Rassegna stampa 28 giugno

 

Giustizia: sulla riforma trovata l'intesa governo - maggioranza 

 

Il Sole 24 Ore, 28 giugno 2007

 

Governo e maggioranza hanno ritrovato l’intesa sulla riforma dell’ordinamento giudiziario. Ieri mattina, durante una riunione di maggioranza convocata a Palazzo Madama dal ministro della Giustizia Clemente Mastella, l’Esecutivo ha accettato di ritirare "buona parte" dei suoi sub emendamenti al testo del relatore Giuseppe Di Lello.

E così, in serata, la commissione Giustizia ha approvato l’intero articolo 2, compreso il nodo spinoso della separazione tra giudici e pm: i magistrati che vorranno cambiare funzioni (da giudice a pm, e viceversa), non potranno farlo per più di quattro volte nell’arco della loro carriera e solo ogni cinque anni, cambiando Regione.

Si è deciso, però, di ritirare (per ripresentarlo eventualmente in Aula) l’emendamento che consentiva ai pm che vogliano passare a fare i giudici civili di non doversi trasferire in un’altra Regione: la modifica, spiega il diellino Roberto Manzione, potrebbe comportare problemi organizzativi nei Tribunali più piccoli, ai quali bisognerà prima trovare una soluzione.

Oggi saranno votati gli articoli 3 e 4, riguardanti la Scuola e la presenza degli avvocati nei Consigli giudiziari per valutare la professionalità dei magistrati in vista della loro progressione in carriera. Su quest’ultimo punto, Governo e maggioranza (con l’eccezione di Manzione) hanno deciso di modificare il testo del relatore, lasciando gli avvocati fuori dai Consigli giudiziari (rimarrà invece il presidente del Consiglio nazionale forense a far parte del Consiglio direttivo della Cassazione).

"È l’ennesimo pateracchio", ha fatto sapere Oreste Dominioni, presidente dell’Unione delle Camere Penali, che ha già proclamato tre giorni sciopero contro la riforma, il 3, il 4 e il 5 luglio, in concomitanza con il dibattito in Aula sul Ddl. Non si sbilancia, per ora, l’Associazione Nazionale Magistrati, che però ha immediatamente convocato il Comitato direttivo centrale per il 3 luglio, allo scopo di valutare l’articolato uscito dalla commissione Giustizia.

Nella seduta pomeridiana di ieri, la commissione ha approvato alcune importanti novità. Sono passate all’unanimità, ad esempio, due modifiche proposte da Gerardo D’Ambrosio, senatore Ds: la prima consente a un magistrato di diventare giudice monocratico soltanto dopo aver superato una prima valutazione di professionalità, cioè dopo quattro anni dall’ingresso in magistratura; la seconda prevede che chi è stato in una sede disagiata per almeno cinque anni ha la priorità assoluta nel chiedere il trasferimento.

Ma, a parte il consenso su questi due emendamenti, sul resto l’opposizione minaccia ancora di mettersi di traverso. Lo ha preannunciato Roberto Centaro di Forza Italia, accusando il Governo di aver trovato "l’ennesimo compromesso" solo "per tener buoni i magistrati", mentre l’Udc, con il capogruppo Francesco D’Onofrio, ha definito "molto importanti" le decisioni prese. Quanto basta per ridare respiro alla prospettiva di un’approvazione della riforma senza incidenti. "C’è bisogno dell’apporto di tutti - ha detto Mastella -. Se non c’è volontà ostruzionistica non ci sarà neppure alcuna voglia di dimezzare il dibattito e arrivare al voto di fiducia".

Giustizia: Cnvg; comunicato sulla riforma del Codice penale

 

Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, 28 giugno 2007

 

Riservare il carcere a coloro che veramente rappresentano un pericolo grave per la società dovrebbe essere una scelta condivisa da tutti coloro che aspirano ad un più alto senso della giustizia.

La bozza di riforma del Codice penale licenziata dalla Commissione Pisapia introduce importanti e innovativi criteri di sanzione, in cui ad una pena che ha essenzialmente lo scopo di rendere il male per il male, si preferiscono sanzioni differenziate, non necessariamente detentive, guardando all’autore del reato e alle lacune che questi deve poter colmare per essere socialmente riabilitato. In un momento in cui si parla di moratoria contro la pena di morte, la proposta di abolizione dell’ergastolo, contenuta nella citata bozza di riforma e da lungo tempo sostenuta da numerose componenti sociali, s’inserisce come un ulteriore coraggioso auspicio per un salto di civiltà.

L’ergastolo infatti, cioè la pena senza fine, la lenta morte civile, è un non senso, rispetto ai contenuti rieducativi demandati alla pena dalla Costituzione, che neppure sottili interpretazioni possono rendere accettabile. Non si tratta di "buonismo" né di "perdonismo ad ogni costo", ma di voler seguire le vie della ragione e della giustizia tracciate da insigni statisti che appartengono alla illuminata tradizione giuridica cattolica, contraddetta nei fatti da chi oggi ne rivendica le stesse radici.

Giustizia: dopo-indulto; le carceri sono di nuovo sovraffollate

 

Redattore Sociale, 28 giugno 2007

 

A fronte di una capienza di 42mila persone, siamo a quota 44mila detenuti. Ferrari: "Il numero cresce perché non sono state modificate leggi ingiuste, come quella sull’immigrazione". Ad Asiago seminario del Seac.

Arriva l’indulto e le carceri si svuotano, ma le vecchie leggi rimangono. Così dopo pochi mesi le strutture penitenziarie tornano a riempirsi e il numero dei detenuti supera nuovamente la capienza delle strutture. Eccoci tornati in pochi mesi alla situazione pre indulto. I dati diffusi a fine maggio parlano chiaro: a fronte di una capienza di 42mila persone si è già quasi arrivati a quota 44mila detenuti. Per la precisione 43.700. E non è tutta colpa dell’indulto se la gente torna dietro le sbarre.

Livio Ferrari, fondatore della Conferenza nazionale volontariato giustizia, direttore del Centro francescano d’ascolto e in passato presidente del Seac, spiega: "Il numero dei detenuti sta crescendo in quanto non sono state ancora modificate leggi assolutamente ingiuste e lesive dei diritti di diversi soggetti. Si pensi ad esempio a quella sull’immigrazione che porta in carcere chi non ha il permesso di soggiorno, oppure a quella che tocca i tossicodipendenti. Insomma, sono soprattutto le persone "borderline" a fare le spese di un sistema che non funziona e che va modificato. Questa gente che già ha vite difficili non dispone di strutture di accoglienza nel territorio". Il loro numero non è irrisorio come si potrebbe pensare, ma, parlando in termini percentuali, si assesta intorno al 10% della popolazione carceraria.

Troppo facile, dunque, pensare che il numero dei detenuti sia tornato a crescere a causa dei rientri in cella da parte di quelle stesse persone che avevano beneficiato dell’indulto solo un anno fa. "Questa è solo propaganda politica. La cifra dei rientri è assolutamente normale, piuttosto bassa. Non è questo il problema".

Con i numeri che salgono si ripresenta anche il problema della gestione delle strutture: "Le carceri continuano ad essere luoghi invivibili sia dal punto di vista umano e soprattutto igienico, dove la giustizia lascia il posto alla vendetta sociale" insiste Ferrari.

Di tutto questo si parlerà nei prossimi giorni ad Asiago dove oggi inizia il 29° Seminario di Studi organizzato dal Coordinamento Nazionale Seac, dal titolo "Quale giustizia tra vendetta e perdono (La società di fronte al carcere)", finanziato e patrocinato dal Centro di Servizio per il Volontariato di Vicenza, in collaborazione la Caritas Diocesana Vicentina, la Conferenza Regionale Volontariato Giustizia del Veneto, il Centro Sportivo Italiano di Vicenza e il Centro Documentazione Due Palazzi di Padova.

"I volontari - conclude Ferrari - si confronteranno in queste giornate con magistrati, professori universitari, operatori del settore e rappresentanti dell’amministrazione penitenziaria per comprendere quali sono le priorità, le cose da fare urgentemente e in concreto, per uomini e donne che sono sempre più abbandonati al loro destino, in un carcere che continua ad essere una pattumiera umana".

Giustizia: "Radio Carcere" scrive all’Associazione Magistrati

 

www.radiocarcere.com, 28 giugno 2007

 

Illustre Segretario dell’Associazione nazionale magistrati, giovedì 15 giugno la pubblicazione, sugli organi di stampa, delle intercettazioni delle telefonate, intercorse tra l’ing. Consorte e l’on. D’Alema, ha segnato la vita politica di quest’ultimo. A prescindere dalla legittimità dell’operato della magistratura, si deve registrare che da più di un decennio l’azione della magistratura, soprattutto attraverso la pubblicazione di atti giudiziari, ha inciso sulla vita politica del Paese. Tangentopoli. L’avviso di garanzia recapitato al presidente del consiglio Silvio Berlusconi, mentre coordinava a Napoli la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla criminalità organizzata. I processi per associazione a delinquere e omicidio al senatore Giulio Andreotti. Sono solo alcuni esempi.

Si deve inoltre notare che negli ultimi anni il raggio d’incidenza si è esteso anche ai rapporti economici. Le dimissioni del Governatore della Banca d’Italia. Antonveveta, Bnl, Parmalat, Cirio e Telecom. Anche questi sono solo degli esempi. Il potere giudiziario non ha tralasciato nulla. Neanche vallette e calcio. Il Commissario tecnico della nazionale era stato sul punto di rassegnare le dimissioni prima dei mondiali di calcio a seguito di una indagine giudiziaria. Un fenomeno sicuramente non fisiologico. E peraltro non circoscritto solo ad alcuni casi.

I maggiori eventi politici ed economici del paese sono stati quasi tutti determinati o, quanto meno, influenzati da provvedimenti giudiziari. Non fisiologico, ma patologico, perché l’azione giudiziaria esplica i suoi effetti non con provvedimenti definitivi, quali le sentenze, ma con atti d’indagine, quali avvisi di garanzia, ordinanze, sequestri ecc., i quali non dovrebbero avere efficacia al di fuori del processo penale. Patologia degenerativa.

Se infatti inizialmente l’azione della magistratura coinvolgeva persona sospettate di avere commesso un reato, attualmente coinvolge persone estranee alla commissione di esso. Lapalissiane sono le intercettazioni D’Alema-Consorte e le dichiarazioni di Ricucci. Le domande poste a Ricucci e le sue risposte non sembrano avere rilevanza per l’indagine e ricordano più un intervista che un interrogatorio. Un fenomeno patologico di cui si deve prendere atto e che deve essere prontamente estirpato. È necessario che al più presto l’azione della magistratura sia ricondotta nell’alveo del processo penale, che l’indagine sia ristretta ad ipotesi di reato e non diventi un indagine sulla persona o sull’operazione economica.

È necessario che le sorti di un Politico siano determinate da un giudizio politico o da un giudizio penale definitivo. In altre parole non deve essere una intercettazione, peraltro non inerente a fatti di reato, a determinare le sorti di un uomo, ma le sue evidenti responsabilità politiche. È necessario che l’intera magistratura rifletta al fine di evitare che il travalicamento dei confini assegnati a ciascun potere continui. E forse si potrebbe iniziare dall’evitare che atti d’indagine, non sentenze, siano pubblicati. Non di bavaglio si tratta ma di un atto civile.

Giustizia: risposta Associazione Magistrati a "Radio Carcere"

 

www.radiocarcere.com, 28 giugno 2007

 

Nella lettera aperta di mercoledì scorso Radio Carcere (cui dà voce il suo animatore, Riccardo Arena) rivolge ai magistrati italiani domande spinose. Ci chiede in particolare se, a partire dalla stagione di tangentopoli, i magistrati - "a prescindere dalla legittimità" del loro operato nei singoli casi - non abbiano compiuto indebite incursioni in campi non loro e determinato impropri condizionamenti della normale dialettica politica.

Sono domande che interpretano un modo di sentire diffuso nel mondo politico e nell’opinione pubblica e non voglio dare una risposta elusiva o formale. Ma mi chiedo: è davvero possibile discutere del ruolo istituzionale dei magistrati prescindendo dalla legittimità dei loro atti? La risposta è un "no" secco e senza esitazioni. Qualche esempio varrà meglio di ogni discorso astratto. È diventato uno sport nazionale ricercare coincidenze "inquietanti" tra atti giudiziari e vicende della vita politica del paese. Ma agli interrogativi su queste coincidenze si risponde verificando se l’atto giudiziario incriminato sia stato effettivamente adottato nel momento in cui "doveva" esserlo secondo i tempi propri del processo penale. A meno di non voler suggerire ai magistrati di buttare a mare i codici e di muoversi solo secondo valutazioni di opportunità politica.

Ancora: pensiamo al tema scottante delle intercettazioni, oggi al centro di dure polemiche. Qui più che altrove è necessario esercitare l’arte della distinzione. Vi sono infatti intercettazioni criminali - effettuate da privati a scopo di ricatto e di condizionamento della vita pubblica - che i magistrati devono reprimere con determinazione. Intercettazioni legali , autorizzate dal giudice, che devono essere semplicemente distrutte, perché irrilevanti ai fini processuali. Ed infine intercettazioni legittime , indispensabili per l’accertamento di gravi reati, da rendere pubbliche solo in vista e nel corso del dibattimento e che non devono fornire materia ad autorevoli quotidiani o a giornaletti specializzati in vip e vallette. In questa selva intricata non si può navigare a vista, ma occorre seguire la bussola delle regole legislative, chiedere che esse siano corrette e perfezionate quando si rivelano lacunose e far pagare il conto a quanti le violano, a cominciare dai magistrati e dai poliziotti.

Teniamoci dunque ben stretti al canone della "legalità" nel valutare atti e comportamenti dei magistrati se non vogliamo smarrire il confine tra fisiologia e patologia dell’intervento giudiziario e finire con il consigliare ai magistrati di muoversi…. secondo regole di compatibilità politica. Altra cosa è rivendicare che la cultura e l’azione dei magistrati siano sempre ispirati al rispetto delle garanzie dei cittadini, al principio della separazione tra i poteri, al senso della realtà e del limite. Il paese ha bisogno di magistrati consapevoli di maneggiare strumenti duri ed invasivi - ad es. le misure cautelari, i sequestri, le perquisizioni, le intercettazioni - accettabili solo se usati per accertare fatti gravi e tutelare interessi vitali.

Serve perciò un giudice intelligente, geloso della propria indipendenza ma capace di sorvegliarsi e di agire senza forzature interpretative e senza disinvolture , come il primo garante delle libertà di tutti. Naturalmente anche il magistrato intelligente di cui parliamo non potrà evitare gli attriti e le reazioni che la sua doverosa azione determina nel corpo della società né garantire che essa produca sempre benessere e felicità.

La storia istituzionale è ricca di esempi di atti "legittimi" che producono effetti diversi da quelli desiderati dal legislatore e determinano conseguenze politiche negative o addirittura disastrose per la collettività. Ma i magistrati non sono giacobini o rivoluzionari che pretendono di essere i veri interpreti degli interessi del popolo. E non devono divenire una variabile politica autonoma ed incontrollabile, che trae dai suoi convincimenti regole virtuose da imporre ai cittadini o lo spazio per mediazioni politiche in vista del bene comune.

Ad un giudice, dunque, non si può dire, neppure con le migliori intenzioni, "datti una regolata"; ma solo " rispetta le regole".

 

Nello Rossi - Segretario generale dell’Associazione Nazionale Magistrati

Giustizia: domande di "Radio Carcere" rimaste senza risposta

di Giuseppe Frigo (Avvocato - Unione Camere Penali)

 

www.radiocarcere.com, 28 giugno 2007

 

Di reali o anche solo apparenti "incursioni" nella vita politica ed anche in quella economica da parte della magistratura, pur attraverso attività formalmente legittime o addirittura dovute, si parla da troppo tempo e in troppe occasioni per potere - ahimè - risolvere il problema con un pur doveroso richiamo al rispetto della legalità, il cui concetto sembra ormai essere quasi sfuggente, quando si è costretti a constatare quanto grande sia ormai la forbice tra il cosiddetto diritto vivente (quello delle prassi, magari avallate autorevolmente dalla giurisprudenza "creativa" anche della Cassazione o più semplicemente così consolidate da imporsi nell’inerzia generale) ed il diritto degli enunciati normativi, per quanto espresso da precetti non ambigui.

Sono decenni che si accetta impunemente che si pubblichino nomi di persone iscritte nel registro degli indagati o destinatarie di un’informazione ironicamente chiamata "di garanzia"; tutto con il pretesto che sfuggirebbero al segreto d’indagine (ma non a quello d’ufficio); e che si diffondono in vario modo i contenuti di intercettazioni di comunicazioni o conversazioni, solo perché si omette ormai generalmente la "udienza stralcio", che si dovrebbe tenere appena conclusa l’attività, e si depositano indiscriminatamente i risultati insieme a tutti gli altri atti al termine delle indagini. Ma sono alcuni tra gli esempi più banali.

L’attento e calibrato dosaggio delle informazioni sugli atti di indagine, come si ripete nella provocatoria lettera di Radio Carcere, ha consentito indubbiamente in numerosissimi casi di stroncare (o tentare di stroncare) carriere politiche prima di qualsiasi accertamento giudiziale di una responsabilità, secondo le regole del giusto processo; non solo, ma in casi sempre più numerosi ha alterato trattative economiche, finendo per imporre scelte diverse da quelle conseguibili secondo la libertà del mercato o addirittura incidendo sull’andamento dei titoli in borsa. A volte può bastare la notizia di una perquisizione o di una ispezione del tutto legittima nella sede di una società quotata per determinare un deprezzamento del suo titolo azionario (salva poi una ripresa alla notizia dell’esito infruttuoso dell’atto).

Verrebbe voglia di trattare chi ne avesse profittato come l’autore di un aggiotaggio … per via giudiziaria.

Certo, il tempo dell’atto ha la sua influenza. Ma si deve tenere conto che non esiste quasi mai, specialmente nella fase delle indagini, un tempo determinato e, quindi, "dovuto". Se compierlo e quando, è scelta ineliminabilmente discrezionale ed esso sarà sempre formalmente legittimo, anche se arriva, per così dire, a orologeria durante una campagna elettorale o in coincidenza con un grande evento politico presieduto dal destinatario dell’atto stesso o in occasione di una delicata trattativa per l’acquisizione di una banca.

L’unico antidoto sarebbe "blindare" l’informazione sull’atto, incriminando seriamente la fuga di notizie e anche, in ogni modo, la violazione del divieto di pubblicarle. E prima di invocare, pur necessari o opportuni aggiornamenti delle norme, si dovrebbe cercare di applicare seriamente quelle esistenti e di perseguirne la inosservanza.

Ma a chi scrive risultano impuniti e neppure perseguiti i casi di manifesta illiceità (si pensi solo alla pubblicazione integrale di tutte le trascrizioni di polizia delle intercettazioni svolte nell’indagine c.d. di "calciopoli").

Neppure risultano aperti procedimenti a capo di responsabili di uffici di polizia o giudiziari anche solo per agevolazione meramente colposa di rivelazione o utilizzazione di segreti d’ufficio. Ed essendo questo fatto un delitto, non potrebbe forse dirsi ricettatore chi riceva consapevolmente una copia abusiva di un atto e poi ne diffonda il contenuto? Nessuno ci ha neppure provato a svolgere indagini, tutto avviene nella convinzione generale della piena liceità in nome di una pretesa libertà di informazione, che, invece, non solo altera, anche profondamente, la vita politica ed economica, ma anche (ed è l’aspetto più grave) quella giudiziaria.

Infatti, almeno in molti e significativi casi, la fuga di atti d’indagini, la rivelazione del loro contenuto, la produzione degli effetti "extragiudiziari" perseguiti dai diffusori, rendono ormai inutile lo svolgersi regolare del seguito del procedimento penale, che gli interessati per primi tendono a chiudere con riti c.d. alternativi, nella consapevolezza generale dell’inutilità di quello che, secondo legge, sarebbe il vero luogo dell’accertamento penale: il dibattimento (il giudizio si è già fatto sui media e… la sete è stata adeguatamente soddisfatta insieme agli interessi di chi in questo modo finisce per strumentalizzare la stessa magistratura).

Giustizia: intercettazioni; serve cambiare le prassi, non la legge

di Giulio Romano (Componente Consiglio Superiore della Magistratura)

 

www.radiocarcere.com, 28 giugno 2007

 

Giorni fa su queste pagine un giudice della Cassazione ha segnalato un’interpretazione delle norme sull’uso delle intercettazioni in procedimenti diversi da quello in cui sono state autorizzate, che ne fa dubitare della costituzionalità. Condividendo tale opinione. mi sono chiedo: come sia possibile che le autorità che di volta in volta si confrontano con dette norme ne diano un’interpretazione quanto meno discutibile?

Per provare a dare una risposta torna utile la distinzione tra teoria e pratica ripercorsa, partendo da Kant, da Gustavo Zagrebelsky in una sua lezione di recente pubblicazione. Si spiega che teoria e pratica dovrebbero camminare insieme ma che in realtà le loro strade si possono dividere e che la prevalenza dell’una o dell’altra dipende dal settore di applicazione. Così nel mondo della morale in teoria è facile individuare il giusto ma poi in pratica si fa altro. Nelle scienze accade il contrario: il modello teorico può apparire perfetto, ma rivelarsi errato alla prova dei fatti. Qui è il modello che deve arrendersi al dato empirico. Come stanno le cose nel difficile mondo delle intercettazioni telefoniche.

La teoria. La Costituzione è chiara: la libertà e la segretezza delle comunicazioni sono inviolabili. Ci possono essere eccezioni, vale a dire casi in cui altri valori sono ritenuti preminenti, ma esse devono essere individuate dalla legge prima e autorizzate poi dal giudice di volta in volta. La legge ha provveduto; un articolo del codice che regola il processo penale ha stabilito che se si tratta di indagare per reati di particolare gravità si può violare, con l’autorizzazione del magistrato, la segretezza delle comunicazioni, vale a dire intercettarle ed usarne il contenuto nel relativo processo. Ma si possono utilizzare altrove le informazioni ottenute? Lo stesso articolo dà una risposta negativa, salvo che si tratti di dover accertare un altro grave delitto.

La pratica. Nel corso di intercettazioni relative ad un reato grave possono emergere circostanze tali da far applicare a qualcuno una misura di prevenzione, vale a dire una di quelle misure restrittive che riguardano persone che non hanno commesso un reato specifico ma che per una serie di ragioni sono pericolose; stando alla teoria non si potrebbe far uso delle intercettazioni, quindi niente misura di prevenzione, ma in questo modo un individuo pericoloso rimarrebbe incontrollato. Magari allora si dice: poiché la legge disciplina l’uso delle intercettazioni solo nei procedimenti penali, in quello di prevenzione, che è cosa diversa e peculiare, si possono utilizzare. Poco importa che, poiché la legge detta l’eccezione, per tutto il resto dovrebbe rimanere la regola, vale dire il principio costituzionale dell’inviolabilità; poco importa perché nello specifico la finalità è certamente condivisibile. Nel diritto a volta la pratica può dover prevalere sulla teoria.

Ma il vaso di pandora è aperto; delle comprensibili ragioni di un caso si perdono le tracce mentre il principio derogatorio circola: in procedimenti diversi da quello penale le intercettazioni possono essere utilizzate. Il principio attira l’interesse di altri organi con poteri decisionali che tra un’interpretazione (quella dell’inutilizzabilità) in grado di bloccare le proprie attribuzioni ed un’altra che invece permette loro di esercitarle sino in fondo, scelgono la seconda. In questo modo si assiste ad una serie di decisioni provenienti da autorità diverse che, pur motivando variamente il ricorso alle intercettazioni, in buona sostanza dicono che si può fare perché qualcun altro già lo ha fatto ma non affrontano, e tanto meno risolvono, il nodo della regola costituzionale e dell’unica eccezione tassativamente prevista dalla legge. A questo punto la stessa magistratura, che nell’utilizzare le intercettazioni per perseguire un delitto si trova a captare conversazioni che ad esso sono estranee ma che possono servire altrove, non sa più come valutarne rilevanza e destino. Così se al telefono confesso un reato grande ed uno piccolo e poi dico che nell’andare a commetterli sono passato con il rosso e mi sono fermato a trovare un’amica, le intercettazioni saranno utilizzate per il reato grande, non tenute in considerazione per quello piccolo, magari sfruttate dalla polizia municipale per farmi la multa e da mia moglie per chiedere il divorzio.

Se tutto ciò coglie nel segno, ecco allora che per cambiare le cose occorre che tutte le istituzioni prendano consapevolezza del fenomeno e riflettano sui limiti alle proprie attribuzioni costituito dal precetto costituzionale; altrimenti cambiare solo la legge sarà un po’ come colui che, dopo aver inutilmente sparato con una pistola ad un fantasma, riprova con un cannone.

Ergastolo: Pisapia; abolirlo non significa aiutare i boss mafiosi

 

Liberazione, 28 giugno 2007

 

Non è ammissibile attendere non meno di otto mesi solo per passare gli atti dall’aula di primo grado a quella dell’appello". Reduce dal titanico lavoro di riforma del codice penale, che prevede abolizione dell’ergastolo, introduzione di nuovi sistemi diretti ad assicurare la certezza e l’effettività delle sanzioni, ampia depenalizzazione, forti limitazioni alla discrezionalità dei giudici, riduzione dei tempi dei giudizi - Giuliano Pisapia interviene sulla lunghezza dei processi che si celebrano nelle aule di giustizia italiane. Un’idea chiara la sua: la mancanza della "ragionevole durata del processo" pone una questione di rispetto dei diritti costituzionali e da armi a chi brandisce e invoca meno garanzie per l’imputato.

 

Troppo garantismo allunga i processi nelle aule di giustizia?

L’indagine presentata dall’Eurispes è chiarissima. La lunghezza dai processi non deriva da cavilli che non esistono, né dal sacrosanto rispetto delle garanzie, ma solo ed esclusivamente da una macchina che non funziona e su cui si dovrebbe incentrare l’interesse del governo.

Basti considerare che bisogna attendere almeno otto mesi per far passare gli atti dell’aula processo di primo grado all’aula del processo di appello. Inammissibile in uno stato di diritto. Senza contare che tutto questo alimenta i pretesti usati in modo strumentale per attaccare le garanzie degli imputati.

 

La riforma del codice penale potrebbe aiutare a snellire?

Io credo che depenalizzare alcuni reati oppure affidarsi ad altri istituti quali la "messa in prova", che permette di verificare senza passare per i tre gradi di giudizio ma attraverso strumenti che possono accertare la non reiterazione del reato, siano strumenti utili. Senza contare che nella gran parte dei casi passano i tre gradi di giustizia e si arriva ad una sentenza assolutoria, oppure, nel migliore dei casi, ad una pena che in ogni caso non viene scontata perché ritenuta inutile. Un altro strumento potrebbe essere dato dal principio dell’irrilevanza del fatto, ovvero quando il comportamento è occasionale e permette di adottare una formula che in altri ordinamenti ha funzionato. Ovviamente se poi il soggetto dovesse reiterare il reato, in quel caso la punizione sarebbe tradizionale. Poi bisogna puntare alla pena equa, una pena che può "soddisfare" anche l’imputato che in questo modo evita di impugnare la condanna per puntare alla prescrizione, cosa che accade nella gran parte delle impugnazioni. Insomma, possiamo immaginare tre punti fondamentali: rilevanza del fatto, messa in prova per i reati non gravi, pene non severe ma eque e non per forza di cosa detentive.

 

Nella sua riforma del codice penale si parla di abolizione dell’istituto dell’ergastolo. Nel mondo dell’antimafia c’è una certa diffusa preoccupazione…

Purtroppo in un progetto di codice composto da 68 articoli, si è preso un singolo comma di un articolo. Non si è tenuto conto del resto insomma. Vorrei specificare che quel comma è supportato per esempio dalla confisca dei beni mafiosi che se approvata sarebbe ci porrebbe all’avanguardia rispetto a tutti gli stati moderni. Vorrei inoltre ricordare che l’ergastolo esiste da sempre e la mafia non è stata debellata. Tutti concordano sul fatto che si deve incidere sul problema di beni della criminalità organizzata. Se ci soffermiamo su mezzo articolo non si capisce l’impostazione generale e la filosofia dell’intero progetto di riforma.

Detto questo è evidente che la mia è un proposta tecnico-giuridica, su cui dovrà esprimersi il Parlamento. A questo punto mi auguro che questo non divenga il pretesto per affossare tutta l’ipotesi di riforma. Vorrei infine sottolineare che l’altro giorno, a Siracusa, si sono riuniti molti professori, molti giuristi che hanno trovato utili gli strumenti offerti dal nuovo codice per la lotta alla mafia.

Ergastolo: Bongiorno (An); servono pene certe ma non senza fine

 

Liberazione, 28 giugno 2007

 

In processo che dura dieci anni non solo non soddisfa la persona offesa, ma si rivolge contro un imputato che in cosi tanti anni è diventato una persona completamente diversa". Giulia Bongiorno, la stakanovista delle aule di tribunale, l’angelo custode di Giulio Andreotti nei processi di mafia e responsabile giustizia di AN, sorprende: "Sono contraria all’ergastolo e l’indulto senza amnistia non ha senso".

 

Come si esce dal buco nero dei tempi della giustizia?

A volte, quando si parla di giustizia, si parla di un problema che non ci riguarda o ci riguarda solo quando tocca qualcuno di noi o un nostro familiare. In realtà non è così, penso per esempio all’economia.

 

In che senso?

Ormai i grandi investitori, prima di venire in Italia vanno dai legali e chiedono cosa succede, per esempio, in caso di un appalto non saldato.

 

E cosa succede?

Passano dieci anni prima che ricevano il debito e quindi è chiaro che queste grandi imprese hanno tutto l’interesse a non investire in Italia.

 

C’è chi parla di eccesso di garantismo…

I processi si rinviano da un anno all’altro e questo non può essere ascritto ad un problema di garantismo. Il primo problema è dato dalla congestione dei processi.

 

Altri accusano l’indulto...

Con l’indulto stiamo facendo una serie di processi finti, quelli relativi ai reati commessi entro il 2 maggio del 2006. L’amnistia avrebbe estinto il reato e quindi evitato il processo. L’indulto cancella la pena però il processo va avanti quindi il paradosso è che in un sistema giustizia congestionato, si fanno processi finti.

 

Quindi lei sarebbe favorevole all’amnistia?

Io credo che gli interventi, condivisibili o meno, devono avere una loro coerenza. Doveva essere presentato un pacchetto di riforma organico. Fare un indulto in questo modo non è servito a nulla se non creare nuove ferita alle vittime.

 

Forse in Italia ci sono troppi reati puniti penalmente. Cosa pensa della riforma del codice penale presentata da Pisapia?

Sono favorevole alla depenalizzazione di alcuni reati. A mio avviso la vera priorità è la riforma del Codice di procedura penale. In ogni caso sono convinta che la riforma del Codice penale serve.

 

Rifondazione sta lottando, piuttosto isolata, per abolire l’ergastolo. Lei cosa ne pensa?

In Italia la pena deve avere un funzione rieducativa. Rieducare significa accompagnare il soggetto nell’inserimento della società. L’idea di dire ad una persona "stai in carcere tutta la vita" è incompatibile con questa finalità; quindi io sono per una pena certa ma, non per una pena senza fine.

Polizia penitenziaria negli Uepe: preparato decreto interministeriale

 

Redattore Sociale, 28 giugno 2007

 

Il 4 luglio la discussione con l’amministrazione penitenziaria. Il Sappe: "Se la pena evolve verso soluzioni diverse da quella detentiva, anche la polizia dovrà spostare le sue competenze al di là delle mura del carcere".

Le organizzazioni sindacali del settore della giustizia hanno ricevuto oggi lo schema di decreto interministeriale del Ministro della Giustizia, di concerto con quello dell’Interno, finalizzato a disciplinare il progetto che prevede l’utilizzo della polizia penitenziaria all’interno degli Uffici di esecuzione penale esterna (Uepe).

Il Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, organizzazione più rappresentativa della Categoria con 12mila iscritti) comunica che lo schema di decreto sarà discusso con i vertici dell’amministrazione penitenziaria in una riunione già fissata per il prossimo 4 luglio alle ore 10.30. Nello schema del decreto interministeriale è indicato, tra l’altro, che il progetto partirà in forma sperimentale in Puglia, Lazio, Campania e Sicilia, in ragione delle attuali risorse umane e strutturali delle Regioni, e che "l’ampliamento delle misure alternative alla detenzione costituisce indirizzo politico del Governo".

Sulla questione la segreteria generale del Sappe, valutando molto favorevolmente lo sviluppo operativo e professionale dei compiti del Corpo, afferma: "Il decreto prevede molto chiaramente quale sarà il ruolo della polizia penitenziaria negli Uffici per l’esecuzione penale esterna, e cioè svolgere in via prioritaria rispetto alle altre forze di Polizia la verifica del rispetto degli obblighi di presenza che sono imposti alle persone ammesse alle misure alternative della detenzione domiciliare e dell’affidamento in prova. Se la pena - continua il Sappe - evolve verso soluzioni diverse da quella detentiva anche la polizia penitenziaria dovrà spostare le sue competenze al di là delle mura del carcere.

Il controllo sulle pene eseguite all’esterno, oltre che qualificare il ruolo della Polizia Penitenziaria, potrà avere quale conseguenza il recupero di efficacia dei controlli sulle misure alternative alla detenzione, aprendo la strada alle soluzioni che sono già allo studio della Commissione Pisapia per la riforma del codice penale. Efficienza delle misure esterne e garanzia della funzione di recupero fuori dal carcere potranno far sì che cresca la considerazione della pubblica opinione su queste misure, che non vengono attualmente riconosciute come vere e proprie pene. Essere contro questo futuro professionale per il Corpo vuol dire essere miopi o in malafede, soprattutto chi dice e pensa che i Poliziotti Penitenziari negli Uepe debbano fare solamente gli autisti, i centralinisti, gli uscieri…".

Lettere: detenuti da varie carceri scrivono a Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 28 giugno 2007

 

53 persone detenute nel 3° Raggio del carcere di San Vittore di Milano

"Caro Arena, Siamo detenuti ristretti nel carcere di San Vittore, desideriamo mettervi a conoscenza di molte cose che non funzionano per niente e quando diciamo niente è nel pieno significato della parola, a partire dalla sanità.

Partiamo dall’assistenza di prima necessità. Si sono verificati molti casi, troppi, dove le visite mediche non vengono effettuate anche quando ci si segna dal dottore, o perché il dottore arriva in ritardo e quindi il tempo stringe e il detenuto è costretto a tenersi il proprio male per sé; e se chiedi di andare al pronto soccorso c’è rischio a volte di prendersi il rapporto o una denuncia perché l’agente penitenziario pensa che uno voglia farsi un giro, e quindi il detenuto rimane con il proprio male, dolore, patologia. in balìa di se stesso senza cure.

È accaduto che una sera un detenuto sofferente di una patologia epilettica ha avuto una crisi; stava succedendo il peggio; per fortuna i concellini se ne sono resi conto e gli hanno prestato subito i soccorsi, mentre sul piano mancava l’agente penitenziario. Sono stati 10 minuti ad urlare per chiamare l’agente. Quando è arrivato l’agente i detenuti lo hanno accompagnato trasportandolo a spalla al Pronto Soccorso. Siamo purtroppo carne da macello.

È successo il caso di un ragazzo con problemi di emorroidi, che, trascurato da questi che si spacciano per dottori, è andato a finire in ospedale in coma farmacologico.

Quando lui aveva manifestato il suo problema alla dottoressa, questa gli aveva fatto un rapporto disciplinare. Insomma è riduttivo dire che siamo carne da macello. Qui possiamo dire di essere abbandonati a noi stessi, alle nostre patologie e problemi di salute, senza che qualcuno si prenda cura e faccia qualcosa per cambiare in positivo. Vorremo 2 ore di socialità nella saletta , visto che noi detenuti del terzo Raggio, terzo piano, siamo chiusi 21 ore su 24.

Vorremmo poter frequentare un gruppo di sostegno psicologico per noi che abbiamo problematiche legate alla dipendenza da sostanza stupefacente. Tutto quello che stiamo subendo è, a dir poco, inumano. Siamo sì persone che hanno commesso dei reati, ma non per questo dobbiamo subire una condanna doppia. Avremmo un grande desiderio: fare pubblicare questa nostra richiesta di aiuto. Vi ringraziamo per il vostro ascolto".

 

Effe, dal carcere di Taranto

"Caro Riccardo, sembra di essere tornati a prima dell’indulto in questo carcere maledetto. In particolare nella sezione dell’alta sicurezza la situazione è di vero e proprio sovraffollamento. Pensa che in cellette di 10 mq siamo in 4 detenuti. Praticamente viviamo uno sull’altro. La cella sembra più una stalla, anche perché non possiamo aprire la finestra per cambiare l’aria.

Di medicine neanche l’ombra… per non parlare di attività rieducative o sportive. Per noi ci sono solo le 2 ore d’aria al giorno. E basta. Gli agenti sono molto severi e arroganti. La lettere che inviamo ai familiari o a Radio Carcere spesso non arrivano a destinazione… insomma per noi detenuti a Taranto questo non è carcere è galera, prigionia.

Si sente tanto parlare di certezza della pena, ma la gente lo sa che significa anche un solo giorno di carcere fatto così? La verità è che dal carcere una pecora esce leone.

Si parla di reinserimento… a me sta parola sa tanto di presa per il culo! Per non parlare dei politici, sia di destra che di sinistra… sono tutti uguali ci prendo in giro con tante parole e pochi fatti. Loro vogliono solo il potere. È passato un bel po’ dell’indulto, e di riforme nemmeno l’ombra. Intanto nel carcere di Taranto ogni giorno arrivano nuovi detenuti e la vita è sempre peggio… rieducazione? Lavoro? Ma non dicano fesserie… Riccardo Ti saluto con affetto, la lotta per un’Italia più giusta sarà dura e lunga non mollare".

 

Tony dal carcere di Pistoia

"Caro Riccardo Arena, leggo con grande piacere il Riformista e la bella pagina di Radio carcere. Ma lo sa che il direttore Franchi mi ha mandato delle copie del giornale in carcere?

Io sono detenuto a Pistoia per detenzione di alcune dosi di cocaina. Erano per me che sono consumatore, ma siccome ero recidivo mi hanno applicato le aggravanti automatiche previste dalla legge Cirielli e ora rischio una condanna a 6 anni di galera. Non le sembra una pena un po’ eccessiva? Io come tanti altri detenuti viviamo nella speranza che questo Governo Prodi abolisca la legge Cirielli, legge che nel silenzio più totale miete vittime nelle aule di giustizia. Ha notizie dal Parlamento? Grazie, con stima".

Firenze: detenuto iracheno di 24 anni trovato morto in cella

 

La Nazione, 28 giugno 2007

 

Un giovane detenuto del carcere di Sollicciano è stato trovato morto nella sua cella. Per i sanitari che sono accorsi per prestargli le prime cure sembra si sia trattato di un arresto cardiaco. Il sostituto procuratore, Squillace, ha comunque disposto il trasferimento della salma all’istituto di medicina legale dove verrà effettuata l’autopsia per accertare le cause che hanno provocato il decesso. La perizia è suggerita dalla giovane età del detenuto, che aveva solamente 24 anni.

Il recluso, di origine irachena, stava scontando una pena nel carcere di Sollicciano da alcuni mesi. Lunedì sera, dopo la cena, ha trascorso il "periodo di socialità" insieme agli altri detenuti. Verso le 21.30 si è sdraiato nel suo letto. Verso le 22 i compagni di cella che non lo vedevano muoversi né respirare hanno fatto intervenire gli agenti di custodia e poi gli infermieri.

Secondo i primi soccorritori il giovane iracheno è morto per arresto cardiocircolatorio. All’apparenza sembrerebbe trattarsi di un decesso per "cause naturali". Ora il magistrato vuole sapere se nelle ore precedenti il suo decesso il giovane abbia assunto qualche bevanda o sostanza. Gli accertamenti autoptici e quelli tossicologici dovrebbero chiarire quello che per ora sembra un giallo. Il pm Ettore Squillace Greco ha affidato l’incarico al dottor Edoardo Franchi.

Roma: detenuta 21enne di origini rom partorisce in carcere

 

Vita, 28 giugno 2007

 

Ha partorito di notte, nel carcere di Rebibbia Femminile, un bambino con una malformazione congenita che ignorava. Protagonista della vicenda una nomade di 21 anni, H. M., ricoverata per le cure post parto all’ospedale "Sandro Pertini" di Roma e ora di nuovo in carcere a Rebibbia. Il neonato è invece ricoverato al "Bambin Gesù". La giovane era arrivata in carcere il 6 giugno con una pena di sei mesi per il reato di furto aggravato.

La vicenda è stata segnalata dal Garante Regionale dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni che afferma: "è orrendo che una donna debba partorire in carcere e che ora non possa allattare il suo bambino, peraltro malato. Il vero problema è che esiste una legge, la "Finocchiaro", che prevede l’obbligo di misure alternative al carcere per le partorienti, ma troppo spesso la legge viene disattesa".

In base alla Legge Finocchiaro (40/2001), la direzione del carcere di Rebibbia avrebbe comunicato al Tribunale di Roma prima la circostanza che H.M. era incinta, poi la necessità di avere gli arresti ospedalieri. In entrambi i casi le richieste sarebbero rimaste senza risposta. Attualmente a Rebibbia Femminile sono detenute due donne incinte: una al quarto mese di gravidanza, l’altra al secondo. Oggi un’altra donna all’ottavo mese di gravidanza è stata scarcerata. Un’altra è stata invece trasferita nei giorni scorsi in ospedale per un parto cesareo.

A quanto risulta al Garante, H.M. ha partorito in soli sette minuti alle 3 del mattino del 24 giugno, ancor prima che l’autoambulanza riuscisse ad arrivare. Trasferita all’ospedale "Sandro Pertini", H.M. ha avuto tutte le cure, compresa la manovra per l’espulsione della placenta. Purtroppo, però, il bambino è nato con una malformazione congenita (che all’ecografia può non vedersi) che ha reso necessario il trasferimento al "Bambin Gesù". Il bambino ha lasciato l’ospedale con un braccialetto identificativo; lo stesso che si trova al polso della mamma e che consentirà il riconoscimento. La donna intanto, vista l’assenza di problemi post-parto, ha firmato ed è tornata in carcere.

In questi giorni il bambino viene allattato con latte materno, che viene prelevato alla mamma in carcere e mandato al "Bambin Gesù". Domani H.M., autorizzata dal magistrato, sarà accompagnata dal marito e dalla scorta all’anagrafe del Comune di Roma per riconoscere il neonato. Poiché il carcere ha richiesto gli arresti ospedalieri per consentire alla mamma di stare vicino al bambino, il Tribunale ha richiesto una relazione sullo stato di salute del neonato, relazione che è già stata acquisita ed inviata ai Magistrati.

"Conosco la professionalità degli operatori del carcere - ha detto Marroni - è sono sicuro che hanno fatto tutto e per il meglio. Resta però il dato di fondo che un evento fondamentale per la vita di una donna, la nascita di un figlio, sia avvenuto in carcere, luogo tutt’altro che adatto per un evento del genere. Il parto è un fatto naturale, non una cosa straordinaria, e dunque trasferimenti e scarcerazioni sono ampiamente preventivabili anche per evitare ogni tipo di rischio ai nascituri e alle loro mamme. Quale che sia il reato commesso, credo che non esista pena che possa non contemplare la possibilità di partorire in un ospedale, circondati dalle cure e dalle attenzioni che l’arrivo al mondo di una nuova vita merita".

Como: nasce panificio con il progetto "Più pane meno pena"

 

La Provincia di Como, 28 giugno 2007

 

Un panificio all’interno della casa circondariale del Bassone? Una borsa-lavoro per un detenuto meritevole? Le pareti degli spazi comuni della struttura ravvivate con murales eseguiti dagli stessi ospiti? Nel primo caso si tratta di un progetto ambizioso, negli altri due di una realtà. Tutto è nato dalla sinergia tra il Rotary club Como e la Fondazione provinciale della Comunità comasca, i cui presidenti Filippo Arcioni e Franco Tieghi, ieri si sono incontrati per fare il punto sulla situazione, insieme al direttore del carcere Fabrizio Rinaldi, al cappellano padre Giovanni Milani e al pittore comasco Vittorio Mottin.

All’artista - come è stato sottolineato - va il merito di aver istruito e coinvolto cinque ospiti della casa circondariale nel progetto murales, ormai terminato, e a don Giovanni di aver segnalato il "caso umano" che ha portato all’assegnazione della borsa-lavoro. Si tratta di un serbo di 42 anni, con moglie e figli in patria, che potrà usufruire di un contributo mensile di 500 euro e di un lavoro da falegname al don Guanella, oltre alla possibilità di passare la notte nella stessa struttura.

L’uomo, di professione camionista (ma prima della guerra faceva il meccanico) è stato condannato a tre anni per trasporto di materiali illeciti, terminerà di scontare la pena a metà agosto, ed è stato scelto per aver riconosciuto i suoi errori ed essere fortemente intenzionato a reintegrarsi nella società. L’incontro di ieri è stata anche occasione per parlare di un progetto già messo in atto in altre case circondariali, ovvero dare vita, all’interno del Bassone, di un piccolo panificio.

Si tratta del progetto denominato "Più pane meno pena", che se fosse realizzato potrebbe diventare per i carcerati una ulteriore occasione, non solo per trascorrere del tempo in modo costruttivo, ma soprattutto per imparare un lavoro, che possa essere loro utile una volta che faranno nuovamente ingresso nella società, con un lavoro garantito.

Palermo: uccide il figlio autistico; "lasciati da soli per 27 anni"

 

La Repubblica, 28 giugno 2007

 

Sabato ha strangolato il figlio autistico di 27 anni e poi si è costituito ai carabinieri. Ieri è stato scarcerato dal gip, e ha subito lanciato la sua denuncia: "Tante, troppe volte, ho chiesto aiuto alle istituzioni. Ma mi prescrivevano solo psicofarmaci per il mio ragazzo. Ero ormai esasperato da una vita d’inferno. Angelo picchiava me e mia moglie. Qualche volta aveva anche minacciato il suicidio. Dopo l’ennesima crisi del ragazzo, che ci chiedeva di smontare un condizionatore, ho avuto un raptus.

Anche perché era una giornata caldissima. E adesso sono pentito". Ma non ci sono più lacrime sul volto di Calogero Crapanzano, maestro di 60 anni in pensione: "Io e mia moglie siamo rimasti 27 anni senza poter dormire una notte - dice con un filo di voce - all’improvviso Angelo voleva fare una cosa, e niente poteva fermarlo. Una volta voleva smontare i quadri di casa, un’altra volta il citofono. Sabato era convinto che si dovesse smontare il condizionatore".

Quel pomeriggio di quattro giorni fa, il signor Crapanzano ha provato a distrarre il figlio, con una passeggiata nelle campagne alle porte di Palermo. Ha fatto poca strada. Dal quartiere dormitorio di Bonagia fino a Gibilrossa. "In un momento mi sono ritrovato in mano la corda da traino che avevo nel portabagagli. E l’ho strangolato". Non usa mezzi termini quest’uomo che adesso sembra confuso e spaurito.

Il pubblico ministero Gaetano Paci aveva chiesto al gip Donatella Puleo di farlo restare in carcere, il tempo di verificare con altre indagini la presenza di complici in quel momento drammatico .Ma il giudice ha ritenuto diversamente, ritenendo chiarissima la confessione.

"Fatti come questo devono far riflettere - commenta Rita Borsellino, il leader dell’Unione in Sicilia - sono frutto dell’isolamento in cui spesso vengono lasciate queste famiglie". Dice ancora Calogero Crapanzano: "Adesso devo occuparmi della sepoltura di mio figlio".

Ma sua moglie, la madre di Angelo, è già andata via da casa. "La tragedia vissuta da quest’uomo - accenna l’avvocato Giuseppe Sciarrotta - ha travolto anche il rapporto fra marito e moglie. Chissà se saranno in grado di ricominciare".

È ancora Crapanzano a ribattere: "Ci ritornerò io a casa, negli ultimi tempi Angelo dormiva con me, nel letto grande. Mi ero rivolto ancora alle istituzioni. Ma senza risultati. Ora mi occuperò di lui", ripete il padre con lo sguardo ormai perso nel vuoto. Saranno invece alcuni amici a prendersi cura dell’ex maestro, ormai rimasto davvero solo.

I funerali di Angelo si terranno questa mattina, a Favara, nell’Agrigentino, il paese d’origine dei Crapanzano. "L’ennesima tragedia della solitudine a Palermo deve interrogare tutti - è l’appello del movimento dei Laici di Don Orione - troppe famiglie si trovano spesso a dover affrontare in solitudine la disabilità dei propri figli. Questo non giustifica nessun atto di violenza - ribadisce l’associazione - ma tutto ciò deve essere un campanello d’allarme per una società che si voglia definire veramente solidale".

Diritti: G8 di Genova; quando la polizia offende la democrazia

 

La Stampa, 28 giugno 2007

 

"Questa non è democrazia occidentale, non si può violare così il tempio della giustizia con testi che rendono a fatica versioni uniformate a quelle degli indagati". Il pm Enrico Zucca anticipa uno dei concetti portanti di quella che sarà la sua requisitoria, quando si arriverà alla fase conclusiva del processo per l’irruzione alla scuola Diaz, il 21 luglio 2001, con 87 feriti su 93 no global presenti.

È il magistrato che ha iscritto nel registro degli indagati il capo della polizia appena sostituito, Gianni De Gennaro, per induzione alla falsa testimonianza nei confronti di Francesco Colucci, all’epoca questore di Genova, a sua volta indagato per avere, secondo il pm, "aggiustato" in aula le precedenti dichiarazioni. Un’inchiesta che non è escluso possa ampliarsi, per ricostruire quel quadro compatto di "difficoltà e ostruzionismi" incontrati in sei anni di ricerca della verità con gli alti vertici della polizia sotto accusa.

E nell’udienza di ieri proprio i verbali relativi alla deposizione di Colucci resa nel 2002 sono stati acquisiti, insieme con la trascrizione di una serie di telefonate arrivate quel sabato 21 luglio al 113:37 chieste dalla difesa dei 26 imputati, altre dai rappresentanti delle parti civili. I pm Zucca e Francesco Cardona Albini hanno chiesto di acquisire nel processo anche le dichiarazioni di Colucci davanti alla commissione parlamentare sui fatti del G8. La difesa si è riservata la decisione. Nell’udienza sono stati sentiti come testi delle parti civili i parlamentari di rifondazione Ramon Mantovani e Luigi Malabarba, presenti alla Diaz la notte dell’irruzione. Durissime le dichiarazioni di entrambi.

"La nomina di De Gennaro a capo di gabinetto del ministro Amato, se l’avesse fatta Berlusconi, sarebbe stata definita un golpe dal centrosinistra - ha detto Malabarba -. Non solo il capo della polizia non è stato rimosso, ma dopo l’iscrizione nel registro degli indagati è stato promosso anche al di là delle sue aspirazioni. È diventato un paramini-stro di polizia". Malabarba ha anche sottolineato: "Nel governo di centrosinistra ci sono forze che hanno sempre dato la massima credibilità a De Gennaro, al suo ex vice Manganelli e a Gratteri. Dopo il G8 la cosa è inquietante. Se poi domani

De Gennaro assumerà la funzione di capo dell’Intelligence, avremo una situazione alla Negroponte, cioè un blocco di potere su antiterrorismo, ordine pubblico e politiche di missione militare come mai c’è stato in Italia". "Ritengo l’ex capo della polizia responsabile di quello che è avvenuto a Genova: la sospensione dei diritti democratici - ha aggiunto -. Penso che ci sia stata una regia internazionale che abbia bypassato il governo".

Drammatica la ricostruzione della "notte dei manganelli" di Malabarba. "Solo in Salvador ho visto una scena paragonabile, quando l’esercito ha fatto irruzione all’Università. Là, come a Genova, c’erano gli elicotteri che volavano a bassa quota". "Il mio primo impatto è stato con un infermiere terrorizzato perché trasportava un ferito in gravi condizioni".

Ancora, il parlamentare ha ricordato quella "levata di scudi" con cui il muro di agenti teneva lontano lui e altre persone, medici e avvocati, fuori dalla Diaz "strattonandomi e colpendomi". "Mi qualificavo come parlamentare - ha detto ancora - ma nessuno mi rispondeva". Tutto questo dopo che il questore "mi aveva assicurato che non era accaduto nulla di grave". "C’erano ambulanze e feriti. Ho individuato un dirigente. Continuava a dire "Fate largo, fate largo"". Chi era? "Francesco Gratteri", l’ex capo dello Sco.

Diritti: il "caso" Aldrovandi; il ministro Amato scrive alla madre

 

www.estense.com, 28 giugno 2007

 

Dopo la testimonianza choc di "Chi l’ha visto?" e in attesa che lo spettatore involontario di via Ippodromo si presenti al pm per far acquisire valore probatorio alle sue parole, un’altra buona notizia arriva in casa Aldrovandi. A stretto giro di posta elettronica ha fatto pervenire la propria solidarietà e vicinanza alla famiglia il ministro dell’Interno Giuliano Amato, che ha voluto complimentarsi con i genitori di Federico per l’esito dell’udienza preliminare che rinviato a giudizio gli agenti intervenuti quella notte. "Ha detto che ci segue con attenzione - conferma Patrizia Moretti, la madre di Federico, ancora scossa per la maratona televisiva della sera prima - e che ci è sempre vicino". Già lo scorso 2 settembre Amato, a Ferrara per partecipare a un dibattito alla Festa dell’Ulivo, incontrò Lino, i padre di Federico, e nel corso di un colloquio informale gli disse che si augurava un processo che acclarasse le circostanze in cui era morto il 18enne. "Io gli ho risposto - aggiunge Patrizia - che senza l’attenzione sua e di altre persone delle istituzioni tra cui il questore Luigi Savina e il sindaco di Ferrara Gaetano Sateriale non avremmo ottenuto nulla. Grazie per esserci stati vicini".

Terrorismo: Mastella chiede al Dap accertamenti sulle lettere

 

www.giustizia.it, 28 giugno 2007

 

Il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, ha immediatamente invitato i vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a verificare se si siano determinate eventuali disfunzioni o negligenze sulla possibilità di controllare, nel rispetto della normativa vigente, la corrispondenza attribuita ad alcuni presunti brigatisti che, detenuti, scriverebbero dalle celle messaggi di stampo terroristico. Lo afferma una nota del Ministero della Giustizia nella quale si osserva che, laddove i controlli preventivi sulla corrispondenza dei detenuti siano stati disposti secondo la legge ed evidenzino elementi rilevanti, è competenza dell’autorità giudiziaria decidere se tale corrispondenza possa essere inoltrata o meno.

Terrorismo: Volontè (Udc); fermate le lettere dei brigatisti

 

Il Meridiano, 28 giugno 2007

 

Roma "Il ministro Mastella metta da parte le rassicurazioni a parole e ponga concretamente fine a questa messaggistica brigatista proveniente dalle carceri: è inammissibile che questi soggetti possano liberamente attaccare e minacciare autorità e istituzioni attraverso lettere che poi vengono addirittura pubblicate da siti Internet compiacenti. È intollerabile che lettere del genere possano in qualche modo uscire dagli istituti carcerari. Mastella ha il dovere di intervenire sulla gravità di questa deriva, assicurando il rispetto del regolamento carcerario e del regime di sicurezza dei detenuti".

Chiama in causa il Guardasigilli, il capogruppo Udc alla Camera, Luca Volonté, dopo la lettera pubblicata sul sito internet "Soccorso rosso internazionale" dal brigatista dell’area veneta, Davide Bortolato, arrestato lo scorso febbraio e attualmente rinchiuso nel carcere di Opera. Un caso che lascia "sgomento" anche l’ex ministro Maurizio Gasparri di Alleanza Nazionale: "Prima la Lioce, oggi Bortolato. Esponenti delle Br, che si sono macchiati di crimini inqualificabili, non solo hanno ancora la voglia e la forza di parlare, ma addirittura vedono i loro messaggi giungere a destinazione.

Ieri le minacce a monsignor Bagnasco siglate con ottime Probabilità dalla Lioce. Oggi quelle di Bortolato, che lancia anatemi contro la Chiesa, il governo, e incita alla formazione di una nuova organizzazione militare". Com’è possibile si chiede Gasparri che questa lettera sia potuta uscire dal carcere: "Il governo che fa? Dorme? - incalza l’onorevole -. O è troppo preso ad incoronare il suo nuovo possibile capo per occuparsi di questioni ben più serie che attentano alla vita degli italiani? Questo silenzio è inaudito. Come intollerabile - continua Gasparri - è il lassismo con il quale si sta affrontando la pericolosa minaccia della rinascita brigatista".

Droghe: in ddl su sicurezza stradale Senato elimini il carcere

di Donatella Poretti (Deputata Radicale della Rosa nel Pugno)

 

Notiziario Aduc, 28 giugno 2007

 

È stato accolto dal Governo il mio ordine del giorno presentato al ddl "Disposizioni in materia di circolazione e di sicurezza stradale" (A.C. 2480) per impegnarsi a stabilire standard uniformi nell’effettuazione dei test antidroga, basati sull’evidenza scientifica, test che dimostrino l’assunzione di sostanze stupefacenti e non mere tracce precedenti. Accogliendo anche un altro ordine del giorno, da me sottoscritto e a prima firma Cancrini, il Governo si è anche impegnato a far sì che lo stato di alterazione psicofisica, a cui far seguire il test, sia attestato da un medico. Il problema, in parte, era già stato risolto grazie al recepimento di alcuni emendamenti presentati da Forza Italia. Confido che il mio ordine del giorno possa rendere ancora più attento il Governo su questo tema e fissare anche dei limiti quantitativi.

A differenza della guida in stato di ebbrezza, dove, attraverso l’etilometro, si può dimostrare che effettivamente si è alla guida di un’automobile dopo aver assunto alcool (ma forse troppo poco per finire in carcere visti i parametri), per quanto riguarda alcune sostanze stupefacenti - per esempio la cannabis - non ci sono strumenti o attrezzature per dimostrarlo. In molti casi i test sono sì capaci di individuare il consumo (che non è un reato penale), ma non quando questo sia avvenuto restando tracce fino a 90 giorni nel capello, 60 nelle urine, 30 nel sangue e 24 ore nella saliva!

Sono piccole migliorie che mi porteranno a votare con la Rosa nel Pugno a favore del provvedimento. Si è aperto un dibattito, lasciamo ora il testimone al Senato che dovrà fare la sua parte e completare l’operazione di revisione di un testo in buona parte modificato. Il compito che affidiamo al Senato è di eliminare completamente quell’articolo 10 che non abbiamo comunque votato alla Camera: il carcere come misura per la sicurezza stradale non è di alcuna utilità. Sorprendere una persona alla guida dell’auto sotto effetto di alcool o stupefacenti e mandarla in carcere per qualche mese non è né una misura di prevenzione, né di messa in sicurezza della circolazione stradale, se non per quei mesi in cui la persona sarà detenuta. Potrà altresì intasare le aule di giustizia e andare a pesare sul sistema penitenziario. Per la sicurezza delle strade sono più efficaci sanzioni amministrative pecuniarie e sulla patente. Se il Senato non realizzerà il compito che oggi gli affidiamo, il provvedimento che tornerà alla Camera non potrà che vedere la mia contrarietà.

Stati Uniti: detenuti in forte aumento, sono oltre 2.200.000

 

Ansa, 28 giugno 2007

 

Cresce la popolazione carceraria degli Stati Uniti: attualmente i detenuti sono oltre 2,2 milioni, 42.000 in più rispetto al 2006. Si tratta del più cospicuo incremento dal 2000, pari al 2,8 per cento. Solo nell’ultimo anno, le persone finite a vario titolo nelle carceri giudiziarie o nelle celle degli sceriffi locali sono state 1,6 milioni. L’aumento degli arresti si è registrato in 42 dei 50 Stati e gli incrementi maggiori sono stati in Idaho (13,7%), Alaska (9,4%) e Vermont (8,3%).

Stati Uniti: condannato a morte per omicidio mai commesso

 

Corriere della Sera, 28 giugno 2007

 

Sarà giustiziato il 30 agosto prossimo nel braccio della morte del famigerato penitenziario di Huntsville, in Texas, per un crimine che non ha mai commesso: l’uccisione del 25enne studente universitario Michael LaHood Jr., figlio di uno degli avvocati bianchi più ricchi e influenti di San Antonio, mentre rincasava con la fidanzata nell’agosto del 1996. A dirlo non è soltanto il 30enne afro-americano Kenneth Foster, detenuto numero 999232 della Polunsky Unit, ma anche il giudice, gli avvocati e la giuria popolare - sette donne e 5 uomini -del processo a suo carico conclusosi il 5 maggio 1997 con una condanna a morte nei suoi confronti. Foster - così come un centinaio d’altri detenuti nel braccio della morte texano - è vittima di una legge iniqua, che i luminari del foro Usa non esitano a paragonare alla "Jim Crow Law", il decreto del 1876 con cui il Congresso Usa ratificava il razzismo, sanzionando la separazione tra razze.

La legge in questione, "law of parties" o legge delle bande stabilisce che un individuo è "responsabile di un crimine commesso da altri qualora egli abbia agito con l’intenzione di promuovere o assistere il compimento di tale crimine". E secondo la giurisprudenza del Texas - unico Stato in cui tale legge è in vigore - tale individuo può essere mandato al patibolo, anche se non ha mai ucciso una mosca. La tragica odissea di questo giovane nato il 22 ottobre 1976 nel poverissimo ghetto nero di Austin - figlio di una prostituta tossicodipendente e di un drogato con precedenti penali - inizia il 15 agosto di 11 anni fa. Quella sera, a tarda ora, l’allora 20enne Kenneth stava guidando la sua auto attraverso i quartieri alti di San Antonio, con tre coetanei a bordo: Mauricio Brown, Dwayne Dillard e Julius Steen, tutti neri come lui.

A un certo punto uno di loro, Brown, scese fuori e si allontanò di una ventina di metri mentre gli altri rimanevano seduti nell’auto. Non molto tempo dopo fu udito uno sparo. Al processo la pubblica accusa asserì che Brown aveva voluto portare a termine una rapina progettata insieme agli amici. L’unica testimone oculare era Mary Patrick, la fidanzata della vittima, che in aula cambiò più volte la deposizione. Foster fu processato con Brown, anche se non c’erano dubbi che fosse stato quest’ultimo a sparare il colpo mentre l’amico era rimasto seduto nell’auto durante l’intero svolgimento dei fatti, senza sapere nulla di ciò che il killer stesse facendo.

Quando Brown ammise in aula che quella era la verità, l’accusa sostenne che egli tentò di rapinare LaHood, poiché la rapina abbinata a un omicidio consentiva di accusare anche Foster di omicidio, in qualità di complice. E quindi di condannarlo a morte assieme all’esecutore materiale dell’assassinio, Brown, giustiziato il 19 luglio 2006. Anche se i media locali gli diedero tutti addosso, gli esperti legali parlarono di "scandalo". Tanto che il 3 marzo 2005 il giudice federale distrettuale Royal Furgeson decise di annullare la sentenza di morte. Nella sua sentenza di 95 pagine, Furgeson respinse l’appello di Kenneth Foster per quanto riguarda l’innocenza, ma annullò la sua condanna a morte perché "non fu provato alla giuria che Foster uccise effettivamente LaHood o che Foster intendesse uccidere LaHood o qualche altra persona".

L’assegnazione della condanna a morte in base alla "law of parties" implicava l’affermazione, da parte della giuria, dell’intenzione omicida di Foster. Invece Furgeson - basandosi sulla giurisprudenza della Corte Suprema federale - contestò che "non sono state portate alla giuria prove che Foster intenzionalmente incoraggiò, diresse, agevolò o cercò di assecondare l’uccisione di LaHood da parte di Brown", come richiesto dalla Costituzione per il conferimento delle sentenze di morte. La decisione del magistrato comportava che Kenneth venisse riprocessato entro 90 giorni, ovvero condannato al carcere a vita, con possibilità di libertà condizionale dopo 40 anni di detenzione.

Ma l’accusa fece ricorso alla Corte federale d’Appello del Quinto Circuito, ottenendo l’annullamento della sentenza del giudice Furgeson. Il primo maggio di quest’anno un nuovo giudice, Maria Teresa Herr, ha fissato la nuova data d’esecuzione: il 30 agosto 2007. Per salvare Foster si sono mobilitati persino gli abolizionisti del Comitato Paul Rougeau, un’organizzazione italiana che si oppone alla pena di morte in Usa. "La mia unica paura è quella di essere dimenticato", scrive Foster nel suo sito www.freekenneth.com. "Possa il mio assassinio servire da faro a tutti quelli che si battono in nome della giustizia".

Stati Uniti: pena di morte; "giustiziato" un malato terminale

 

Ansa, 28 giugno 2007

 

Da mesi nelle vene di Jimmy Dale Bland venivano iniettati i farmaci per la chemioterapia, per cercare di frenare un tumore che ormai si era esteso a polmoni e cervello. I medici gli davano ormai meno di un anno di vita, ma Bland non ha dovuto aspettare: un’altra iniezione, stavolta di veleni, lo ha ucciso in un carcere dell’Oklahoma, in un giorno in cui l’America ha messo a morte tre condannati.

La tripletta è avvenuta nella notte tra martedì e mercoledì in Texas, Oklahoma e Georgia. Le autorità texane hanno eseguito la condanna di Patrick Knight, un detenuto che aveva fatto parlare di sé per aver chiesto ai propri sostenitori di inviargli barzellette, promettendo che avrebbe recitato la più divertente sul lettino del boia. Alla fine, però, Knight ha scelto un epilogo più sobrio: "Avevo detto che avrei raccontato una barzelletta - ha detto dopo una preghiera - La morte mi libererà, questa è la migliore battuta. Io merito di morire".

Poco dopo di lui, in Georgia, un’iniezione letale ha messo fine alla vita di John Hightower, condannato per aver ucciso nel 1987 la moglie e due figliastre. Ma è stata l’esecuzione di Bland a sollevare polemiche, sia pure sempre di basso profilo in un Paese dove l’ultimo sondaggio del Pew Research Center indica che resta una larga maggioranza a favore della pena capitale. Bland, 49 anni, secondo i medici non aveva che pochi mesi di vita e fino all’ultimo momento il suo legale ha cercato di bloccare l’esecuzione, sostenendo che era incostituzionale uccidere un uomo nelle sue condizioni. "Questa morte non aveva alcun senso, sarebbe morto comunque tra breve", ha detto David Autry, l’avvocato di Bland. Con una popolazione carceraria in rapido invecchiamento, aumenta anche il numero di detenuti che si trovano nel braccio della morte con malattie terminali.

"Vedremo sempre più spesso casi come quello di Bland", ha sostenuto Richard Dieter, direttore del centro studi Death Penalty Information Center. Bland era stato condannato nel 1996 per aver ucciso con un colpo di fucile alla nuca Doyle Windle Rains, che accusava di volergli portar via dei soldi. La pena capitale era stata quasi automatica per le leggi dell’Oklahoma, visto che Bland aveva già ucciso in precedenza, nel 1975, scontando 20 anni. Per l’ufficio del procuratore generale dell’Oklahoma, Bland non meritava alcuna pietà neppure se moribondo. "Se voleva morire di cause naturali - ha detto il procuratore Seth Branham - non avrebbe dovuto sparare alla testa di Rains".

 

 

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