Rassegna stampa 20 aprile

 

Giustizia: perché gli Opg continuano ad esistere

di Adolfo Ferraro (Psichiatra, Direttore dell’Opg di Aversa)

 

Ristretti Orizzonti, 20 aprile 2007

 

Piccole considerazioni sulla persistenza degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari in Italia e sui modesti tentativi per la sua abolizione.

La visita del Parlamentare Caruso all’OPG di Aversa avvenuta pochi giorni fa e riportata sul Corriere dal giornalista che lo ha accompagnato ha scatenato nella comunità locale e anche in quella nazionale un interessamento così emozionalmente sentito che, se non si rafforza, rischia di dissolversi in breve tempo e fare ricadere il silenzio su queste strutture così tanto - e da sempre - discusse. Discussione che è, in un certo senso, connessa all’istituzione stessa: l’aver istituito alla fine dell’ottocento luoghi che contenessero insieme i "matti" e i "criminali" nasceva dall’esigenza e dalla cultura del periodo storico, e il Codice Rocco nel 1930 ne sancì la sua attuale e immobile esistenza inventandosi le misure di sicurezze - il controllo del regime dell’epoca -, perpetuando una condizione di ambiguità che induceva altra ambiguità: associare l’essere criminale all’essere matto innesca inevitabilmente l’idea che il matto è sempre potenzialmente criminale, e il che naturalmente non è affatto vero ed è la base di quello che oggi si chiama stigma. Così come si produce l’idea che l’essere socialmente pericoloso ( termine giuridico e non psichiatrico) significhi essere malato di mente e il non esserlo più significa essere "sano", e non è vero neanche questo e questa confusione produce a sua volta un altro tipo stigma. Per questo diventa parziale, inutile e spesso dannosa la periodica istintiva richiesta (a gran voce) della chiusura di questi posti mossi dall’emozione che pervade chi vuole un mondo migliore o, peggio ancora, da chi vuole cavalcare questi sentiti sentimenti per progetti politici e di partito usando la metafora dell’abbattimento del mostro.

In realtà - riteniamo - si tratta di interventi nel migliore dei casi ingenui e in altri in parziale malafede, e che infine producono paradossalmente non l’abolizione del mostro, ma le condizioni per il suo rafforzarsi e perpetuarsi così da avere un riferimento negativo cui aggrapparsi quando vi è necessità di spingere o smuovere gli animi puri.

Ma la non conoscenza - giuridica e psichiatrica - che accomuna chi si avvicina solo emozionalmente a tali istituzioni produce altre ambiguità e confusione, così da ritenere, a seconda dello spirito con cui ci si avvicina, "lager" o luogo orribile solo a pensarsi o "prigione per pazzi" o "vergogna sociale " scaricando infine le inadeguatezze sociali e la psichiatria del territorio spesso assente e le frustrazioni personali sull’oggetto mostruoso - l’OPG appunto - buono a tutti gli usi.

Perché, e questa è la drammatica verità, queste richieste così accorate di "abolire subito l’OPG" mostrandone la sua faccia peggiore (che nessuno nega o nasconde) non considerano che questa possibilità passa attraverso una riforma del codice penale - che diventa difficile per tutti realizzare- e una volontà politica e sociale che spesso è pronta solo a parole.

La attuale realtà è che più della metà dei soggetti chiusi nell’OPG di Aversa non è più socialmente pericolosa, ma questo non vuole dire che essa sia esente dalla patologia mentale. Per questo motivo è necessaria - nel rispetto della legge 180 a cui questi malati sono soggetti se giuridicamente ritenuti non più socialmente pericolosi - una accoglienza dei dimissibili sul territorio nazionale da cui provengono, e purtroppo quasi sempre il territorio non è disponibile ad accoglierli. Forse proprio perché, come è stato da noi raccontato a Caruso e da lui riferito correttamente, il costo sociale dei malati di mente sul territorio è risparmiabile mantenendoli in OPG, dove all’ASL di appartenenza non costano nulla, ed allo Stato e cioè alla comunità, un costo talmente irrisorio che è conveniente lasciare le cose come stanno.

Insomma, urlare a gran voce l’abolizione degli OPG mostrando il suo "marcio" può diventare un esercizio di stile e di forma ammirevole ma perfettamente inutile, mentre forse è più opportuno - anche politicamente - realizzare un progetto di continua dimissione e di affidamento ai servizi di salute mentale del territorio dei soggetti che hanno raggiunto un contenimento delle manifestazioni che hanno prodotto l’internamento, così da svuotare gli OPG e farli finire per lisi.

Evitando naturalmente di riempirli di nuovo: basta infatti osservare quali sono i reati di cui i soggetti internati vengono imputati per rendersi conto che qualcosa che non funziona forse c’è: nel 2005 nell’OPG di Aversa il 13% dei soggetti internati aveva commesso il reato di "maltrattamenti in famiglia", reato che nei "sani" raggiunge percentuali irrisorie (lo 0,6% nello stesso anno secondo i dati del Ministero della Giustizia) e che riteniamo essere un escamotage per escludere dalle famiglie e dal territorio soggetti psichiatrici difficilmente gestibili; tanto che il Convegno annuale di studi del 2006 che si è tenuto nell’OPG di Aversa, si intitolò proprio "Delitti in Famiglia", per richiamare l’attenzione sulla gravità del problema e trovare possibili soluzioni.

Fummo sciagurati profeti in quanto, circa dieci giorni, dopo si suicidò un ragazzo sardo che era lì da due anni internato per l’appunto per maltrattamenti in famiglia, e che il pomeriggio precedente al gesto aveva telefonato ai suoi genitori che gli avevano negato ogni speranza. E anche gli altri due che nello spazio di sei mesi hanno scelto la via del suicidio erano lì dentro senza speranze, così come avviene per molti di loro.

Ed ecco che - con i morti - improvvisamente si accendono le luci sull’OPG visto nella sua veste peggiore, quello delle feci che fanno schifo in un bagno sporco di un cortile di passeggio, negando che una serie di difficoltà di gestione sono comunicazioni inviate da tempo, attraverso i convegni organizzati nella struttura, le attività trattamentali e le manifestazioni cui i nostri internati partecipano, compreso trasmissioni televisive nazionali e un film girato nel 2001 con la regia di Fabrizio Lazzaretti dal titolo appunto "Socialmente Pericolosi" passato a tarda notte in quell’anno su Rai3 ed in cui si comprendevano bene le difficoltà.

Quel film servì perché una serie di brutture furono abolite per l’indignazione, una indignazione manifestata con modalità meno drammatiche ma egualmente efficaci. Perché se servono i morti per dare attenzione alle disgraziate storie degli ospiti dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa, allora dovremmo riflettere e molto. Il punto è che una storia così complessa non può essere spiegata con semplicità e emozionale rigore; perché il problema OPG si risolve solo affidando alle ASL di competenza i pazienti che non riteniamo più pericolosi (e sono quasi il sessanta per cento) ed è proprio il passaggio alla Sanità che manca nella chiusura del cerchio, e su questo stiamo lavorando da tempo, ottenendo parziali risultati che potrebbero incrementarsi se divenisse chiaro che il problema è politico, organizzando finalmente una Conferenza Stato-Regioni e lavorando sulle interazioni.

Ecco allora che il superamento (o se volete l’abolizione) dell’OPG non può ipotizzarsi senza una presa in carico da parte delle strutture del territorio, perpetuando altrimenti la presenza nelle strutture psichiatrico giudiziarie di soggetti che hanno solo bisogno di cure e non di internamento. E la cura è quella che negli OPG si cerca disperatamente di attuare, anche in assenza di una politica economica e sociale del ministero della giustizia finalizzata a tale proposito, con limitatezza delle risorse economiche e di personale, e la continua conferma dell’inutilità dell’operato da parte di chi chiede la chiusura subito e adesso. E nei progetti di cura è presente anche il programma che stiamo portando avanti con i vertici del ministero della Salute e quello della Giustizia per una graduale dimissione dei pazienti. Sempre che ci sia una collaborazione e non un prendere posizioni, e che non ci sia il disinteresse politico che può fare più schifo di feci in un bagno sporco di un cortile di passeggio.

Bisognerà continuare a lavorare sviluppando i difficili rapporti con le Regioni e con i servizi di salute mentale per ottenere piccoli risultati (anche dimettere un solo paziente è per noi una vittoria) nell’attesa di un altro politico disposto a gridare a gran voce lo sconforto che produce tale struttura e chiederne l’immediata chiusura, lasciando però lì dentro i malcapitati ospiti che ci sono arrivati e chi cerca di modificare dall’interno una serie di ingiustizie sociali e culturali che faticano ad essere estirpate.

 

Adolfo Ferraro

Giustizia: Aversa; situazione grave, verifiche sugli internati

 

Corriere della Sera, 20 aprile 2007

 

Una catena di morti (tre suicidi, due vittime dell’Aids), sovraffollamento (300 reclusi in una struttura che può ospitarne 170), degrado: il dramma dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa, uno dei sei in Italia, è stato al centro di un reportage pubblicato sul Corriere della Sera di mercoledì. Ecco l’intervento dei Ministri della Salute e della Giustizia.

Gentile direttore, in qualità di Ministro della Giustizia e di Ministro della Salute siamo convinti che le informazioni pubblicate dal Corriere della Sera, a proposito della situazione dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa, meritino la più sollecita attenzione.

Il problema delle condizioni e del ruolo degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari è oggetto di una seria riflessione da parte dei nostri uffici per riuscire a realizzare, al più presto, iniziative adeguate ad affrontare una situazione che è grave, sotto molti profili, ormai da lungo tempo.

Il primo e più urgente passaggio è costituito dalla piena attuazione del decreto legislativo 230/1999, che prevede il trasferimento integrale delle competenze in maniera sanitaria, ora assolte dall’Amministrazione penitenziaria, al Servizio sanitario nazionale e alle Regioni.

In questo senso, concordiamo sulla necessità di accelerare, d’intesa con le Regioni, tutte le procedure utili allo scopo. A nostro giudizio si impone, inoltre, una verifica rapida e puntuale della validità dei criteri che, per una quota degli attuali internati, determinano la permanenza negli Ospedali psichiatrici giudiziari.

Appare, infine, indispensabile affrontare la questione centrale dell’imputabilità degli autori di reato, che forma oggetto delle direttive, di prossima presentazione, da parte della Commissione per la riforma del Codice penale insediata presso il Ministero della Giustizia.

 

Livia Turco, Ministro della Salute

Clemente Mastella, Ministro della Giustizia

Giustizia: Aversa; il sindaco in visita all’Opg, anche se in ritardo

 

Caserta Sette, 20 aprile 2007

 

Anche se un po’ in ritardo rispetto all’interrogazione parlamentare di Francesco Caruso (Prc), presentata in tempi non sospetti alla fine dello scorso gennaio 2007, anche il sindaco di Aversa incontra il direttore del’Opg di Aversa a seguito dei casi di decesso per Hiv e per un suicidio.

Si è svolta questa mattina, infatti, una visita del sindaco di Aversa Mimmo Ciaramella e del senatore Pasquale Giuliano all’interno dell’Ospedale Psichiatrico giudiziario "Filippo Saporito". In seguito agli ultimi avvenimenti che hanno fatto riaccendere un particolare interesse dei media sulla questione Opg Ciaramella e Giuliano, si sono recati in visita all’interno della struttura normanna che rappresenta l’ospedale psichiatrico giudiziario più grande ed antico d’Italia. "Bisogna decidersi - spiega il senatore Giuliano, sottosegretario alla Giustizia del precedente governo, a margine della visita - se e come conciliare le finalità della custodia carceraria con quelle terapeutiche.

Le novità apportate con la legge del 1999 non sono mai diventate realtà ed il problema degli Opg certo non si può risolvere chiedendo a gran voce l’eliminazione di questo tipo di strutture. Attualmente le strutture vanno fornite di uomini e mezzi sufficienti sollecitando le strutture sanitarie locali a farsi carico degli internati che potrebbero uscire e che purtroppo sono costretti a restare negli Opg per inesistenza seria di assistenza".

Prima un colloquio con il direttore dell’Ospedale psichiatrico normanno, Adolfo Ferraro, poi, Ciaramella e Giuliano sono stati in visita nella struttura normanna soffermandosi anche a pranzo con il direttore sanitario ed alcuni internati. "Per risolvere il problema degli Opg - interviene ancora Giuliano - prevede la riforma del Codice Penale ed il Codice di Procedura Penale".

Pertanto per dibattere di tale problema il senatore azzurro ha organizzato, in collaborazione con il sindaco Domenico Ciaramella ed il direttore dell’Opg Adolfo Ferraro, un convegno, da tenersi nel mese di giugno, al quale prenderanno parte il prof. Giuliano Pisapia, Presidente della Commissione per la riforma del Codice penale, il dott. Ettore Ferrara, presidente del Dap (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) ed il presidente del tribunale di sorveglianza dott.ssa Angelica Di Giovanni, che già hanno dato le loro adesioni.

"Nel rapporto tra territorio ed Opg - ha spiegato il sindaco Domenico Ciaramella - le due realtà devono reciprocamente aprirsi e la città offrire, quando ne ricorrono i presupposti, le condizioni migliori per poter recuperare ed integrare persone che soffrono. Nel nostro programma elettorale - interviene ancora il primo cittadino normanno - abbiamo previsto un protocollo d’intesa per impiegare coloro i quali possono dare una mano, per esempio nella manutenzione del verde o in altri piccoli lavori, per i quali spesso vengono impiegate ditte esterne. È il primo importante passo della disponibilità della città verso coloro che hanno sulle spalle un passato sofferenza e di malattia".

Giustizia: "lettera aperta" di Segio e Cusani per il Congresso Ds

 

Aprile on-line, 20 aprile 2007

 

Una "lettera aperta" di Sergio Segio e Sergio Cusani indirizzata all’assise di Firenze per richiamare l’attenzione su alcuni temi fondamentali come la situazione carceraria, la tossicodipendenza, l’immigrazione e la povertà nel nostro Paese.

Cari Fassino, Mussi, Angius, sappiamo che l’intero corpo dei Ds e tutto il suo gruppo dirigente stanno vivendo un momento particolare, storico addirittura; dopo il quale, nel bene e nel male, tutto sarà diverso, forse anche la comunanza del vostro tragitto politico-organizzativo. Ciò nonostante non ci sembra fuori luogo formularvi anche in questa occasione sofferta i migliori auguri per il quarto Congresso nazionale e per il faticoso percorso intrapreso. I destini dei DS non sono però pura questione organizzativa: il confronto e le scelte muovono necessariamente non solo dai modelli e dai riferimenti astratti ma anche dalla concretezza dei problemi e dalla necessità delle risposte.

Vogliamo perciò cogliere l’occasione per sottoporre a voi e ai delegati alcune riflessioni e domande su temi che ci stanno a cuore, e che speriamo possano trovare posto anche nel vostro attuale dibattito e in quello del prossimo Partito Democratico e degli altri eventuali percorsi politici e organizzativi che da questa assise fiorentina prenderanno le mosse.

Ci riferiamo alla questione del carcere, al senso e alla finalità delle pene. Non è necessario aver conosciuto quel mondo dall’interno - come è stato per noi, in ragione delle nostre passate responsabilità che, pur in modo diverso, hanno gravemente violato leggi e regole di convivenza - per sapere che il carcere è più spesso una malattia che non un rimedio.

Certo, la società ha tutto il diritto e la necessità di difendersi, anche attraverso la coazione. Su questo occorre essere netti. Il "buonismo" è una cattiva medicina, anche se ogni tanto va pur detto che lo è pure, e maggiormente, l’incattivimento della società e delle culture che la attraversano e caratterizzano. Incattivimento che impera da tempo senza adeguato contrasto e che troppo spesso vede i soggetti sociali più deboli trattati come scarti da nascondere alla vista, come "vuoti a perdere" da consegnare al carcere. Il quale, in effetti, sempre più somiglia a un tappeto sotto il quale vengono nascosti i detriti.

Ma questi detriti hanno dei nomi. E delle storie, che andrebbero conosciute. Il più delle volte non sono storie criminali, ma vicende di ordinaria emarginazione. Sono storie di poveri, di disagiati psichici, di immigrati, di tossicodipendenti.

Il carcere è diventato in misura crescente un sostituto delle politiche sociali. Il risultato è questo: persone che dovrebbero essere curate e sostenute sul territorio si trovano invece catapultate nel circuito, anzi nella spirale, giudiziaria e penale.

Il carcere, da estrema ratio, è divenuto risposta esclusiva e preferita, scorciatoia che consente di eludere i nodi, le contraddizioni e anche le lacerazioni che traversano la società. Una scorciatoia assai costosa, sia in termini economici (il costo giornaliero per tenere in carcere un detenuto è di almeno 120 euro, vale a dire il triplo della retta di una comunità terapeutica), sia in termini umani e sociali.

C’è stato, insomma, un travaso continuo - e culturalmente non contrastato, neppure da parte vostra, consentiteci di dire - dalla sfera sociale a quella penale.

La condizione di tossicodipendenza, così come l’ingresso clandestino in Italia (clandestino per impossibilità di vie di ingresso legali, non per vocazione criminale), sono classici "reati senza vittima", che in un sistema liberale non dovrebbero comportare l’immissione nel circuito penale e che invece, oggi, in Italia, producono il maggior numero di presenze negli istituti penitenziari.

In una situazione avvitata e invivibile, il provvedimento di indulto varato dal governo nell’estate scorsa è stato semplicemente una boccata di ossigeno, i cui effetti stanno già depotenziandosi. Certo, l’indulto poteva essere fatto meglio, con maggior accortezza e misura, con attenzione all’opinione pubblica e a una corretta informazione. Noi stessi lo abbiamo più volte affermato, esponendone anche le ragioni al ministro della Giustizia, in occasione di un incontro.

Occorreva investire di più, e da subito, le organizzazioni del sociale e del volontariato: non solo per gestire ex post, ma per progettare e attrezzare con tempismo i percorsi di reinserimento. Occorreva considerare le voci e le proposte degli operatori penitenziari, degli educatori, degli assistenti sociali, degli agenti, che con noi avevano elaborato e sostenuto un piccolo "piano Marshall" per le carceri, del quale l’indulto costituiva sì premessa, ma non atto unico ed esaustivo.

L’indulto ha già prodotto un significativo risultato positivo e misurabile: nei primi 100 giorni del 2006 nelle carceri italiane erano morti 24 detenuti, di cui 16 per suicidio; nei primi 100 giorni del 2007 sono morti 10 detenuti, di cui 2 suicidi. Assieme, è migliorata la vivibilità complessiva e il carico di lavoro degli operatori, in precedenza gravemente compromessi dal sovraffollamento. La paventata (e talvolta irresponsabilmente amplificata e strumentalizzata) possibile recrudescenza del crimine per effetto dell’indulto non vi è stata: i dati ufficiali indicano tassi di recidiva assolutamente inferiori a quelli consueti (poco più dell’11% a fronte di un tradizionale 60-70%).

Ma la "normalità", un carcere che non sia sempre sull’orlo dell’emergenza e della tragedia è solo una precondizione. Dopo di che occorrono progettualità e riforme. E queste, ci pare, sono latitanti. Di queste vorremmo si riuscisse a discutere, sperando possano trovare anche nel vostro dibattito un luogo attento e ospitale. Soprattutto, capace di concretezza. Perché, veramente, in questa materia le parole inconseguenti sono più dannose del silenzio.

La legge sulle droghe in vigore - cui va addebitata una parte non indifferente della responsabilità della "bulimia penitenziaria", dell’ipertrofia del penale - compie un anno e ancora non si riesce a modificarla e - anzi - ad abrogarla, come recitava esplicitamente il programma di governo dell’Unione. Lo stesso vale per la legge sull’immigrazione, e per i CPT. Mentre si discetta se "superarli" o "svuotarli", sono sempre lì, a macinare vite e a consentire business.

A otto anni dalla legge Bindi, la sanità nelle carceri è rimasta un limbo irrisolto, che mortifica gli operatori e non tutela i detenuti. Lo stesso si può dire della legge Smuraglia sul lavoro, di quella Finocchiaro sulle madri e bambini in carcere. Ma così pure, mancano ancora segnali forti e sufficienti di discontinuità in generale sulla questione sociale e delle povertà (di cui il carcere è solo il tassello terminale): assieme alla Grecia, continuiamo a essere l’unico Paese in Europa a non avere una misura di Reddito minimo. Come certifica l’Istat, ora anche i giovani sono fortemente rappresentati nelle statistiche della povertà, a dimostrazione di cosa produca l’estrema precarizzazione del lavoro. La questione della casa è una vera e propria emergenza sociale per molti. Il Mezzogiorno è lasciato troppo spesso solo di fronte a questioni sociali gravissime e annose, mentre si sa solo immaginare di inviare l’esercito a presidiare il territorio. Eccetera.

Noi abbiamo scelto - pagati per intero i nostri debiti con la società e la giustizia - di lavorare nel sociale e nel volontariato. Pure, pensiamo e sappiamo che la politica è ambito centrale e decisivo per il cambiamento. Purché la politica sappia e voglia anche porsi in ascolto della società; sappia progettare, non solo gestire; promuovere partecipazione, non solo ricercare consenso.

Dal nostro osservatorio quotidiano cogliamo invece un rischio - forse mai così forte in passato - di profondo scollamento, di mancanza di comunicazione, addirittura di una lingua comune. Se ciò è vero, vanno probabilmente e innanzitutto ricostruiti i luoghi perché ciò torni a essere possibile. Non sappiamo se il vostro partito rimarrà unito, se sarà e vorrà essere uno di questi. Non ci permettiamo giudizi che non ci competono. E del resto, le cose che andiamo qui dicendo ci permettiamo di rivolgerle a tutti voi, quale che sia la mozione scelta, la strategia decisa e le future determinazioni perseguite. Sappiamo però che "Una forza grande come il futuro", come recita uno slogan congressuale, deve adoperarsi per fare in modo che il futuro riguardi anche i più deboli, i pezzi della società che fanno più fatica, che risultano invisibili e non rappresentati.

Una forza che guarda al futuro, e contribuisce a costruirlo, tra le priorità non può non avere anche quella di costruire una cultura di attenzione verso quelle fasce, di far sì che i problemi sociali cessino di essere travasati nel penale, che la cultura del rancore e dell’egoismo sociale smetta di essere tonalità emotiva diffusa, anche a sinistra.

 

Sergio Segio

Sergio Cusani

Giustizia: la polizia negli Uepe? gli assistenti sociali protestano

 

Redattore Sociale, 20 aprile 2007

 

Gli assistenti che lavorano negli Uffici per l’esecuzione penale esterna si stanno organizzando per chiedere una razionalizzazione della gestione delle misure alternative stesse e per modificare la bozza di decreto legge in discussione.

Protesta degli assistenti sociali sulle misure alternative al carcere. O meglio: gli assistenti sociali che lavorano negli Uepe, Uffici per l’esecuzione penale esterna, si stanno organizzando per chiedere una razionalizzazione della gestione delle misure alternative stesse e per modificare la bozza di decreto legge in discussione. Le critiche all’impostazione data finora anche dal ministro della Giustizia, Clemente Mastella, riguardano in particolare l’istituzione di commissariati territoriali di polizia penitenziaria per il controllo dei condannati in misura alternativa.

In una lettera che sta circolando in questi giorni e che è pervenuta anche alla nostra agenzia, firmata da un’assistente sociale dell’Uepe di Milano, si sostiene per esempio che "se attraverso l’esecuzione penale esterna si è potuto seguire, con varie modalità, fino a 40 mila soggetti, con revoche estremamente limitate, è bene che si sappia che questo risultato è stato possibile solo grazie al lavoro di assistenti sociali operanti negli Uepe".

A quanto pare, da quello che si capisce leggendo la lettera dell’assistente sociale, non è in gioco la reputazione professionale di queste persone che non hanno intenzione di rivendicare qualcosa per ottenere chissà cos’altro. Si tratta piuttosto di un problema serio di organizzazione (e riorganizzazione) di uno dei settori più delicati dell’amministrazione della giustizia in Italia, soprattutto ora dopo l’indulto e in presenza appunto di una politica che favorisce lo sviluppo delle misure alternative.

In un recente convegno organizzato dal Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sono stati resi noti dei dati molto incoraggianti a proposito delle misure alternative. Il rapporto con la recidiva (nuovi reati commessi dopo la scarcerazione) tra il carcere e le misure alternative è nettamente favorevole a quest’ultime.

Ecco dunque il punto che una parte degli assistenti sociali che lavorano negli Uepe stanno cominciando a porre all’attenzione della politica, dell’amministrazione e dell’opinione pubblica. "Pensare di affidare i compiti di controllo delle misure alternative alla polizia penitenziaria - scrive nella sua lettera (firmata) l’assistente sociale di Milano - è non solo sbagliato, ma anche inefficace".

Quello che davvero conta, visto la finalità di recupero sociale e di riduzione della recidiva, è la costruzione di progetti personalizzati per un effettivo recupero della legalità da parte dei soggetti. Un’azione che ovviamente deve andare di pari passo con la garanzia della sicurezza di tutti i cittadini. Secondo questo gruppo di assistenti sociali che ha deciso di far sentire la sua voce, gli Uepe oggi e i Cssa, ieri, hanno sempre dimostrato di saper lavorare bene e di raggiungere gli obiettivi. Imboccare la strada dei commissariati territoriali sarebbe, secondo loro, un grave errore. Vedremo nei prossimi giorni come si svilupperà la questione, anche perché per il 26 aprile è già fissato un appuntamento con i sindacati di polizia per discutere una bozza di decreto sul tema.

Mafia: Palermo; con pm Caselli 651 le condanne all’ergastolo

 

La Stampa, 20 aprile 2007

 

Giancarlo Caselli arriva alla guida della procura di Palermo lo stesso giorno in cui viene arrestato Totò Riina, il 15 gennaio 1993. Il Csm lo aveva nominato nel dicembre 1992. Ha guidato i pm palermitani per oltre 6 anni, istruendo processi alle cosche mafiose e a politici collusi con Cosa nostra. Il periodo del "pentitismo" è coinciso con la gestione, anche della Direzione distrettuale antimafia, di un ufficio che ha richiesto e ottenuto centinaia di arresti.

In cella, durante la sua guida, sono finiti molti latitanti fra cui Leoluca Bagarella, Giovanni ed Enzo Brusca, Pietro Aglieri e Salvatore Cucuzza. Le inchieste sul versante nevralgico dei rapporti tra mafia e politica, affari e istituzioni sono sfociate nei processi a Giulio Andreotti (prescritto per i reati commessi fino al 1980, assolto per il resto), Corrado Carnevale e Francesco Musotto (assolti), Calogero Mannino (assolto in primo grado condannato in appello, la Cassazione ha annullato con rinvio) e Marcello Dell’Utri, condannato a nove anni. Caselli ha pure firmato la richiesta di archiviazione per Silvio Berlusconi dall’accusa di riciclaggio. Un’archiviazione che è sempre stata definita in procura, "aperta".

Durante i sei anni ha subito pesanti attacchi da parte di alcuni politici, molti dei quali lo hanno diffamato e per questo gran parte di loro sono stati anche condannati. Caselli è stato anche protagonista di una querelle con i carabinieri sulla mancata perquisizione al covo di Riina, conclusasi con una lettera inviata al comandante del Ros dell’epoca. Altre inchieste hanno portato al sequestro di beni per circa diecimila miliardi di vecchie lire e all’acquisizione della prima confessione sulla strage di Capaci, decisiva per la ricostruzione del delitto resa da uno degli esecutori materiali, Santino Di Matteo. Oltre al numero complessivo delle persone indagate, 89.655, (di cui 8.826 per mafia) e rinviate a giudizio, 23.850, (di cui 3.238 per mafia), i processi istruiti hanno portato ad ottenere 650 ergastoli. Ha lasciato la procura nel marzo 1999 dopo essere stato nominato Direttore del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria.

Civitavecchia: la galera al tempo del "bugliolo"

di Bruno Pischedda

 

Il Gabbia.no, 20 aprile 2007

 

Il Gabbia.no. Trimestrale della Casa circondariale di Civitavecchia. (Numero 1, anno 2006). La galera al tempo del "bugliolo". Un "veterano" ricorda com’era il carcere trent’anni fa scoprendo che per qualche aspetto (pochi) si stava meglio quando si stava peggio, di Bruno Pischedda

Di galera ne ho fatta tanta purtroppo e per questo vorrei lasciarmi andare a qualche ricordo ed anche a qualche confronto tra un carcere di ieri, Regina Coeli, ed uno di oggi Civitavecchia Nuovo Complesso dove mi trovo da un paio d’anni.

I pacchi e i colloqui, tanto per cominciare. Roma non poneva limiti di peso, ovviamente si cercava di non esagerare; era consentito l’accesso di carne cruda, tuttora permessa; il familiare poteva portare un pacco o depositare denaro alla porta, anche ad un nominativo non registrato come congiunto. Per quanto riguarda i rapporti con l’esterno, i colloqui avevano la durata di un’ora ma, tramite richiesta alla direzione, si poteva fruire di apposite camerette, senza controllo visivo e senza bancone divisorio, appositamente studiate per consentire una migliore affettività con il congiunto.

Nonostante Regina Coeli fosse un carcere giudiziario, le celle rimanevano aperte dalle otto alle quindici. I rapporti epistolari avvenivano, tramite apposita richiesta, tre volte alla settimana ed era la direzione a fornire il materiale di cancelleria occorrente; le lettere venivano consegnate aperte per dar modo di effettuare il controllo ed anche le risposte dei familiari giungevano aperte, con il timbro "visto" stampato al centro della pagina.

Era consentito cucinare in cella, ma fino al 1968 non disponevamo dei moderni fornelli da camping bensì di tavolette infiammabili "Meta" che avevano il difetto di emanare un forte odore di zolfo, per cui si ricorreva al famoso "cartoccio", un foglio di giornale piegato in modo particolare e inumidito con acqua prima di essere acceso; la durata del cartoccio era sufficiente per la cottura della maggior parte dei cibi.

Non esistevano bagno e servizi igienici, ma solo il famigerato "bugliolo" che veniva svuotato ogni mattina in un apposito locale. A quei tempi un mal di pancia notturno diventava un grande problema in quanto le esalazioni, ristagnando in cella fino allo svuotamento del bugliolo, imponevano delle contromisure, consistenti nel gettare al suo interno della carta accesa per bruciare i vapori maleodoranti. La doccia si effettuava una volta ogni quindici giorni ed in quindici detenuti per volta.

A proposito di cultura e informazione, fino al 1968 non esistevano televisori in carcere ma veniva diffusa nelle celle musica e radio attraverso un altoparlante collocato in alto e protetto da una rete metallica atta a scongiurarne eventuali manomissioni. I programmi trasmessi erano accuratamente selezionati: permessi canzonette e programmi comici (apprezzatissimo Mario Pio, interpretato da Alberto Sordi), vietati cronaca e politica; dei quotidiani ci venivano consegnate solo le pagine sportive e poco altro perché il resto veniva tagliato.

La scuola era presente con il corso di licenza elementare in quanto unica scuola dell’obbligo. Circa la disposizione dei detenuti all’interno dell’istituto, era famoso il braccio dei "culi bianchi", ragazzi incensurati e appena maggiorenni ai quali si cercava di risparmiare il contatto con i recidivi.

Nel secondo e terzo braccio c’erano invece i pregiudicati, coloro che avevano commesso molti reati e che pertanto erano stati reclusi varie volte. Nel quinto e sesto braccio, trovavano posto tutti i lavoranti, il settimo era adibito a transito, il quarto ospitava detenuti per reati politici, truffatori di alto calibro e i colletti bianchi in generale.

Il culto era sacrosanto e la funzione religiosa della domenica veniva regolarmente celebrata sempre alla presenza di tutta la direzione che assisteva e partecipava. Non per niente fu il primo istituto ad essere visitato da Papa Giovanni XXIII.

Quarant’ anni dopo, Civitavecchia. La corrispondenza non è più soggetta a censura, tranne casi imposti dalla Magistratura e comunicati all’interessato; possiamo scrivere quante lettere vogliamo, ma l’Amministrazione non fornisce i prodotti di cancelleria. Non disponiamo più della filodiffusione, ogni stanza è dotata di televisore con le principali reti nazionali, possiamo acquistare quotidiani e periodici tramite sopravitto.

La cultura e pertanto la scuola, ha assunto in questi anni una valenza fondamentale, in quanto parte integrante del programma di trattamento. A Civitavecchia, oltre alla scuola dell’obbligo, possiamo scegliere tra due tipi di istituti superiori. Quanto a cucina ed igiene, l’obsoleta tavoletta infiammabile è stata sostituita dai più moderni fornelli camping-gas; ogni cella ha un water (sia pure vicino al lavandino dove laviamo l’insalata) e possiamo fare la doccia una volta al giorno.

Un altro mondo, ma con qualche piccola, se possibile, nostalgia per certe "libertà" del passato. Per esempio della sala colloqui senza controllo visivo, del piacere di cucinare la carne o il pesce che oggi non sono ammessi crudi, della possibilità di far lasciare un pacco ad un compagno che ha i familiari lontani. Come pure sono un ricordo i riguardi "ai culi bianchi" che oggi possono capitare con chissà chi. Sempre che non abbiano la fortuna di finire in cella con qualche onesto esponente della vecchia guardia, come il sottoscritto, che abbia voglia di spiegare loro il valore della libertà.

Lazio: dalla Regione un micro-credito per tornare a vivere

 

City Notizie, 20 aprile 2007

 

Un prestito per tutti Una spesa improvvisa, ma indispensabile. Una ditta che stenta a decollare. Un ex detenuto che non sa come ricominciare una vita onesta. Il microcredito si rivolge a loro. È la nuova formula di prestito lanciato dalla Regione Lazio, che intende così aiutare chi non potrebbe rivolgersi ad un istituto di credito. Oltre che da singoli e imprese, il microcredito può essere richiesto anche da condomini, mutue, cooperative, purché lo scopo sia quello di rendere eco-compatibili o accessibili ai diversamente abili le proprie sedi.

Le somme. I cittadini potranno chiedere da un minimo di 1000 ad un massimo di 10.000 euro, mentre per le microimprese e le collettività finanziarie si va dai 5000 ai 20mila euro. Per tutti il tasso di interesse applicato sarà dell’1%. Ma non verranno chieste né spese di istruttoria né garanzie patrimoniali.

Come chiedere. Per accedere ai finanziamenti, bisogna rivolgersi agli operatori dislocati sul territorio. Per conoscere gli operatori: 800-264.525, www.regione.lazio.it. Gli operatori presentano poi la richiesta ad uno degli istituti di credito convenzionati (Banca di Credito cooperativo e Banca Etica). L’istituto di credito istruisce la pratica, e, dopo aver valutato la capacità di rimborso, eroga la somma richiesta comunicandolo a Sviluppo Lazio.

I tempi. Ieri è stato pubblicato il bando con il quale si cercheranno in Regione gli operatori. Ci vorranno due, tre settimane per avere i primi finanziamenti, rivolti a detenuti, ex detenuti e microimprese. Come restituire. Le rate saranno versate mensilmente presso l’Istituto di credito convenzionato. Per restituire il debito, si hanno dai tre ai sette anni. In caso di ritardi nel pagamento, sarà applicato un interesse di mora del 2%.

Il fondo. Per ora la Regione mette a disposizione per il microcredito 3,5 milioni di euro. "L’obiettivo è quello di offrire un’opportunità - spiega l’assessore al Bilancio Luigi Nieri - a tutti coloro che, per un motivo o un altro, hanno visto chiudersi tutte le porte".

Roma: 140 tirocini formativi per il reinserimento degli indultati

 

Apcom, 20 aprile 2007

 

Roma entra così nel progetto "Lavoro nell’inclusione sociale", promosso dal Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale con il Ministero della Giustizia e affidato a Italia Lavoro con l’avvio di 140 tirocini retribuiti per i beneficiari dell’indulto. Sono previsti anche incentivi alle aziende, strumenti per far incontrare domanda e offerta, campagne informative. "Per Roma - sottolinea l’Assessorato al Lavoro, è un altro passo verso l’integrazione di chi sconta la sua pena in carcere e di chi ne esce e deve ricominciare. Due settimane fa il Comune ha stanziato un milione di euro per le imprese che assumono detenuti ed ex detenuti".

I tirocini formativi dureranno sei mesi e saranno retribuiti con 450 euro mensili. Le aziende riceveranno un contributo di mille euro per la formazione, a fronte dell’assunzione a tempo determinato (almeno un anno) o indeterminato. In caso di assunzione prima della fine del tirocinio, i contributi per i mesi non svolti vanno all’impresa stessa.

Pescara: formazione per le professioni di cuoco e cameriere

 

Prima da Noi, 20 aprile 2007

 

Un protocollo d’intesa tra la Regione e l’Amministrazione penitenziaria per consentire ai detenuti delle varie case circondariali abruzzesi di frequentare corsi di formazione e di aggiornamento per cuochi e camerieri negli istituti di pena. È stato sottoscritto a Pescara dall’assessore alla Sanità, Bernardo Mazzocca e dal rappresentante del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria dopo che la Giunta, su proposta dello stesso assessore Mazzocca, aveva approvato il protocollo lo scorso 28 marzo. Il provvedimento è stato assunto in adempimento di una specifica norma contenuta nell’ultima legge finanziaria regionale e successive modifiche.

Minori: in un libro risultati di nove anni del Progetto Jonathan

 

Vita, 20 aprile 2007

 

Nove anni fa iniziò il progetto Jonathan concordato tra il centro giustizia minorile di Napoli, l’associazione Jonathan e l’Indesit Company a cui di recente si è aggiunta Fiat Auto. Fu una scommessa credere che i ragazzi del penale potessero inserirsi stabilmente nel mondo del lavoro e mantenere il duro ritmo della fabbrica. L’esperienza è stata molto positiva sia sotto il profilo etico che sociale e il modello adottato può essere considerato a tutti gli effetti, valido e replicatile in altri contesti. Di questo parlerà il libro "Il futuro di un incontro", che verrà presentato oggi presso la sede dell’Unione degli industriali della provincia di Napoli.

Il libro è sulla costruzione ed evoluzione del progetto Jonathan e l’esperienza di reinserimento sociale e lavorativo dei giovani dell’area penale. Nel libro anche la voce diretta dei ragazzi che si raccontano. Interverranno il capo del Dipartimento della giustizia minorile Melita Cavallo e il dirigente del centro giustizia minorile di Napoli Sandro Forlani.

Reggio Emilia: in occasione del 25 aprile visite guidate all’ex Opg

 

Sesto Potere, 20 aprile 2007

 

Nell’ambito delle celebrazioni per il 25 aprile, la Provincia di Reggio ha deciso di aprire eccezionalmente al pubblico la struttura che per anni ha ospitato l’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio, alle spalle della chiesa della Ghiara e a cui si accede da vicolo dei Servi. La struttura, che fa parte del patrimonio della Provincia, presenta caratteristiche di notevole rilievo dal punto di vista storico architettonico. Nella giornata festiva di mercoledì 25 aprile sono dunque stati fissati quattro turni di visita durante i quali altrettanti gruppi, di venti persone ciascuno, potranno scoprire uno dei luoghi meno conosciuti del centro storico reggiano, accompagnati dall’esperto commento degli architetti Mauro Severi e Maicher Biagini. Le visite partiranno alle ore 16, 16.30, 17 e 17.30 dall’ingresso di vicolo dei Servi, dove gli interessati potranno radunarsi fino al raggiungimento del numero massimo consentito. Per informazioni e prenotazioni è possibile rivolgersi all’assessorato Cultura e Paesaggio della Provincia (Via Vicedomini, 3); telefono 0522.444446, 0522.444418 oppure 0522.444416.

L’ex Opg di Reggio vedrà prossimamente un ulteriore momento di valorizzazione, grazie all’apertura temporanea di due padiglioni per l’allestimento di due delle numerose mostre previste dalla seconda edizione della grande kermesse "Fotografia europea 2007", opportunità nata da una collaborazione tra Comune e Provincia di Reggio.

Da convento a Ospedale psichiatrico giudiziario. L’imponente edificio è nato come convento ad opere dei Padri della Missione. I lavori ebbero inizio alla fine del 1600 e i Padri della Missione cominciarono a insediarsi nella superficie libera tra le mura e il bastione rinascimentale di San Zenone dal 1675, acquistando case e terreni in prossimità di via Franchi. Con ulteriori acquisizioni e lasciti, si attestarono su due isolati, facendo realizzare poi un ingresso nuovo su via Franchi da Giambattista Cattani, detto Cavallari, architetto già impegnato nella Basilica di San Prospero, nella Cattedrale, autore della chiesa del Cristo e coinvolto nel restauro di quella di San Zenone. Dopo varie fasi, la fabbrica venne ad assumere una pianta a U, aperta sul lato sud, dove si progettò la costruzione di una chiesa mai realizzata al posto delle case a schiera di via del Portone.

Nel 1797, il convento della Missione venne soppresso per ordine di Napoleone Bonaparte. Una decisione che bloccò i piani edilizi dei religiosi e chiuse per sempre la loro presenza e attività a Reggio Emilia. A inizio Ottocento, l’architetto Domenico Marchelli studiò la trasformazione del convento in carceri.

Nel 1821 la casa dei Padri è censita come "Carceri della Missione" e nei decenni successivi al figlio di Marchelli, Pietro, si affidano interventi di restauro e adattamento della struttura, documentati fino al 1847. Nel 1852 Pietro Marchelli compie rilievi grafici di tutto il complesso; gli elaborati sono oggi custoditi nell’Archivio di Stato di Reggio.

Al 1896 risale la trasformazione del carcere in manicomio criminale, con ulteriori lavori fino alla costruzione, nel 1910, dei quattro nuovi padiglioni nell’area ovest già occupata dal baluardo di San Zenone. Costruiti con edilizia militare e recintati da alte mura, diedero caratteristiche alla struttura conformi alle indicazioni mediche e logistiche in materia di manicomi criminali poi giudiziari, permettendo la limitazione di condizioni di promiscuità tra diverse categorie di internati. Fu il terzo dei manicomi di Stato in Italia e rimase attivo, come Ospedale psichiatrico giudiziario, fino agli anni Novanta quando i ricoverati vennero trasferiti nella nuova struttura di via Settembrini.

Modena: polemiche su un "manuale" per i tossicodipendenti

 

Notiziario Aduc, 20 aprile 2007

 

Un manualetto realizzato dal Comune di Modena, con lo scopo della riduzione del danno per chi intende fare uso di stupefacenti ha provocato reazioni e proteste, ma anche risposte dell’amministrazione comunale in un botta e risposta che ha alimentato le polemiche su quello che è stato ribattezzato il "manuale dello sballo". L’opuscolo, in realtà, è intitolato "Psicoattivo. Attiva la mente senza sostanze", ed è patrocinato dalla Provincia, in collaborazione con il Ser.T. e la Regione Emilia-Romagna.

"Ennesimo scivolone con macabri risvolti di Regione, Provincia, Comune che hanno pubblicato un vademecum cui destinatari principali sono i giovani che contiene le istruzioni per l’uso delle sostanze stupefacenti, decantando, in alcuni passaggi, gli effetti positivi dello sballo", sostiene An attraverso il consigliere regionale, Enrico Aimi, e del consigliere provinciale Luca Caselli, dopo che il manuale è stato distribuito fra il materiale informativo destinato ai consiglieri provinciali, ma la cui distribuzione, sostiene An, sarebbe avvenuta anche nelle scuole. Antonio Mazzocchi dell’esecutivo nazionale di An ha chiesto invece l’intervento del ministro Livia Turco perché il "manualetto dello sballo" venga bloccato.

Anche il parlamentare dell’Udc Carlo Giovanardi è intervenuto per chiedere il ritiro del manualetto. "Regione Emilia Romagna, Provincia e Comune di Modena ritirino il manuale sull’uso delle droghe, da loro promosso, sbagliato e diseducativo", ha chiesto l’ex ministro già titolare della delega sulla lotta alle tossicodipendenze nel Governo Berlusconi, definendo "sbagliato mettere sullo stesso piano sostanze legali di cui va colpito l’abuso (alcol e sigarette) con sostanze il cui uso è illegale, proibite da tutte le convenzioni internazionali".

La provincia di Modena ha spiegato di condividere il titolo, "ma non i contenuti" della pubblicazione. Per questo motivo non verrà distribuito. "Non è un progetto sviluppato dalla Provincia - ha spiegato l’assessore alle politiche sociali Guaitoli - ci siamo limitati a concedere il patrocinio a un pieghevole che come spiega il titolo avrebbe dovuto essere semplicemente illustrativo dei rischi che si corrono utilizzando le diverse sostanze".

Diversa la replica del Comune che ha ricordato come "l’opuscolo sia stato pubblicato la prima volta del 2004 e quindi solo aggiornato nel corso del 2006, senza per altro modificarne la natura e le finalità. È il classico prodotto volto alla riduzione del danno per chi fa uso o intende far uso di sostanze stupefacenti; in tre anni non ci sono mai state polemiche, non da parte di operatori che si occupano di tossicodipendenze, piuttosto che di medici, insegnanti, genitori, giovani, né tanto meno da parte di forze politiche".

 

Per invio materiali e informazioni sul notiziario
Ufficio Stampa - Centro Studi di Ristretti Orizzonti
Via Citolo da Perugia n° 35 - 35138 - Padova
Tel. e fax 049.8712059 - Cell: 3490788637
E-mail: redazione@ristretti.it
 

 

 

 

 

Precedente Home Su Successiva