Rassegna stampa 28 aprile

 

Polizia penitenziaria negli Uepe: dissenso di Alessandro Margara

 

Blog di Solidarietà, 28 aprile 2007

 

Il presente scritto esprime il dissenso più completo rispetto al progetto di utilizzazione di personale di Polizia penitenziaria ad integrazione del personale di servizio sociale nella attività degli Uffici per la esecuzione penale esterna, anche se, come è ovvio, sul solo piano del controllo.

Tale dissenso è fondato su una serie di motivazioni che dimostrano molto di più della sola inopportunità del progetto. Dimostrano, cioè, la ragionevole certezza della compromissione del lavoro svolto sino ad oggi dagli Uffici in questione sia sul piano della qualità, sia sul piano dell’efficacia, sia sul piano dell’ordine interno degli Uffici medesimi, che sarà sostituito dalla conflittualità fra personale appartenente a ruoli sicuramente eterogenei.

L’introduzione della Polizia penitenziaria negli UEPE con funzioni operative nell’ambito della attività degli Uffici è estranea alle previsioni normative.

L’art. 72 dell’Ordinamento penitenziario descrive sinteticamente l’attività degli Uffici e prevede inoltre che la organizzazione degli stessi è disciplinata dal regolamento di esecuzione alla legge. È l’art. 118 del regolamento che descrive analiticamente organizzazione ed attività degli uffici. Sembra superfluo osservare che il regolamento adottato dal Ministro e previsto dal comma 1 del nuovo testo dell’art. 72 è norma di livello inferiore al regolamento di esecuzione citato, che ai sensi art.86 O.P. è dato con decreto Presidente repubblica su proposta dei ministri della giustizia e del tesoro, di concerto, in parte, con il Ministro della istruzione.

Circa la organizzazione, mentre, nel regolamento, vi è la previsione esplicita di personale non di servizio sociale per attività amministrativa e contabile e la possibile ed eventuale collaborazione di esperti dell’osservazione alla attività specifica di servizio sociale, non solo manca qualsiasi previsione di una possibile attività di controllo di polizia, ma la attività di controllo è prevista tra quelle proprie del servizio sociale e nel quadro delle specifiche modalità proprie di tale servizio. La lettura del comma 8 dell’art. 118 (relativo agli interventi di servizio sociale nel corso del trattamento in ambiente esterno e, quindi, particolarmente nella misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale) chiarisce come si articolano gli interventi e li descrive e li qualifica come propri della specifica professionalità di servizio sociale.

D’altronde, va puntualizzato che si parla qui essenzialmente della misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, per la quale la denominazione stessa è abbastanza perentoria sulla individuazione del servizio sociale come titolare e affidatario della esecuzione della misura. Quanto, infatti, alle altre misure alternative: per la detenzione domiciliare, il controllo è affidato agli organi di polizia ordinari e, per la semilibertà, vale la disposizione del comma 3 dell’art. 101 del regolamento di esecuzione, che va interpretata nel senso che, in primo luogo, “la vigilanza e l’assistenza del soggetto nell’ambiente libero” è svolta dal centro di servizio sociale (oggi UEPE), ma che, affidata “la responsabilità del trattamento” al direttore, questi può coinvolgere il personale dell’istituto penitenziario di cui dispone, compresa la Polizia penitenziaria.

Nella sentenza costituzionale n. 343/1987, puntuale in termini di affidamento in prova al servizio sociale, si sottolinea che, con tale misura, si attua la “imposizione di misure limitative - ma non privative - della libertà personale e l’apprestamento di forme di assistenza… idonee a funzionare ad un tempo come strumenti di controllo sociale e di promozione della risocializzazione”. I due aspetti sono dunque inscindibili e non possono essere gestiti da portatori di professionalità eterogenee.

2. La conferma delle difficoltà di convivenza di attività di servizio sociale (e di sostegno riabilitativo) e di attività di polizia.

Sembra utile rilevare alcune situazione nelle quali l’avvicinamento di personale che opera sul versante del trattamento riabilitativo e del personale di polizia crea aspetti di conflittualità.

Prima situazione. In linea di massima, le comunità che gestiscono programmi terapeutici relativi alla tossicodipendenza accettano solo affidati in prova al servizio sociale e non detenuti domiciliari, in quanto la seconda misura comporta i controlli di polizia, che creano problemi al regolare svolgimento dell’inserimento e della cura comunitaria. In questa situazione, quindi, gli aspetti di incompatibilità fra il trattamento di assistenza e cura in funzione riabilitativa e quello di polizia in funzione di controllo vengono valutati decisamente presente.

Seconda situazione. La pratica della esecuzione degli affidamenti in prova conosce già attualmente i controlli dei normali organi di polizia: peraltro molto infrequenti nelle zone urbane da parte della Polizia di Stato, ma molto frequenti, invece, nelle realtà urbane minori, generalmente da parte dei Carabinieri. Tali controlli pongono, in più casi, notevoli difficoltà, nello svolgersi del percorso di reinserimento, sia all’affidato che agli operatori di servizio sociale. Le modalità del controllo di polizia (accessi, per vero non richiesti, sul luogo di lavoro, visite in ore avanzate della notte, facilmente percepibili dal vicinato, da parte di personale sempre in divisa e in genere non informato del significato della misura alternativa e non a conoscenza della persona controllata e delle condizioni sue e della sua famiglia) seguono standard che non possono rispettare le regole minime della privacy e della discrezione. Ma il mancato rispetto di tali regole danneggia il regolare svolgimento del percorso di reinserimento sociale dell’affidato e la attività propria del servizio sociale. L’eterogeneità dei due interventi - di servizio sociale e di polizia - risulta chiaro. Fra l’altro, per quanto si ricava dalla esperienza, l’organo di polizia indirizza il suo rapporto, nel caso di verifica di una violazione delle prescrizioni, al magistrato di sorveglianza, non all’UEPE.

Terza situazione. Questa rivela la differenza di sostanza e di qualità fra intervento di servizio sociale, anche sul versante del controllo, e intervento di polizia. La situazione cui si accenna è quella della esecuzione della liberazione condizionale, misura alternativa attuata attraverso l’applicazione della libertà vigilata, gestita dagli organi di polizia ordinari. Nella esecuzione di tale misura, nei confronti dei condannati, “il servizio sociale svolge interventi di sostegno e di assistenza al fine del loro reinserimento sociale” (art. 55 Ord. penit.). Ora, per conoscere l’effettivo andamento della misura, le notizie che fornisce l’organo di polizia riguardano essenzialmente la conformazione o meno della persone alle prescrizioni formali della libertà vigilata (presentazioni periodiche, permanenza nella abitazione in determinate ore, mancato spostamento da comune o provincia di residenza, etc.), mentre per conoscere il procedere del percorso di reinserimento sociale della persona, cioè la sostanza dell’andamento della misura, sono necessarie le informazioni del servizio sociale sull’inserimento lavorativo e socio-familiare della persona. Il che significa che, anche sul piano del controllo, quello svolto dal servizio sociale è più significativo e si rivela in stretta connessione con le attività di assistenza e sostegno, così come rilevava la sentenza costituzionale n.343/1987, citata al numero precedente.

3. I problemi organizzativi posti dalla presenza di personale di Polizia penitenziaria presso gli UEPE con funzioni di controllo nella attività di servizio sociale.

In passato, nei centri di servizio sociale adulti maggiori, la presenza di alcune unità di Polizia penitenziaria con funzioni esecutive - conduzione automezzi, recapito corrispondenza, servizio di vigilanza interna per l’accesso dei visitatori - così come accade negli istituti penitenziari per la mancata presenza di personale di ruolo in tali funzioni, non ha creato particolari problemi.

Si può, invece, prevedere che questo accada quando il personale di Polizia penitenziaria svolga il proprio servizio, sia pure solo in funzioni di controllo, accanto al personale di servizio sociale nella attività di gestione della misura alternativa, particolarmente di quella dell’affidamento in prova al servizio sociale.

Si possono prevedere due soluzioni organizzative.

Prima soluzione. Nella prima soluzione, il personale di Polizia penitenziaria è aggregato all’UEPE e dipende gerarchicamente, come tutto il restante personale, dalla direzione dell’Ufficio. È molto probabile che, anche in tale situazione, l’esercizio del potere gerarchico del direttore non sarà senza problemi. Il gruppo operativo della Polizia penitenziaria tenderà a considerarsi come autonomo nella gestione del proprio servizio, una volta risolto, il che non è affatto scontato, il legame con il reparto di polizia penitenziaria esistente presso l’istituto penitenziario locale. I problemi saranno vari: si potrà prevedere una ricerca di autonomia nei tempi di svolgimento dei controlli, nella individuazione dei controlli, nella intensità degli stessi, nelle modalità di svolgimento (è scontato che sorgerà il problema se il personale opererà con la divisa o meno), nella autonomia di riferire (fare rapporto, come si dice) al magistrato di sorveglianza e eventualmente anche ad autorità giudiziarie diverse. Insomma: in tale ipotesi organizzativa, la tensione fra potere gerarchico della direzione e ricerca di autonomia nel servizio del nucleo - piccolo o grande che sia - del personale di polizia penitenziaria, si prospetta estremamente probabile: in termini maggiori o minori a seconda delle singole situazioni.

Seconda soluzione. Ma, le voci insistenti parlano di una ben diversa soluzione organizzativa: quella di commissariati territoriali di Polizia penitenziaria, autonomi dagli UEPE, collocati oppure no presso gli stessi. Ciò vorrebbe dire che il servizio in tutti i suoi aspetti sarebbe organizzato dal personale di polizia penitenziaria in autonomia, con le stesse caratteristiche dei servizi svolti attualmente in modo spontaneo e, come detto, pienamente autonomo dalla Polizia di Stato o dai Carabinieri. Tutti i problemi che abbiamo indicato possibili nell’altra soluzione diverrebbero certi, anche perché sarebbe inevitabile che i due organismi - UEPE e commissariato - presentino organizzazioni gerarchiche diverse ed autonome. Più che mai si manifesterebbe la eterogeneità dei due interventi. Tenuto conto, poi, di quanto analiticamente previsto dal comma 8 dell’art. 118 del Reg.es. all’O.P., e dalla stretta connessione che ne risulta fra aiuto e controllo, si andrebbe incontro al sovrapporsi di due attività che discendono da professionalità diverse, inevitabilmente configgenti nel rapporto che viene costituito fra servizio e affidato. Tornando ancora alla sentenza costituzionale n. 343/87, si assisterebbe alla scissione di ciò che la stessa considerava inscindibile: l’assistenza e il controllo.

Per concludere: è possibile ipotizzare che, per alcuni aspetti della esecuzione della misura alternativa, gli assistenti sociali operanti potrebbero essere convenientemente sussidiati da operatori di minore livello professionale, ma ciò dovrebbe avvenire all’interno della organizzazione degli UEPE, da parte di figure professionali diverse e subalterne agli assistenti sociali e gerarchicamente dipendenti dalla direzione degli Uffici. La soluzione della Polizia penitenziaria negli UEPE, profondamente diversa da quella ora detta, avrebbe l’ulteriore svantaggio di risolvere in modo sbagliato problemi reali e, conseguentemente, di ritardare (sine die) l’adozione di soluzioni corrette.

4. I risultati della misura alternativa dell’affidamento in prova sono molto positivi: una ricerca della Direzione generale esecuzione penale esterna del DAP.

Si tratta di una ricerca presentata nel corso del 2006. La stessa era mirata essenzialmente alla valutazione della recidiva in nuovi reati da parte dei fruitori di affidamento in prova negli anni seguiti alla conclusione della esecuzione dello stesso. Si dispone delle conclusioni generali. Si ricavano dalla stessa le notizie che seguono.

Tre punti fondamentali per conoscere la misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, il suo andamento e la sua efficacia:

il numero;

le revoche;

la recidiva dopo la esecuzione della misura.

Il numero.

La crescita delle misure alternative è stata costante. In particolare, dal 1991, in cui le misure alternative erano complessivamente inferiori a 5.000, se ne avuta la decuplicazione, avendo raggiunto quasi quota 50.000 nel 2005 e precisamente: 32.000 affidamenti in prova, 14.000 detenzioni domiciliari; 3.500 semilibertà.

I casi di revoca.

Dai casi di revoca indicati nella ricerca si espungono quelli conseguenti alla intervenuta modifica della posizione giuridica, tale da determinare la cessazione (non si tratta di casi di revoca, ma di cessazione, come indicato dall’art. 51bis, O.P.). Precisato questo, si rileva che, dal 1999 al 2005, le revoche degli affidamenti in prova si sono mantenute a livelli inferiori o superiori al 4% del totale degli affidamenti concessi (dal 3, 85 del 1999 al 4, 64 del 2005).

Risultano anche le cause di revoca: quella ampiamente prevalente è l’andamento negativo della misura. È significativo che la revoca per commissione di nuovi reati durante la misura presenta valori irrisori: dallo 0,20% nel 1999 al massimo dello 0,29% nel 2000, scendendo allo 0,16% nel 2005).

I casi di recidiva

La ricerca della Direzione generale della esecuzione penale esterna del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, cui ci si riferisce, è stata condotta su 8.817 casi di affidamento, conclusi nel 1998 in tutta Italia. La stessa ha riscontrato che solo nel 19% dei casi vi era stata recidiva negli anni successivi al 1998 fino al 2005 e, quindi, per 7 anni. Parallelamente si è verificato, fra tutti gli scarcerati a fine pena nel 1998 (5772), non fruitori pertanto di misure alternative, che aveva recidivato il 68,45%. Incontestabile la maggiore efficacia delle misure alternative, con riferimento a questo indicatore decisivo di recupero rappresentato dalla mancata ricaduta nel reato degli affidati.

Se si scende, poi, ad una ulteriore analisi dei casi di recidiva si vedrà che i valori cambiano notevolmente nei casi di affidamenti in prova in casi particolari per tossicodipendenti. Per questi:

nei casi di ammessi dalla detenzione (che rappresentano solo il 4% del totale degli affidati), i casi di recidiva salgono al 42%;

nei casi di ammessi dalla libertà (che rappresentano il 22% del totale degli affidati), la recidiva riguarda il 30%.

Per gli affidamenti ordinari - 20% del totale dalla detenzione e 48% del totale dalla libertà - la percentuale di casi di recidiva è molto inferiore e contribuisce (insieme agli affidati militari: solo il 6% del totale, ma con recidiva del 5%) al valore finale riferito sopra: per i primi è il 21%, per i secondi (quasi la metà del totale complessivo) il 17%.

Da altra ricerca (MISURA, svolta dall’Università di Firenze insieme al PRAP e ai CSSA toscani, per i soli affidati di questa regione, nel 2004) risulta fra l’altro che, in un numero molto elevato di casi, i fruitori della misura alternativa venivano da storie giudiziarie con frequenti recidive.

Conclusioni.

I Centri di servizio sociale adulti (oggi UEPE), nel quadro del sistema delle misure alternative esistente, hanno funzionato in modo eccellente. Bisogna rilevare, poi, che, essendo stata espletata la ricerca sui casi conclusi nel 1998, a tale data i CSSA avevano ancora un organico molto modesto, elevato e quasi raddoppiato solo con la legge Simeone (27/5/1998, n. 165). Allo stato, pertanto, gli UEPE hanno migliorato la loro organizzazione e non hanno certamente bisogno che venga turbata da interventi organizzativi sbagliati, come quelli indicati ai n. 1, 2 e 3 di questo documento.

5. La precedente esperienza USA sull’abbandono della linea di servizio sociale nelle misure alternative.

Si dà atto che il nostro sistema di misure alternative è molto diverso da quello degli USA. Si resta, però, colpiti dalla precedente esperienza verificatasi in quel sistema proprio in relazione al progressivo abbandono della gestione di servizio sociale nelle misure alternative.

Ricavo la citazione che segue dal libro di Loic Wacquant (“Punire i poveri, Il nuovo governo della insicurezza sociale”, Ed. Derive/approdi, 2006): “Trent’anni fa i parole officers uscivano dalle scuole per assistenti sociali e studiavano i fondamenti della psicologia e della sociologia. Oggi, mentre i casi da seguire sono raddoppiati, essi si formano in scuole di giustizia criminale dove apprendono le tecniche di polizia e l’uso delle armi da fuoco. La nuova filosofia panottica che li guida è sottolineata da questo slittamento semantico: i programmi di parole sono stati recentemente ribattezzati “liberazione sotto controllo” in Florida e “controllo di comunità” nello stato di Washington. Sotto il nuovo regime liberal-paternalista, infatti, l’individuo liberato con la condizionale non è tanto un ex-pregiudicato restituito alla libertà quanto un quasi prigioniero in attesa di un imminente ritorno dietro le sbarre”(pg. 144). E, in precedenza (pg. 143), si leggono alcuni dati: “Da “trampolino”, la liberazione con la condizionale è diventata una “trappola”: tra il 1985 e il 1997, il tasso degli individui in libertà vigilata che completano con successo la fase di “supervisione esterna” è crollato dal 70% al 44%. E nel giro di vent’anni, l’impatto di quelli ripresi e rispediti in carcere è raddoppiato, passando dal 16% di nuovi ingressi nel 1980 al 34% nel 1997”.

Utile una precisazione: questi dati non riguardano la recidiva dopo il completamento della misura, ma riguardano gli insuccessi durante la esecuzione della misura, cioè quei casi che si sono esaminati sopra come revoche.

Non c’è bisogno di commento. C’è solo da prepararsi all’aumento del tasso di recidiva che seguirà la attuazione di un sistema di affidamento in prova congiunto al servizio sociale e ad organi di polizia.

 

Articolo di Alessandro Margara (già presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, presidente della Fondazione Michelucci, è autore di una proposta di riforma dell’Ordinamento penitenziario).

Polizia Penitenziaria negli Uepe: Fp-Cgil; perché siamo contrari

 

Comunicato stampa, 28 aprile 2007

 

Come già saprete nei giorni scorsi il Dap ha presentato alle OO.SS. una bozza di Decreto Ministeriale avente per oggetto "l’intervento della Polizia penitenziaria nell’Esecuzione penale esterna". Progetto sul quale l’amministrazione ha già convocato un tavolo di confronto fissato per il prossimo 14 maggio.

Sull’ipotesi prospettata, stante l’attuale precaria condizione vissuta dai lavoratori in pressoché tutti gli Istituti e Servizi penitenziari, il giudizio della nostra organizzazione non può che essere negativo, nella forma e nel merito. Proveremo a spiegare sinteticamente il perché di questo giudizio. Si tratta - a nostro parere - di un progetto approssimativo, incoerente e confuso perché sostanzialmente:

Interviene su un’attività - quella dell’esecuzione penale esterna - che nei prossimi mesi sarà attraversata da profondi processi di riorganizzazione, sia per l’attuazione della legge Meduri (si aspetta un nuovo regolamento di funzionamento), sia per le disposizioni contenute nella legge finanziaria 2007 (decreto di riorganizzazione dell’Amministrazione penitenziaria);

non tiene conto sia delle modifiche al codice penale che saranno apportate dalla Commissione Pisapia, che delle iniziative già formalmente assunte dal Ministro Mastella per l’introduzione di nuove misure penali quali, ad esempio, la messa alla prova;

è normativamente debole e lascia prefigurare, fin dalle premesse, il rischio di una sua facile impugnazione da parte delle altre Amministrazioni, oggi deputate al controllo delle misure alternative.

Ma soprattutto, è un progetto che, al di là delle per noi legittime e condivisibili aspirazioni professionali del personale interessato, aggrava pesantemente le condizioni di vita e di lavoro degli operatori della Polizia Penitenziaria negli Istituti e Servizi penitenziari, rese peraltro già estremamente difficoltose dalla forte carenza di personale - soprattutto nelle sedi del centro nord del Paese - e della scarsità delle risorse a disposizione.

Sotto questo profilo si tratta - a giudizio della scrivente O.S. - di un progetto:

i cui sacrifici ricadrebbero interamente, come già per l’assunzione del Servizio Traduzioni e Piantonamenti nel 1995, sugli operatori della Polizia penitenziaria che operano all’interno degli Istituti e Servizi penitenziari. Nessun progetto di aumento dell’organico della Polizia penitenziaria, nessun concorso pubblico, soltanto la precisa volontà di sottrarre centinaia e centinai di poliziotti penitenziari dai servizi di istituto, già gravemente offesi da quelle politiche clientelari e irrazionali che nel passato hanno consentito ad una larga parte di questi di essere destinati a compiti non istituzionali. Con questa ipotesi, chi resterà a lavorare negli Istituti e Servizi penitenziari resterà sempre più solo, e con condizioni di lavoro ancora meno rispettose dei diritti contrattuali: più turni di lavoro, più posti di servizio, meno tutele, meno sicurezza, meno ferie e meno riposi;

che riapre una sacca enorme di possibili, prevedibili favoritismi. Sarebbe inevitabile la rincorsa - purtroppo già vissuta nel passato - alla creazione di un consenso governato con i soliti meccanismi e personaggi. Per essere ancora più chiari: secondo noi, ci saranno centinaia di posti offerti agli amici degli amici e negati a chi amici non ha;

nel quale, l’attività prevista per la Polizia penitenziaria è sminuita nel ruolo e nelle funzioni, finanche rispetto a quella oggi svolta dall’Arma dei Carabinieri e dalla Polizia di Stato, che assicurano questo servizio senza limitazioni territoriali e in una visione di autonomia rispetto alla magistratura di sorveglianza; il progetto, invece, propone l’offensiva limitazione delle attività di controllo della Polizia penitenziaria al solo ambito comunale e ciò, perché, così l’amministrazione "risparmia" - tra l’altro - finanche sull’indennità di missione dovuta ai poliziotti penitenziari per tale servizio;

che, aggiunto alle disastrose esperienze maturate con il Gom, smaschera una politica di gestione della Polizia penitenziaria che continua a non volersi occupare del lavoro negli Istituti e Servizi penitenziari, delle situazioni di degrado in cui operano i poliziotti penitenziari, dei diritti loro negati, della qualità del proprio lavoro, dei loro trattamenti ordinamentali, giuridici ed economici, fortemente squilibrati rispetto a quelli dei loro colleghi impiegati nei ruoli corrispondenti delle altre Forze di Polizia.

Sarà per noi, e non mancheremo di denunciarlo il prossimo 14 maggio, un vero e proprio gioco al massacro, un ulteriore bidone che si vuole tirare alla Polizia penitenziaria, alla quale demagogicamente si prova ad offrire un elemento di distrazione dalla sua condizione lavorativa e professionale solo per fuorviarne la coscienza. E a che prezzo!

Vogliamo peraltro affermare subito, anche per sgombrare il campo da false interpretazioni e inutili tentativi di strumentalizzazione sindacale, che non siamo affatto contrari ad un progetto di riorganizzazione complessiva dell’area penale esterna che apra nel futuro a prospettive diverse da quelle attuali per la Polizia penitenziaria.

Ben diverse da oggi, però, dovranno essere le condizioni che permettano di accompagnare questo nuovo impegno!

Ciò che ci vede fortemente contrari e determinati nel tentare di superare la proposta avanzata dai vertici del Dap, è che tutto ciò venga proposto senza un preventivo confronto sull’esigenza, con approssimazione, senza alcuna risorsa aggiuntiva e, soprattutto, che a pagare il conto salato di questo nuovo servizio siano i soliti sfortunati poliziotti che operano negli Istituti e Servizi penitenziari.

Per questo, inviteremo il Dap ad un momento di riflessione ulteriore, per arrivare ad un progetto organico, sostenibile dal punto di vista normativo, compatibile nelle risorse indispensabili e, soprattutto fattibile; un progetto, insomma, che non mandi allo sbaraglio la Polizia penitenziaria e che non diminuisca la già precaria condizione di vita e di lavoro degli uomini e delle donne che operano negli Istituti ma che, al contrario, ne valorizzi appieno la professionalità di cui già oggi è dotato.

Rivendicheremo con forza un’inversione delle priorità che il Ministro Mastella sembra aver unilateralmente definito: si deve ricominciare ad intervenire, con un piano straordinario di investimenti, proprio laddove si sostanzia la maggiore difficoltà degli operatori che lavorano in prima linea, ovvero sugli organici della Polizia penitenziaria, sulle dotazioni di sede, sulla formazione professionale, sulle risorse destinate a compensare il servizio di missione e il lavoro straordinario, sui mezzi e gli strumenti necessari all’espletamento in sicurezza dei compiti loro affidati, negli istituti, nelle sezioni detentive, nei reparti operativi e presso i Nuclei Traduzioni e Piantonamenti, ma anche sul Riordino delle Carriere e sulle intollerabili sperequazioni ordinamentali, giuridiche ed economiche in atto nel Comparto Sicurezza tra il personale di Polizia penitenziaria e quello delle altre Forze di Polizia.

Sono queste le priorità da affrontare subito e avviare a soluzione per la Fp-Cgil, perché coinvolgono direttamente i poliziotti penitenziari, i loro interessi, il loro difficile lavoro quotidiano, la famiglia, i diritti già oggi sovente messi terribilmente in discussione.

Allo stato attuale e, soprattutto, alle condizioni di estremo disagio operativo in cui oggi sono spesso costretti a lavorare i poliziotti penitenziari negli Istituti e Servizi (già 43.000 i detenuti ristretti), non si può pensare di rispondere con l’imposizione di ulteriori insostenibili carichi di lavoro. Chi li dovrà garantire, visto che non ci saranno assunzioni, e risorse aggiuntive, a disposizione, se non i soliti pochi che rimarranno a lavorare negli Istituti, magari rinunciando completamente a riposi e ferie, esattamente come 15 anni fa?

Il Ministro Mastella dovrebbe, invece, dopo aver contribuito a trovare la soluzione per le questioni che oggi affliggono il personale di Polizia penitenziaria, farsi carico della situazione e imporre al Governo di assumere tutto il personale necessario, ottenere dal medesimo gli stanziamenti economici necessari a supportare una così dispendiosa attività, ad acquistare i mezzi e gli strumenti necessari per il servizio, a garantire per il pagamento puntuale di missioni, straordinari e quant’altro, a formare il personale e garantire pari opportunità per tutti, e solo dopo si potrà parlare del legittimo impiego del personale di Polizia penitenziaria presso gli Uepe.

Fino ad allora, però, pensiamo a migliorare le condizioni di lavoro di chi oggi già è costretto a fare 10 ore di servizio in pessime condizioni operative, addirittura in doppi turni, in strutture vecchie ed obsolete, spesso rinunciando ai propri diritti e alla propria vita privata. Questo crediamo sia oggi il tema centrale della discussione.

 

Il Coordinatore Nazionale Fp-Cgil

Polizia Penitenziaria

Francesco Quinti

Giustizia: caso Cogne; Annamaria Franzoni condannata a 16 anni

 

Adnkronos, 28 aprile 2007

 

Ridotta la pena per le attenuanti generiche. È questa la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Torino, presieduta da Romano Pettenati, emessa dopo oltre 9 ore di camera di consiglio. Il procuratore generale: "Corte ha mostrato comprensione". La difesa: "Il processo non finisce qua. Non ripeto le parole che la signora ha detto al telefono".

Annamaria Franzoni condannata a 16 anni con le attenuanti. È questa la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Torino, presieduta da Romano Pettenati, emessa dopo oltre nove ore di Camera di Consiglio. Si conclude così una fase giudiziaria importante del processo di Cogne.

"Visti gli atti 442, 599, 605 del Codice di procedura penale, in parziale riforma della sentenza impugnata, concede all’imputata le attenuanti generiche che dichiara equivalenti all’aggravante contestata e ravvisata, e la condanna calcolata la riduzione del rito, alla pena di 16 anni di reclusione". Così recita il testo della sentenza pronunciata intorno alle 21.10. In primo grado Annamaria Franzoni era stata condannata a 30 anni di reclusione per la morte del figlioletto Samuele Lorenzi. Ora scattano i 90 giorni per il deposito della sentenza.

"È una sentenza in cui la Corte ha dimostrato comprensione e che mi vede favorevole". Queste le prime parole del procuratore generale Vittorio Corsi. Una sentenza dunque "giusta in cui è stato tenuto conto di un disagio di quella mattina e quella notte". Alla domanda se pensa a un ricorso in Cassazione per la concessione delle attenuanti generiche, risponde di no. Il magistrato, a chi gli fa notare che è stata riconosciuta la piena capacità di intendere e di volere come lui aveva richiesto, risponde che "non c’erano sufficienti dati per ritenere un vizio di mente. Se avesse raccontato – conclude - cosa aveva provato quella notte e quella mattina, forse le avrebbe giovato".

Per l’avvocato difensore della Franzoni, Paola Savio "il processo non finisce qua". "Prendiamo atto della sentenza -dice in una brevissima conferenza stampa il legale- c’era un ventaglio di possibilità e la Corte ha deciso di confermare la sentenza di condanna riducendo la pena. Aspetteremo il deposito delle motivazioni per capire quali sono i punti che hanno portato a questa decisione e poi si andrà avanti. Ovviamente -conclude - sono convinta dell’innocenza della mia assistita. Si è fatto tutto quello che ritenevamo di poter fare al punto in cui eravamo arrivati, se ci saranno altre cose si valuteranno, ci sono tre gradi di giudizio e quindi il processo non finisce qua".

A chi gli chiedeva quali fossero state le reazioni della Franzoni, il legale dice: "Non ripeto le parole che la signora ha detto al telefono". All’avvocato Paolo Chicco, il titolare dello studio legale di Savio, sembra "una soluzione un po’ salomonica e per noi è l’inizio del crollo del castello accusatorio". Poi aggiunge: "È solo la prima tranche e speriamo in Cassazione di riuscire a concludere quanto iniziato. Era un processo che pareva disperato e abbiamo ottenuto un buon risultato". L’avvocato Chicco ha poi ricordato che è stata "una camera di consiglio lunga e la voce del presidente nel leggere la sentenza mi è sembrata molto commossa. Immagino ci sia stata una netta divisione ed è stata presa una soluzione un po’ salomonica". Né la Franzoni, né i suoi famigliari erano presenti in aula alla lettura della sentenza. A comunicargliela è stata il suo avvocato Savio. Infatti, poco dopo la fine dell’udienza Anna Maria e suo marito Stefano, che per la prima volta oggi è scoppiato in lacrime ascoltando un ricordo di Samuele, hanno lasciato Torino per tornare nella loro casa di Ripoli.

In aula questa mattina Annamaria Franzoni si è presentata in giacca bianca e jeans. Con lei oltre il marito, il suocero, il prete, don Marco Baroncini, e alcuni componenti del comitato che sostiene l’innocenza della donna. Fuori l’ingresso del Palagiustizia c’era una folla di persone. I ‘fedelissimi’ che hanno assistito a tutte le 22 udienze hanno atteso fino alla lettura della sentenza. Dopo la controreplica dell’avvocato difensore e su invito del presidente della Corte, la Franzoni in aula aveva detto: "Volevo dire, spero che siate giusti nel giudicare. Non ho ucciso mio figlio - assicura - non gli ho fatto niente".

Firenze: detenuta con problemi psichici incendia magazzino

 

Toscana In, 28 aprile 2007

 

Le fiamme sono divampate in un magazzino vicino all’aula didattica del carcere fiorentino di Sollicciano, nel settore femminile. I vigili del fuoco hanno subito domato le fiamme ed hanno provveduto a dare aria ai locali che si erano riempiti di fumo. Nessuna persona è rimasta intossicata e le detenute presenti nella stanza sono state fatte allontanare senza alcuna conseguenza. A prendere fuoco alcuni libri e riviste poste nel ripostiglio.

In un primo momento il personale di sorveglianza ha tentato di spegnere le fiamme rompendo anche alcuni vetri per far uscire il fumo che aveva invaso tutti gli ambienti. "A quanto risulta - ha spiegato Franco Corleone, garante dei diritti dei detenuti a Firenze - le fiamme sono state appiccate da una detenuta del reparto Casa di cura e custodia, l’unico in Italia del genere, dove sono ospitate donne giudicate semi-inferme di mente.

La donna in questione è una lavorante, e può muoversi abbastanza liberamente all’interno della sezione. Non è escluso che si sia trattato di un atto di autolesionismo, comunque legato alle sue condizioni psicofisiche e senza l’intenzione di creare danni ad altri". Corleone ha aggiunto che "nel settore femminile di Sollicciano, che ospita una sessantina di persone, non si registrano tensioni particolari. Oltretutto, quel settore, a differenza del maschile, non è sovraffollato. A Sollicciano, che ha una capienza di 500 detenuti, in tutto adesso ne sono presenti circa 700".

Roma: agli arresti domiciliari, per sei mesi senza cibo e tra i rifiuti

 

Garante regionale dei detenuti, 28 aprile 2007

 

Fra i rifiuti e senza cibo perché impossibilitato ad uscire da casa per la pena e senza nessuno che si prendesse cura di lui. per disperazione è uscito di casa e ora è tornato in carcere. Il Garante regionale dei detenuti Angiolo Marroni: "In questi mesi M. ha contattato le forze dell’ordine, i servizi sociali e le istituzioni, ma ha trovato un insopportabile muro di omertà e di ipocrisia. È paradossale che si debba dire: meglio il carcere che morire di fame da solo in casa propria".

Per sei mesi agli arresti domiciliari ha vissuto segregato in casa, fra immondizia e praticamente senza cibo, perché non poteva uscire di casa a causa della pena e non aveva nessuno (né parenti, né amici, né istituzioni) che potesse prendersi cura di queste incombenze. Ora è tornato in carcere per violazione degli obblighi legati ai domiciliari. Protagonista di questa vicenda kafkiana - segnalata dal Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti Angiolo Marroni - Michele (nome di fantasia) un detenuto ora recluso nel carcere di Velletri.

A quanto risulta al Garante sei mesi fa, quando uscì dal carcere per gli arresti domiciliari nella sua casa di Cecchina (alle porte di Roma), M. conviveva con una ragazza della Repubblica Ceca con cui era fidanzato. Pochi giorni dopo il suo ritorno, tuttavia, la ragazza era andata via lasciando Michele solo in casa, senza possibilità di uscire per fare spese o per buttare l’immondizia. In queste condizioni Michele ha trascorso, da solo, sia le feste di Natale che quelle di Pasqua.

In questi mesi l’uomo ha detto di aver segnalato la sua situazione alle forze dell’ordine, ai servizi sociali del comune di Albano Laziale e, attraverso i collaboratori del Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti, con l’Ufficio Penale Esecuzioni Esterne (UEPE) di Roma. Dalle istituzioni nessuna risposta è arrivata. M. ha vissuto grazie alla solidarietà di un sacerdote, del suo vicino di casa e di una sua amica che, per questo, sono stati invitati a chiarire la loro posizione dalle forze dell’ordine. Ora Michele è tornato nel carcere di Velletri dopo che la magistratura ha deciso la revoca degli arresti domiciliari.

"Quella di Michele è una vicenda davvero incredibile - ha detto il Garante Regionale dei Detenuti Angiolo Marroni - Si è rivolto a quelle istituzioni che dovrebbero curare il benessere di tutti i cittadini ed invece ha trovato un insopportabile muro di omertà e di ipocrisia. È paradossale che, nel III millennio, in uno Stato che si vanta di essere fra i primi del mondo, si debba dire meglio il carcere che morire di fame e fra i rifiuti, da solo, in casa propria".

Rovereto: un nuovo comandante per la Polizia penitenziaria

 

L’Adige, 28 aprile 2007

 

È milanese, ma del Trentino conserva da anni un ricordo quanto mai vivido. Perché alla Vallagarina e alla Valdadige ha regalato alcuni fra i suoi più grandi successi sportivi, quando, negli anni Ottanta, con la divisa delle fiamme azzurre, correva i 100 piani; e proprio a Trento ha siglato il proprio record personale, tagliando il traguardo in 10 secondi e 44 centesimi. Domenico Gorla, a Rovereto, ci ritorna a 42 anni, con la moglie e i 4 figli: è lui il nuovo comandante della polizia penitenziaria cittadina. Lasciata Aosta, dove per due anni ha tenuto il comando del reparto locale, Gorla ha assunto infatti in questi giorni (il 16 aprile, per la precisione) il medesimo ruolo presso la casa circondariale di via Prati, dove si preoccuperà, per i giorni a venire, di garantire la sicurezza, collaborando con la direzione dell’istituto nel trattamento e nella rieducazione dei detenuti.

"A Rovereto - confida - ho trovato una vitalità progettuale inattesa, e ancora un personale competente, appassionato e preparato. La prima impressione, insomma, è alla lunga più che positiva". Gorla è parimenti soddisfatto del territorio che lo ha accolto: "Ricordavo come, già in passato, avessi avuto modo di apprezzare l’atmosfera della vostra cittadina: concorrente del Palio Città della Quercia, la visitai un paio di volte; la ritrovo ora più animata e vivace che mai". Responsabile, fino al 2003, della "Sala situazioni" di Roma, ovvero della struttura informatizzata che si occupa della raccolta delle informazioni e dei dati statistici inoltrati da tutti gli Istituti penitenziari nazionali, nonché della gestione delle segnalazioni relative agli eventi critici che occorrono, con maggiore o minore gravità, all’interno delle case circondariali, il vicecommissario (la nomina gli sarà conferita nel giro di pochi mesi) sostituisce l’ispettore Sanna, destinato ad altro incarico, importando a Rovereto la riforma di recente introdotta a livello nazionale secondo la quale, analogamente a quanto accade negli altri corpi, può assumere il comando di un reparto solo chi possieda il grado di commissario.

Le novità, a dire il vero, non sono finite: una è toccata anche ad Antonella Forgione, che del carcere di Rovereto, da qualche settimana, non è più direttrice ma dirigente. La nomina comporta una maggiori responsabilità nell’ambito della programmazione e della pianificazione della vita dell’istituto: "Farò quel che ho sempre fatto - ha dichiarato Forgione - poiché fino ad ora ho voluto interpretare con la massima serietà l’incarico affidatomi. Punteremo alla conquista delle migliori condizioni di vita, all’interno dell’Istituto, e al maggiore coinvolgimento del territorio comunale, potenziando le sinergie già avviate negli anni scorsi".

Padova: premio da "accademia" per la pasticceria del carcere

 

Padova News, 28 aprile 2007

 

Impegnata, in Italia ed all’estero con le sue 285 Delegazioni, in un’intensa attività di promozione della tipica gastronomia italiana, di valorizzazione culturale della civiltà della tavola, di approfondimenti storici e di corretta rivisitazione culinaria (nel rispetto delle tre regole del Ricordo, della Ricerca e del Rigore), l’Accademia Italiana della Cucina, su iniziativa del presidente prof. Giuseppe Dell’Osso, dedicherà uno dei più significativi momenti della sua "quattro giorni" padovana, all’attribuzione di un particolare riconoscimento al Laboratorio di Pasticceria della Casa di Reclusione "Due Palazzi".

Il tutto avverrà nella giornata di giovedì 3 maggio 2007 con la conferenza stampa alle ore 11.30 al Gran Caffè Pedrocchi presieduta dal prof. Giuseppe Dell’Osso, che vedrà anche la presenza del direttore della Casa di Reclusione Salvatore Pirruccio, del presidente del Consorzio Rebus Nicola Boscoletto e del dott. Sebastiano Ardita, Direttore Generale dell’Ufficio IV Detenuti e Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria.

Alle ore 13.00 seguirà la visita al Laboratorio del carcere "Due Palazzi" di Padova da parte di una delegazione di Accademici italiani e stranieri, di autorità e di giornalisti, che potranno assistere alla preparazione dei prodotti e degustare le specialità dolciarie realizzate nel Laboratorio.

A fare gli onori di casa, assieme al direttore Pirruccio, il dott. Sebastiano Ardita, Direttore Generale dell’Uffico IV Detenuti e Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e il provveditore alle carceri del Triveneto Felice Bocchino. Saranno presenti anche il sindaco di Padova Flavio Zanonato, l’assessore ai Servizi sociali del Comune di Padova Claudio Sinigaglia e il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia Giovanni Tamburino.

Precisiamo che questo Laboratorio è partito in carcere nell’ottobre del 2005 e ha avuto sin dall’inizio due obiettivi molto ambiziosi: produrre alta pasticceria artigianale e inserire detenuti che attraverso percorsi personalizzati di formazione e di avviamento lavorativo potessero imparare un mestiere da spendere anche all’esterno, una volta terminata la pena.

Formati e affiancati al lavoro dai maestri pasticceri del Consorzio sociale Rebus e della cooperativa sociale Work Crossing - Ristorazione Forcellini, i detenuti hanno già raggiunto importanti traguardi con prodotti di alta qualità. In particolare segnaliamo il panettone natalizio e la colomba pasquale che hanno ottenuto un unanime apprezzamento sia in Italia che all’estero. Nel frattempo al Meeting di Rimini è stata lanciata la nuova linea de "I dolci di Giotto". Ricordiamo che il Laboratorio di pasticceria della Casa di Reclusione di Padova rappresenta uno sviluppo del progetto sperimentale del Dap - Ministero di Giustizia che prevede in cinque carceri italiane l’esternalizzazione del servizio di ristorazione dei reclusi. Attualmente a Padova tra pasticceria e cucina sono inseriti al lavoro 33 detenuti. L’iniziativa, che si colloca accanto agli eventi culturali e turistici che caratterizzeranno il denso programma accademico di Abano Terme e di Padova con la partecipazione di oltre 400 Accademici (75 delegazioni estere e 210 italiane), nei giorni 3,4,5 e 6 maggio, assume una particolare valenza sociale.

Gorizia: la senatrice Lidia Menapace visita il carcere e il Cpt

 

Il Gazzettino, 28 aprile 2007

 

La senatrice di Rifondazione Comunista, Lidia Menapace, è stata ieri a Gorizia e a Gradisca d’Isonzo per visitare il carcere del capoluogo isontino, e, nel pomeriggio, il Cpt gradiscano. "La casa circondariale di Gorizia ­ ha spiegato la Menapace ­ versa in condizioni pietose. Non mancano soltanto le risorse finanziarie, ma è praticamente inabitabile, con degli spazi insufficienti e il personale che fa miracoli. Non credo sia possibile pensare ad una ristrutturazione, ma è necessario trovare un’alternativa". Questione annosa e mai risolta, quella del carcere goriziano e da anni lamentata anche dal direttore Giovanni Attinà.

"Ci siamo trattenuti con alcuni detenuti ­ ha raccontato Menapace ­, impegnati in un’attività di ricerca sulle politiche energetiche nel laboratorio informatico. Iniziative validissime, ma ancora troppo poche per occupare le giornate". Secondo la Menapace sarebbe ideale trovare nuovo alloggiamento del carcere in una delle diverse caserme dimesse sul territorio isontino: "Sarebbe così possibile pensare alla possibilità di organizzare una falegnameria, un orto, un campo sportivo, per esempio. È chiaro che il carcere sia un luogo di pena e di restringimento delle libertà, ma non può essere fonte di danno o salute precaria".

Il tema del Cpt sembra essere parallelo a quello carcerario: "È la prima volta che entro al Cpt di Gradisca ­ ha riportato la senatrice dopo la visita -. Qualche volta le vecchie prigioni hanno qualcosa di più umano. Lì ci sono dipinte alle pareti farfalle, fiori e cieli azzurri, ma non è sufficiente a far sentire meglio chi ci abita. Ho letto negli occhi degli ospiti una forte infelicità ed la coscienza dei propri diritti violati".

"Fintanto che la legge Ferrero non passerà ­ spiega ­ bisognerebbe cercare di aiutare delle forme di rappresentanza dentro la struttura e creare un rapporto fra l’interno e l’esterno. Ma è altrettanto necessario riempire le giornate con attività ginniche, una biblioteca decente e altre attività. Li le giornate trascorse sono prive di senso". E con la nuova legge sull’immigrazione? "Intanto è ancora un disegno di legge. E poi l’opposizione ha già un atteggiamento terroristico che non aiuta l’opinione pubblica a togliere quella coltre di pregiudizio e di razzismo che ancora esistono".

Nella tappa udinese della sua visita, la senatrice ha partecipato alla commemorazione del 70. anniversario della morte di Gramsci. Incalzata dai cronisti sul rapporto fra la filosofia gramsciana e l’attualità della sinistra alla prova del Partito democratico, Menapace ha tagliato corto: "Con il Pd Gramsci non c’entra niente. Il suo storicismo è tutto il contrario di questo pragmatismo senza princìpi.

Questo nuovo partito è un frullato in cui si annulla qualsiasi idea di conflitto". Quanto alla polemica sulle Frecce tricolori, Menapace ha raccontato di aver continuato a ricevere "minacce o insulti, via mail o via lettera. Mi scrivono: "Brutta vecchia comunista, vieni da noi che ti spariamo in fronte". O dicono che devo avere l’Alzheimer. Gli ho risposto che gli auguro di arrivare alla mia età con lo stesso livello di Alzheimer che ho io ora. Onestamente, non immaginavo di alzare un simile vespaio".

Savona: interrogazione al ministro sul degrado del carcere

 

Camera dei Deputati, 28 aprile 2007

 

Interrogazione a risposta scritta presentata da Sergio Olivieri giovedì 21 settembre 2006 nella seduta n° 39. Al Ministro della giustizia. Per sapere - premesso che:

il 15 settembre 2006 l’interrogante ha visitato il carcere di Savona, denominato Sant’Agostino, e ne ha personalmente verificato le pessime condizioni ambientali, igieniche e strutturali essendo l’edificio carcerario un vecchio convento risalente al 1400 e utilizzato quale luogo di detenzione a partire dall’età napoleonica;

in virtù di tale situazione il Sant’Agostino di Savona è stato inserito nell’elenco delle strutture carcerarie da dismettere e pare essere già stato avviato l’iter per la realizzazione del nuovo carcere che dovrebbe sorgere in località Passeggi nel comune di Savona;

la realizzazione della nuova struttura carceraria è condizione necessaria per la dismissione del Sant’Agostino;

il 25 luglio 2006 i giornali savonesi hanno riportato alcune dichiarazioni del Vice Sindaco di quel Comune secondo le quali le risorse finanziarie stanziate per la realizzazione della nuova struttura carceraria risulterebbero insufficienti rispetto alle reali necessità;

tale circostanza, ove venisse confermata, metterebbe in seria discussione la realizzazione della nuova struttura nei tempi ipotizzati -:

se rispondano a verità le notizie relative all’insufficienza delle risorse finanziarie stanziate;

se sia stato ultimato l’iter progettuale della nuova struttura e, in caso contrario, quando si ritenga possa essere approvato il progetto esecutivo dell’opera;

quando si ritenga possano avere inizio i lavori per la realizzazione del nuovo carcere savonese ed in quanto tempo se ne stimi la durata;

in ogni caso, quali interventi si intendano mettere in atto per rendere igienicamente ed ambientalmente accettabile l’attuale struttura carceraria savonese, nella quale i detenuti scontano di fatto una doppia pena e le stesse condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziarie e del personale amministrativo risultano essere alquanto difficili.

 

Risposta scritta pubblicata giovedì 22 marzo 2007

 

In risposta all’interrogazione in esame, si comunica che la realizzazione del nuovo istituto di Savona è curata dal Ministero delle infrastrutture, con fondi assegnati sul capitolo di bilancio di quel dicastero e che, sulla base del progetto definitivo, è stato recentemente appaltato un primo lotto dei lavori, risultando insufficienti i fondi stanziati.

A cura dell’impresa sarà redatto il relativo progetto esecutivo e, prevedibilmente, entro il primo semestre del corrente anno saranno, quindi, avviati i lavori. È previsto che i lavori del primo lotto durino due anni.

Peraltro, qualora venisse assegnata in tempo utile la necessaria integrazione dello stanziamento, potrebbe ipotizzarsi in tempi non lontani dalla fine di tali lavori anche l’ultimazione dell’intervento nel suo complesso.

Per quanto concerne, invece, il vecchio istituto, bisogna tener presente che, per le gravi carenze funzionali, la conformazione e la ristrettezza degli spazi, la struttura non è suscettibile di significativi interventi di risanamento, fermo restando che, comunque, nei limiti consentiti dalle condizioni strutturali e compatibilmente con le risorse disponibili, alcuni interventi per migliorare la vivibilità, la sicurezza e le condizioni igienico-sanitarie dell’istituto sono stati realizzati a cura del competente Provveditorato regionale.

 

Il Ministro della giustizia: Clemente Mastella

Pena di morte: nel mondo è in calo, ma aumenta in Iran e Iraq

 

Unimondo, 28 aprile 2007

 

Il numero delle esecuzioni nel mondo è sceso da 2148 nel 2005 a 1591 nel 2006 - afferma il Rapporto di Amnesty International sulla pena di morte presentato ieri a Roma. Ma il dato è fortemente al ribasso - avverte Amnesty - in quanto non tiene conto di tutte le esecuzioni capitali in Cina, paese leader delle esecuzioni dove Amnesty ha registrato almeno 1000 esecuzioni, ma si ritiene che il numero effettivo delle persone messe a morte possa arrivare a 8000: i dati sulla pena di morte sono considerati dal governo di Wen Jabao un "segreto di Stato".

L’Iraq si è aggiunto alla lista dei leader mondiali delle esecuzioni. L’uso della pena di morte in questo paese è cresciuto rapidamente dopo la reintroduzione, avvenuta a metà del 2004. Da allora, vi sono state oltre 270 condanne a morte e almeno 100 esecuzioni: nessuna nel 2004, tre nel 2005. Quanto al 2006, le immagini dell’impiccagione di Saddam Hussein a dicembre hanno sviato l’attenzione dalla drammatica escalation delle esecuzioni, con oltre 65 persone messe a morte nel corso dell’anno, tra cui due donne.

Raddoppiano le esecuzioni in Iran, almeno 177, mentre il Pakistan sale ad almeno 82 esecuzioni. In Sudan sono state 65, ma si teme che il dato effettivo possa essere più alto. Negli Usa, 53 persone sono state messe a morte in 12 Stati. E Iran e il Pakistan sono stati gli unici due paesi in cui, in violazione del diritto internazionale, sono stati messi a morte minorenni all’epoca del reato.

Amnesty International mette in luce una serie di casi che testimoniano la natura crudele, arbitraria e iniqua della pena di morte e la devastante sofferenza causata da ogni esecuzione:

Kuwait: Sanjaya Rowan Kumara, originario dello Sri Lanka, è stato messo a morte a novembre. Dichiarato morto subito dopo l’impiccagione, è stato portato all’obitorio, dove i medici si sono accorti che si muoveva ancora. Ulteriori esami medici hanno riscontrato un debole battito cardiaco. È stato dichiarato morto cinque ore dopo l’inizio dell’esecuzione.

Florida, Usa: a dicembre, il governatore Jeb Bush ha sospeso tutte le esecuzioni nello Stato e ha istituito una commissione "per valutare l’umanità e la costituzionalità dell’iniezione letale". La decisione è stata presa a seguito dell’esecuzione di Angel Diaz, che ha sofferto 34 minuti prima che ne fosse dichiarata la morte. In seguito è emerso che l’ago con cui gli veniva somministrata l’iniezione di veleno gli aveva trapassato la vena, col risultato che le sostanze letali erano state iniettate nei tessuti.

In Iran, nonostante nel 2002 il presidente dell’autorità giudiziaria abbia dichiarato una moratoria sulla lapidazione, un uomo e una donna sono stati uccisi a colpi di pietre nel maggio 2006. Le pietre sono scelte di dimensioni tali da provocare una morte lenta e dolorosa piuttosto che istantanea.

Il rischio di mettere a morte innocenti esiste sempre e comunque. Nel 2006, tre persone sono state dichiarate innocenti dopo aver trascorso anni e anni nei bracci della morte di Giamaica, Tanzania e Usa. Si ritiene che siano circa 20.000 i prigionieri detenuti nei bracci della morte, in attesa di essere uccisi dallo Stato.

"Chiediamo una moratoria universale sulle esecuzioni. L’anno scorso, il 91% delle esecuzioni è stato registrato in soli sei paesi: Cina, Iran, Iraq, Pakistan, Sudan e Usa. Questi sostenitori a oltranza delle esecuzioni sono isolati e ormai non più in sintonia con la tendenza mondiale" - ha affermato Irene Khan, segretaria generale di Amnesty International. "I dati sulla pena di morte nel 2006 sono inaccettabili, tuttavia persino in Iraq e in Cina rappresentanti dello Stato hanno espresso il desiderio di vedere la fine dell’uso della pena capitale" - ha aggiunto Irene Khan.

Nel 1977, solo 16 paesi avevano abolito la pena di morte per tutti i reati. Trent’anni dopo, il numero degli abolizionisti continua a crescere, creando le condizioni per porre fine alla pena capitale. Nel 2006, le Filippine sono diventate il 99° paese ad averla abolita per reati ordinari. Molti altri, tra cui la Corea del Sud, sono vicini all’abolizione. L’anno scorso in Africa, solo sei paesi hanno compiuto esecuzioni. In Europa, la Bielorussia è l’unico Stato che continua a ricorrere alla pena capitale, mentre gli Usa restano il solo paese delle Americhe ad aver eseguito condanne a morte dal 2003.

"La pena di morte è la forma estrema di punizione crudele, inumana e degradante. È arbitraria, ha dimostrato di essere inefficace a ridurre la criminalità e perpetua un clima di violenza in cui una giustizia autentica non può mai essere conseguita. La pena di morte dev’essere abolita e una moratoria universale sarà, da questo punto di vista, un importante passo avanti" - ha concluso Irene Khan.

Più della metà dei paesi al mondo ha abolito la pena di morte per legge o de facto: 88 paesi hanno abolito la pena di morte per ogni reato. 11 paesi l’hanno abolita salvo che per reati eccezionali, quali quelli commessi in tempo di guerra. 29 paesi sono abolizionisti de facto poiché non vi si registrano esecuzioni da almeno dieci anni oppure hanno assunto un impegno a livello internazionale a non eseguire condanne a morte. In totale 128 paesi hanno abolito la pena di morte nella legge o nella pratica. 69 paesi mantengono in vigore la pena capitale, ma il numero di quelli dove le condanne a morte sono eseguite è molto più basso.

Droghe: Bologna; overdose, chiuso Centro sociale "Livello 57" 

 

Notiziario Aduc, 28 aprile 2007

 

"Continuare a perseguire la linea proibizionista è ipocrita e criminale". Non è una provocazione, ma un vero e proprio attacco quello che arriva dai responsabili del Centro Sociale "Livello 57", che si inseriscono così nella polemica nata dopo la chiusura disposta ieri, a causa del ricovero di un ragazzo di 21 anni caduto in coma da overdose mentre era nel locale. "È una follia - sostengono dal Livello - pensare di controllare l’uso e l’abuso di sostanze stupefacenti reprimendo i consumatori o chiudendo tutti i luoghi di aggregazione che, per forza di cose, sono frequentati anche da chi consuma droghe".

Secondo i responsabili del centro sociale, sotto sequestro da un anno perché al suo interno sono stati riscontrati episodi di spaccio e consumo di sostanze, "solo creando conoscenza e coscienza priva di moralismi si potranno diminuire i danni alla società e alla persona"; continuare invece a "perseguire la linea proibizionista è ipocrita e criminale". Tra l’altro, prosegue il comunicato del centro sociale, "la prevenzione viene considerata un reato, perché informare sugli effetti delle droghe equivale per le autorità a istigare al consumo".

E quindi, nelle scuole e nei bar, "si preferisce fare propaganda terroristica con messaggi ridicoli, come la campagna dell’Arci" contro l’abuso di alcol. Ma allora, si chiedono infine dal Livello 57, "cosa succederà quando tutti i locali saranno chiusi e le scuole controllate da telecamere? E i consumatori problematici staranno male o moriranno nelle loro case o per strada? Cosa faranno le autorità? Chiuderanno la città?".

Brasile: italiani detenuti a Natal in condizioni disumane

 

Agenzia Radicale, 28 aprile 2007

 

Un vero e proprio calvario quello che stanno subendo in un carcere brasiliano sei italiani accusati di prostituzione e condannati vivono in condizioni disumane. La denuncia é del loro avvocato difensore Mario Russo Frattesi. Il Consolato e l’Ambasciata non fanno nulla, l’ambasciatore Michele Valensise ha dato istruzioni precise agli addetti consolari: non "immischiarsi" quando si tratta di questioni relazionate a droga, prostituzione, ecc. Il problema é che spesso questi casi vengono montati dalle autorità in complicità con delle prostitute, al solo scopo di estorcere soldi ai cittadini stranieri. Ovviamente non si può generalizzare, ma neanche l’ambasciata deve farlo e poi anche se sono colpevoli avranno pur diritto ad essere trattati come esseri umani! Intanto gli italiani vivono in una Guantanamo brasiliana il carcere di Raimundo Nonato per sei cittadini italiani di cui quattro pugliesi originari di Mola di Bari, un veneto ed un campano.

Simile ad un lager la loro prigionia come ha denunciato alla commissione interamericana dei diritti dell’uomo il legale di uno dei detenuti l’avvocato barese Russo Frattesi. Gli italiani vivono in una cella squallida, sporca e minuscola con altri sei brasiliani. Per sopravvivere solo tre litri di acqua a settimana. Due di loro si sono ammalati scabbia e tubercolosi.

L’avvocato Frattesi ha chiesto alla comunità internazionale la condanna delle autorità brasiliane per la violazione dei diritti umani e del carcerato. "La commissione si è messa in contatto con me - dice l’avvocato Frattesi - e mi ha promesso di ricontattarmi al più presto, mi auguro che sia effettivamente così."

L’odissea giudiziaria è partita a novembre 2005 quando i sei furono arrestati a Natal in Brasile per un presunto giro di prostituzione, traffico di droga e riciclaggio di denaro. Dal processo aperto dalle accuse di una donna condanne esemplari a 56 anni di carcere per due degli imputati e circa 20 per gli altri ma la stessa testimone chiave non è mai stata contro-esaminata dai difensori. Inoltre i giudici brasiliani hanno detto no alla scarcerazione di Giuseppe Ammirabile, 43 anni di Mola di Bari assistito da Russo Frattesi, perché ritenuto socialmente pericoloso a capo della Sacra Corona Unita salentina. Su questo però la Dia e la Procura di Bari non concordano. I primi confermano i precedenti penali in Italia, la Procura lo ritiene addirittura incensurato.

Egitto: incendio nel carcere del Cairo, almeno 5 morti

 

Agr, 28 aprile 2007

 

Almeno cinque detenuti sono morti in un incendio in un carcere alla periferia nordoccidentale di Il Cairo. Lo riferiscono fonti della sicurezza. Secondo fonti del ministero dell’Interno, il rogo sarebbe stato provocato da un corto circuito verificatosi in un ventilatore nei dormitori. Non è noto il numero dei detenuti rimasti feriti.

 

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