Rassegna stampa 16 gennaio

 

Giustizia: più omicidi in famiglia che per la criminalità organizzata

 

Amisnet, 16 gennaio 2007

 

Uccide più la famiglia della mafia. Affermazione brutale ma eloquente: ogni due giorni un morto, in cinque anni ben 1.200 vittime. Più di quanto fa la criminalità organizzata, più di quanto uccide quella straniera o quella comune. Ecco che la casa diventa uno dei posti meno sicuri, tanto che su 10 delitti commessi nel 2005 in ambito familiare, 6 sono stati consumati proprio tra le mura domestiche.

Parla chiaro il rapporto di Eures 2006 "L’omicidio volontario in Italia", e disegna un quadro per niente rassicurante. Anzi. Anche se non mancano aspetti positivi, come per esempio il calo del 65% negli ultimi 15 anni di omicidi commessi volontariamente: furono 1.695 nel 1990, sono stati 601 nel 2005. Capitale dell’omicidio è Napoli, ma in Italia, alla fine, si uccide meno che in America o, per non oltrepassare l’oceano, nel nord Europa.

Gli omicidi riconducibili ad un ambito familiare, nel 2005, hanno rappresentato il 29% del totale. Nel 91% dei casi si è assistito ad un omicidio-suicidio. 174 gli omicidi in famiglia contro i 146 di mafia e i 91 di cui si è resa responsabile la criminalità comune. Per criminalità comune si intende chi uccide "per caso", spesso persone giovani, senza nessun precedente penale, del tutto estranei alla malavita, trasformatisi in assassini per futili motivi.

La maggior parte degli omicidi in famiglia si registra al nord; il movente è spesso legato a motivi passionali e 7 donne su 10 sono state uccise o dal partner o da un familiare. La Campania è la regione dove si ammazza di più, seguita da Sicilia, Calabria, Lombardia e Lazio. Parlando di città, invece, capolista degli omicidi è Napoli, seguita da Reggio Calabria, Roma, Caserta e Milano. Negli Stati Uniti gli omicidi sono trenta volta di più di quelli commessi in Italia, ma in Italia se ne sono commessi più che in Germania, Paesi Bassi e Grecia. Maglia nera per Finlandia e Svezia.

Erba: visita a Olindo e Rosa, in carcere e minacciati dai detenuti

 

La Repubblica, 16 gennaio 2007

 

"Qui dentro ci sentiamo al sicuro. Solo qui". Gli occhi secchi e arrossati. Svuotati di tutto. Come se ogni minima traccia di residuo emotivo, o la sola reazione del momento, fosse incapace di riemergere, di bucare lo sguardo corroso e, a tratti, mostruosamente distaccato; almeno in questo, identico a quello della moglie. Olindo Romano poggia i gomiti alle sbarre. Cella numero 1, reparto di isolamento.

Il solito girone dei soliti inavvicinabili-sgraditi-imperdonabili (nel codice dei detenuti) di ogni carcere del mondo. La stazza corpulenta aderisce alle inferriate lasciate nude dalla porta schiusa con presa energica da un secondino. Si intravedono: una branda sfatta, un tavolino con niente sopra, una sedia, un armadietto malconcio, e un paio di ciabatte che sembrano nuove. Grigie le pareti. Scrostate in almeno un paio di punti. Non c’è l’ombra di un giornale, di un libro: niente; nemmeno la televisione, né cibo, o un bicchiere d’acqua. Una cella-scheletro. Quasi completamente spoglia.

"Buongiorno". L’Olindo risponde al saluto sollevando appena il mento, alzando le dita della mano destra; una mano robusta, percorsa da calli e orfana della fede. Scarmigliato, la barba di due giorni, una tuta da ginnastica azzurrina con due piccoli stemmi: "Signor Romano, come sta?". "Bene", taglia corto, confermando la naturale diffidenza. Quelli che lo conoscono, e anche il suo avvocato, lo descrivono così: un "orso" schivo, ombroso. Diffidente persino con chi si dimostra amico. E molto amante del silenzio. Come la moglie. "Gente quieta i Romano, silenziosi".

A quest’ora della sera, nel ventre un po’ malandato del Bassone, il vecchio carcere targato Nicolazzi e costruito su una palude nell’era delle carceri d’oro, il silenzio non è proprio perfetto, ma insomma. Nella loro mente asociale e iniettata di odio, Olindo Romano e Rosa Angela Bazzi, la quiete stagnante di un carcere (rotta solo dalle grida, soprattutto notturne, dei detenuti che non li vorrebbero qui, e li minacciano continuamente), questa condizione ovattata dell’anima, forse, chissà, devono averla proprio inseguita. Massacrando tre donne e un bambino.

Adesso la Rosi e l’Olindo non sono più uno accanto all’altra. Sono isolati. Soprattutto "troppo lontani", come confessa lui a chi lo sorveglia. Sorveglianza a vista. Ventiquattro ore su ventiquattro. Per tutti e due. Lo spazio fisico che li separa sarà adesso un centinaio di metri. Lui, il marito fido esecutore, quello che "non voleva uccidere, anzi cercava di fermarmi" - parole della moglie - è qui, in isolamento al pian terreno. Al reparto si accede passando dall’infermeria. I "vicini" di cella sono un transessuale e un giovane marocchino.

Lei, invece, la Rosi, la domestica fanatica dell’ordine e della pulizia, la donna che si dipinge come la regista e principale esecutrice della strage di Erba e che si preoccupa ora di alleggerire le responsabilità del marito, è al primo piano. Ma c’è un destino che li unisce. Anche nel numero di cella. Che è lo stesso: l’1. Rosi e Olindo. Basta la visita di un politico perché gli atteggiamenti, le poche parole di uno, il silenzio glaciale dell’altra, marchino le diversità. Quando gli viene annunciato che c’è un ospite che vuole incontrarli, i "vicini di casa" non battono ciglio.

Impassibili. Almeno sulle prime. Almeno fino a che un agente apre la porta della cella di Olindo. L’uomo si alza dalla sedia di legno. Scatta in piedi, si avvicina lentamente alle sbarre. Sarà banale, ma si capisce che è molto a disagio in questo luogo. Più della sua compagna di vita. Questa prigione quattro metri per tre. Bersagliato dalle proteste degli altri detenuti, inferociti, dalle grida cariche di livore. Ti ammazzeremo. "Come si sente"?.

"Mi sento al sicuro perché sono in questo posto, protetto da queste sbarre". Le parole lasciano trasparire paura. E anche la consapevolezza di essere diventato un "mostro". Lo definiscono così, brutalmente, gli altri detenuti. Il transessuale no: lui non lo pensa proprio. Quando vede facce nuove, visitatori, amministratori, ispettori, solleva la maglietta, mostra orgoglioso il petto siliconato, e se la ride.

Sentendo quella risata scomposta Olindo non fa una piega. Ritrova la parola. Sussurra, sempre sull’accoglienza rabbiosa dei 330 ospiti del Bassone (la metà, extracomunitari): "Sa, con quello che è successo...". Dice semplicemente così. Quattro parole per una strage. Poi abbassa lo sguardo. Si stringe nelle spalle massicce. A questo punto sembra provare vergogna; l’espressione tradisce lievi cenni di pentimento. Inizia a dire a mezza bocca.

"Non si...". Si blocca subito. Guarda il poliziotto. Forse vorrebbe spiegare che non si doveva arrivare fino a quel punto: non uccidere, o non così, o non il bambino magari. O forse no. Però la faccia indica questo. "Olindo mi diceva di non ammazzarlo - ha dichiarato a verbale Rosi Bazzi - ma io non lo ascoltavo nemmeno, e andavo avanti... ".

"Quando posso rivedere la Rosi?", chiede lui, con insistenza. Dovrà rassegnarsi. Gli unici incontri, per ora, a parte l’avvocato Pietro Troiano ("Ogni volta che li vedo resto turbato, questa storia ha sconvolto anche me", ammette) sono stati con l’educatrice del carcere, e con il cappellano, padre Giovanni Milano. Peraltro la moglie, la consorte "chioccia" e protettrice, di pensieri per lui non sembra averne troppi.

Eccola, Rosi Bazzi. L’inquilina più odiata della sezione femminile. Primo piano del carcere. Anche per lei una cella altrettanto essenziale, sguarnita. Il corpo minuto scompare quasi nella piccola branda posta sul lato sinistro della camera. Sta seduta nel letto, Rosi "la dolce", sotto le coperte marroni rimboccate fino alla vita. I capelli appena sotto l’orecchio, sistemati nello stesso caschetto ordinato con cui è apparsa in televisione e sui giornali. Il viso invece è segnato, smagrito, pallido rispetto ai giorni scorsi. Non si alza dal suo giaciglio. E intanto fissa l’ospite; è come se il suo sguardo lo trapassasse. Un fantasma davanti a lei.

Appesa alla parete accanto alla porta c’è una televisione. Lei sì, ce l’ha. Ma "non funziona", dice un agente. Mente. È che ai Romano è ancora vietata. "Come sta signora?". Rosi è muta. Una felpa scura, gli occhi impermeabili, di pietra. Che non si spostano. Inquadrano il viso del suo interlocutore, senza interruzioni, finché questi capisce che non è aria.

Olindo ha salutato e ringraziato. Lei, zero. Non apre bocca. Lascia che parlino le poche presenze inanimate dietro la porta rosso intenso sfregiata come lo sono certe porte dei carceri. Ai piedi della brandina, un paio di ciabatte nere. Disposte una accanto all’altra. In geometria perfetta. Ordinatissime anche le poche cose da mangiare - un pacco di cracker e dei biscotti dietetici - sistemati sul tavolino. Come teneva la casa Rosi, nessuno. Ne era la custode, la depositaria dei silenzi violati da quei vicini di casa molesti che da un anno voleva ammazzare. "È di una pignoleria maniacale", giura chi ha il compito di tenerla sott’occhio, da dietro una scrivania posizionata proprio di fronte all’ingresso della cella. Stessi gesti, sempre uguali in questi sette giorni di isolamento. "Quando me lo consentiranno, voglio stirare", ha confidato l’altro giorno a un agente.

Le vicine di cella, loro, esibiscono un forte disagio. Dice una donna italiana coetanea di Rosi (43 anni), dentro per storie di droga: "Se le tolgono l’isolamento, io non esco più da questa stanza. Non la voglio nemmeno vedere, quella".

Ce ne sono molte che invece vorrebbero. Ma quando le altre detenute escono dalle camere per l’ora d’aria, la porta di Rosa Bazzi viene chiusa completamente. Scorgerla, a quel punto, diventa impossibile. Alle orecchie della colf assassina arrivano solo gli insulti. Per lo più irriferibili. Se ne sentono di tutti i colori anche adesso. "Bastarda", "puttana". Le augurano morti atroci. Le promettono di farla fuori loro, un giorno chissà quando.

La polizia carceraria è abbastanza tranquilla. "Tra qualche tempo il clima d’odio si affievolirà - dice un agente - Nessun detenuto vorrà rischiare trent’anni di carcere per "punire" i Romano". Poi, con un mezzo sorriso, aggiunge: "Solo per l’omicidio, però, sono previsti trent’anni... ". Prima di uscire, un ultimo incontro. Nella sezione maschile il rumore delle pentole sbattute contro le sbarre in segno di protesta è ancora nelle orecchie dei custodi.

Cella 47. Amid. Tunisino. 25 anni. Spaccio di cocaina. "Sono il cugino di Azouz Marzouk. Lui era in cella con me, dormiva lì...", indica uno dei tre letti. "E guardi qua...". Una scatola vuota, delle Poste italiane. Sul dorso c’è ancora l’indirizzo del mittente. Azouz. "Conoscevo la moglie, abitavamo tutti lì, a Erba". Amid ha due figli piccoli che non riesce a vedere da tempo. "Questo è un delitto orribile, che mi ha ricordato la tragedia di Tommy. Olindo? Se lo incontrassi io..." dice tutto d’un fiato. Poi s’interrompe. Forse pensa a suo cugino, alla sua sete di vendetta. A quella frase "ci penseranno gli extracomunitari a farli fuori in carcere". E ci ripensa: "No, io credo che si debba perdonare. Perché alla fine questa è la via giusta".

Napoli: detenuto suicida cinque anni fa, indagati due agenti

 

Il Manifesto, 16 gennaio 2007

 

Prima di tornare in carcere Raffaele aveva detto che se l’avessero riportato dietro le sbarre si sarebbe ammazzato. Così è stato, si è impiccato nella notte tra il 29 e il 30 gennaio del 2002. Dopo due archiviazioni decise dal Pm Luigi Santulli della Procura di Napoli, ora il gip ha disposto l’imputazione coatta dei due agenti di polizia penitenziaria, M.V., ispettore di sorveglianza generale, e C.C., capoposto del reparto isolamento del carcere di Poggioreale. I due secondini sono accusati di omicidio colposo e condotte omissive perché avrebbero dovuto "sorvegliare attentamente" Raffaele.

L’uomo soffriva di disturbi psichici e da anni era in cura, già nei dieci mesi precedenti di detenzione aveva due volte tentato il suicidio sempre con lo stesso metodo con cui alla fine è riuscito a uccidersi. Le indagini hanno appurato infatti che Raffaele Montella è morto impiccato alle sbarre soffocato da alcuni indumenti. Il detenuto quarantenne era stato accusato di spaccio di droga, ma scontava la pena agli arresti domiciliari perché era in cura presso il servizio di psichiatria dell’Asl Napoli 5. Fu riportato comunque nel padiglione Avellino del carcere di Poggioreale perché aveva tentato di scappare. Il suo però era un caso particolare, si era salvato dai due precedenti tentativi di suicidio solo grazie all’aiuto dei suoi compagni di cella. L’ultima volta però Raffaele era sottoposto al regime di isolamento e l’accusa adesso accerterà le eventuali responsabilità dei due agenti di polizia penitenziaria che avrebbero dovuto tenerlo sotto osservazione.

Il processo rappresenta uno dei pochi casi del panorama giudiziario italiano di agenti penitenziari che vengono accusati di omicidio colposo e condotta omissiva, anche se i casi di suicidio soprattutto all’interno del carcere di Poggioreale sono frequenti.

Negli ultimi tre anni si registrano sempre più casi di autolesionismo e sono otto i detenuti morti per suicidio. Le condizioni dell’istituto penitenziario sono sempre peggiori e non soltanto per il sovraffollamento che continua a persistere anche dopo l’indulto, ma anche per la disciplina richiesta che supera spesso i regolamenti. Riverenza per gli agenti quando entrano in cella, sguardo basso e mani sempre dietro la schiena. Una situazione difficile anche per i familiari, spesso costretti ad attese estenuanti prima di riuscire ad avere un colloquio. Spesso le perquisizioni sono più che invasive, come hanno denunciato organi internazionali dopo aver ispezionato la struttura. Carente, inoltre, anche l’assistenza sanitaria, e nonostante l’alto numero di detenuti tossicodipendenti, pari al 30% del totale, il carcere garantisce il trattamento con i metadone soltanto a 30 persone. Molte sono state in passato le interrogazioni parlamentari in cui si chiedeva di far luce sulle presunte violenze subite dai detenuti da parte del personale della polizia penitenziaria.

Venezia: caso Unabomber; accusa e difesa sono ai ferri corti

 

La Padania, 16 gennaio 2007

 

"Se gli elementi in mano ai magistrati sono degli ovetti Kinder e dei pennarelli sequestrati nella casa di Zornitta e questa perizia sulle sue forbici, bisogna dire che sono davvero labili". L’avvocato Maurizio Paniz, difensore di Elvo Zornitta, l’ingegnere di Azzano Decimo (Pordenone) indagato nell’inchiesta su Unabomber, è sicuro che i prossimi giorni riserveranno qualche altra sorpresa nella vicenda sul maniaco esplosivo che dal 1993 terrorizza il Nordest.

Già domani l’avvocato, che difende Zornitta insieme a Paolo Dell’Agnolo, dovrebbe depositare in procura la contro perizia sulle "famigerate" forbici sequestrate l’anno scorso nell’abitazione dello stesso indagato.

La nuova presa di posizione dei difensori di Zornitta è arrivata il giorno dopo le parole del ministro Antonio Di Pietro che si è detto anche lui perplesso "dall’annunciata svolta nelle indagini". Anche l’ex magistrato di Mani Pulite ha espresso molte perplessità sull’effettiva consistenza degli elementi a carico di Zornitta: "O ci sono prove importanti - ha detto Di Pietro - come la procura afferma, e allora si dovevano chiedere le misure cautelari prima di comunicarle alla stampa; oppure, se le prove non sono sufficienti per determinare l’arresto mi pare ingiusta e ingiustificata la criminalizzazione mediatica preventiva di una persona che è da considerarsi innocente fino a prova contraria", ha affermato Di Pietro. "Voglio pensare che la presunta mole di indizi sbandierata ne contenga di ulteriori e migliori".

Parole, quelle del ministro, che l’avvocato Maurizio Paniz non ha commentato ma che invece sono state raccolte dal procuratore generale di Venezia Ennio Fortina: "Abbiamo molto di più delle forbici, - ha risposto il magistrato - che da sole non basterebbero, sono d’accordo. Ci sono molte altre cose, ma non è mia competenza rivelarle". Più perentorio invece Nicola Maria Pace, procuratore della Dda di Trieste: "Abbiamo elementi formidabili e la perizia è solo uno di questi. Non faccio pronostici, ma sono molto ottimista".

Ottimismo che il difensore di Zornitta non ritiene giustificato, soprattutto perché la tanto annunciata superperizia sulle forbici di Zornitta (effettuata da due esperti molto noti Pietro Benedetti e da Carlo J. Rosati) non solo non presenta elementi determinati e "lascia molti margini di dubbio", ma non sarebbe neanche stata eseguita con gli strumenti più adeguati. "I reperti - spiega Paniz - sono stati analizzati solo con microscopio ottico e non quello elettronico a contrasto, lasciando molto spazio alla valutazione degli esperti", quell’indagine insomma non ha nulla di scientifico è anzi prevalentemente "empirica".

Ma non solo, uno degli aspetti più singolari della vicenda di queste forbici, che secondo l’accusa sono quelle utilizzate per confezionare l’ordigno trovato inesploso nel 2004 nella Chiesa di Sant’Agnese a Portogruaro, è che la stessa perizia fatta effettuare dalla procura evidenzia come su quel reperto ci siano state "significative manomissioni" durante la loro analisi: in particolare - sottolinea Paniz - "le forbici sono state smontate, cosa di per sé già grave, ma anche rimontate in maniera errata dal laboratorio della scientifica della Direzione anticrimine centrale della Polizia di Roma, alterandone l’originaria "stretta" della vite centrale".

Rilievi la difesa di Zornitta ne fa inoltre sulla stessa efficacia giuridica della perizia, effettuate tramite la prova dei toolmarks: "Circa il 75% degli studiosi americani di questo tipo di prova sostengono che possano fornire solo risposte indiziarie e non risposte scientifiche, inoltre non esistono precedenti di studio per quanto riguarda i toolmarks su un reperto così piccolo".

Libri: Madri assassine, diario da Castiglione delle Stiviere

 

Il Manifesto, 16 gennaio 2007

 

"Madri assassine" di Adriana Pannitteri

Gaffi Editore, pp. 120, euro 10

 

Adriana Pannitteri, giornalista Rai, volto del Tg1, è andata di persona a immergersi nello sguardo, pieno di dolore, di disperazione, a volte assente, di quelle donne così particolari: le mamme che hanno ucciso i propri figli e che dopo avere occupato con il loro gesto prime pagine di giornali e telegiornali, finiscono nelle celle linde e senza agenti dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, sul lago di Garda, struttura unica nel suo genere in Italia e in Europa.

E da questo viaggio attraverso i meandri della mente, le parole, le lacrime, i corpi di donne travolte, spesso nella solitudine, dalla incapacità di affrontare il rapporto con un essere umano appena nato o nei primi mesi di vita, ha preso forma un libro.

Si intitola Madri assassine - diario da Castiglione delle Stiviere, straordinario percorso umano, tragico e rivelatore, in un mondo fatto di segni invisibili e di atrocità. "Per me non è un libro, ma il libro", afferma Adriana Pannitteri, che alterna la cronaca letteraria delle visite e dei colloqui con le protagoniste ad una narrazione semi-immaginaria, affidata ad una bambina, Maria Grazia, che ripercorre vicende dell’infanzia dalle quali emerge la figura di una mamma con problemi psichici. In apertura del libro, scrive: "È a Castiglione che sono andata a cercare la follia e il suo volto più inaccettabile". Un tempo manicomio criminale, con oltre 1000 reclusi in condizioni disumane, Castiglione oggi è l’unico ospedale psichiatrico giudiziario in Italia (150 ricoverati, 50 donne, 10-12 le madri assassine, ad aprile 2006) ad ospitare donne che hanno ucciso i propri figli. Niente agenti penitenziari, soltanto medici e infermieri, tutto personale del ministero della Sanità e degli enti locali, celle con il nome di fiori, una piscina, libero accesso alla tv. Si punta molto sul lavoro: pittura, formazione professionale, biblioteca. C’è la psicoterapia, ma prevale l’uso dei farmaci, nei casi più gravi la contenzione".

Storie di "omicidi agghiaccianti": neonati messi in lavatrice, affogati, chiusi vivi dentro uno zaino, la bocca sigillata con la cucitrice per impedirgli di urlare. Atroce quotidianità, purtroppo. "Adriana è voluta andare oltre la cronaca - spiega la psichiatra Annelore Homberg nella prefazione - ha cercato di capire cosa accade a queste donne sia prima che dopo il fatto, anche per sfatare l’idea terrificante dell’espiazione, della punizione: devono avere la vita distrutta, perché hanno distrutto quella del figlio. Il suo merito è quello di non avere creduto al concetto di male: le malattie vanno comprese nel loro originarsi. Si tratta di curarle, guarirle, prevenirle".

Tante persone negli incontri pubblici rivolgono ad Adriana Pannitteri domande sempre uguali: "Ma come è possibile", "è inconcepibile", "era una mamma felice", "aveva tutto: una famiglia normale...". E centinaia di donne, intanto, le confidano: "Anche io ho avuto un momento di difficoltà dopo il parto". "Due cose fanno più paura alla gente: il raptus e l’idea che la malattia mentale sia ereditaria - racconta la giornalista -. In realtà nei casi citati nel libro queste donne, in qualche modo, avevano avuto già problemi di depressione, di disagio psichico ed avevano lanciato un segnale di aiuto: forse se fossero state curate prima non avrebbero ucciso. C’è poi una tendenza americana - aggiunge - a ritenere che tutto è governato dal Dna, compreso il disagio mentale. Non è così. È tempo di liberarsi da queste cose. C’è una difficoltà a capire che spesso il disagio mentale si annida nella normalità, in relazioni malate; non si uccide un figlio per un momento di stress... È necessario allora dare alle persone la conoscenza e gli strumenti per riconoscere la malattia".

"Lo stesso concetto di raptus è assolutamente fasullo - afferma Annelore Homberg -. Questi casi non c’entrano niente con un’esplosione incontrollata di affetti. Il problema casomai è l’anaffettività, la mancanza di affetti. Molte volte prima c’è un’alterazione del pensiero, all’inizio invisibile, fino ad arrivare al livello cosciente, come delirio manifesto. Nella sua indagine giornalistica, Adriana scopre qualcosa che gli psichiatri dovrebbero sapere - prosegue la Homberg -: dietro questi delitti ci sono lunghe storie cliniche, sviluppate negli anni, ci sono state richieste di aiuto che l’ambiente intorno non ha avuto la sensibilità di capire, segnali rivolti anche a specialisti, non solo ai medici di famiglia. C’è da chiedersi se l’attuale formazione di psichiatri e psicologi è sufficiente per cogliere la distruttività della malattia mentale".

Nel libro parlano anche il direttore di Castiglione delle Stiviere, Antonino Calogero, il medico, dottor Esti, gli infermieri. Gite nel bosco. La spesa tutte insieme. "È un luogo veramente particolarissimo - insiste Adriana -, c’è un clima infinitamente migliore rispetto all’ospedale giudiziario o al carcere. Il grande interrogativo che mi resta, però, è quante di queste donne riescono ad uscire dal tunnel e a vivere decentemente? Questo loro non te lo dicono".

Solo una mamma "assassina" su tre finisce nella struttura speciale sul lago di Garda. "Il nodo fondamentale, nel bene e ne male, è chi fa la perizia, gli psichiatri di cui si avvalgono i magistrati", spiega la Pannitteri. E c’è anche il caso di Maria Patrizio, la madre che annegò il figlio nella vaschetta da bagno, in attesa di giudizio, dichiarata "sana di mente", che ora dovrebbe lasciare Castiglione, per andare in carcere.

Secondo l’Istat, venti figli all’anno vengono uccisi dai genitori. "Non mi sentirei di dire che sono casi in aumento - dice Adriana Pannitteri -, credo che in passato se ne parlasse pochissimo. Cogne ha acceso una luce su casi confinati in brevi di cronaca". I crimini in famiglia, invece, sono aumentati di sei volte in soli cinque anni". Il libro è organizzato attorno al racconto, fantastico, di una bambina, Maria Grazia e si chiude con una luce di speranza.

Prato: una sostegno per ricominciare a vivere dopo il carcere

 

Asca, 16 gennaio 2007

 

Una rete di sostegno per voltare pagina dopo la drammatica esperienza del carcere e per tornare a quella vita normale che sembra irraggiungibile, investendo nel recupero e nella rieducazione: le maglie sono costituite dai tanti ed eterogenei progetti che il Comune sostiene per i detenuti, ex detenuti e semi-liberi, in collaborazione con la Casa circondariale de La Dogaia e le associazioni cittadine che si occupano del problema.

I servizi attivati ormai da anni hanno retto anche all’urto del provvedimento di indulto emanato nell’agosto scorso, scongiurando l’emergenza che invece si è creata in altre città. I carcerati che hanno lasciato La Dogaia sono stati in tutto oltre 200, di cui la metà extracomunitari, facendo passare la popolazione carceraria pratese in poco più di un mese da 580 detenuti a 384, sforando di poco la capienza ufficiale della Dogaia, ovvero 326 persone.

L’altra faccia della medaglia è che quando le porte del carcere si chiudono alle spalle in molti casi gli ex detenuti non hanno più riferimenti, non hanno una casa e faticano molto a trovare un’occupazione e a riallacciare rapporti ormai spezzati da tempo con chi gli era vicino. A tendere una mano d’aiuto vi sono le borse-lavoro dell’assessorato ai Servizi sociali, che nel 2006 hanno permesso il reinserimento nel mondo lavorativo di 160 persone svantaggiate, non solo ex carcerati.

Il progetto, riconfermato anche per il 2007, è stato finanziato con 270mila euro che si sono tradotti o in sostegno all’assunzione per le imprese di vario tipo che hanno aderito all’iniziativa o in contributi per le cooperative e le associazioni che hanno impiegato questi soggetti con diverse mansioni.

Il percorso per ricominciare e per non riprendere la strada del carcere è molto complesso, come spiega l’assessore ai Servizi sociali Maria Luisa Stancari. Per questo l’assessorato ha stanziato 200.000 euro provenienti dai fondi del Piano integrato sociale regionale per sussidi economici, sistemazioni alloggiative, avviamento al lavoro tramite tirocini, tutoraggio e progetti dentro e fuori da La Dogaia.

Per accogliere temporaneamente coloro che escono dal carcere e non hanno una dimora fissa vi è a Maliseti in via Montalese la Casa di accoglienza per detenuti in licenza e familiari in visita Fesch, gestita dal Centro comunità carcere della solidarietà Caritas, che consente anche di avere un punto di riferimento esterno per ritrovarsi con i propri cari che vengono da fuori Prato in visita evitando le spese di pernottamento. Le persone ospitate nel 2006 sono state 360 con 850 pernottamenti.

I senza tetto in stato di semi-libertà possono poi trovare un posto dove continuare a scontare la pena all’esterno del carcere e cominciare un percorso di reinserimento lavorativo e sociale presso la Casa di accoglienza per detenuti ammessi a misure alternative alla detenzione di Comeana, gestita dall’Arci Nuova di Prato in collaborazione con il Servizio sociale territoriale e con il Ministero di Giustizia, che attualmente ospita 15 utenti.

Sempre nell’ambito del reinserimento sociale vi è poi il grande lavoro svolto dal Centro comunità carcere e dal Gruppo "Barnaba", che operano anche per risolvere a monte diversi problemi inerenti il primo impatto dei detenuti scarcerati.

Il Comune è impegnato anche all’interno de La Dogaia con diversi settori e in collaborazione con varie associazioni: vi sono il progetto "Libri nelle maglie della rete" per il prestito interbibliotecario in carcere, l’attività sportiva e motoria gestita dalla Uisp di Prato, il progetto di raccolta differenziata dei rifiuti, insieme ad Asm, che occupa 5 detenuti, di cui 3 all’interno e 2 all’esterno e i laboratori per cortometraggi, scrittura, musica, percussioni, fotografia e teatro.

Il recupero dei detenuti e degli ex è stato oggetto anche dell’interrogazione presentata nell’ultima seduta del Consiglio comunale dal capogruppo dell’Italia dei valori Aurelio Donzella, a cui ha risposto l’assessore Stancari illustrando le attività realizzate dal Comune nell’arco del 2006 e le prospettive per il 2007. L’approfondimento è stato rimandato ad una seduta della Commissione consiliare Affari sociali che si terrà prossimamente con la partecipazione di rappresentanti della Casa circondariale pratese.

Grosseto: sindaco denuncia la situazione critica del carcere

 

Redattore Sociale, 16 gennaio 2007

 

Una lettera per attirare l’attenzione su una situazione su cui "non è più possibile tacere". L’ha inviata il sindaco di Grosseto Emilio Bonifazi (La Margherita) rivolgendola all’attenzione del presidente del Consiglio, Romano Prodi, al ministro per la Giustizia, Clemente Mastella, a quello delle Infrastrutture Antonio Di Pietro e a quello dell’Interno, Giuliano Amato. Oggetto dell’intervento le pessime condizioni generali in cui versa la casa circondariale di Grosseto, rispetto alle quali "è arrivato il momento di considerare prioritaria la realizzazione di una nuova struttura", sottolinea Bonifazi. "La struttura penitenziaria - scrive il sindaco di Grosseto - presenta problematiche croniche, dovute in particolare alla mancanza e all’inadeguatezza degli spazi disponibili, migliorabili solo con ingenti interventi edilizi". La lettera denuncia anche che l’edificio non è pienamente conforme agli standard igienico-sanitari, della sicurezza e antincendio.

La casa circondariale di Grosseto, costruita nel 1850, è collocata nel centro urbano ed è attorniata da altri edifici, caratteristiche che rendono difficile e molto oneroso procedere ad interventi di sistemazione. Da qui la proposta, che il sindaco espone nella lettera, di realizzare una nuova struttura. "L’amministrazione penitenziaria - prosegue Bonifazi - ha fatto più volte presente che sarebbe intenzionata a chiudere l’istituto perché ritenuto non idoneo, prevedendo la costruzione di un nuovo penitenziario. Il Comune è disposto a contribuire". È stata già individuata un’area, vicino all’ospedale, che potrebbe essere idonea allo scopo, prevedendo anche ulteriori opere di urbanizzazione per evitare di ridurre la struttura ad "una cattedrale nel deserto". La richiesta del comune di Grosseto, dunque, si unisce a quella dell’autorità giudiziaria e delle forze di polizia, e si esplicita nel vedere inserita la costruzione del nuovo istituto penitenziario nel primo gruppo di carceri da realizzare.

"La necessità e l’urgenza sono inconfutabili - aggiunge il sindaco - e sono sotto gli occhi di tutti le limitate condizioni di sicurezza, di adeguatezza e di fruibilità degli spazi dell’attuale casa circondariale, che si può definire, senza smentita, non più rispondente alla sua funzione. La realizzazione di un nuovo carcere porterebbe sicuri vantaggi per la ricettività dei detenuti". La lettera è stata inviata anche al Capo dell’amministrazione penitenziaria, Ettore Ferrara, al provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Toscana, Massimo De Pascalis, all’Ufficio Beni e servizi del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ed alla direttrice della casa circondariale di Grosseto, Maria Cristina Morrone.

Genova: l’Agenzia delle Entrate attiva un servizio per i detenuti

 

Ansa, 16 gennaio 2007

 

Da ieri 15 gennaio, anche nell’Istituto penitenziario di Marassi a Genova, si parla di fisco. Non si tratta di un atteggiamento "persecutorio" da parte dell’Agenzia delle entrate nei confronti dei detenuti, ma piuttosto di un servizio offerto a persone che, per motivi legati alla loro particolare condizione, non sono in grado di provvedere autonomamente a necessità che riguardano i rapporti col fisco: richieste di rimborsi, cartelle esattoriali, duplicati del codice fiscale o della tessera sanitaria, dichiarazioni dei redditi degli anni precedenti. I detenuti di Marassi, in base a un accordo stipulato tra la direzione del carcere con l’ufficio delle Entrate di Genova 3, potranno ricevere informazioni e assistenza fiscale come ogni altro cittadino. Un funzionario dell’Agenzia sarà a disposizione, una volta al mese, per ricevere istanze e pratiche connesse agli adempimenti da parte dei detenuti nei confronti del fisco.

Campania: corso sull’immigrazione per gli operatori dell’Uepe

 

Comunicato Stampa, 16 gennaio 2007

 

L’Ufficio Esecuzione Penale Esterna presso il PRAP Campania, ritenendo importante la parità di trattamento tra i soggetti detenuti o in misura alternativa italiani e stranieri, ha inteso promuovere una serie di attività finalizzate a migliorare le condizioni di vita delle persone immigrate in esecuzione penale e il rapporto tra le varie etnie e il personale dell’Amministrazione Penitenziaria, nonché a facilitare la costruzione di una rete territoriale per rispondere ai bisogni di tali soggetti. Le attività previste, finanziate con fondi della Regione Campania, sono state formalizzate con la stipula di un Protocollo d’Intesa tra il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Campania, Dott. Tommaso Contestabile, e la Dott.ssa Maria Teresa Terreri, in rappresentanza di Alisei Ong, Gesco e Cidis Onlus, organizzazioni che si occupano di mediazione culturale.

Le attività hanno avuto inizio il 15 gennaio 2007, con un corso di aggiornamento rivolto ai Direttori e agli Assistenti Sociali degli U.L.E.P.E. della Campania, promosso dall’Ufficio Esecuzione Penale Esterna del PRAP e curato dallo stesso con l’Ufficio della Formazione del medesimo PRAP.

Il corso, denominato "Mediterraneo", è articolato in due edizioni di tre moduli ciascuna, da tenersi presso la Scuola di Formazione dell’Amministrazione Penitenziaria di Portici ed affronta le seguenti tematiche: la normativa in materia di immigrazione: il Testo Unico e le sue possibili evoluzioni; le migrazioni in Italia: evoluzione del fenomeno e sue peculiarità; la costruzione della rete: un ponte tra le strutture penitenziarie e i servizi del territorio; identità e differenza: le culture e i conflitti nella società contemporanea.

 

Il direttore dell’Uepe di Napoli

Dott.ssa Dolorosa Franzese

Catanzaro: i ragazzi di via Paglia e i colori oltre le sbarre

 

Quotidiano di Calabria, 16 gennaio 2007

 

"I ragazzi di Via Paglia. Volti, colori e luci oltre le sbarre": già il titolo indica un appuntamento espositivo da non perdere per più d’un motivo. Al via, presso il Centro di Aggregazione Giovanile di Via Fontana Vecchia, la mostra artistica "I ragazzi di Via Paglia. Volti, colori e luci oltre le sbarre". L’iniziativa, che è riuscita a coinvolgere nel pomeriggio di ieri tutte le maggiori autorità locali in un’ unica sala, rappresenta l’ultimo passo del progetto "Arcobaleno", promosso ed organizzato dall’Istituto Penale per i Minorenni "Silvio Paternostro" di Catanzaro in collaborazione con l’Associazione "Ruvazzo". Un percorso d’arte intrapreso dai giovani ragazzi dell’Istituto che hanno avuto modo di esternare le loro sensazioni ed emozioni, provate tra le fredde mura del carcere, attraverso l’arte nella sua forma più estetica, il disegno.

L’inaugurazione della mostra è stata subito seguita da una breve conferenza stampa che ha visto gli interventi del nostro primo cittadino Rosario Olivo, il direttore dell’Istituto Penale per i Minorenni "Silvio Paternostro" Francesco Pellegrino, il direttore del Centro di Giustizia Minorile Angelo Meli, il prefetto di Catanzaro nella sua prima uscita ufficiale Salvatore Montanaro, ed il referente del progetto "Arcobaleno" Pino Veraldi in arte "Ruvas".

"Oggi siamo qui - commenta Francesco Pellegrino - per dare il via a questa mostra. Abbiamo avviato questo progetto per rendere noto il percorso d’arte intrapreso dai nostri ragazzi e il talento posseduto da ogni di loro. Voglio dare un grosso ringraziamento alla Magistratura Minorile che ha permesso di avere oggi qui con noi i ragazzi autori delle opere".

"Questa manifestazione - spiega Rosario Olivo - ha avuto come madrina la consorte del nostro prefetto, e di questo gliene siamo tutti grati. Quello intrapreso dall’Istituto "Paternostro" assieme all’Associazione "Ruvazzo" è un progetto ricco di significati che può aiutare tutti noi a crescere e capire quelle realtà che non si possono comprendere se non le si vive al loro interno. Per me, l’incontro di oggi rappresenta un momento importante di promozione umana perché ci fa venire a conoscenza delle tante difficoltà che si affrontano per portare questi ragazzi verso un nuovo inizio".

"Sono qui, nella mia prima uscita ufficiale - commenta Salvatore Montanaro - per testimoniare la presenza dello Stato al fianco di questa splendida iniziativa. Il mio pensiero va ai protagonisti del progetto, ovvero i ragazzi detenuti autori delle magnifiche opere esposte in mostra".

"La Giustizia Minorile - spiega Angelo Meli - da sola non può farcela per la reintegrazione di questi ragazzi, ma ha bisogno dell’appoggio di tutti. In tal senso, oggi sono particolarmente commosso vista la grossa partecipazione all’iniziativa. L’obiettivo è quello di aiutare questi ragazzi nella costruzione del loro sogno: costruirsi un futuro libero!". Le opere dei ragazzi di Via Paglia saranno esposte presso la sala mostre del Centro di Aggregazione Giovanile fino a giorno venti dalle ore 16 alle 20. Sarà possibile acquistare le opere dei giovani artisti presso lo stesso Centro sapendo che il ricavato sarà devoluto per i ragazzi detenuti dell’Istituto Penale per i Minorenni "Silvio Paternostro". Una massiccia presenza che va a sottolineare la forte valenza integrativa del progetto, volta alla creazione di una nuova e "normale" vita sociale al seguito di una qualsivoglia detenzione.

Roma: "Prima del prima", un concerto a sostegno di Amnesty

 

Vita, 16 gennaio 2007

 

Sabato 3 febbraio alle ore 10.30 nella Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica, in viale de Coubertin a Roma.Nella Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica il maestro Georges Prêtre, alla guida dell’Orchestra e del Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, con al pianoforte Gabriel Tacchino, aprirà al pubblico la prova generale del concerto. La prova è dedicata ad Amnesty International. Il programma prevede la Suite Sinfonica da Porgy and Bess di Gershwin, il Concerto in fa per pianoforte e orchestra sempre del compositore americano, Trois Nocturnes per Coro e Orchestra di Debussy e La Valse poema coreografico di Ravel. È la seconda volta che l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia collabora con grande generosità al lavoro di Amnesty International in favore dei diritti umani. Il ricavato dei biglietti andrà a finanziare le attività di Amnesty,

In particolare, il concerto è dedicato alla Campagna "Invisibili" lanciata un anno fa dalla Sezione italiana di Amnesty International per difendere i diritti delle centinaia di minori che ogni anno arrivano in Italia, passando il Mediterraneo su piccole barche insicure. Per fuggire da guerre, povertà e paura. Amnesty chiede che i minori non siano mai detenuti, se non in casi estremi e rispondenti al loro superiore interesse, e che la detenzione di migranti e richiedenti asilo non sia generalizzata e rispetti gli standard internazionali sulla legittimità e sulle condizioni di detenzione. Amnesty chiede inoltre che i centri di detenzione e i dati statistici siano resi accessibili al monitoraggio indipendente delle Ong e che l’Italia adotti, finalmente, una legge organica in materia di asilo, conforme agli standard internazionali, ponendo così fine al vuoto di tutela che favorisce il perpetrarsi di queste e di altre violazioni. I biglietti (20, 15 e 10 euro) sono in vendita a botteghino dell’Auditorium Parco della Musica tutti i giorni dalle ore 11 alle 20.

 

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