Rassegna stampa 21 dicembre

 

Giustizia: gli ergastolani cessano lo sciopero della fame

 

www.informacarcere.it, 21 dicembre 2007

 

Cari ergastolani, l’Associazione Pantagruel in data 14.12.07, ci ha chiesto di cessare lo sciopero della fame, cosa che abbiamo subito fatto, sarà la stessa associazione a scrivere ad ogni ergastolano che ha aderito allo sciopero per documentarlo con i risultati ottenuti.

Nella nostra lotta ci sono state luci ed ombre ma non dimentichiamo che prima c’era solo il buio. Non ci hanno tradito (deluso) i mass media o i politici, piuttosto ci hanno deluso e tradito la fame e il freddo e crediamo che per il futuro sarà il caso di trovare altre forme di lotta che non sia lo sciopero della fame (si accettano consigli e proposte).

È di questi giorni la lotta dei camionisti contro il governo, impariamo da loro: gli ergastolani devono imparare a lottare con tutte le loro forze. L’ergastolano può perdere la speranza di uscire ma non dovrebbe mai perdere la speranza di lottare. L’ergastolano se continua a ragionare da prigioniero morirà prigioniero. Non possiamo continuare ad avere gli occhi chiusi dobbiamo aprirli se vogliamo tentare di vedere l’orizzonte. La vita dell’ergastolano è una schiavitù di tutti i giorni della settimana, di tutte le settimane dell’anno e di tutti gli anni della nostra vita. Per uscire non si può sperare su l’educatore, su l’insegnante, sul magistrato di sorveglianza, sul direttore del carcere, sul politico, sui mass media, sulla fortuna, sul caso, ma bisogna contare solo sugli ergastolani: su di noi e sui nostri familiari.

Qualcuno ha detto: abbiamo perso un’occasione, la più bella occasione che sia mai capitata ad un ergastolano da tanti anni a questa parte. La maggioranza degli ergastolani non crede che sia così perché solo rimanendo vivi si può continuare a combattere: ci rifaremo nella prossima lotta. In tutti i casi non piangiamoci addosso ma passiamo subito all’attacco.

L’ergastolano non può uscire da solo, per uscire ha bisogno di altri ergastolani: organizziamoci meglio. All’esterno si sta costituendo un Coordinamento nazionale Mai dire mai e chiederemo che sia presidente onorario Alessandro Margara; sarà pubblicato un bollettino che faccia circolare le idee e iniziative; saranno inoltrate proposte d’incostituzionalità dell’ergastolo alla Corte Costituzionale; a febbraio si effettuerà un convegno nazionale con probabile presenza di ergastolani ed altro ancora.

Organizziamo in tutti i carceri un gruppo autogestito che coordini tutte le iniziative degli ergastolani di ogni istituto che saranno diffuse dall’Associazione Pantagruel disposta a farci da segreteria esterna. La nascita di ogni gruppo va segnalata all’Associazione Pantagruel per coordinarci, dare e ricevere notizie. Già gli ergastolani di Spoleto consapevoli che dovranno morire in carcere: la pena dell’ergastolo poiché non è determinabile a priori è stabilita fino alla morte del reo (V. Cass., sez. I, 4 marzo 1993, n. 241) propongono di continuare comunque e sempre a lottare. Chi si arrende è perduto.

 

Gli ergastolani in lotta di Spoleto

Giustizia: lettera di Fausto Bertinotti agli ergastolani

 

Carta, 21 dicembre 2007

 

Pubblichiamo la lettera del presidente della camera, Fausto Bertinotti, con la quale risponde alla richiesta di sostegno degli ergastolani che nelle scorse settimane avevano promosso uno sciopero della fame per chiedere al parlamento di discutere quanto prima il disegno di legge (prima firmataria Maria Luisa Boccia, Prc) sull’abolizione dell’ergastolo. I promotori della protesta, intanto, hanno interrotto lo sciopero, ma la protesta è diventata una campagna nazionale.

"Dopo aver letto su Carta la lettera aperta a me indirizzata, attraverso lo stesso giornale vi invio la mia risposta. Nella vostra lettera c’è il racconto di una lotta e di una sofferenza che parla di un grande problema irrisolto. Il primo compito delle istituzioni è non girarsi da un’altra parte per ignorare un problema difficile ma invece prestare attenzione ed ascolto alla sofferenza e alle istanze che da esse prendono corpo.

Il tema del rapporto tra la gravità del reato, la pena e il reintegro nella società è, nel paese di Beccaria, degno della massima attenzione. Del resto l’Italia si è distinta assai positivamente nella battaglia su scala mondiale per la moratoria sulla pena di morte sino a conseguire l’importante successo col voto alle Nazioni unite. La richiesta di esame nelle Commissioni e nell’Aula parlamentare del disegno di legge che affronta il tema dell’ergastolo è dunque pienamente legittima.

Tuttavia, per non dar luogo a facili illusioni su una questione così delicata, ho il dovere di ricordarvi che non è tra le facoltà del Presidente della Camera quella di calendarizzare un disegno di legge, calendarizzazione che è invece soggetta ad un preciso regolamento. Esso prevede che perché una proposta di legge possa essere portata nella riunione dei Capigruppo di tutte le forze politiche, che è l’organismo titolato alla programmazione dei lavori, è necessario che, prima, abbia completato tutto il suo iter nelle Commissioni parlamentari interessate all’argomento.

Capisco che l’acutezza con cui vivete il problema possa farvi considerare con impazienza le regole parlamentari, ma ad esse è ovviamente vincolato, proprio per la sua funzione di garante, il Presidente della Camera dei deputati. Vi assicuro, tuttavia, tutta la mia attenzione al problema che sollevate anche con la vostra lotta. Cordialmente".

 

Fausto Bertinotti, presidente della Camera dei deputati

Giustizia: Osapp; con queste politiche nessun recupero

 

Apcom, 21 dicembre 2007

 

Nelle carceri italiane mancano almeno 6 mila nuovi agenti, mille agenti femminili e 2 mila nuovi educatori. Lo sottolinea il segretario generale del sindacato Osapp, Leo Benedici, nel commentare l’iniziativa di Riccardo Migliori (coordinatore di An per la Toscana), che ieri proponeva un piano immediato per nuovi istituti penitenziari. Benedici ribadisce con forza la necessità di maggiori tutele nelle attività delle guardie carcerarie. "Con questo quadro - si chiede - come si fa a prendere in seria considerazione un percorso di riqualificazione se poi non esiste alcuna possibilità di implementare, con nuove unità, l’intero settore penitenziario?". "Per l’ennesima volta - rileva il segretario generale - ribadiamo l’urgenza di una politica diversa, che guardi alle iniziative concrete, possibili e non più procrastinabili. Ma il governo invece sembra fermo, e l’opposizione pensa ancora di poter giocare con le parole". "Le azioni di questo governo e di questo Parlamento - spiega Beneduci - hanno generato soltanto ulteriori e nuovi detenuti. Gli istituti di pena si trasformano sempre più in luoghi dove la persona non viene riabilitata, ma è avviata ad un percorso criminale sempre più qualificato, e la politica risponde con un progetto per il quale le risorse non verranno mai messe a disposizione".

Giustizia: Formigoni; lavoro è via principale per recupero

 

Agi, 21 dicembre 2007

 

Detenuti condannati con sentenza definitiva, ma non per questo chiusi in cella e lì dimenticati. La strategia della Regione Lombardia, raccontata questa mattina a Milano in un convegno dal titolo "La comunità locale tra responsabilità e riconciliazione", si fonda, invece, su concreti progetti di recupero con l’impiego dei carcerati in lavori socialmente utili. Venticinque detenuti milanesi offrono la propria opera gratuita nei servizi gestiti dall’Amsa, altri, un centinaio in tutta la regione, sono impegnati in call-center interni alle carceri o in associazioni e cooperative con scopi sociali e solidali.

Duecento detenuti ogni settimana in Lombardia escono dal carcere per lavori di recupero ambientale. Un esperimento che gli ideatori sperano possa andare a regime con l’intervento di una legge che lo regolarizzi. Di fondo, c’è la necessità del reinserimento, della riconsiderazione del detenuto come persona che ha commesso un errore ma che, attraverso il servizio alla comunità, possa rimediare al danno.

Per il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, "il pieno reinserimento di queste persone rappresenta per ciascuno e in particolare per chi ha cariche istituzionali, una priorità, un orizzonte da tenere sempre presente per recuperare e valorizzare appieno una parte importante del capitale umano disponibile nella nostra società". Quindi, il governatore ha individuato nel lavoro "la strada principale per il recupero" e, ancor prima, nella "formazione professionale in cui abbiamo creduto e investito, sperimentando spesso progetti innovativi grazie a finanziamenti diretti e di fondo sociale europeo".

"Lavorare - ha spiegato Formigoni - non è solo un modo di procurarsi un reddito onesto, ma rappresenta anche la possibilità di creare dei rapporti sani con la società". Un parere favorevole al progetto di recupero è stato espresso dal presidente della corte di appello di Milano, Giuseppe Grechi, per il quale si tratta di "un esperimento da ripetere ed estendere, proprio perché aiuta il recupero".

"Speriamo - ha detto Grechi - che sia l’inizio di un processo e non il termine". La "strada è ottima" anche per il vice capo del dipartimento amministrazione penitenziaria, Emilio Di Somma. "Serve - ha spiegato Di Somma - a far riconquistare fiducia nei confronti di persone che hanno sbagliato, che hanno commesso reati, in alcuni casi anche gravi.

Vederli in giro per la città a svolgere attività di recupero è un fatto positivo anche per loro". Di "bellissima esperienza", con la speranza "che venga estesa" ha infine parlato Luigi Pagano, provveditore regionale amministrazione penitenziaria.

Giustizia: Sappe; più misure alternative e "liste d’attesa"

 

Sanremo News, 21 dicembre 2007

 

La segreteria del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe), l’organismo sindacale maggiormente rappresentativo in Italia ha lanciato l’allarme sovraffollamento delle carceri liguri.

Al 30 novembre i detenuti presenti nelle carceri della Liguria erano 1.249 a fronte di una capienza regolamentare di 1.150, quindi già in sovraffollamento di 109 detenuti. 833 sono i detenuti in attesa di giudizio. Dei sette istituti penitenziari liguri solo La Spezia ha una presenza detenuti inferiore alla capienza, ma questo solo perché l’istituto è in ristrutturazione.

A pagare lo scotto maggiore è l’istituto genovese di Marassi il quale gestisce 587 detenuti a fronte della capienza di 456. Ma anche gli altri istituti hanno una popolazione detenuta che supera quella regolamentare.

La soluzione della del Sappe è la "Lista d’attesa", esattamente come avviene per gli ospedali. Ovviamente corsia preferenziale per l’accesso all’istituto penitenziario, per i detenuti socialmente pericolosi ove la reiterazione del reato è un pericolo reale, gli altri aspettano agli arresti domiciliari, magari più controllati ma comunque fuori dalle mura carcerarie e con l’utilizzo del braccialetto elettronico che consentirebbe uno sfollamento di almeno 500 detenuti e una gestione dei detenuti in maniera più ottimale, quindi più sicura.

Così facendo si potrebbero recuperare unità di Polizia Penitenziaria necessaria per la costituzione del nucleo controllo dei detenuti agli arresti domiciliari. Se l’effetto indulto è terminato ci si aspetta anche un piano emergenza. Il rapporto Polizia penitenziaria - detenuti è al di sotto della media nazionale: in Liguria fronteggeranno l’emergenza circa 950 poliziotti a fronte dei previsti 1264.

Secondo il Sappe, in ambito provveditorato, nell’immediato si possono: accelerare i processi di valutazione alle misure alternative alla detenzione; prevedere che le figure professionali quali educatori, assistenti sociali, ecc, vengano restituiti ai loro compiti istituzionali (oggi sono impegnati in altri compiti in luoghi diversi dal carcere); prevedere maggiore assistenza alla popolazione detenuta da parte dello psicologo, (oggi l’assistenza psicologica ha una media di circa 12 minuti al mese per ogni detenuto).

"Iniziamo a far questo - sostiene il Sindacato - e non fermiamoci solo alla sterile comunicazione dei dati. L’amministrazione centrale avrà le sue competenze, ma anche il Provveditorato Regionale deve necessariamente attivarsi per fronteggiare l’emergenza in atto".

Giustizia: il decreto sicurezza e l’idea di "discriminazione"

di Pierluigi Mantini (Membro Commissione Giustizia della Camera)

 

Europa, 21 dicembre 2007

 

Ma come, proprio sulla sicurezza, il governo si dimostra insicuro? Il rimedio dell’errore tecnico", in sé tragicomico, doveva essere annunciato da giorni, come richiesto anche da parlamentari del Pd, ma così non è stato. Si è preferito baloccarsi nell’illusione di ripetere la "soluzione Fuda", forse perché l’illusione è il primo dei piaceri, come diceva Voltaire. Ora si è chiarito che la soluzione non è il ritiro, ma piuttosto la reiterazione del decreto alla naturale scadenza con "contenuti diversi", come recita la sentenza 360 del 1996 della Corte Costituzionale, che impedisce l’abuso della decretazione d’urgenza.

Con "contenuti diversi", non dunque una semplice riproposizione dello stesso testo. Con il nuovo decreto si può correggere il cosiddetto errore tecnico e si possono introdurre nuovi temi del pacchetto sicurezza, per i quali vi sono l’urgenza e la necessità.

Ad esempio, l’esecuzione certa della pena, a seguito di sentenza definitiva, riformando la legge Simeone - Saraceni (An) che oggi impedisce il carcere per pene inferiori a tre anni. L’ampliamento dei contenuti del nuovo decreto sicurezza potrebbe essere ricercato con il consenso dell’opposizione, anche sfidando la sinistra conservatrice.

La correzione dell’errore dovrebbe consistere in una più rigorosa nozione di discriminazione intesa come "pratiche o atti di discriminazione di diritti esistenti" escludendo dunque la punibilità delle opinioni e l’uso del diritto penale per promuovere diritti futuri. Occorre soffermarsi su questo punto, che stava per determinare la caduta del governo al senato, perché il testo può e deve essere migliorato nella sua versione definitiva.

L’aspetto che merita di essere chiarito non è quello relativo alla questione omofobia/omofilia, pur nei diversi svolgimenti per laici e cattolici, poiché è ben chiaro che tutti i democratici sono rispettosi del principio di eguaglianza, sancito dall’articolo 3 della Costituzione, senza distinzione di sesso e, anche, di orientamento sessuale.

Il tema controverso riguarda la nozione di discriminazione. Cosa deve intendersi, in effetti, con la parola "discriminazione"? Sul punto si è già lucidamente intrattenuto Marco Olivetti, su queste pagine (Europa 11 dicembre) ma senza giungere a una conclusione. Concordo sul fatto che l’espressione indichi un "trattamento deteriore della persona" sulla cui "immoralità vi è un largo consenso".

Sono meno d’accordo sull’impossibilità di dare un più preciso statuto giuridico alla nozione lasciandola fluttuare nell’indistinta "ideologia discriminatoria", di matrice illuministica e diffusa in Europa (vedi trattato di Amsterdam), che è causa di turbamenti morali e politici per molti. In realtà credo sia possibile definire l’espressione "discriminazione", in un contesto legale, come "atti di negazione di diritti esistenti a causa di un’ideologia contraria al principio di eguaglianza". Mi interessa discutere le conseguenze di questa nuova e necessaria definizione.

La prima sta nel fatto che, per il principio fondamentale dello stato di diritto secondo cui nullum crimen sine lege, correlato dall’ostilità del diritto penale moderno verso fattispecie astratte (nessuno può essere punito se non per fatti determinati espressamente previsti dalla legge come reato), la discriminazione deve consistere in "atti" in "fatti" che negano un diritto esistente, ossia già riconosciuto dall’ordinamento vigente.

D’altronde anche la Convenzione contro il razzismo, adottata dall’Onu a New York nel 1966, impegna gli Stati a non porre in essere "pratiche" di discriminazione mentre la Corte di cassazione ha affermato che "l’incitamento ha un contenuto fattivo di istigazione ad una condotta" con ciò riconoscendo che l’incitamento è "un quid pluris rispetto alla mera manifestazione di opinioni personali" (sez. v 31655/2001).

È questo un discrimine molto importante perché se assumessimo come riferimento non il diritto positivo vigente ma quello che "dovrebbe essere", secondo una visione giusnaturalistica o del "diritto della personalità" come dimensione etica sovraordinata ai diritti soggettivi riconosciuti, noi entreremmo in un campo arbitrario e incerto, di opinioni soggettive, e sarebbero ammissibili idee diverse di discriminazione: per alcuni potrebbe essere discriminatoria l’impossibilità di contrarre matrimoni omosessuali, per altri invece varrebbe il contrario.

Il diritto penale protegge da comportamenti riconosciuti dalla legge come lesivi di beni fondamentali, come disvalore sociali, non da condotte diversamente opinabili circa l’opportunità o meno di diritti futuri. Inoltre il diritto penale deve avere uno scopo dissuasivo - preventivo e, del caso, punitivo di condotte determinate e non uno scopo promozionale di una società eticamente migliore, come avveniva nella concezione nazista ("all’origine del male", secondo Hannah Arendt).

Dunque, per discriminazione deve intendersi non uri opinione su ciò che sarebbe auspicabile ma la concreta e fattuale negazione di diritti riconosciuti a causa di un’ideologia che si fonda sulla diversità religiosa, di razza o, anche, di orientamento sessuale. Ma se i diritti che si negano sono già riconosciuti, e dunque tutelati dall’ordinamento (nel campo del lavoro, dei diritti civile, ecc...), è utile "aggiungere" anche una sanzione penale? Questo è il punto, di rilievo politico, su cui riflettere.

Assunto che il comportamento punibile non è un’opinione ma un atto e che l’oggetto, il bene tutelato, non riguarda un "futuro soggettivamente migliore" ma è quello già tutelato dalle leggi, è utile introdurre nuove pene accanto ai rimedi ordinari esistenti?

Se la pena è minima, come nel testo votato dalla commissione giustizia della camera, la risposta può essere affermativa e coerente con le sanzioni esistenti (diminuite nel 2003), sui reati ideologici. Questa soluzione è matura e politicamente sostenibile perché in grado di fugare i giusti dubbi della Binetti e di non tradire le aspettative della sinistra laica. L’aspetto da chiarire non è quello relativo all’omofobia, poiché i democratici sono rispettosi del principio di eguaglianza.

Giustizia: l'Ucpi boccia la riforma del Codice di Procedura

 

Ansa, 21 dicembre 2007

 

È un giudizio "fortemente negativo", quello espresso dall’Unione delle Camere Penali Italiane nelle osservazioni, trasmesse al ministero della Giustizia, sulla bozza di legge delega, redatta dalla Commissione ministeriale presieduta da Giuseppe Riccio, per un nuovo codice di procedura penale. "Oggi - sottolineano i penalisti - non vi è la necessità di emanare un nuovo codice di procedura penale ma di intervenire sul codice del 1988 con riforme organiche e sistematiche di taluni suoi settori al fine di superare le molte incongruenze che dopo la sua entrata in vigore sono state introdotte con leggi e sentenze costituzionali".

L’obiettivo, rileva l’Ucpi, "deve essere duplice": "recuperare e rafforzare la struttura dialettica di processo di parti varata nel 1988, superando quella autoritativa del codice del 1930", nonché "introdurre modifiche che sulla base dell’esperienza fatta sono necessarie per dare maggiore funzionalità all’impianto accusatorio del 1988".

La bozza Riccio invece, secondo i penalisti, "viene meno a questo metodo e a questi obiettivi, fa segnare pesanti regressioni verso il processo autoritativo, non risolve le reali questioni di efficienza del processo penale, presenta un complesso di disposizioni che in ogni caso richiedono ben più approfondite elaborazioni"

Giustizia: al sud corsi per l’amministrazione penitenziaria

 

Comunicato stampa, 21 dicembre 2007

 

Affrontare e risolvere, sulla base delle singole caratterizzazioni dei diversi territori delle regioni Obiettivo 1, il problema della diffusione della cultura della legalità, del reinserimento sociale dei condannati e degli internati, della prevenzione del pericolo della reiterazione dei reati, al fine di superare i vincoli oggettivi presenti nelle strutture territoriali deputate alla programmazione degli interventi di carattere sociale.

È quanto prevede un protocollo di intesa stipulato tra Unimpresa, il Consorzio Unimpresa Sociale e il Coins, il Consorzio per l’Internazionalizzazione e lo Sviluppo. Il progetto si inquadra nell’ambito delle azioni finanziate dal Fondo Sociale Europeo e, nello specifico, dal Programma Operativo Nazionale "Sicurezza per lo Sviluppo del Mezzogiorno d’Italia" 2000-2006 - asse 2 - misura II.3 - nonché quello che emerge dalla normativa in materia di Sistema Integrato di Interventi e Servizi Sociali ex Legge 328 del 8.11.2000 e delle norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure limitative e privative della libertà.

Il protocollo intende fornire al personale dell’amministrazione penitenziaria un utile strumento di informazione e formazione finalizzato a sviluppare la massima professionalità e competenze di alto livello nell’interpretazione e gestione di quei fenomeni che si verificano nel tessuto sociale ove il personale, le forze dell’ordine, gli operatori istituzionali (regione ed enti locali) e sociali prestano servizio e sono impegnati con la loro azione quotidiana a concorrere alla più ampia diffusione della cultura della legalità.

Altri obiettivi sono: monitorare il contesto socio-economico, a studiandone i punti di forza e di debolezza, i bisogni, le richieste sia in termini di formazione che di diffusione della legalità; creare una rete tra i vari enti dislocati sul territorio obiettivo, in modo da ottenere un collegamento diretto per promuovere e diffondere la cultura della legalità e favorire lo sviluppo economico ed imprenditoriale. Le finalità sono quelle di realizzare tavoli di concertazione permanenti tra esponenti della pubblica amministrazione centrale e locale, del Terzo settore e rappresentanti dell’imprenditoria locale, finalizzati alla progettazione partecipata di interventi di reinserimento sociale.

A tale scopo, il progetto prevede una serie di iniziative finalizzate alla realizzazione di workshop divulgativi ed informativi, l’attuazione di un percorso formativo rivolto ai dipendenti dell’amministrazione penitenziaria e alle realtà locali inserendo tutti gli attori: enti pubblici, privati, associazioni no profit, associazioni di imprese, università.

Il tutto sarà raccolto in una pubblicazione in cui verranno inserite le attività realizzate, le esperienze raccolte e gli obbiettivi raggiunti.

I workshop verranno organizzati per coinvolgere le realtà locali, in ogni regione, per favorire il confronto e il dibattito tra quanti sono impegnati sul versante sociale, imprenditoriale ed istituzionale nello sviluppo delle opportunità che il territorio offre, promuovendo la realizzazione di tavoli di concertazione permanenti.

Giustizia: Contrada rischia la vita, lettera per la grazia

 

Apcom, 21 dicembre 2007

 

Bruno Contrada rischia la vita in carcere, l’ex numero due del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa da alcuni giorni rifiuta il cibo nella sua cella nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, a Caserta. "Contrada è ammalato di diabete, è vecchio, ha 76 anni e si trova in condizioni di salute gravissime", denuncia il suo avvocato Giuseppe Lipera.

L’avvocato ha scritto oggi una lettera al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e ha chiesto al capo dello Stato di concedere "sua sponte" la grazia all’ex 007. Perché nonostante le sue condizioni di salute Contrada non chiederà l’atto di clemenza.

"Io non chiederò mai la grazia, perché la grazia la chiedono solo i colpevoli", ha infatti detto Contrada al suo avvocato. "Bruno Contrada - si legge anche nella lettera inviata al Colle - non firmerebbe mai una richiesta di grazia: egli è uomo di antico stampo che ha sempre dichiarato con estrema dignità la propria innocenza e estraneità alle accuse ascrittegli". Ma argomenta nella missiva, il legale, il codice contempla la possibilità che il Quirinale conceda la grazia anche in assenza di domanda o di proposta.

"Per questo - scrive Lipera - in ragione della legge, del profondo e accesso senso di umanità che l’eccellenza vostra custodisce nelle corde più intime del suo animo la prego di potere valutare la possibilità di un intervento sua sponte, onde potere fare fronte ad una situazione imbarazzante per il nostro Paese".

Bruno Contrada rischia di morire in carcere, avverte l’avvocato e nella lettera riporta la valutazione della direzione sanitaria del carcere: "Signor Presidente, La informo, con estremo rispetto, che la recente relazione sanitaria del Carcere Militare di S. Maria Capua Vetere (non, quindi, una perizia di parte), parlando del detenuto Contrada, riferisce drammaticamente: "nel caso di specie, tenuto conto della anamnesi e del quadro clinico ipertensivo, esiste un rischio di recidiva di evento lesivo cerebrale, non preventivabile riguardo all’epoca di presentazione ma imprevedibile, soprattutto in un ambiente carcerario. La cardiopatia ipertensiva espone altresì, con modalità analoghe a quelle su riportate, a eventi ischemici cardiaci cui potrebbe conseguire anche un esito infausto".

"Le ulteriori patologie citate in diagnosi rendono ulteriormente problematica la gestione clinica del paziente", si legge ancora e la conclusione è "pertanto che esista una effettiva condizione di non compatibilità con il regime carcerario delle malattie sofferte, suscettibili di cure e trattamenti vari ed articolati, a carattere di continuità, verosimilmente più efficaci se prestati in ambiente domiciliare esterno, che non nelle istituzioni carcerarie".

Polizia Penitenziaria negli Uepe: comunicato Uil-Penitenziari

 

Blog di Solidarietà, 21 dicembre 2007

 

Il 17 dicembre scorso, presso il Dap, si è tenuto l’incontro per il prosieguo della discussione relativa al decreto di sperimentazione dei nuclei di verifica presso gli Uepe. La delegazione Uil presente nel richiamare i contenuti di cui alla nota n. 4102 del 29.11.2007, prodotta in occasione della ricezione della bozza, ha ribadito la propria contrarietà all’impianto complessivo del decreto. Troppe le ingerenze e le inopportune commistioni tra le diverse figure professionali, le ambiguità e la confusione presente nelle attività da svolgere, così come nelle strutturazione del servizio. Inaccettabile, inoltre, la previsione di porre il servizio alle dipendenze del Dirigente dell’Uepe e di prevedere esami e colloqui selettivi per l’assegnazione del personale di Polizia Penitenziaria nel servizio.

Il progetto che la Uil intende condividere non può prescindere dal mettere al centro dell’attenzione le prerogative di sicurezza che appartengono al Corpo e l’esigenza di sicurezza sociale che ne consegue, di prevedere l’estensione dei controlli a tutte le misure alternative, unica eccezione l’affidamento in prova al servizio sociale, e la collocazione dei nuclei all’esterno degli Uepe, magari alle dipendenze delle aree traduzioni presso i Provveditorati Regionali. Dopo l’intervento di tutte le OO.SS. l’Amministrazione si è riservata di valutare tutte le indicazioni ricevute e, quindi, di riconvocare un ulteriore momento di confronto.

Immigrazione: Roma, quando i rom non fanno notizia

di Giovanni Russo Spena (Capogruppo del Prc al Senato)

 

Aprile on-line, 21 dicembre 2007

 

Al direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli

Al direttore di Repubblica Ezio Mauro

Al direttore del Messaggero Roberto Napoletano

Al direttore del Tg1 Gianni Riotta

Al direttore del Tg2 Mauro Mazza

Al direttore del Tg3 Antonio Di Bella

 

Trentasei bambini e tre donne, tutti rom italiani e francesi, costretti dallo sgombero del loro campo a Roma, nel V municipio, a dormire in due pulmini, all’addiaccio, da dieci giorni. Ma sui giornali di questo episodio vergognoso non c’è stata traccia.

Cari direttori, mi è dispiaciuto non trovare oggi sui vostri giornali nessun riferimento alla drammatica storia di 36 bambini e 3 donne, tutti rom italiani e francesi, costretti dallo sgombero del loro campo a Roma, nel V municipio, a dormire in due pulmini, all’addiaccio, da dieci giorni. La notizia, raccontata in aula nel suo intervento dal senatore del mio gruppo Salvatore Bonadonna, era tale da far accapponare la pelle: una cinquantina di rom quasi tutti con lavoro, molti perfino a tempo indeterminato, cacciati all’alba, le loro povere case distrutte, distrutti i libri di scuola dei bambini, quelli in età scolare tutti inseriti, e bene, nel contesto scolastico.

Dalla denuncia del senatore Bonadonna ci siamo mobilitati e alla fine siamo riusciti ad ottenere dal prefetto Mosca, che non era a conoscenza di questa situazione, una soluzione condivisa. Il Comune infatti aveva si proposto degli alloggi, ma in situazioni che avrebbero portato allo smembramento delle famiglie. La situazione naturalmente è, come si dice, in progress e noi continuiamo a seguirla da vicino.

Si parla tanto, e giustamente, della distanza tra la politica e i cittadini. Ebbene, lo dico come nota a margine, quando alla fine è arrivata, grazie al prefetto, l’avvio di una soluzione, noi politici esperti e consumati ci siamo sentiti, per una volta, concretamente utili a questo paese, un paese che non può lasciare bambini e donne, e neanche uomini, a dormire al freddo dopo avergli distrutto l’abitazione. Una piccola cosa, certo. Ma, almeno per noi, di enorme significato civile.

Il motivo per cui vi rivolgo questa lettera, collettiva e aperta, è un altro: conosco la vostra sensibilità e professionalità e la grande qualità delle vostre redazioni, mi rendo conto che la quotidianità incalza e preme, ma ciò che sta avvenendo nelle città italiane, nel paese, io credo meriti il potere informativo delle vostre grandi inchieste, non la rubricazione (in questo caso addirittura la derubricazione) a "fatti di cronaca". Sono certo che condividete la necessità che nel paese infatti, insieme alla giustissima condanna per atti criminali compiuti da alcuni rom, condanna morale e civile che deve esprimersi per la criminalità di qualsiasi persona, di qualsiasi nazionalità, venga prodotta anche l’informazione necessaria a non alimentare e anzi a frenare, l’odio per il diverso da noi. Il ruolo dell’informazione è essenziale sempre, ma su questo terreno è vitale.

Stati Uniti: Rice; aiutateci a chiudere carcere Guantanamo

 

Apcom, 21 dicembre 2007

 

Il Segretario di Stato Usa Condoleezza Rice ha sollecitato la collaborazione dei paesi che hanno propri connazionali detenuti a Guantanamo, per poter chiudere il carcere militare americano senza mettere a rischio la sicurezza "degli americani e degli altri cittadini". Alla domanda della Bbc se gli Stati Uniti abbiano ancora intenzione di chiudere Guantanamo, Rice ha risposto: "Naturalmente, noi vogliamo vedere chiuso Guantanamo.

C’è un solo problema: cosa ne facciamo delle persone malvage che sono rinchiuse lì? Li rilasciamo a scapito della popolazione che non sospetta nulla? Non penso proprio. Una cosa che aiuterebbe molto è che i paesi con cui abbiamo già discusso dei loro connazionali rinchiusi lì se ne facessero carico, tenendoli sotto controllo per garantire che non rappresentino ancora una minaccia per la società.

Per questo abbiamo bisogno di aiuto per chiudere Guantanamo. Noi vogliamo chiuderlo, ma non a scapito della sicurezza degli americani e degli altri cittadini". Sono circa 300 le persone detenute oggi a Guantanamo, centro di detenzione aperto da Washington all’inizio del 2002, dopo l’inizio del conflitto in Afghanistan.

Stati Uniti: scarcerare 20mila detenuti, per un risparmio

 

Ap, 21 dicembre 2007

 

Il governatore della California, Arnold Schwarzenegger, ha intenzione di scarcerare anticipatamente oltre 20mila detenuti condannati per reati minori, al fine di alleggerire le finanze dello Stato. Lo riferisce il quotidiano Sacramento Bee. Secondo il giornale, il governatore chiederà ai parlamentari californiani di autorizzare la scarcerazione anticipata di 22.159 detenuti non violenti, il cui ritorno in libertà è ora previsto entro 20 mesi. Gli autori di crimini sessuali non sono compresi nella lista. Il progetto se approvato farebbe risparmiare 256 milioni di dollari (178,4 milioni di euro) allo Stato californiano per l’anno fiscale che comincia il prossimo 1. luglio, secondo Sacramento Bee. Le economie potrebbero raggiungere i 780 milioni di dollari (543,6 milioni di euro) entro il 2010. Il provvedimento porterebbe al licenziamento di circa quattromila posti di lavoro nelle carceri, principalmente agenti di custodia.

Maldive: carcere e repressione, l’altra faccia del paradiso

di Erwin Koch

 

Affari Italiani, 21 dicembre 2007

 

C’è la storia di Evan, mai tornato a casa. E quella di Ic, che lotta per la libertà del suo popolo. Tutto quello che i turisti in cerca del sogno non vedranno mai.

La madre apre una borsa di plastica, estrae una foto, la mette sulla macchina da cucire, la guarda, resta in silenzio. Trema. "Dalle orecchie", dice, "gli usciva la sabbia bianca". La stessa sabbia che, unita al verde trasparente di questo mare, incanta i turisti che arrivano qui a Male, capitale delle Maldive, vengono portati sulle cento isole precluse agli abitanti e nulla vedono o sanno che possa disturbare il loro sogno. Certo non la storia di un giovane uomo, chiamato Evan e di sua madre Mariyam, di IC, di Hussein Salah.

Evan Naseem, il secondo figlio di Mariyam Manike, è morto a 19 anni, il 19 settembre 2003, di mercoledì. Come un terzo dei giovani maldiviani era tossicodipendente: era stato trovato con della droga e portato nella prigione-isola di Maafushi. In carcere c’era stata una rissa, lui si era tenuto in disparte, ma le guardie andarono a prenderlo lo stesso: "Non mi toccate", aveva urlato, afferrando un pezzo di legno. Allora le guardie erano arrivate a decine, lo avevano legato ad un palo e lo avevano picchiato in dodici. Con pugni, calci e bastoni. Poi lo lasciarono per terra, senza vita, sulla sabbia bianca.

Mariyam Manike ricorda che una guardia bussò alla sua porta: doveva chiamare il suo capo, le disse, il capo delle guardie. Suo figlio è morto, annunciò quello. Qualcuno la accompagnò a vedere il cadavere, ma le mostrarono solo il volto. Lei però strappò il lenzuolo: vide ematomi, ferite, sangue. Uno disse: il cadavere deve essere immediatamente seppellito, come comanda Dio. Non prima, urlò Mariyam, che lo veda il mondo. Al funerale c’erano centinaia di persone. Più tardi la gente diede fuoco ad alcune stazioni di polizia di Male, all’ufficio del tribunale, all’alto Parlamento, mentre nel carcere di Maafushi cominciò una rivolta dei prigionieri. Le guardie uccisero tre detenuti, ne ferirono diciassette.

Maumoon Abdul Gayoom dichiarò il coprifuoco e lo stato d’emergenza, sospendendo i poteri costituzionali. Poteva, anzi può farlo. Ha un mandato che lo fa succedere a se stesso sin dal 1978: è presidente, capo della polizia, dell’esercito, dei vigili del fuoco, della giustizia e, fino a qualche tempo fa, anche delle finanze e della Banca centrale. Possiede una pista d’atterraggio, un’isola privata e partecipazioni nei complessi turistici, unica ricchezza del paese. I suoi ministri sono tutti amici o parenti. Dopo la morte di Evan, per sedare la protesta popolare, Gaymoon insediò una commissione d’inchiesta e gli autori dell’omicidio furono arrestati. Di recente la loro condanna a morte è stata trasformata in ergastolo.

Mariyam Manike continua il suo racconto: "Undici mesi dopo la morte di Evan ci riunimmo nella grande piazza davanti al quartiere generale della polizia perché cinque democratici riformisti erano stati arrestati. Venne il buio e nella piazza eravamo ormai 10 mila. La polizia entrò con i carri armati e ci inseguì per la città. Io urlai: avete ucciso mio figlio, Evan Naseem".

Il presidente Gayoom parlò di sollevazione contro la patria, fece arrestare 600 persone, oscurò internet. Da Maryam la polizia arrivò il giorno successivo: uno tirò fuori un manganello e cominciò a picchiarla. Si mise a ridere quando il sangue cominciò a ricoprirle le gambe e piedi. Era il 13 agosto 2004. Fu portata prima sull’isola di Girifushi, luogo d’addestramento della polizia, poi a Dhoonidhoo, l’isola degli interrogatori che si trova a nord, non lontano dall’aeroporto in cui arrivano turisti ignari. Lì qualche volta, con le catene ai piedi, poteva uscire per fare il bucato e vedeva gli assassini del figlio, dodici uomini che giocavano a carte, parlando forte e allegri. Un giorno incontrò un prigioniero con i capelli neri e lunghi; tremava dalla paura e dal dolore, le disse di chiamarsi IC. L’11 ottobre 2004, la polizia la rimandò a casa. Dopo lo tsunami il presidente Gayoom concesse l’indulto. Oggi Mariyam dice: "Non sono più lo stessa". Ma, dopo la morte di Evan, secondo lei "anche lo stato non è più lo stesso". Vero: i maldiviani si sono ribellati per la prima volta, l’unione Europea ha iniziato a chiedere riforme. Due anni fa, Gaymoon ha dovuto autorizzare altri partiti politici. Come quello dei suoi oppositori, il partito democratico che ha la sua roccaforte nell’atollo di Addu.

Nella sala da pranzo dell’unico hotel di Gan, atollo di Addu, sta seduto l’uomo che Mariyam ricorda. "Non voglio fare la rivoluzione", dichiara Abdullah Rasheed, che tutti chiamano IC. "Vorrei che ci fossero elezioni libere e pacifiche, un Parlamento che rappresenti il popolo". Mesi fa, racconta, Gaymoon era arrivato qui per inaugurare una pista di atterraggio. La polizia aveva ordinato alla popolazione di dipingere le case, rastrellare le aree verdi e mettersi ai lati della strada per applaudire. Chi rimane a casa verrà arrestato, avevano minacciato. "Due giorni prima", ricorda Ic "avevamo scritto slogan sui muri della città: dove sono le riforme? Dov’è la nuova costituzione? Anni, il segretario del Partito democratico, era venuto per aiutarci. Hussein Salah è stato il suo autista. Ha pagato con la vita".

La strada più lunga della Repubblica, 18 chilometri, unisce quattro isole: Gan appunto e poi Feydu, Maradhu, Hithadhu. Lungo i lati palme e baracche con il tetto di lamiera ondulata, davanti alle quali le donne pestano il corallo e gli uomini riempiono di finissima sabbia bianca dei sacchetti che rivendono a 20 centesimi di euro l’uno come materiale per la costruzione. Anche Hussein Salah, 30 anni, riempiva sacchetti di sabbia. Il 7 aprile 2007, ha portato sulla sua moto Anni, il segretario dei democratici: lo aveva conosciuto nel carcere di Maafushi. Qualche ora dopo, Anni ricevette un sms: "uno di voi due deve morire".

La sera del 9 aprile, la polizia andò a prelevare Hussein. Il 12 aprile, lui chiamò da Male. "Aveva detto che sarebbe tornato presto", si dispera oggi il fratello Ibrahim Zareer in questa piccola casa di cemento e lamiera a Naazukee Hingun, Hithadhu, nell’atollo di Addu. Dietro di lui, quasi cieco, c’è il padre, accanto la madre, i fratelli, le sorelle. La sera del giorno dopo un poliziotto telefonò riferendo che Hussein era stato liberato. Ma la mattina del 15 aprile i pescatori trovarono il suo cadavere sulla costa a sud di Male. All’ospedale, un medico esaminò il corpo: il volto e il corpo erano gonfi e coperti di sangue, il setto nasale fratturato, gli mancavano alcuni denti. Causa della morte: not known (sconosciuta). Il fratello partì per Male. "Il cadavere, gonfio e maleodorante, era nella morgue di Galholu, senza refrigerazione. "Tuo fratello deve essere seppellito subito, così vuole Dio", mi dissero. Ma io risposi che volevo l’autopsia". Davanti alla morgue si erano raccolte prima decine di persone, poi centinaia. La polizia arrivò a disperderle. La televisione di stato comunicò che Hussein Salah era un tossicodipendente e un ladro e che era stato rilasciato dalla polizia due giorni prima. "Volevo un’autopsia", piange oggi il fratello cullando la figlia.

L’autopsia è stata effettuata, il 21 aprile 2007, a Colombo, nello Sri Lanka. Alle 4 del pomeriggio il medico ha chiamato il fratello di Hussein, e gli ha detto di avere mandato il rapporto all’ambasciatore delle Maldive a Colombo. "Mezz’ora più tardi", balbetta il fratello, "mio zio ci ha detto che la televisione di Stato aveva appena sostenuto che Hussein era annegato, che il corpo non presentava ferite o fratture e che era da escludere una morte imputabile a violenza fisica".

Improvvisamente, il padre si raddrizza sulla sedia: "Mi chiamo Hassan Zareer, solo un uomo anziano e conosco la vita degli uomini. Il medico di Colombo è anziano come me. Due governi, quello maldiviano e quello dello Sri Lanka, lo hanno convinto, volevano un risultato a loro gradito. Si diventa molto deboli quando si è anziani".

 

 

Segnala questa pagina ad un amico

Per invio materiali e informazioni sul notiziario
Ufficio Stampa - Centro Studi di Ristretti Orizzonti
Via Citolo da Perugia n° 35 - 35138 - Padova
Tel. e fax 049.8712059 - Cell: 349.0788637
E-mail: redazione@ristretti.it
 

 

 

 

 

Precedente Home Su Successiva