Indulgenza senza carità

 

Dossier di Famiglia Cristiana: "Indulgenza senza carità"

di Annachiara Valle e Vittoria Prisciandaro

 

Famiglia Cristiana, 1 febbraio 2007

Indulto oltre l’emergenza

Alla Collina, dove si impara a stare sulle proprie gambe

Reggio Calabria, dove Aurora fa rima con lavoro

A Milano c’è un "tetto" anche per chi esce di galera

A sei mesi dal varo dell’indulto, il mondo del volontariato di matrice cristiana è concorde: si tratta di una misura di clemenza giusta ma improvvisata. E ora bisogna affrontare i nodi strutturali.

 

Indulto oltre l’emergenza

 

Il provvedimento di indulto dell’estate scorsa, che ha messo fuori dal carcere 25 mila detenuti, ha provocato molte discussioni. Ma al di là delle polemiche, a volte pretestuose, sul rischio sicurezza per i cittadini, la misura di clemenza sembra essere stata gestita in maniera improvvisata, sull’onda dell’emergenza affollamento carcerario. A sei mesi di distanza, che ne è stato delle migliaia di beneficiari? Chi si è occupato di loro? E che ruolo ha giocato il volontariato di matrice cristiana?

"Un atto eccezionale, che dedico a Giovanni Paolo II". Il ministro della Giustizia Clemente Mastella commentava così, a fine luglio, l’approvazione dell’indulto da parte del Parlamento. Il provvedimento, che concede tre anni di sconto di pena a tutti i detenuti (con l’esclusione di alcuni tipi di reato), ha subito suscitato polemiche e paure nell’opinione pubblica. "Non c’è stata un’adeguata preparazione", denuncia monsignor Giorgio Caniato, ispettore dei cappellani penitenziari, "e anche la comunità cristiana si è trovata colta di sorpresa".

Eppure un provvedimento del genere era stato chiesto più volte dalla Chiesa. "Un segno di clemenza a vantaggio di tutti i detenuti: una riduzione, pur modesta, della pena costituirebbe per i detenuti un chiaro segno di sensibilità verso la loro condizione", aveva detto Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo del 2000. Una richiesta che, due anni dopo, aveva ripetuto anche a deputati e senatori durante la sua visita in Parlamento.

Anche la Conferenza episcopale italiana aveva espresso la sua preoccupazione per il sovraffollamento degli istituti penitenziari e si era espressa a favore di un gesto che desse un segnale di attenzione ai detenuti e che alleggerisse la situazione all’interno delle carceri. Non stupiscono perciò le parole del cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio consiglio Giustizia e pace: "Sì, è grande la soddisfazione da parte della Santa Sede a questa notizia", aveva dichiarato appena saputo del voto del Parlamento italiano. "Viene coronato il sogno di Giovanni Paolo II e anche quello di Benedetto XVI, assai sensibile alla situazione dei carcerati".

Chi, però, vive da anni sul campo l’esperienza del carcere e che ha dovuto "tamponare" l’emergenza indulto di quest’estate avanza qualche perplessità. "Siamo ancora sicuri del fatto che un provvedimento di clemenza fosse necessario - l’indulto o qualche altro istituto giuridico -, siamo perplessi sulle modalità di attuazione", spiega Pierluigi Dovis, direttore della Caritas di Torino. La Caritas, insieme con gli uffici pastorali della diocesi sabauda, aveva messo per iscritto agli inizi di settembre le proprie riflessioni sull’indulto. Esprimendo, in modo chiaro e diretto, il pensiero di gran parte del volontariato e del privato sociale che lavora nelle carceri di tutta Italia: "Condividendo l’invito di Giovanni Paolo II, l’abbiamo richiesto", si legge nel documento, "per tanto tempo l’abbiamo atteso. E infine è arrivato. Nel cuore della canicola estiva, l’indulto è diventato provvedimento legislativo. Di punto in bianco, e con effetto immediato. Un metodo che ci ha lasciati sconcertati, anche se per motivi ben diversi da quelli accampati da coloro che ben sanno agitare gli spauracchi della sicurezza pubblica. Anzitutto è arrivato tardi rispetto a quando avrebbe avuto un significato non solo politico, ma culturale: l’anno 2000. In secondo luogo è stato precipitoso e affrettato. In pochissimi giorni è stato deciso e in ancora meno è stato eseguito. Con stupore degli stessi carcerati che, al pari di Istituzioni, società, volontariato e opinione pubblica erano del tutto impreparati. In terza battuta è stato deludente perché non sembra aver davvero tenuto conto delle motivazioni per cui la nostra coscienza riteneva - e ritiene - opportuno un atto di clemenza. Così l’indulto rischia di trasformarsi in un modo minimalista per fare spazio nelle carceri e non il segno della volontà misericordiosa di offrire una nuova possibilità a coloro che hanno sbagliato".

A distanza di poco più di sei mesi dall’entrata in vigore del provvedimento, queste riflessioni restano valide. "Quello che abbiamo chiesto in questi anni", puntualizza monsignor Caniato, "era un segno che rimettesse al centro la dignità delle persone, che mostrasse un possibile percorso di riconciliazione e recupero, che si occupasse delle strutture. Non siamo contro l’indulto, anzi. Ma ci saremmo aspettati una gestione diversa. Invece le persone sono state messe fuori senza la possibilità di pensare a dei progetti, a un accompagnamento, senza che la società e la stessa comunità cristiana fossero sensibilizzati e pronti a reinserire gli ex detenuti nel tessuto sociale".

I dati forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, aggiornati al 10 gennaio, dicono che in carcere restano ancora 38.838 persone, mentre dal primo agosto 2006 sono usciti dagli istituti di pena 25.356 detenuti. "Un numero rilevante", aggiunge Dovis, "rispetto al quale è mancata, e sta mancando, la progettazione. Mettere fuori dal carcere delle persone senza dare loro qualche reale elemento di sostegno per il futuro, tranne la mera assistenza temporanea, crea nei carcerati ulteriore sconforto. Si sentono abbandonati dalle istituzioni e quindi dalla collettività, perché questa non è questione del governo, è questione della collettività intera".

Fuori dal carcere, i rapporti con il territorio e con la comunità non si costruiscono in poco tempo. "Un altro elemento di perplessità", aggiunge ancora il direttore della Caritas di Torino, "è stato proprio il fatto che il dibattito attorno all’indulto è avvenuto esclusivamente nelle aule del Parlamento e non è uscito nell’agorà pubblica. Non ci sono stati momenti di confronto, di presentazione e di dialogo con la società civile. Che è poi il luogo che deve accogliere e reinserire le persone uscite dal carcere. Anche per questa mancanza di dibattito succede poi che basta che un ex detenuto commetta un reato, anche se piccolo, per sentire il pesante giudizio negativo della gente. Questo non aiuta a entrare nella logica cristiana della misericordia e nella logica più ampia - per chi non condivide il nostro cammino di fede - dell’accoglienza solidale nei confronti di queste persone. E non perché la gente sia cattiva, ma perché non è stata adeguatamente preparata. Le istituzioni, in questa vicenda, sono venute meno anche al compito educativo che rientra nelle loro finalità".

Dovis fa un po’ di mea culpa anche per quanto riguarda la Chiesa che "giustamente si è schierata dalla parte della richiesta di Giovanni Paolo II, ma poi non si è impegnata abbastanza per educare la comunità cristiana a capire il significato dell’indulto e a comprendere come esso possa diventare elemento per fare e usare misericordia; occasione per dare a queste persone una seconda possibilità; modo per essere, come comunità cristiana, accanto a delle persone che hanno bisogno di capire dove hanno sbagliato e come possono cambiare se stesse". In assenza di una progettazione organica, sono stati soprattutto i Comuni e il volontariato a reggere il peso dell’indulto. "Due spalle che si sono date una mano", commentano alla Caritas, "ma che forse avrebbero avuto bisogno di altri sostegni".

In attesa che qualcosa si muova, la Caritas italiana ha chiesto a tutte le sue diramazioni territoriali di "favorire l’accoglienza ordinaria e il reintegro nelle comunità civili ed ecclesiali di appartenenza, facilitando e incoraggiando dove possibile il reinserimento nei contesti familiari e lavorativi", impegnandosi nella presa in carico, "con adeguati percorsi terapeutici in strutture idonee, di quegli ex detenuti che necessitano di cure specifiche, come malati di Aids, tossicodipendenti, persone con disagi psichici, alcolisti, ecc.", e potenziando "le strutture di accoglienza già attive sul territorio, come i Centri d’ascolto, le mense, gli ostelli, per far sì che anche chi non ha reti familiari di riferimento, come ad esempio i senza dimora o molti extracomunitari, possa comunque trovare dei punti di orientamento e di sostegno, almeno nella fase iniziale". La Chiesa resta infatti convinta che "compito della pastorale - ma anche in primis della politica e della società - sia quello di creare un clima capace di accogliere la disponibilità al cambiamento e di promuovere una nuova cultura".

"È questo", aggiunge monsignor Caniato, "l’impegno dei cappellani, dei volontari e delle associazioni soprattutto di stampo cristiano: lavorare per il cambiamento di una struttura - quella carceraria - che oggi è tutt’altro che redentiva, e preparare la comunità cristiana ad accogliere queste persone che rientrano nella società e a sostenere quelle che hanno particolari necessità come gli stranieri".

Situazione particolarmente difficile, quella degli extracomunitari, soprattutto per quanti dovevano essere espulsi a fine pena. Trovandosi quasi sempre nell’impossibilità materiale di lasciare il nostro Paese, gli stranieri usciti con l’indulto rischiano di tornare presto dietro le sbarre per violazione della legge Bossi-Fini sull’immigrazione. Alcuni di loro, impossibilitati a comprare il biglietto di ritorno per il Paese d’origine, hanno deciso di auto denunciarsi in questura cercando di ottenere l’espulsione con accompagnamento alla frontiera; tanti altri hanno trovato sostegno nel volontariato.

"La verità", sostiene monsignor Caniato, "è che non c’è stato il tempo di vagliare le singole posizioni e quindi di attrezzarsi per il meglio". E, aggiunge Dovis, "non è neanche giusto che le istituzioni facciano eccessivo affidamento su di noi. Non si può pensare che noi possiamo fare supplenza per le carenze istituzionali. Quest’estate, per esempio, mi sono sentito chiedere dalla Prefettura di tenere aperti i nostri centri di ascolto per l’emergenza indulto. Ma in pieno agosto, con i volontari giustamente in riposo con le proprie famiglie, una richiesta del genere era inaccettabile. Abbiamo fatto ciò che si poteva, ma non si può andare avanti con l’emergenza, occorre una progettazione più seria. Invece assistiamo a sprechi di tempo e di risorse. Per esempio, il Consiglio di aiuto sociale che nella nostra città è stato formalmente convocato, e che formalmente lavora, ha prodotto un "kit per i dimittendi", una borsetta con dentro qualche biglietto del tram, qualche indirizzo dove andare a dormire, lavarsi, mangiare, qualche cartina ecc. Cose utili, per carità. Ma credo che, a chi esce dal carcere, non serve che il Consiglio di aiuto sociale spenda due anni della propria esistenza per mettere in piedi questo tipo di cose. Quello che serve è l’accompagnamento al lavoro, all’abitare, alla gestione dei conflitti all’interno della propria comunità familiare. Su questo non vedo ancora molto impegno".

Girando per l’Italia, questa è la lamentela che si sente più spesso: pochi progetti, scarsa cura per le persone, minima attenzione ai problemi strutturali del mondo carcere. "Questa è invece un’occasione da non perdere", commenta il cappellano di Rebibbia don Sandro Spriano. "Adesso si può mettere mano all’organizzazione del carcere, sia dal punto di vista logistico che delle iniziative sulle persone. A Rebibbia la popolazione carceraria si è dimezzata. Questo significa che si può fare un "trattamento" individualizzato molto più efficace di quello che si faceva prima. Si è sempre detto che i numeri non consentivano di seguire bene le persone. Oggi i numeri, invece, lo consentono molto meglio di prima e quindi ci dovrebbe essere la volontà di far partire questi interventi che riguardano l’area educativa, il servizio sociale fuori... Si potrebbero aumentare i permessi premio e le misure alternative al carcere". Invece, continua don Spriano, "mi sembra che le cose non si muovano. Mi stupisce che questi provvedimenti, nonostante l’indulto, siano andati diminuendo. I permessi premio per Natale, per esempio, che qualche anno fa, a fronte di 1.200 detenuti, erano stati 250, oggi, su 900 sono stati 25. Questo significa che c’è qualcosa di interrotto e che le cose sono rimaste un po’ allo stesso livello. Adesso, però, non ci si può nascondere dietro l’alibi delle cifre".

"Questa dell’indulto è una sfida anche per noi operatori", aggiunge Nadia Cersosimo, direttrice del carcere speciale di Paliano. "Era un atto necessario, ma è soltanto un punto di partenza. Adesso c’è la possibilità di lavorare meglio con i detenuti, di organizzare diversamente il carcere, di seguire di più i percorsi di reinserimento. La scommessa è riuscire a rafforzare i legami con l’esterno e spingere per l’applicazione delle misure alternative alla detenzione".

Per tutti, dopo l’emergenza indulto, è arrivato il tempo di organizzarsi meglio: "Adesso che non c’è più il sovraffollamento", dice Dovis, "non ho ancora visto la disponibilità, per esempio, del Provveditorato regionale a fare in modo che i dimittendi siano segnalati, qualche mese prima di uscire dal carcere, a chi di dovere, anche al volontariato, per un inizio di cammino di accompagnamento. Sarebbe una cosa necessaria far sì che proprio verso la fine della pena si aiuti, da un lato, il detenuto a conoscersi meglio e a capire le sue capacità, e dall’altro, l’ente o l’associazione a muoversi meglio fuori, per l’inserimento lavorativo e sociale".

Insomma, adesso è il momento di affrontare la questione strutturale delle dimissioni dal carcere, se non si vuole che l’indulto resti, nell’immaginario collettivo e nell’applicazione pratica, soltanto una sorta di colpo di spugna senza alcun seguito positivo per i detenuti, il mondo carcerario e per la società nel suo complesso.

 

Alla Collina, dove si impara a stare sulle proprie gambe

 

Nell’entroterra sardo, a pochi chilometri da Cagliari, sorge una comunità fondata da un sacerdote che si occupa di giovani detenuti: non solo un ricovero provvisorio per chi è "fuori", ma un vero punto di riferimento da cui ripartire per mettere in piedi la propria vita.

Stampe del Chiapas, un altare con la kefiah palestinese, una bandiera della pace come sfondo: "La nostra cappellina dice chi sono i nostri amici: tutti quelli che rischiano di più". Ettore Cannavera è un prete che non conosce l’ambiguità dell’ecclesialese. Usa un linguaggio chiaro, come la radice della sua vocazione: "Io ho capito così il Vangelo: uno sguardo che abbraccia tutti, ma qualcuno un po’ di più".

Siamo a una ventina di minuti da Cagliari, verso l’interno, su una piccola collina circondata da uliveti. La stradina sterrata che porta fin qui si insinua nella campagna, intorno vigneti e campi coltivati. Tre costruzioni indipendenti, basse, bianche, rappresentano le tre tappe di un progetto per giovani che scontano misure alternative alla pena o che provengono da situazione di emarginazione a rischio recidività. È un cammino partito da lontano, da un’esperienza maturata sul campo. Ettore, 61 anni, cappellano del carcere minorile di Quartuccio, a Cagliari ("non prendo lo stipendio: perché lo Stato deve pagare un prete in carcere?"), la racconta così: "La Collina è nata quando ho visto ragazzi di 18-19 anni che, usciti dal carcere, vi rientravano dopo manco un mese passato nel loro quartiere. Desideravo, inoltre, che coloro che avevano una pena troppo lunga da scontare non finissero poi tra gli adulti, dove si passa compiuti i 21 anni". Non è soltanto una riflessione quella che spinge Cannavera, ma è anche l’incontro con alcune storie, come quella di Antonio Zinzula, primo ospite della comunità, morto per infarto proprio quando la sua vita aveva preso una strada che oggi viene portata a modello a quanti arrivano alla Collina.

La cappella dai muri bianchi si riempie. Facce di ogni età, aria informale. Poche sedie, per il resto ci si accomoda su stuoie e cuscini, sul pavimento. La preghiera è guidata da uno degli operatori della comunità. Grande spazio è lasciato al silenzio. Oggi è giovedì, un giorno speciale. La comunità apre le sue porte ad amici e volontari. Si prega e poi si cena insieme. Comunità aperta e integrazione con il territorio ("la gente pensa a questi ragazzi come dei mostri, quando invece li conosce ci riflette su"), autonomia e responsabilità dei soggetti sono le parole d’ordine del percorso educativo della Collina. Un progetto raccontato in romanzi, prossima la pubblicazione di La Collina. Storia di una comunità di Giuseppe Putzolu; in film, come Jimmy della Collina presentato quest’anno a Locarno e tratto dall’omonimo libro di Massimo Carlotto; e in alcuni saggi, come Responsabilità partecipata, in uscita per Giuffrè con prefazione di Ettore Ferrara, presidente del Dap.

La struttura sorge dove un tempo la famiglia Cannavera vinificava. Una vigna estirpata secondo i piani agricoli europei e diventata terreno incolto. I fratelli di Ettore accettano di devolvere la loro quota di eredità all’associazione La Collina, la madre del prete gli dice: "Tuo padre sarebbe contento". Su quei sette ettari incolti, più tre presi in affitto, in pochi anni sono nati gli ulivi, le erbe officinali e l’elicicoltura, la coltura delle lumache. E tra breve, in primavera, nella terza palazzina, un grande salone per gli appuntamenti culturali aperti all’esterno - che oggi si tengono il mercoledì nel piccolo soggiorno - con annesso centro studi e documentazione; e una pizzeria, dove nel fine settimana i ragazzi faranno servizio per finanziare don Giovanni, piccolo fratello di Charles de Foucauld, che a Salvador de Bahia, in Brasile, segue 250 meninos de rua.

"L’ottica del nostro progetto è vivere con il ragazzo, condividendo tutto. Operatori e ospiti svolgono gli stessi lavori". Ettore spiega che se il carcere toglie tutta la libertà e a casa i giovani sono completamente liberi, alla Collina si vive una fase di passaggio. Nel primo modulo, appena uscito, il ragazzo viene seguito 24 ore su 24. Cinque "operatori di condivisione", che si alternano con dei turni e sono pagati dalla Regione Sardegna, sono sempre vicini al neo arrivato, anche perché "i ragazzi hanno soprattutto delle ferite psico affettive. È mancata loro una figura adulta di riferimento nell’adolescenza, e quindi richiedono un rapporto individuale con l’operatore". Per questo motivo l’ottica, dice Ettore, non può essere che quella dei piccoli gruppi, massimo sei persone a comunità.

Nel secondo modulo è prevista una maggiore autonomia dei soggetti, che vivono in comunità solo con il sacerdote, che ha un suo micro appartamento ricavato al secondo piano della palazzina centrale, e che per motivi di impegno pastorale in carcere è spesso fuori. Infine una terza struttura, appena nata, è destinata a quanti potrebbero tornare a casa ma decidono di fermarsi ancora un po’, ragazzi ormai autonomi, che continuano a vivere con lo stesso stile di vita. "Qualcuno mi dice che non si sente ancora di essere libero: penso a un ragazzo che ha un fratello drogato e genitori inesistenti e mi ha chiesto di venire qui per sottoporsi a delle regole".

Uno stile che non fa sconti. Niente viene regalato, nessun tipo di assistenzialismo è tollerato: ognuno deve avere il suo lavoro, possibilmente esterno. Le prime due settimane prevedono un passaggio nell’azienda agricola interna - mandata avanti da un perito agrario assunto apposta - per "imparare l’abc", come la sana pratica di abituarsi a rispettare gli orari. Di seguito vengono impiegati presso alcune aziende locali, una trentina quelle resesi disponibili, che hanno risposto all’appello di Cannavera: "Date loro un lavoro, condividete questa responsabilità sociale e ci saranno meno criminali in giro". La paga, che si aggira sui 700-1.000 euro, viene depositata su un libretto personale, 250 euro vanno in cassa per pagare le spese comuni. "Non si regala un centesimo. Con i soldi risparmiati alcuni hanno comprato la macchina, altri il motorino. Uno è riuscito a risparmiare dieci milioni e ora è in Germania, con i genitori, e ha aperto un negozio di frutta. La cosa più dannosa che possiamo fare a delle persone sane è abituarle a dipendere".

La giornata tipo della Collina prevede la sveglia alle 6.30, seguita da colazione e poi la partenza per il lavoro. Tra le 17 e le 18 c’è il rientro e il servizio comunitario: pulizie, cucina, giardino: "È l’ottica della giustizia riparativa, fare dei lavori per il bene della comunità". Cena alle 21, fino alle 23 tempo libero e poi scatta il grande silenzio.

Per realizzare La Collina, Ettore ha portato le sue ragioni dinanzi al Consiglio regionale: in Italia, infatti, gli aiuti pubblici sono previsti per opere destinate a minori, tossicodipendenti, malati di mente o portatori di handicap. I giovani adulti appena maggiorenni, la fascia 18-25, non è contemplata. Per questo motivo ogni anno la Finanziaria regionale, con un articolo ad hoc, decide di indirizzare alcune risorse per pagare gli stipendi ai cinque operatori della Collina. "Le istituzioni devono ridare ai ragazzi quell’adulto che non hanno avuto. Quel genitore, quell’insegnante, quel prete che non c’è stato. Come società possiamo farlo, è una sorta di compensazione, per aiutarlo a imparare a gestire la propria vita camminando sulle sue gambe".

 

Reggio Calabria, dove Aurora fa rima con lavoro

 

Il progetto è stato voluto dalle istituzioni, ma non potrebbe vivere senza l’apporto del volontariato. L’idea? Creare un consorzio di aziende in cerca di manodopera per inserire ex detenuti usciti grazie all’indulto. Ce ne parla Mario Nasone.

A vedere l’alba ha impiegato un po’ di tempo: quattro mesi per l’esattezza. Denominata "Progetto Aurora, per il reinserimento lavorativo dei soggetti beneficiari di indulto", l’iniziativa è partita ufficialmente soltanto all’inizio di gennaio, dopo che il ministero della Giustizia, a dicembre, aveva consegnato i 240 mila euro promessi al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria della Calabria. Fino a quel momento, dei detenuti calabresi usciti dal carcere in seguito al provvedimento di quest’estate si erano occupati volontari, associazioni e operatori carcerari di buona volontà.

Anche in questo progetto, che è istituzionale, l’apporto del volontariato e delle cooperative sociali è determinante. "La verità è che l’indulto ci è piovuto addosso senza una preparazione adeguata", spiega Mario Nasone, presidente dell’associazione Agape, responsabile del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria della Calabria e direttore dell’Ufficio esecuzione penale esterna del carcere di Reggio. "In piena estate", continua Nasone, "senza un idoneo accompagnamento, ci siamo trovati a dover fronteggiare sia i casi dei detenuti dimessi dalle carceri calabresi, sia i problemi di chi, detenuto in altre parti d’Italia, tornava a casa. La caratteristica principale di chi ha goduto dello sconto pena in Calabria è davvero negativa: diversi di loro sono stati uccisi. Non ne ha parlato quasi nessuno perché forse si considera normale che un pregiudicato venga assassinato. Per noi, però, è stata la conferma del fatto che ci sarebbe voluta più preparazione per gestire meglio le uscite. In certi casi c’era bisogno di una mediazione con la situazione esterna che noi non abbiamo avuto il tempo di fare".

Soluzioni tampone sono state trovate proprio dal volontariato, dalla Curia della diocesi reggina, che ha continuato a mettere a disposizione le stanze del seminario per i detenuti usciti dal carcere e senza un posto dove andare, dalle associazioni che hanno cercato da subito inserimenti lavorativi, dagli stessi operatori penitenziari che si sono dati da fare come potevano.

Adesso, passata l’onda delle prime scarcerazioni, prendono corpo iniziative più stabili per affrontare il dopo-carcere. "Il primo impegno è per il lavoro", continua Nasone, "perché se manca quello, è quasi impossibile non tornare a delinquere. Spesso abbiamo assistito a casi in cui il detenuto lavorava all’interno del carcere e, con quello che guadagnava, manteneva anche la famiglia. Con l’indulto, chi ha riacquistato la libertà, si è anche trovato di fronte alla perdita dell’unico mezzo di sussistenza per sé e per i familiari".

Cresciuto alla scuola di don Italo Calabrò, il sacerdote calabrese definito "il don Milani del Sud", Mario Nasone racconta con passione il suo impegno in favore di carcerati ed ex detenuti. Favorevole al provvedimento di clemenza, ma amareggiato per le sue modalità di attuazione, spiega che "è stata proprio la passione, la formazione cattolica, l’impegno nel volontariato, a darmi quella carica in più per affrontare una situazione per la quale le istituzioni non ci avevano preparato".

In una regione dove, al 31 dicembre 2006, avevano beneficiato dell’indulto oltre 860 persone, Nasone, attraverso il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria della Calabria, ha pensato di chiamare a raccolta le forze più sensibili del territorio. Così la cooperativa sociale Mistya, del circuito Cnca (Coordinamento nazionale comunità di accoglienza), le cooperative Atlante e Last, l’associazione Yairaiha e, soprattutto, il consorzio Promidea sono stati coinvolti nel Progetto Aurora.

In concreto, si tratta di accompagnare nell’inserimento lavorativo 100 ex detenuti scelti tra quelli più motivati e più bisognosi. Proprio per saggiarne la serietà, prima di assegnare le borse lavoro e far entrare le persone nelle diverse aziende individuate, è partita un’opera di "orientamento". Per i primi mesi sarà determinante la valutazione delle precedenti esperienze lavorative e la formazione per le attività che si andranno a svolgere. Per la metà di queste persone si aprirà poi la possibilità di usufruire della borsa lavoro e di cominciare a lavorare sul serio. "Non si tratta, però, di un provvedimento tampone", spiega Nasone. "Non diamo alle aziende dei finanziamenti per creare dei "finti" posti di lavoro". Proprio con l’aiuto dei consorzi e delle cooperative, all’interno delle stesse imprese sociali o in imprese profit, si scelgono le aree più produttive dove serve manodopera. "Il nostro obiettivo", aggiunge Nasone, "non è quello di sistemare le persone per qualche mese in attesa che trovino altro, ma inserire gli ex detenuti in ambienti di lavoro dove possono poi, dimostrando la propria capacità e produttività, essere assunti in via definitiva".

Il terzo settore e il volontariato, soprattutto quello di matrice cristiana, hanno il ruolo fondamentale di collegare il territorio con il carcere e di creare quella rete sociale indispensabile per il reinserimento. "Ma noi ci rivolgiamo in primo luogo alle imprese del profit", sottolinea Nasone, "perché sappiamo che, nonostante gli alti tassi di disoccupazione registrati in Calabria, in realtà le possibilità di lavoro ci sono. E, per chi esce dal carcere, è importante inserirsi in un’attività produttiva in grado di garantire una stabilità futura".

Attraverso il consorzio, i cosiddetti "indultati" vengono ascoltati e orientati, nel contempo si individua un’azienda disponibile a far fare un tirocinio formativo. "Abbiamo trovato una certa disponibilità in diversi settori", dice Nasone, "da quello del commercio, all’edilizia, all’artigianato". Tutte le persone vengono seguite da un tutor. Al termine del periodo formativo, acquisita la competenza e dimostrate le capacità, si valuta con l’azienda la possibilità dell’assunzione. "Questa forma di collaborazione non è nuova", dice ancora Nasone, "anche se con il Progetto Aurora sono state pensate meglio e in modo più articolato le diverse fasi di "avvicinamento al lavoro". In passato abbiamo visto che circa la metà dei soggetti coinvolti riesce poi a farsi assumere in via definitiva. E per il futuro siamo ancora più ottimisti".

 

A Milano c’è un "tetto" anche per chi esce di galera

 

L’iniziativa vuole dare "alternative al cielo a scacchi". Gestito in rete dalla Caritas, insieme ad associazioni di volontariato e agli enti pubblici, il progetto "Un tetto per tutti" ha messo a disposizione 23 alloggi per ex detenuti che hanno difficoltà abitative.

C’è chi è uscito con 12 euro in tasca e chi non possedeva neanche quelli. C’è chi aveva un lavoro dietro le sbarre - che ha perso riacquistando la libertà - e chi contava su inserimenti lavorativi che avevano bisogno di più tempo per maturare. C’è chi non aveva casa e chi, invece, ha trovato il suo appartamento senza più luce e gas, staccati per mancato pagamento delle bollette. Non per tutti l’indulto è stato foriero di buone novità. "Alla nostra porta hanno bussato in tanti", dice Andrea Molteni, coordinatore, per conto della Caritas di Milano, del progetto "Un tetto per tutti. Alternative al cielo a scacchi". "Insieme, abbiamo cercato una soluzione ai problemi che via via ci segnalavano".

Da quando ha aperto i battenti, nel marzo del 2003, il progetto ha già seguito oltre 300 detenuti: alcuni in permesso premio, altri ai quali sono stati concessi i benefici alternativi al carcere, o con pena appena scontata. Al lavoro ordinario si è aggiunto, in questi mesi, anche l’impegno in favore di quanti hanno goduto dell’indulto.

A Milano, secondo i dati del Provveditorato alle carceri, sono uscite nei primi mesi successivi al provvedimento circa 700 persone sui 3.700 detenuti nei tre istituti di pena di San Vittore, Opera e Bollate. "Alcuni di loro sono passati per le nostre case", continua Molteni, "anche se noi cerchiamo, più che di tamponare l’emergenza abitativa, di costruire, a partire dall’accoglienza negli appartamenti, dei percorsi di reinserimento sociale. Il nostro obiettivo è di tessere relazioni positive sul territorio a tutti i livelli".

I ventitré appartamenti messi a disposizione, in questi anni, dalle associazioni che aderiscono a "Un tetto per tutti", sono destinati principalmente a detenuti ed ex detenuti delle carceri milanesi, oppure a persone in uscita da altri istituti di pena del resto d’Italia, ma che sono di Milano o hanno in città la famiglia o un’opportunità concreta di lavoro. Ai 50 posti letto degli appartamenti già in funzione, con "l’emergenza indulto" si sono aggiunti quelli conferiti dalla Provincia e gestiti dall’associazione, oltre che quelli individuati dal Comune nei centri di prima accoglienza. All’indomani dell’indulto, l’amministrazione penitenziaria aveva convocato un tavolo istituzionale con le associazioni impegnate sul carcere e con gli enti locali per elaborare una strategia comune per affrontare il problema. "Lavorare in rete è una delle nostre caratteristiche", sottolinea Molteni. E aggiunge: "Proprio dalla volontà di mettere insieme le esperienze nasce l’idea di "Un tetto per tutti".

Coordinate dalla Caritas ambrosiana, le attività di accoglienza e di accompagnamento socioeducativo sono realizzate sul territorio, oltre che dalla stessa Caritas, dalle associazioni "Ciao", "Incontro e presenza", "Sesta Opera San Fedele", "Il Bivacco - Associazione carcere e territorio", dal consorzio "Condivisione solidarietà carcere", e dalle cooperative sociali "Il Bivacco servizi" e "L’Arcobaleno".

"Ci siamo chiesti qual era il primo problema da affrontare per i detenuti", dice Andrea Molteni, "e ci siamo resi conto che quello della casa era uno dei più gravi. Va ricordato che, se non si può indicare un domicilio, non si può accedere ai permessi premio e alle misure alternative al carcere. Succedeva così che, anche le associazioni che si impegnavano per il reinserimento lavorativo, non potevano poi portare a compimento i progetti se mancava l’alloggio. Da qui è partita l’idea di attrezzarsi per l’accoglienza temporanea di queste persone".

L’idea si è concretizzata dopo un anno di riflessioni. Nel 2002, all’interno dell’Osservatorio carcere e territorio di Milano, organismo al quale partecipano tutte le realtà milanesi che operano nel settore penale, si era costituito un gruppo di lavoro con il compito di analizzare tutti gli aspetti del problema e proporre delle soluzioni pratiche. Intanto, insieme con il Comune di Milano, si sono cercati dei finanziamenti e si è costituita una rete per garantire alle persone un maggior accompagnamento. "Le otto organizzazioni che partecipano al progetto hanno voluto che il Comune di Milano fosse l’ente capofila del progetto, in modo da garantire e mantenere una responsabilità pubblica su questo tipo di azioni e hanno lavorato anche con l’amministrazione penitenziaria, in particolare con l’Ufficio di Milano per l’esecuzione esterna della pena".

Le case, cui si sono aggiunti anche due posti letto nella comunità Casa Abramo di Lecco, hanno funzionato ininterrottamente dal momento di avvio del progetto. "Uno dei problemi è quello dei finanziamenti, che sono annuali e dunque creano qualche difficoltà al momento della scadenza", confessa Molteni, "anche se le associazioni garantiscono che i progetti avviati sulle persone non si blocchino per mancanza di fondi".

Negli appartamenti, disseminati tra Milano, Peschiera Borromeo, Bresso e Melegnano, si può abitare fino a sei mesi, anche se, in particolari situazioni, la permanenza può protrarsi per tempi più lunghi. "L’idea", continua Molteni, "è di dare ai detenuti un tempo sufficiente per cercare un appartamento o una sistemazione stabile". Diverso, naturalmente, è il discorso per chi usufruisce dei permessi premio. In questo caso si tratta di un’ospitalità di pochi giorni che si ripete più volte l’anno. Spesso, assieme ai detenuti, per i quattro o cinque giorni del permesso, sono accolti anche i familiari che hanno difficoltà ad alloggiare a Milano.

Le permanenze più lunghe, invece, di solito coincidono con il fine pena, e dunque anche con l’indulto. La maggioranza delle persone ospitate, poco più dell’80 per cento, è costituita da italiani, quasi sempre maschi. La metà dei detenuti o ex detenuti ha un’età compresa tra i 35 e i 49 anni, e solo una persona superava i sessanta.

All’interno delle abitazioni, gli ex carcerati non sono lasciati soli. Un’équipe specializzata con competenze psico-pedagogiche ne segue il percorso di reinserimento e studia con loro un progetto specifico di integrazione sociale. Mantenendo sempre i contatti con le altre strutture. "Una volta stabiliti gli obiettivi", conclude Molteni, "ciascuno si occupa della parte sulla quale è più competente. Noi della casa, il servizio di accompagnamento del Comune di Milano, il Celav (Centro di mediazione al lavoro) e la stessa Caritas pensano al lavoro; collaboriamo con i centri di ascolto. Insomma, facciamo sì che i detenuti non siano abbandonati a se stessi e ai propri errori".

 

Precedente Home Su Successiva