Rassegna stampa 25 giugno

 

Giustizia: Grosso; su abolizione ergastolo dibattito fuori tempo

di Carlo Federico Grosso (Ordinario di Diritto Penale Università di Torino)

 

La Stampa, 25 giugno 2005

 

Un’ipotesi di superamento dell’ergastolo, suggerita dalla Commissione di riforma del codice penale che sta lavorando al ministero della Giustizia, ha riacceso la discussione sulla condanna a vita. Si tratta, in realtà, di una polemica sterile. Le conseguenze dell’abolizione dell’ergastolo sono, infatti, più che altro teoriche, dal momento che già oggi chi è condannato alla pena perpetua di regola rimane in carcere al massimo 28 anni in forza dei meccanismi di liberazione anticipata previsti per chi ha tenuto buona condotta durante la detenzione.

Proprio la previsione della liberazione del condannato consente, d’altro canto, di evitare che la pena perpetua violi il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena. L’ergastolano che dimostra ravvedimento può infatti ottenere la cessazione della detenzione; anche l’ergastolo, quindi, può essere utilmente finalizzato alla rieducazione. Difficilmente si potrà, d’altronde, sostenere che una pena così congegnata infranga, di per sé, i livelli dei diritti umani.

Sei anni fa una Commissione di riforma del codice penale da me presieduta aveva, in realtà, già previsto l’eliminazione dell’ergastolo, e la sua sostituzione con una pena di "reclusione speciale" elevata e dura nella sua esecuzione. Si trattava, peraltro, di una provocazione. Come si spiegava nella Relazione al Progetto, con tale proposta si intendeva, soprattutto, sottolineare l’esigenza di rendere effettivo anche nei confronti degli ergastolani un trattamento rieducativo in grado di garantire il presupposto della loro liberazione. Nessuno si sarebbe, poi, scandalizzato se il potere politico avesse optato per il mantenimento formale della detenzione perpetua, purché inserita in un sistema di esecuzione penale in grado di dare completa attuazione al principio della funzione rieducativa (anche) di tale pena.

Tanto che oggi mi sembra di potere affermare senza difficoltà che, di fronte alle preoccupazioni manifestate nei confronti della ventilata abolizione, giuste o sbagliate che siano, tanto vale mantenere, formalmente, l’ergastolo. Saranno poi le valutazioni espresse sulla personalità del singolo condannato a dirci, anni dopo la sua incarcerazione, se egli potrà tornare libero in ragione della sua acquisita condizione di persona non più pericolosa per la società. In realtà, i problemi ai quali si dovrebbe porre oggi attenzione in tema di politica delle pene sono altri rispetto a quello concernente l’ergastolo. Come è noto, secondo un orientamento politico-criminale diffuso, il carcere dovrebbe costituire una extrema ratio; vale a dire, dovrebbe essere utilizzato soltanto con riferimento ai reati, o ai soggetti, nei cui confronti appare assolutamente necessario. Negli altri casi occorrerebbe utilizzare, invece, sanzioni penali alternative consistenti in divieti di attività, in prestazioni, nel pagamento di somme di denaro. In questa prospettiva i progetti di riforma del codice penale si sono sbizzarriti nell’elaborare il quadro di queste possibili pene diverse dal carcere: oltre a quella pecuniaria, sospensioni, interdizioni, divieti di vario genere, prescrizioni comportamentali, lavoro di pubblica utilità, remissione in pristino dei luoghi, libertà sorvegliata.

Le premesse criminologiche di questa nuova impostazione sono individuabili nella, ritenuta, inutilità del carcere come strumento di dissuasione forte dal commettere reati; nella conseguente convinzione che esso possa essere, opportunamente, sostituito da pene meno costose e, magari, addirittura utili per la collettività; nella convinzione che la detenzione costituisca, nella maggioranza dei casi, strumento di vessazione dei condannati; nella constatazione che, se si prescinde da specifiche tipologie di delitti o di delinquenti, i condannati definitivi che scontano effettivamente la pena sono, nel nostro Paese, per diverse ragioni, pochi.

In linea di principio queste considerazioni sono condivisibili. In pratica dare un’attuazione ragionevole a questo nuovo orientamento politico-criminale mi sembra questione molto delicata. Non vorrei infatti che, sull’onda di un superficiale entusiasmo per le nuove idee, o dei buonismi faciloni che già hanno recato gravi danni con l’approvazione di leggi come quella recente in materia d’indulto, si finisse per dimenticare il nodo dell’efficienza della giustizia e della difesa sociale contro la criminalità anche bagatellare.

Sarebbe grave, perché i problemi dell’ordine pubblico sono oggi rilevanti, perché la sensazione d’insicurezza dei cittadini sta montando, perché, di conseguenza, i cittadini non capirebbero una rinuncia massiccia e programmata alla previsione delle pene tradizionali. Semmai, chiedono proprio l’opposto, cioè pene certe, inflessibilità nella loro esecuzione, mano dura contro i recidivi. Desta scalpore, fra la gente, che ladri, scippatori, rapinatori, truffatori, e altri delinquenti pericolosi per la società, frequentemente non siano arrestati, se sono arrestati vengano subito scarcerati, se sono condannati non scontino sovente la pena irrogata.

La politica non può ovviamente appiattirsi, nelle sue scelte politico-criminali, sugli umori e sulle paure della gente. Neppure può tuttavia ignorarle; costituirebbe ulteriore ragione di distacco fra società e palazzo. E allora attenzione. Forse, prima di pensare alla realizzazione di radicali modifiche del sistema delle pene nel quadro di una riforma generale del codice penale sarebbe opportuno assicurare le condizioni elementari di una giustizia rapida, efficiente, in grado di restituire sicurezza ai cittadini. Questo, ho l’impressione, i cittadini pretendono oggi come priorità. A questa esigenza la politica deve dare risposta prioritariamente.

Giustizia: abolizione dell'ergastolo; dal mondo politico molti "no"

 

Il Corriere della Sera, 25 giugno 2005

 

"Per quanto mi riguarda dico no all’abolizione dell’ergastolo. Questa resta la mia parola e non può essere confusa. Evitiamo di dare l’idea che ogni atto significhi incoraggiare la criminalità". Perde quasi la pazienza Clemente Mastella quando a Sorrento i giornalisti gli chiedono un commento sulle dichiarazioni di Piero Grasso: "Eliminare il carcere a vita - aveva detto il procuratore antimafia - sarebbe un regalo ai boss e l’anticamera di una nuova guerra fra le cosche".

La proposta non arriva dalla politica. Non direttamente, almeno. È contenuta nella riforma del codice penale allo studio della commissione di esperti nominata da Mastella e guidata da Giuliano Pisapia.

In realtà la discussione, come sottolinea Giuliano Amato, è più teorica che pratica: "Serve a titillare l’opinione pubblica - dice il ministro dell’Interno - mentre in concreto il problema non esiste perché si scontano al massimo 27-28 anni". Ma il dibattito c’è. La sinistra radicale preme, dai Ds Pietro Marcenaro replica a muso duro a Grasso: "Le sue dichiarazioni stupiscono. Perché non chiede la reintroduzione della pena di morte?".

Ma nell’Unione la prudenza è tanta, forse ricordando il referendum del 1981 (77% di no all’abrogazione) e la legge approvata nel 1998 al Senato (32 anni invece del carcere a vita) ma poi arenatasi alla Camera. Secondo Enzo Bianco (Margherita), eliminare l’ergastolo "sarebbe un brutto segnale", per Massimo Brutti (Ds) è un "tema non prioritario".

E anche spostandosi più a sinistra la cautela è tanta: "Sarebbe giusto - dice Cesare Salvi - se ci fosse certezza della pena". E il regalo ai boss? Il sottosegretario alla Giustizia Luigi Li Gotti, che da penalista quel mondo lo conosce bene, non ha dubbi: "Nel famoso papello Giovanni Brusca chiedeva proprio l’abolizione dell’ergastolo.

La verità è che consentirebbe a chi è in carcere di dire "comando io perché prima o poi esco"". La linea della Cdl è quella del no, ma ci sono eccezioni: "L’ergastolo - spiega Alfredo Biondi, Forza Italia - è contrario alla Costituzione che parla di pena rieducativa. Capisco che queste cose non sono popolari ma pure Beccaria non lo era". E l’allarme di Grasso sulla mafia? ""Facite ‘a faccia feroce" è la regola di chi ha paura, non di chi ha coraggio".

Giustizia: Camera; questa riforma è "da prendere o da lasciare"

di Pino Pisicchio (Presidente della Commissione Giustizia alla Camera)

 

Il Tempo, 25 giugno 2005

 

LA XV legislatura è consegnata ad una asimmetria legislativa inedita nella storia del Parlamento. La difficoltà sfiora i migliori esercizi del paralogismo: il principio maggioritario consegna alla Camera un congruo margine di sostegno al governo che, però, è assente al Senato. E, visto che siamo in una democrazia parlamentare poggiata sul bicameralismo perfetto, introduce una surrettizia modalità nel processo legislativo: o la Camera accoglie a scatola chiusa il prodotto elaborato dal Senato, o si blocca tutto.

I paradossi, così, sono due: se il Parlamento vuole produrre leggi deve fare ricorso alle vituperate "pratiche consociative", sulla cui negazione si è fondata la Seconda Repubblica per professione di fede bipartisan. È, in fondo, quello che successe quando le elezioni del 1976 furono vinte insieme dalla maggioranza (Dc) e dall’opposizione (Pci), con tutto quello che ne scaturì, rapimento e uccisione di Moro compresi.

Oppure si prende atto che così non può andare e si va alle elezioni. Già, ma come? Con questa legge elettorale che è la causa di tutte le contraddizioni? No, evidentemente. Allora bisogna fare una nuova legge elettorale che veda il consenso di tutti. Qual è l’effetto concreto di tutti questi paradossi, nel mentre attendiamo che l’angelo della consapevolezza bipartisan scenda fra noi e dica amen?

Il Governo, preoccupato di veder "camminare" i suoi provvedimenti, li spinge al Senato per un’approvazione comunque e poi chiede alla Camera una mera ratifica. È quello che sta avvenendo anche per un provvedimento delicatissimo di grande rilevanza costituzionale, come la riforma dell’ordinamento giudiziario.

Tra le varie deleghe previste c’è, come è noto, anche quella che involge la "vexata quaestio" della divaricazione delle funzioni dei magistrati, distinguendo i percorsi dei pm da quelli dei giudicanti, Tanto la questione appassiona poco la pubblica opinione, quanto infiamma i magistrati che arrivano a minacciare lo sciopero se non si riuscirà a rivedere la norma prima della fine di luglio, data di entrata in vigore del decreto attuativo. Un alto appello a far presto giunge anche dal Presidente della Repubblica, nella sua veste di capo del Csm.

Tradotto in soldoni l’articolato e complesso provvedimento di riforma è in discussione presso la Commissione competente al Senato. Sarà in Aula il 3 luglio, ostruzionismo dell’opposizione permettendo. Dunque arriverebbe alla Camera per una lettura veloce, una sostanziale ratifica, a ridosso della scadenza. Con la poco gradevole alternativa: prendere così com’è o lasciare, non al vuoto normativo - perché il decreto legislativo del ministro, seppure indigesto resterebbe -, ma al tumulto delle procure. L’alternativa non è proprio il massimo!

Giustizia: Pionati (Udc); in queste carceri 10 anni come ergastolo

 

www.noipress.it, 25 giugno 2005

 

È giusto che l’Italia si sia impegnata per la moratoria sulla pena di morte, ma è altrettanto doveroso portare le carceri a un livello minimo di decenza che consenta di rispettare lo spirito della legge e anche il dettato costituzionale". Così il Responsabile Nazionale Comunicazione e Informazione Udc, sen. Francesco Pionati, durante la visita al Penitenziario di Bellizzi Irpino ad Avellino.

Sul sistema carcerario il sen. Francesco Pionati accusa: "L’attività di recupero è quasi inesistenze; il personale viene sovrautilizzato e sotto pagato e le strutture sono in molti casi più che fatiscenti. Una società civile si distingue anche e soprattutto per la qualità del sistema carcerario. La legge in atto è valida ma non viene rispettata. Il governo pensi anche a questo, quando litiga sulla destinazione del cosiddetto Tesoretto".

"È insensato abolire l’ergastolo - prosegue il senatore Udc, Francesco Pionati - ma anche le pene a cui fa riferimento il ministro Mastella hanno un valore diverso in base alla qualità delle strutture. In molte carceri italiane dieci anni di reclusione equivalgono a un ergastolo."

Pionati si è poi complimentato per la qualità complessiva del penitenziario di Bellizzi Irpino ad Avellino con il comandante delle guardie carcerarie Berardino Iovine e con il vice direttore vicario dottor Bruno Passera. Nel corso dell’incontro con il personale del penitenziario, il sen. Pionati ha ascoltato proposte e suggerimenti impegnandosi a portare in Parlamento le giuste istanze della polizia penitenziaria e dei lavoratori.

Giustizia: Garante Lazio; sono stranieri il 35.44% dei detenuti

 

Ansa, 25 giugno 2005

 

In Italia sono stranieri il 35.44% dei detenuti: vale a dire, non sono italiani 15.413 reclusi (fra i quali 919 donne) su un totale di 43.494. I dati - aggiornati al 31 maggio - sono stati diffusi a Rabat (Marocco) dal Garante dei Diritti dei Detenuti della Regione Lazio, avvocato Angiolo Marroni, durante il seminario internazionale di studi "Marocchini residenti all’estero, precarietà e diritti umani", organizzato dalla Fondazione governativa "Hassan II".

Il Garante ha tracciato una panoramica sulla detenzione straniera in Italia e sui problemi ad essa legati. Nelle carceri italiane sono rappresentante ben 133 nazionalità; inoltre, accanto a coloro che sono in cella, sono da ricordare altri 2.015 stranieri ammessi alle misure alternative esterne al carcere. I marocchini ristretti nelle carceri italiane sono 3.284 unità, il 21,30% del totale degli stranieri. Per il Nord Africa dopo il Marocco vengono la Tunisia (con 1.563 detenuti) e l’Algeria con 906. Fra gli europei, in assoluto i più numerosi in carcere sono i romeni (2.146 detenuti) e gli albanesi (1.926 detenuti).

"È evidente che un numero di reclusi stranieri così elevato e variegato - ha detto Marroni - ha posto problemi cospicui che si sono riflettuti sulle concrete possibilità di risocializzazione e di reinserimento sociale previste nel nostro ordinamento".

Marroni ha elencato le criticità che un detenuto straniero deve affrontare: "in primis lo stato psicologico di chi, spesso giovane e disorientato, entra in carcere e deve capire i motivi dell’arresto e il percorso giudiziario che lo attende - ha detto Marroni - I colloqui con medici e psicologici spesso sono vani perché non ci sono traduttori o mediatori culturali.

Nei primi mesi della detenzione la persona è particolarmente fragile, è il periodo più critico in cui avvengono suicidi o atti di autolesionismo. Anche i rapporti con le famiglie sono difficili e l’assistenza religiosa per i musulmani è praticamente assente. Per questo auspico che il Convegno possa servire a far sì che gli stranieri detenuti in Italia non siano abbandonati; in molti casi la presenza delle istituzioni diplomatiche di appartenenza accanto a loro lascia molto a desiderare".

Il Garante ha aggiunto che "il carcere in Italia è un luogo dove possono convivere solidarietà, amicizia, collaborazione e aiuto reciproco. Ma è anche un luogo di possibili tensioni politiche, sociali, culturali, religiose e razziali. Le tensioni del mondo odierno non sempre si fermano sulla porta del carcere. Una persona detenuta - ha concluso Marroni - al di là delle sue appartenenze, è una persona che non perde il diritto alla tutela della sua salute, alla formazione professionale, al lavoro anche in carcere, alla scuola, alla cultura, alla dignità personale".

Giustizia: mafia contro indulto; scarcerati troppi "cani sciolti"

 

La Repubblica, 25 giugno 2005

 

Cosa Nostra era contraria all’indulto. La scarcerazione di decine e decine di cani sciolti che hanno beneficiato dell’indulto mettendosi subito all’opera compiendo furti, rapine, scippi e tentando anche di soppiantare alcuni boss in carcere per incassare il pizzo da commercianti ed imprenditori, avrebbe provocato la reazione dei boss della mafia che avevano stilato una lista di "scappati di casa" (picciotti senza regole) che dovevano essere ammazzati. Per questa ragione, per evitare un bagno di sangue, la Procura di Palermo d’intesa con i carabinieri del comando provinciale ha deciso di agire in fretta fermando nove tra boss e mafiosi rampanti che avevano difficoltà a gestire i loro mandamenti.

Furti, scippi, rapine, "troppa confusione" in giro, a Palermo ma anche in provincia. E questo a Cosa nostra, ai boss che ancora erano in libertà, non andava per niente bene. Bisognava mettere "ordine" e soprattutto insegnare a questi "scappati di casa" l’educazione.

Gli investigatori sono giunti all’identificazione dei nove arrestati e dei loro progetti sanguinari attraverso la decifrazione dei pizzini di Provenzano, trovati nel covo di Montagna dei Cavalli al momento del suo arresto, l’11 aprile del 2006. Per parlare dei suoi interlocutori, Provenzano utilizzava un codice nascosto tra le frasi della Bibbia. Sigle che apparentemente indicavano autori del Vecchio e del Nuovo Testamento, mentre in realtà nascondevano l’identità di boss e picciotti.

Quando quel codice è stato decrittato, i carabinieri hanno messo sotto controllo abitazioni, automobili, telefoni fissi e cellulari dei componenti della cosca. Dall’ascolto di quelle conversazioni è emerso il quadro inquietante che ha indotto gli investigatori a non perdere altro tempo ed arrestare i nove boss e picciotti. "Il problema dei ladri c’è stato sempre, non solo qua, in tutte le parti. Ora con quest’indulto che hanno dato... siamo rovinati. A Palermo c’è una situazione: farmacie, supermercati che non dormono tranquilli. Ma che scherziamo! È andata a finire a bordello".

A parlare, non sapendo di essere intercettati, erano Giuseppe Libreri e Giuseppe Bisesi, infastiditi da una serie di furti nel territorio controllato dalla loro famiglia. I due si lamentavano del fatto che, dopo l’indulto, i piccoli pregiudicati erano usciti dal carcere e le attività commerciali erano continuamente bersagliate dai furti. Proprio per "far fronte" all’emergenza microcriminalità la cosca di Termini Imerese, capeggiata da Bisesi, aveva deciso di eliminare alcuni giovani ladri che rubavano senza l’autorizzazione della mafia. "La testa ci si deve scippare (strappare, ndr). Così, dice, diamo il segnale per tutti! È la soluzione giusta! Ci sono questi scappati di casa e gli si deve rompere le corna, punto e basta!".

Giustizia: minacce a mons. Bagnasco, il ricatto di ex carabiniere

 

www.emilianet.it, 25 giugno 2005

 

Non era terrorismo, non erano frange estremiste e anti-cattoliche. I proiettili a monsignor Bagnasco (presidente della Conferenza Episcopale Italiana, succeduto al reggiano Camillo Ruini) erano solo una storia un po’ strampalata, all’italiana si potrebbe dire, di ex carabinieri, di pregiudicati e prostitute, di vendette personali, ma anche della capacità che ormai ha chiunque di manipolare i media.

Non dimentichiamo però le dichiarazioni di alcuni politici. Pier Ferdinando Casini: sono la spia di un’intolleranza profonda e di una presenza di frange violente e anticattoliche. Sandro Bondi: dimostrano il riemergere di cascami ideologici che richiedono un impegno solidale di tutte le forze politiche. Roberto Calderoli: stanno diventando gesti quotidiani in un disegno, per cui da una parte i media dei poteri forti sconfessano la politica e i politici, mentre altri stanno creando i presupposti per un nuovo periodo della tensione.

Insomma, alla fine della storia: dov’è l’intolleranza profonda, dove sono i cascami ideologici, dov’è il disegno per una nuova strategia della tensione? La Chiesa scende in politica e chi si sente attaccato profondamente nei propri sentimenti laici diventa immediatamente un mezzo terrorista. Un gioco che si è visto in passato in altri contesti: per mettere a tacere chi non è d’accordo ogni mezzo è lecito.

Una ventina d’anni fa (è un episodio piccolo ma significativo) alcuni iniziarono a protestare contro i metodi usati da Israele durante la prima Intifada palestinese, l’Intifada delle pietre e dei bambini. Proiettili sparati ad altezza d’uomo e, qualcuno forse avrà ancora quelle immagini negli occhi, tre ragazzini palestinesi a cui i soldati israeliani spezzavano metodicamente entrambe le braccia per punirli di aver lanciato pietre. Anche a causa di quei metodi poi il movimento palestinese si è radicalizzato, si è arrivati ai kamikaze, alla repubblica islamica di Hamas eccetera.

In Italia qualcuno timidamente provò a protestare, pur dichiarando il proprio rispetto per lo stato d’Israele. Una delle misure non violente fu quella di chiedere ad alcune grandi catene di distribuzione di boicottare alcuni prodotti agricoli che Israele coltivava in terra palestinese sottraendo risorse e terra. L’esempio più lampante era quello dei pompelmi Jaffa. Il boicottaggio è un gesto un po’ estremo di lotta non violenta, ma la situazione era in se stessa un po’ estrema. Dopo una settimana qualcuno pensò bene di iniettare nei pompelmi in vendita una sostanza colorata (che poi si rivelò essere inchiostro per penne stilografiche): Immediatamente quella forma di lotta venne messa a tacere, accomunata al terrorismo, al tentativo di avvelenare delle persone innocenti pur di appoggiare una causa estremista.

Dunque i proiettili a Bagnasco, le scritte contro Cofferati, le mail contro la facoltà di Marco Biagi dovrebbero essere prese per quello che sono: minacce vere se sono segnali di gruppi terroristici, altrimenti gesti di stupidità o di follia individuale come quelli di "Acquabomber". L’unica cosa che bisognerebbe evitare è usare strumentalmente queste minacce per i propri scopi politici; una classe politica responsabile non dovrebbe farlo, dovrebbe lasciare a poliziotti e magistrati il compito di chiarire i contorni delle minacce.

Purtroppo un Paese così "normale" è ormai un’utopia perché da troppo tempo buona parte della classe politica ha dismesso il senso di responsabilità.

Un’ultima considerazione, che rafforza la gravità non delle pallottole ma del loro uso mediatico. Nei giorni scorsi la terrorista Nadia Lioce è stata indagata per le pallottole a Bagnasco. Giusto che la magistratura lo abbia fatto, proprio perché andava chiarito ogni possibile risvolto della vicenda. Ma per chi aveva già precostituito la tesi del terrorismo anticattolico è stata la prova del nove.

Ebbene, va rilevato il ridicolo di questa parte della storia: nella cella della Lioce è stata trovata una busta proveniente da un’associazione di volontariato cattolico intestata "Associazione Don Vasco Nencioni per la ricerca religiosa". una busta logora per il passaggio da una mano all’altra, da un detenuto all’altro, tanto che la scritta era diventata: "...ne do...asco.. ne..." e poi "religios...". Asco come Don Vasco e non come Bagnasco.

Esattamente quello che si dice prendere lucciole per lanterne. Solo che le lucciole, lo diceva tanto tempo fa anche Pasolini, ormai sono scomparse. E anche di lanterne non è che ne brillino molte.

Cosenza: impedito a detenuto incontro con la madre morente

 

Asca, 25 giugno 2005

 

A un detenuto, 15 giorni prima della sua scadenza pena, è stato negato il permesso di andare a trovare e dare l’ultimo saluto alla madre in fin di vita. La denuncia è del leader del Movimento Diritti Civili, Franco Corbelli, a cui questo caso è stato segnalato con una lettera, firmata da 128 detenuti del carcere calabrese, dove questo recluso, N.R., si trova rinchiuso.

Amaro e durissimo il commento di Corbelli che parla di un "fatto indegno di un Paese civile e di uno Stato di diritto" e attacca il Ministro della Giustizia, Clemente Mastella, "silente e latitante su queste grandi ingiustizie e inauditi drammi della povera gente, dei sepolti vivi delle carceri e pronto, invece, ad intervenire e a promuovere indagini ispettive per processi con imputati eccellenti".

"Come si può negare ad un detenuto, che tra l’altro sarebbe uscito dal carcere tra 15 giorni, dopo aver finito di scontare la sua pena - dice Corbelli - di andare a dare l’ultimo saluto alla mamma in fin di vita! Ho grande rispetto del lavoro, difficile, dei giudici, ma sono episodi come questo che fanno, purtroppo, perdere la fiducia, quella pochissima ancora rimasta, nella giustizia.

Non ci possono essere, in un Paese civile - dice Corbelli - leggi e regole che vietano ad un detenuto di poter vedere la propria madre in fin di vita. Purtroppo è accaduto tutto ciò, come mi hanno scritto oggi (apponendo sulla missiva ognuno la sua firma) 128 detenuti, tutti compagni di questo recluso. Contro queste ingiustizie, per evitare che succedano, Diritti Civili lotta da solo ogni giorno da 20 anni".

Verona: l’Ufficio di Sorveglianza è stato "graziato" dall’indulto

 

L’Arena di Verona, 25 giugno 2005

 

L’anno scorso hanno istruito e trattato 1785 procedimenti, i magistrati sono entrati nell’aula della corte d’Assise 19 volte e in dodici occasioni ci sono rimasti oltre sei ore. Sono solo alcuni dei dati relativi alle udienze tenute dal tribunale di Sorveglianza di Verona, competente oltre che per i procedimenti relativi ai detenuti del carcere di Montorio anche per quelli di Vicenza.

Due giudici, 13 dipendenti, alcuni in part-time verticale, e un carico di lavoro che per anni, almeno a partire dal 1998, ha fatto "i conti" con i procedimenti trasferiti da Venezia alle sedi decentrate, Padova e Verona, appunto. E proprio relativamente alle lamentate carenze dell’organizzazione dell’ufficio di Sorveglianza (organo giurisdizionale che ha il compito di vigilare sull’esecuzione della pena, interviene in materia di applicazione di misure alternative alla detenzione, di esecuzione di sanzioni sostitutive, di applicazione ed esecuzione di misure di sicurezza) che le Rsu hanno dichiarato, dal primo luglio, lo stato di agitazione. Questo a fronte di colloqui con il presidente, Giovanni Tamburino, ritenuti insoddisfacenti dalle rappresentanze sindacali.

Perché, sostengono, a fronte di un carico di lavoro come quello che hanno sostenuto per anni, sarebbe necessario un aumento di personale visto che le 22 persone che lavorano in sede centrale, a Venezia, non riescono a istruire i procedimenti degli uffici decentrati. Una situazione che tuttavia, stando a quanto emerge non solo dai dati e dalle statistiche, ha subìto un forte ridimensionamento nel secondo semestre 2006, dopo l’entrata in vigore dell’indulto.

"Nulla da dire, fino al luglio scorso il personale dell’ufficio di Sorveglianza veronese ha dimostrato doti eccellenti di professionalità a fronte di una mole di lavoro considerevole", esordisce la dottoressa Maria Grazia Omarchi, che per anni, prima dell’arrivo della collega Marisa Nebbia, ha retto l’ufficio al terzo piano del palazzo di Giustizia, "hanno supplito ai problemi di carenza di personale e a una pianta organica sottostimata. Con l’arrivo della collega che è dirigente dell’ufficio il numero degli addetti è rimasto lo stesso.

E questo non può non essere sottolineato: Verona per anni ha avuto un sovraccarico di mansioni che sarebbero state di competenza di Venezia". Una situazione non dissimile da quella di Padova, che si occupa anche delle misure emesse dal tribunale di Rovigo. I problemi restano gli stessi perché si "concentrano" a Venezia, per una questione logistica, per la difficoltà degli spostamenti sia di difensori che dei detenuti. Senza parlare dei costi.

"Pensi che il tribunale è raggiungibile solo in motoscafo o in gondola, ci rendiamo conto tutti che diventerebbe impossibile assicurare la puntualità delle udienze per non parlare dei costi", prosegue, "creda, la sofferenza e l’operosità dell’ufficio scaligero sono noti, anche se è corretto osservare che dopo l’indulto la situazione è decisamente migliorata. Lo si percepisce confrontando i dati del primo e del secondo semestre scorso".

Solo qualche numero: per quanto riguarda i decreti relativi a misure alternative nei primi sei mesi del 2006 sono stati 1400 i provvedimenti e tra questi 1252 solo le modifiche delle prescrizioni, dato che "precipita" a 240 in totale dopo l’indulto. Stessa sproporzione anche per i numeri relativi ai permessi premio: 842 le richieste, 201 quelli concessi, 504 i respinti. Dato che si inverte nel semestre successivo quando a fronte di un totale di 272 richieste sono stati 50 quelli accolte, un centinaio quelle respinte e 127 le inammissibili.

Riduzione dei fascicoli per Verona ma indulto, a rigor di logica, ha "graziato" anche Venezia. Da qui la richiesta di un colloquio per rivedere le mansioni: ora, sostengono i dipendenti il numero dell’ufficio centrale sarebbe adeguato a trattare la mole di fascicoli "smistati" per anni in via dello Zappatore. Il 5 luglio il presidente Tamburino incontrerà le Rsu, le stesse rappresentanze che dal primo del mese hanno annunciato lo stato di agitazione per il superlavoro di anni.

Immigrazione: oggi ddl Amato-Ferrero in Consiglio dei ministri

 

Sole 24 Ore, 25 giugno 2005

 

Il Consiglio dei ministri di oggi discuterà - e probabilmente licenzierà per il Parlamento - il disegno di legge Amato-Ferrero di riforma del Testo unico sull’immigrazione, dopo il parere positivo espresso dalla Conferenza unificata Stato-Regioni il 14 giugno. Il Testo - un solo articolo in più commi - detta i principi per l’esercizio della delega al Governo che modificherà la Bossi-Fini.

Il Ddl prevede quote elastiche, soprattutto per colf e badanti, il ritorno dello sponsor, anche individuale, corsie preferenziali per i profili ad alta specializzazione. Cade il contratto di soggiorno e vengono semplificati il rilascio del nullaosta, il permesso di soggiorno e il suo rinnovo. Il via libera della Conferenza unificata non è stato "indolore". Critiche sono state espresse da Anci e Upi e dalle Regioni. Queste ultime, in particolare, hanno sottoposto al Governo tre richieste.

La prima è il riconoscimento del ruolo di programmazione delle Regioni e delle Province autonome, in particolare su materie di forte impatto sulla vita dei migranti come i servizi sociali, l’edilizia residenziale pubblica, la formazione professionale, l’accesso al lavoro e così via. La seconda è la proposta di un fondo unico per l’integrazione sociale dei cittadini stranieri, che raggruppi e razionalizzi gli interventi dei quattro precedentemente istituititi.

Infine le Regioni propongono un ripensamento generale dei Consigli territoriali per l’immigrazione, necessario a evitare sovrapposizioni e ambiguità nei compiti loro assegnati che sono quelli di "analisi delle esigenze e di promozione degli interventi da attuare a livello locale".

Droghe: dipendenze, una questione anzitutto educativa

di don Mimmo Battaglia (Fict-Federazione Italiana Comunità Terapeutiche)

 

Progetto Uomo, 25 giugno 2005

 

Il presidente della Fict interviene a tutto campo per ripensare la strategia di intervento per arginare il fenomeno delle tossicodipendenze.

Il "momento storico", legato alla riflessione sulla "tossicodipendenza", è sufficientemente delicato. L’atteggiamento della società nei confronti delle dipendenze sembra essere sempre meno transigente. L’atteggiamento del mondo politico non emerge con evidente chiarezza. Nel corso degli ultimi cinquanta anni siamo passati da un regime repressivo alla cultura della tolleranza e della presa in carico del problema. Quindi, negli anni novanta il legislatore ha inteso introdurre paletti e creare percorsi indirizzati al recupero utilizzando un sistema sanzionatorio misto.

È passato più di un anno dall’entrata in vigore della modifica legislativa all’impianto del DPR 309/90: il nuovo assetto ha rallentato il delicato e lento cammino verso l’alta integrazione dei servizi, rinforzando l’aspetto repressivo ed ampliando la possibilità di accedere alle misure alternative.

Nel frattempo l’orientamento politico sembra mutare, esistono tavoli di lavoro volti ad un ulteriore cambiamento dell’assetto normativo, l’intervento nei confronti del consumo diventa sempre più complesso. Gli operatori delle dipendenze, che per anni sono stati i grandi protagonisti del recupero, ora sono in difficoltà e non riescono ad affrontare gli elementi di criticità. L’attuale normativa, in nome della pari dignità tra servizio pubblico e servizio privato, avrebbe potuto creare un regime di intervento di tipo concorrenziale. L’uso del condizionale, infatti, è determinato, fortunatamente, dalla mancata realizzazione di tale regime.

 

Alta integrazione

 

L’alta integrazione è espressione della volontà di lavorare insieme per migliorare la qualità e l’appropriatezza dei servizi offerti ai tossicodipendenti. In questa ottica si avverte il bisogno che le Comunità arrivino a riconvertire in tutto o in parte le loro strutture, a fronte delle nuove esigenze del territorio, in modo da consentire una comune modalità di raccolta dati ed una collaborazione tra servizio pubblico e privato sociale sul fronte della formazione degli operatori. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un timido tentativo di dare vita a questo sistema integrato di servizi che ha prodotto solo interventi intermittenti: non ha prodotto, invece, il risultato essenziale, quello di prevenire e combattere il fenomeno.

Ciò è stato determinato dall’insorgere dei nuovi fenomeni di consumo, che ha trovato impreparati gli operatori di ambo le parti, e della difficoltà di condividere una diagnosi comune nei confronti di quei tossicodipendenti con una patologia psichiatrica importante.

Accanto a questi abbiamo rinvenuto persone con problemi di marginalità sociale, spesso policonsumatori, persone dipendenti da cocaina o da alcol ben integrate socialmente, donne tossicodipendenti in gravidanza o con figli piccoli. Tra i soggetti con problemi di marginalità sociale troviamo coloro i quali entrano a far parte del circuito penitenziario o giudiziario in senso lato. La marginalità, spesso latente inizialmente, si estrinseca proprio nel corso del passaggio giudiziario, momento di forte e slatentizzata crisi, in cui vengono a mancare le risorse.

La recente riforma del DPR 309/90, se da un lato ha rischiato di favorire un regime concorrenziale a scapito di un modello integrato (incoraggiando il prolificare strutture del privato sociale), dall’altro ha stabilito criteri di qualità essenziali per l’accreditamento delle realtà di recupero, già frutto di studi precedenti, che portano ad una selezione naturale delle stesse.

Tali criteri sono ravvisabili anche nella lettura dell’impianto sanzionatorio riveduto ed incoerentemente realizzato. Infatti, assistiamo all’attribuzione di un forte potere di diagnosi e cura alle strutture private senza, tuttavia, che le stesse siano dotate di mezzi e risorse sufficienti. In realtà c’è bisogno di una reale pari dignità tra pubblico e privato, intesa come valorizzazione delle differenti competenze e specificità. Bisogna favorire la logica della necessaria integrazione di servizi.

Il tempo trascorso dalla riforma comincia ad essere lungo. Lo scenario attuale ci porta sempre di più a pensare che la politica sulla droga costituisca un impegno prioritario sia dello Stato che delle articolazioni dei poteri degli Enti locali e delle Regioni. Le strutture si sono trovate impreparate a fronteggiare il rapido evolversi della tossicodipendenza, ma questo non le esime dal manifestare la concreta volontà di dare vita ad un impegno forte nel recuperare il valore di un reale coordinamento nazionale. Lo Stato, a fronte di questo manifestato impegno, deve favorire l’elaborazione, l’interscambio progettuale tra i professionisti del settore e lo Stato stesso.

Il modello di integrazione, che si auspica, nato dalla pratica e dalla riflessione di molti professionisti dei servizi e delle comunità, tende a privilegiare il reale bisogno di cura e di assistenza delle persone per poi definirne i modelli organizzativi utili. Questa prospettiva deve rappresentare l’obiettivo fondamentale del Piano di azione nazionale di azione sulla droga che, prendendo le mosse dalla irrealizzata legislazione del 1999, renda concreto lo stanziamento di considerevoli risorse economiche in media con gli indirizzi europei. Sono necessarie risorse adeguate in rapporto alle esigenze di innovazione e sviluppo della rete dei servizi. Questo richiede l’attuazione, tra gli altri, di percorsi formativi specifici per le varie figure professionali.

Poiché, inoltre, l’aspetto sanzionatorio, sembra essere uno degli elementi principali della politica del contrasto al fenomeno, è opportuno che la formazione ed i progetti siano indirizzati a rendere gli operatori del settore pronti a gestire quel bacino di utenza, già evidenziato, rappresentato dai tossicodipendenti inseriti, loro malgrado, nei circuiti di micro e macrocriminalità.

Una politica di alta integrazione deve investire sulla preparazione, anche sotto il profilo criminologica, di quegli attori del recupero troppo spesso spiazzati di fronte al fenomeno giudiziario. Ancora incapaci di effettuare una diagnosi seria nei confronti di quei soggetti che non sono "carcerati comuni" ma neppure "tossicodipendenti usuali" e che affollano le nostre patrie galere.

 

Il sistema sanzionatorio penale

 

Drogarsi non è un diritto. L’illiceità del concetto di consumo è il presupposto del "proibizionismo", come dato di fatto, legato all’utilizzo di sostanza stupefacente per uso non terapeutico. Anche gli ospiti delle strutture di recupero con una diagnosi di disturbo da uso di sostanze e una diagnosi psichiatrica, sono un dato di fatto. Il loro reinserimento, deve presupporre la consapevolezza della rottura del patto sociale attraverso la trasgressione della legge, delle norme e delle prescrizioni. L’orientamento astinenziale e il regolamento delle comunità coincidono, di norma con una visione "proibizionista".

Il ripristino delle Tabelle, con la confusione generata dalle vicende successive alla emanazione della legge di riforma, ha riportato una certa sperequazione tra sostanze ed ha ridotto fortemente la valutazione soggettiva del Magistrato, creando uno spartiacque deciso tra consumo e spaccio. Questo orientamento, alquanto discutibile, discende da un criterio di ordine e sicurezza che anima la proposta di modifica.

La vigente legislazione prevede una pena da 8 a 20 anni, per l’ipotesi di spaccio, tali estremi, pur ritoccati nel minimo, ne mantengono il rigore. L’analisi di questi 15 anni evidenzia come questa severità non abbia prodotto altro che una "criminalità generalizzata" che, spesso, non consente di valutare i significati sottesi alle differenze dell’uso di sostanze e non facilita l’intervento di recupero. Il concetto di illiceità coincide con l’idea di "colpire" la condizione di tossicodipendenza, ribaltando la logica che vuole portare il problema dal "penale al sociale".

Ogni valutazione, quindi, non può prescindere dall’analisi della popolazione penitenziaria che registra ancora una elevata presenza di tossicodipendenti. L’ulteriore viraggio verso il sistema penale aumenta drasticamente questa percentuale, laddove non si riescano a definire in tempo utile progetti di recupero esterno..

L’inserimento nelle strutture, in misura cautelare, richiede che le stesse diventino "strumento di controllo sociale" e si muovano in una dicotomia terapeutico/penale. È un fattore da sempre accettato al fine di poter offrire chance, alle persone entrate nel circuito penale. Consente di ai soggetti, la cui motivazione è troppo labile, di trovare un "pretesto" forte per pensare al proprio recupero.

Assistiamo con rammarico al fallimento dei progetti sperimentali denominati Dap-Prima. Resiste l’esperienza milanese, nata in tempi non sospetti e collaudata nel tempo. Non sappiamo se attribuire il fenomeno del fallimento delle altre esperienze alla mancanza di fondi per il finanziamento della loro sopravvivenza, o alla incapacità di lavorare sul modello altamente integrato di cui sopra. È evidente come il funzionamento di progetti che consentano al tossicodipendente di evitare il carcere, al momento della commissione di un reato, rappresenti la logica di una forte integrazione tra servizi che prendono in carico i soggetti di cui abbiamo parlato.

Il bisogno di cura, obiettivo del modello che si propone, con tale progetto verrebbe ad assumere l’elemento prioritario; il controllo sociale, obiettivo della richiesta di sicurezza, solo una modalità funzionale al primo. Tutto questo nell’ottica di sviluppare percorsi nuovi e condivisi, sul territorio, nella comprensione dei fenomeni di consumo problematico e negli interventi per gli stati di dipendenza.

 

Le misure alternative

 

Il rilancio delle soluzioni riabilitative è sicuramente la risposta adeguata se accompagnata da una riduzione di quella sanzionatoria, e non come semplice alternativa dell’aggravamento della stessa. Se è vero che molti percorsi riabilitativi traggono origine dall’esperienza detentiva, è anche vero che bisogna potenziare i servizi territoriali all’interno delle strutture penitenziarie che offrano opportunità terapeutiche, anche agli stranieri con problemi di dipendenza da sostanze.

Per cui attraverso un intervento integrato di servizi, bisogna potenziare gli strumenti operativi a quelli di esecuzione penale esterna, anche con il coinvolgimento del privato sociale. Attualmente le Comunità Terapeutiche, accogliendo persone a cui è stata, o verrà, concessa una misura alternativa alla detenzione in fase di esecuzione penale devono cambiare approccio metodologico, per aderire al ruolo che vengono a rivestire. C’è il rischio che venga a snaturarsi il mandato di "alleanza terapeutica".

 

Prevenzione

 

Avendo acquisito, ormai, sul piano scientifico, l’esistenza di una pluralità di modelli di consumo e di differenti sostanze, dobbiamo affermare che, in questo più ampio contesto, si diversificano i modelli di vita in relazione ai modelli di consumo, che vengono a porsi lungo una traiettoria tra struttura normale di vita da una parte, e struttura delinquenziale di vita dall’altra: ciò porta all’individuazione di stadi intermedi caratterizzati dalla precarietà.

Mancano adeguate strategie di prevenzione, atte a fronteggiare la precarietà di tale crinale e la prevedibile cadute nel circuito penale. Una forma di prevenzione, lo si è detto, è insito nei progetti di collaborazione tra il Ministero della Giustizia ed i servizi territoriali.

Non ci riconosciamo nell’approccio punitivo presente nella legge attuale e neppure nell’atteggiamento rassegnato che considera un dato di fatto l’abuso di droghe. Deve risultare centrale la strutturazione di un forte impianto preventivo che valorizzi e rilanci le esperienze positive di questi anni.

In particolare riteniamo fondamentale non abbandonare le campagne di informazione, con particolare attenzione al tipo di messaggio, ed il sostegno a progetti di breve, medio e lungo termine all’interno del mondo scolastico e della famiglia. La Fict non ha mai rinunciato al messaggio educativo della "politica sulla droga". Un messaggio educativo che parta dall’osservazione dei fenomeni e si traduca nel favorire la proposta di occasioni formative rivolte a genitori nelle varie fasi di sviluppi dei figli/ragazzi; specialmente attraverso un rinnovato rapporto Scuola e Famiglia.

In sintesi, trovano acclamato spazio nei percorsi di prevenzione, quei progetti di educazione alla legalità che tengono conto dell’evoluzione dell’individuo con particolare riferimento al contratto sociale che lo stesso sottoscrive al momento della nascita, e che è tenuto a rispettare nel corso della propria esistenza. Dalla rottura dello stesso, o dalla incapacità di osservarne le regole, emergono i fenomeni di emarginazione che siamo costretti a fronteggiare.

Il recupero va inteso anche come ripristino del patto sociale attraverso un modello riparativo ed educativo che porti il giovane alla consapevolezza dei propri limiti e delle proprie potenzialità. La questione delle dipendenze, quindi, è questione anzitutto educativa che dovrebbe vedere impegnati tutti gli attori del recupero, pubblici e privati. Da ciò deriva la necessità di formulare un messaggio chiaro: la droga fa male, drogarsi non è un diritto, il tossicodipendente va aiutato e non punito. Pertanto scegliamo la centralità della prevenzione per un paese complessivamente meno drogato. Appoggiamo una politica che ponga il giovane al centro delle proprie azioni per renderlo protagonista attivo della società, una politica concertata che coinvolga tutte le agenzie educative del paese per invitare i ragazzi ad essere positivamente nel mondo.

Droghe: Corleone; domani un presidio davanti a Montecitorio

di Franco Corleone (Forum Droghe)

 

Fuoriluogo, 25 giugno 2005

 

Altro che paese normale! L’impazzimento è totale e davvero la crisi della politica pare senza sbocco. Dopo un anno dal cambio di governo non la delusione ma lo sgomento è il sentimento diffuso tra militanti ed elettori. Non vi sono progetti, proposte e soluzioni per risolvere o quanto meno affrontare i tanti problemi sociali aggravati da una cultura che fomenta odio ed egoismo, ma sempre più spesso si alza l’evocazione dell’emergenza come categoria dello spirito. Tutto è declinato come emergenza testimoniando l’impotenza del fare e l’incapacità di leggere la realtà.

Questa modalità è propria delle forze che vivono sulla demagogia populistica al fine di creare sfiducia e far sorgere la richiesta dell’uomo forte, dell’uomo della provvidenza capace di soluzioni miracolistiche. Quando la adottano forze della sinistra o democratiche è la prova di una subalternità pericolosa. L’affermazione più grave tra le tante di Livia Turco in questo mese di esternazioni sull’opportunità della presenza dei carabinieri nelle scuole e sull’utilizzo dei kit nelle famiglie, è stata quella di avere confessato la sua preoccupazione per mesi di "far passare un messaggio chiaro sull’emergenza droga tra i giovani".

Dai dizionari o almeno dal linguaggio della politica andrebbe eliminata questa che non è più una parola ma un volgare fonema. È desolante che dopo tanti anni di pedagogica insistenza non siamo riusciti a far capire ai rappresentanti di forze non proibizioniste che non si dovrebbe mai parlare di droga al singolare e tanto meno di "emergenza droga", se non si vuole cadere nella rete della costruzione ideologica del proibizionismo che ha edificato una sorta di pensiero unico basato sulla war on drugs, sulla lotta del Bene contro il Male, una guerra preventiva il cui obiettivo salvifico prevede la persecuzione dei consumatori delle sostanze vietate arbitrariamente e "a prescindere".

L’allarme "droga" è il cavallo di battaglia della narco-burocrazia, dei Costa e degli Arlacchi che legano la propria sopravvivenza alla prosecuzione all’infinito di un sogno impossibile, un mondo senza droga, per l’appunto.

Il Cartello "Non incarcerate il nostro crescere" ha accolto l’appello di Forum Droghe e ha lanciato per il 26 giugno, giornata mondiale della demagogia salvifica, un presidio davanti alla Camera dei Deputati per dire basta al fuoco amico che in questi dodici mesi ha colpito chi aveva sperato in un cambiamento sostanziale nella politica sulle droghe. Sei mesi fa l’editoriale di Fuoriluogo (novembre 2006) invitava con durezza l’Unione al rispetto del programma. Ora la situazione è ancora più grave e soprattutto meno seria.

Non solo non si è fatto nulla per rimediare ai guasti della svolta proibizionista e punitiva della legge Fini-Giovanardi che, approvata con un colpo di mano, doveva essere immediatamente cancellata non solo per il merito ma per ragioni istituzionali di rispetto del Parlamento; ma di fronte a una offensiva terroristica, a una campagna mediatica di criminalizzazione della canapa da parte delle maggiori testate giornalistiche si è rimasti inerti e silenziosi. In alcuni casi, addirittura, esponenti dell’Unione hanno cavalcato l’onda repressiva e rinunciato a un minimo di decenza e di moralità e onestà politica.

Il Presidente Prodi ha dichiarato che l’aria si è fatta irrespirabile nel nostro paese. Se è vero non è certo per le tracce di cocaina che l’ennesima seria ricerca avrebbe rilevato nel cielo di Roma. Abbiamo pazientato fin troppo. Come sosteneva con ironia Giancarlo Arnao, è tempo di difenderci con i nostri cannoni!

Droghe: Veneto; approvate linee-guida su tossicodipendenze

 

Ufficio Stampa Regione Veneto, 25 giugno 2005

 

La Regione Veneto ha approvato linee guida per preparare programmi terapeutici e riabilitativi - coordinati con i servizi regionali dipendenze, le carceri, la magistratura di sorveglianza - utili ad ottenere misure alternative al carcere per le persone tossicodipendenti.

Di questo tema si è parlato durante il seminario tenutosi a Selvazzano Dentro e al quale è intervenuto l’Assessore regionale alle politiche sociali Stefano Valdegamberi. Erano presenti anche, tra gli altri, Giovanni Tamburino Presidente del Tribunale di sorveglianza di Venezia, Daniele Berto dell’Osservatorio regionale sul carcere, Lorenzo Rampazzo della direzione servizi sociali della Regione Veneto.

"Per i tossicodipendenti in carcere - ha detto Valdegamberi - è sempre più evidente la necessità di programmi alternativi alla carcerazione. E, per gli operatori, si rende indispensabile avere un quadro di riferimento e di procedure comuni a fronte di programmi e iter tra loro molto diversi. Attualmente nelle carceri venete ci sono 567 (dati del marzo 2007) detenuti tossicodipendenti, pari a circa il 29% della popolazione detenuta.

Il nostro scopo, che non dobbiamo mai dimenticare, è il recupero, la riabilitazione del detenuto tossicodipendente e il suo reinserimento sociale e lavorativo, che presuppone, se vogliamo che il recupero funzioni, un trattamento personalizzato della sua dipendenza. Perciò abbiamo formulato delle linee guide regionali, ottenute dopo un lavoro di due anni da parte di un gruppo di lavoro specifico, in armonia con quanto previsto dal protocollo d’intesa sul carcere firmato tra Regione Veneto e Ministero di Giustizia.

Con questo lavoro - ha aggiunto - compiamo un grosso passo in avanti nell’armonizzazione a livello regionale delle procedure in modo da poter garantire un’uniformità di azione, che attualmente non c’è, nel presentare alla Magistratura i programmi terapeutici-riabilitativi, passo essenziale per chiedere la concessione di misure alternative al carcere.

È un momento importante nel percorso di collaborazione tra sanità pubblica, che ha la responsabilità del trattamento sociosanitario dei tossicodipendenti in carcere, e magistratura di sorveglianza". I Dipartimenti per le dipendenze dovranno attenersi a quanto prevedono le linee guida regionali.

Droghe: Milano; ritirato il 50% dei "kit" distribuiti alle farmacie

 

Agi, 25 giugno 2005

 

"L’esperimento del kit antidroga è un modello innovativo che ha suscitato l’interesse dei cittadini, dei politici e della stampa e se ne discute ancora da quasi due mesi, dopo la presentazione". Lo ha dichiarato l’assessore alla Salute del Comune di Milano, Carla De Albertis. "Il kit antidroga - di cui sono state messe a conoscenza le famiglie residenti in Zona 6 con figli dai 13 ai 16 anni con una lettera dell’Assessorato alla Salute e di una informativa in collaborazione con il Centro Antiveleni dell’Ospedale Niguarda Cà Granda - ha scosso le coscienze e ha ridato alle famiglie un ruolo centrale nell’educazione.

Alle 38 farmacie comunali di Zona 6 abbiamo fatto consegnare 10 kit ciascuna per un totale di 380 test delle urine per rilevare l’eventuale presenza di 5 diverse sostanze stupefacenti (cannabis, cocaina, eroina, ecstasy, amfetamine). In meno di un mese dalla spedizione delle lettere con coupon per ritirare gratuitamente il kit, ne sono stati ritirati 195. Più del 50% dei test antidroga preventivati (380) sono stati ritirati gratuitamente dai genitori. Significa che ben 200 famiglie hanno scelto liberamente di andare in prima persona in farmacia per prendere il test. Da una parte è una percentuale allarmante, perché il problema droga è davvero molto sentito, dall’altra però ciò vuole dire che in famiglia si desidera affrontare con i propri figli la questione stupefacenti.

L’esperimento del kit è stato il primo sasso lanciato nello stagno di una sorta di omertà nei confronti del problema stupefacenti ad uso dei giovanissimi. Sono d’accordo con i test antidroga ai lavoratori proposti dal ministro Turco, ma allora al governo chiediamo coerenza: nessuna liberalizzazione o innalzamento delle dosi lecite di cannabis", ha concluso l’assessore alla Salute.

Yemen: troppe condanne a morte, anche nei confronti di minori

 

www.osservatoriosullalegalita.org, 25 giugno 2007

 

La pena di morte è applicata troppo indiscriminatamente nello Yemen, superando i limiti stabiliti dalla legge islamica e comminandola anche ai minori di 18 anni, contrariamente a quanto stabilito dal codice penale. Lo hanno detto i partecipanti ad un simposio sulla pena capitale organizzato dalla coalizione delle organizzazioni della società civile a Sana'a.

La legge islamica stabilisce che la pena di morte è ammissibile nei casi di omicidio, ma i partecipanti all’incontro hanno detto che a volte i giudici fanno le proprie leggi, condannando ugualmente a morte persone che non hanno assassinato nessuno. Lo scopo di queste sentenze sarebbe servire da esempio per gli altri. I partecipanti al simposio hanno chiesto l’istituzione di una coalizione che richieda l’abolizione della pena di morte applicata in modo opposto alla legge islamica e l’abolizione della corte penale specializzata per la sicurezza dello Stato, considerata da alcuni come incostituzionale. Ci sono più di 300 prigionieri condannati a morte dalla corte criminale solo per essere un esempio per gli altri.

Una persona condannata in tal modo potrebbe essere liberata se il presidente della Repubblica lo ordinasse, ha detto Muhammad Muftah, un religioso condannato a 10 anni perché secondo il governo avrebbe comunicato con un’ambasciata straniera (l’ambasciata iraniana) ed avrebbe offerto loro informazioni. Egli è stato in carcere soltanto due anni, perché ha beneficiato di una amnistia presidenziale. Un altro uomo incarcerato con lui per lo stesso motivo, è stato invece condannato a morte ma poi è stato liberato. In almeno un caso, un detenuto in attesa di morte è stato liberato dopo che i membri della famiglia della vittima avevano accettato una compensazione finanziaria.

Le autorità yemenite non hanno reso pubblico il numero delle condanne eseguite, ma rapporti non confermati parlano di almeno 30 esecuzioni e diverse centinaia di prigionieri in attesa di esecuzione. Uno di essi è in attesa di esecuzione da 36 anni. Dall’incontro è emerso che c’è una massa di leggi richiamanti la pena capitale, nello Yemen, per reati concernenti il codice penale, i crimini di guerra, le droghe e i rapimenti. Inoltre, anche se un articolo del codice penale del 1994 prevede che nessuno sotto l’età di 18 anni possa essere condannato a morte, in febbraio la Corte suprema ha confermato la condanna alla pena capitale di un ragazzo condannato nel 2002 per un omicidio commesso quando aveva 16 anni. Peraltro avrebbe confessato sotto tortura.

Secondo Amnesty International non si tratta di un caso unico, che ha dettagliato molti casi nel suo rapporto internazionale 2007. Fra i condannati un sordo che non ha avuto l’assistenza di un interprete della lingua dei segni, e suo cugino, entrambi minorenni all’epoca dell’arresto. Una ragazza aveva 16 anni quando è stata condannata per l’omicidio di suo marito. La sua esecuzione, prevista per il maggio 2005, è rimasta in sospeso, mentre una revisione del suo caso veniva sottoposta ad un comitato nominato dal Procuratore generale (ma non se ne conoscono i risultati).

Ahmed Saif Hashid, un membro del Parlamento, ha detto che nei paesi in via di sviluppo, compreso lo Yemen, la pena di morte interessa centinaia di crimini, in particolare reati connessi alla guerra, alla politica, all’opinione, alle pubblicazioni ed alla libertà di credo. Egli ha detto che la sua esperienza con le varie azioni giudiziarie lo ha condotto lavorare contro la pena di morte per i motivi innumerevoli, compresa la mancanza di indipendenza dell’ordinamento giudiziario e le pressioni sui giudici dai loro superiori e da altre autorità. Ha precisato che le pene di morte attraverso la storia non hanno colpito i criminali quanto gli amanti della libertà, i difensori dei diritti ed i critici della corruzione e che l esecuzioni colpiscono preferibilmente la povera gente.

I rapporti delle Nazioni Unite sullo sviluppo umano hanno descritto i paesi arabi come ancora lontani dal raggiungere livelli avanzati nel mantenimento della dignità del cittadino ed hanno trovato non equi i sistemi penali arabi ed inadeguato il sistema giudiziario. Nessuno degli Stati arabi ha mai accettato di abolire la pena di morte, tuttavia i partecipanti all’incontro non ne hanno chiesto l’abolizione, in Yemen, ma almeno la conformità ai dettami dell’Islam, che, secondo alcuni eruditi presenti al simposio, rende la pena capitale molto rara e difficile da applicarsi.

Polonia: 20.000 detenuti costruiranno strade, alberghi e stadi

 

Ansa, 25 giugno 2005

 

Per risolvere i problemi della costruzione di stadi, infrastrutture e soprattutto strade, la Polonia dei gemelli Lech e Jaroslaw Kaczynski, rispettivamente presidente della Repubblica e primo ministro, ha trovato l’idea vincente. L’assegnazione da parte dell’Uefa dell’organizzazione degli Europei 2012 al duo Polonia-Ucraina, che ha fatto versare lacrime amare al ministro Melandri, ha invece risvegliato lo spirito nazionalistico nei due Paesi dell’ex blocco comunista, facendo tornare il sorriso per la valanga di investimenti e di lavoro piombati su di loro. Milioni di euro che significano stadi, alberghi e strade da costruire entro il 2012, con Polonia e Ucraina però in grave ritardo sulla partenza dei lavori.

Manca la manodopera, hanno tuonato i sindacati polacchi, ma il grido di dolore è stato subito recepito dal numero due del servizio delle prigioni, Pawel Nasilowski che, in una conferenza dedicata alla riabilitazione dei carcerati polacchi, circa 80mila, ha lanciato l’idea, subito accettata dal governo Kaczyniski: "Utilizziamo i carcerati per far loro costruire strade e infrastrutture, così potranno riabilitarsi e rendersi utili alla comunità".

La proposta è stata seguita da un piano operativo, d’accordo col ministero dei Trasporti, che prevede l’utilizzo di 20mila detenuti (è stata fatta una selezione tenendo conto dell’età e della pericolosità sociale): usciranno dal carcere su appositi torpedoni scortati dalla polizia e dall’esercito; lavoreranno sulla strada loro assegnata controllati dai militari e, al termine dei lavori serali, rientreranno nel penitenziario loro assegnato.

Non solo lavoro, perché ai tanti carcerati che si sono proposti sarà anche assicurata una riduzione della residua pena da scontare, per ora non ancora quantificata, ma presumibilmente tra i sei mesi e un anno. Una forma di indulto che indulto all’italiana non è, ma che servirebbe a diminuire la troppo numerosa popolazione carceraria polacca con elementi che si sono comunque resi utili alla comunità e che la comunità ha ora la possibilità di recuperare socialmente.

"Ora tocca al governo", ha precisato il presidente della Federazione calcio polacca (alle prese con uno scandalo tipo il nostro Moggiopoli), Michael Listkiewicz, e il governo non ci ha messo molto a recepire l’appello. "Le strade polacche, sulle quali non è possibile andare oltre i 75/80 chilometri orari, saranno adeguate alla manifestazione", ha precisato il portavoce del premier. "E per questo faremo appello anche agli oltre 800mila polacchi emigrati all’estero perché, in occasione degli Europei 2012, facciano ritorno in patria per partecipare all’evento e, se è il caso, collaborare con noi".

In attesa degli aiuti dei connazionali all’estero, la Polonia per ora si accontenta della valanga di milioni in arrivo dall’Uefa e del sudore dei 20mila carcerati che, novelli schiavi dell’era moderna, costruiranno una serie di autostrade e superstrade (finora mancanti sul suolo polacco dove esistono solo "drogi", strade equiparate alle nostre statali, e "autostrady" per ora solo sulla carta) finalmente all’altezza.

 

 

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