casa circondariale di Siracusa. Il progetto Asis prevede un percorso formativo con diversi tipi di attività che si svilupperanno nel giro di una anno. Fra le iniziative, sono previsti sette workshop regionali, ventuno corsi formativi specialistici e un convegno di presentazione dei dati finali.

I diversi momenti formativi consistono in 45 ore per ogni regione interessata, mirano a creare risorse in grado di intercettare fonti di finanziamento comunitarie, nazionali e regionali, ad applicare tecniche di progettazione integrata per il reinserimento dei detenuti, a lavorare in rete per la gestione delle risorse e delle iniziative rivolte ai soggetti svantaggiati.

Torino: il carcere non paga bolletta dell'acqua da tre anni

 

La Stampa, 29 giugno 2007

 

E poi dicono che la legge è uguale per tutti. C’è un utente molto particolare, a Torino, che da quasi tre anni non paga la bolletta dell’acqua senza incorrere nel destino riservato ai privati: l’interruzione della fornitura.

Il privilegio è riservato alla casa circondariale "Lorusso e Cotugno", nota ai torinesi come il carcere delle Vallette: 1.177 detenuti, a cui si aggiunge il personale di custodia, con un consumo annuale di un milione 400 mila metri cubi di acqua praticamente gratis. Qualcosa come un miliardo 400 milioni di litri l’anno. È così dal 2005. Il risultato sta nei conti della Smat, l’azienda fornitrice, che ha calcolato 3 milioni 989 mila euro di bollette non pagate. Una cifra imponente, comprensiva degli interessi di mora sull’imponibile (dal 3 al 7% a seconda dell’anzianità del debito). Stesso discorso per la fornitura di energia elettrica: da "Iride" non danno cifre ma confermano fior di arretrati.

Ne sa qualcosa Pietro Buffa, il direttore della casa circondariale, costretto a dipendere dai finanziamenti che arrivano da Roma e moroso suo malgrado. È l’ennesima dimostrazione dell’insolvenza dello Stato: un problema trasversale ai settori più disparati, ciascuno dei quali chiama in causa il ministero di riferimento. Nel caso specifico, a non pagare, o a pagare con tempi biblici, è quello di Grazia e Giustizia, già in debito con il Comune per le spese relative al funzionamento della cittadella giudiziaria. Mentre da qualche tempo il Viminale comincia a fare i conti con l’insofferenza della Provincia per i ritardi nel pagamento degli affitti relativi ai palazzi che da decenni ospitano Questura, Prefettura e Caserma Bergia.

Sono soltanto alcuni esempi di un quadro molto più ampio, documentato da La Stampa nei mesi scorsi e via via integrato da nuove sorprese. Tanto per rendere l’idea, i debiti di Stato maturati negli anni dai vari ministeri ammontano a 18 milioni 653 mila euro verso Palazzo civico e a 2 milioni 197 mila verso la Provincia. La Regione, che rivendica 3 miliardi di mancati trasferimenti statali, deve vedersela essenzialmente con il Tesoro.

La situazione della Smat - in credito per 400 mila euro verso altre utenze pubbliche (caserme, guardia di finanza, vigili del fuoco) - dimostra come il problema non sia un’esclusiva degli enti locali ma coinvolga anche i fornitori. "L’unica differenza è che, in questi casi, non possiamo interrompere il servizio come accade per i privati - commenta sconsolato Paolo Romano, amministratore delegato dell’azienda -.

Tre milioni e rotti di bollette non pagate su un bilancio di annuale di 200 non saranno una tragedia, d’accordo, però incidono sulla nostra liquidità. Quel che è peggio, si tratta di una cifra destinata ad aumentare". Dopo una lunga trattativa l’azienda e il Ministero, tramite la direzione del carcere, avevano concordato un anticipo di 500 mila euro: alla fine ne sono arrivati soltanto 148 mila. "Non vorremmo essere costretti a rivalerci sul Ministero in Tribunale", aggiunge Romano.

L’ipotesi non scandalizza il Comune, che in Smat ha una partecipazione del 40% (al quale si aggiunge un altro 23 tramite l’Azienda Acquedotto Municipale in liquidazione). "L’insolvenza dello Stato, unita ai vincoli imposti dal Patto di stabilità, si traduce in una grossa ipoteca sulla liquidità degli enti locali - commenta l’assessore Gianguido Passoni (Bilancio) -. Ormai è uno dei principali problemi da discutere sul fronte della finanza locale". Paghi oggi, riscuoti dopodomani: hai voglia a restare sul mercato.

Modena: il teatro-carcere tra i finalisti del Premio "Ustica"

 

Redattore Sociale, 29 giugno 2007

 

Importante riconoscimento per il progetto-spettacolo di reinserimento sociale di detenuti curato dal Teatro dei Venti di Modena, insieme ad Arci e con il sostegno della Provincia e del Comune di Modena.

Non ha vinto il premio "Ustica per il teatro", che ha incoronato "San Bernardo" (Provenzano) di Claudia Puglisi, ma è arrivato comunque tra gli otto finalisti su oltre 200 lavori presentati. Parliamo di "Frammenti", il progetto-spettacolo di reinserimento sociale di detenuti curato dal Teatro dei Venti di Modena insieme ad Arci e con il sostegno della Provincia e del Comune di Modena.

Gjoni Alkedi, Giorgio Ciavarella, Ciro Lista e Francesco Mitrano sono neo-attori che hanno passato gli ultimi anni della loro vita in prigione. "Frammenti" è uno studio teatrale che mette in scena, fondendoli tra loro, stralci di memorie d’infanzia, frustrazioni, gioie, rabbie e bisogno di riscatto di questo gruppo di detenuti del carcere di Castelfranco Emilia. Con ironia, poesia e leggerezza, i quattro raccontano le tappe che segnano il percorso verso la delinquenza. Il riconoscimento, rivolto a giovani artisti e a progetti inediti di spettacoli incentrati sui temi dell’impegno civile e sociale e della memoria, è stato assegnato mercoledì sera al teatro Manzoni di Bologna, in occasione del ventisettesimo anniversario del disastro aereo del Dc9 Bologna-Palermo, in cui persero la vita 81 persone, avvenuto il 27 giugno 1980.

Anche questa seconda edizione del premio è stata promossa dall’Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica e dall’associazione Scenario con il sostegno, per la finale, dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna, Fondazione Carisbo, Accademia Perduta/Romagna Teatri e Teatro Due Mondi.

Stati Uniti: dentifricio tossico distribuito in carceri e ospedali

 

La Repubblica, 29 giugno 2007

 

Dopo la scoperta da parte delle autorità sanitarie Usa che una partita di dentifricio cinese tossico è entrata negli Stati Uniti, i consumatori americani sono stati messi in guardia sulla diffusione di quel prodotto in alcuni ipermercati.

Ora si scopre che il dentifricio pericoloso ha avuto una diffusione molto più larga. 900.000 tubetti di dentifricio (contaminati con un veleno usato in certi fluidi anti-gelo, il diethylene glycol) sono stati distribuiti negli ospedali psichiatrici, nelle prigioni, negli istituti di rieducazione per minorenni e anche in alcuni policlinici che accolgono ogni tipo di pazienti. Secondo le autorità sanitarie americane il dentifricio sarebbe pericoloso soprattutto per i bambini e per le persone affette da malattie del fegato e dei reni. Da The New York Times di oggi.

 

 

Segnala questa pagina ad un amico

Per invio materiali e informazioni sul notiziario
Ufficio Stampa - Centro Studi di Ristretti Orizzonti
Via Citolo da Perugia n° 35 - 35138 - Padova
Tel. e fax 049.8712059 - Cell: 349.0788637
E-mail: redazione@ristretti.it
 

 

 

 

 

Precedente Home Su Successiva