Rassegna stampa 12 aprile

 

Giustizia: ora anche le riforme più ovvie sembrano impossibili

 

www.radiocarcere.com, 12 aprile 2007

 

Favignana. Centro del mediterraneo. Arcipelago delle Egadi. La Piazza principale. Una breve salita, circa trecento metri, un portone, in mezzo ad antiche mura, sul quale troneggia la scritta "Casa circondariale". Castello normanno. La destinazione d’uso è mutata durante il dominio Borbonico. L’inespugnabile fortezza è stata adibita a "Galera". Dopo i Borboni, lo Stato italiano. La destinazione inalterata.

È mutato il nome: Casa circondariale. Immediatamente si apprezza l’architettura. L’edificio si sviluppa non in altezza ma in profondità. Fuori terra vi sono solo le mura ed il portone. I circa cento detenuti sono ovviamente ospitati nella parte interrata. L’assenza di finestre è l’elemento caratterizzante. Le celle prendono aria da microscopiche fessure poste sul soffitto. L’attiguità al mare e l’assenza di luce fanno si che l’umidità satura completamente l’aria.

Per conservare al meglio il micro clima e per evitare interventi che potessero intaccare l’antica struttura, si evita di accendere il riscaldamento. Casa circondariale. Il maquillage semantico tenta di ingannare, di nascondere. L’antico edificio però nulla a che vedere con una Casa circondariale. È rimasto quello che era: una galera borbonica. Una realtà nota. Conosciuta dall’Amministrazione e soprattutto dai suoi vertici. I Ministri di giustizia, in pompa magna, accompagnati dalle autorità locali, hanno tutti visitato il penitenziario Borbonico. Il giro guidato è sempre terminato con dichiarazioni di sdegno.

Il Potere legislativo è informato. I verbali delle sedute Parlamentari riportano giudizi implacabili sul carcere siciliano. Nella black list degli istituti di pena "Favignana" figura al primo posto davanti a Savona e Pordenone. La necessità di chiudere questa vergognosa Galera è stata noiosamente ripetuta. La Casa circondariale di Favignana però continua a tenere sepolti vivi circa cento detenuti. Il problema è conosciuto. La soluzione è condivisa. La realizzazione è ferma. Nulla di nuovo per il nostro paese, dove anche lo cose ovvie risultano impossibili da realizzare.

L’indulto era l’occasione. Lo snellimento della popolazione carceraria poteva permettere l’avviamento di una politica penitenziaria. Lo svuotamento di alcune carceri consentiva la programmazione di una serie d’interventi finalizzati alla ristrutturazione di strutture antiquate, alla chiusura di edifici inadeguati e all’avviamento di un piano di edilizia carceraria. Inadeguate e sicuramente lontane dall’assicurare una corretta esecuzione della pena, sono la maggior parte delle vetuste case circondariali ospitate all’interno delle città italiane. Regina Coeli per esempio.

Ubicata al centro di Roma, nel rione Trastevere, al numero 29 della via della Lungara (indirizzo di trista quanto diffusa fama cittadina), è dislocata in un complesso edilizio risalente al 1654. In precedenza sede di convento, è stato convertito all’uso attuale nel 1881. Più interventi sono stati effettuati per renderla vivibile. Aspirine per un malato terminale. Impossibile trasformare un convento del 1600 in un istituto di pena. Le finestre sono ostruite dalle così dette bocche di lupo. Pannelli metallici che in molte celle impediscono la visuale, permettendo solamente l’ingresso di poca aria e di un filo di luce. Difficile trovare una giustificazione normativa e logica al fatto che la pena venga scontata in celle senza finestre. Il complesso peraltro ospita in maggioranza persone non condannate, ma persone sottoposte a misura cautelare. Persone che non sono in carcere per scontare la pena, ma che paradossalmente scontano una pena più dura di coloro che sono stati condannati.

Queste sono infatti rinchiusi nella casa circondariale di Rebibbia. Penitenziario, modernissimo al cospetto dell’antico convento, che ha il confort di celle con finestre. Chiudere Regina Coeli, un luogo comune, ripetuto e ripetuto. L’indulto era l’occasione. Ha generato però solamente un coro di voci stonate, che si confrontavano sui numeri: persone uscite e persone rientrate. Un provvedimento utilizzato solo per affrontare l’emergenza sovraffollamento. Anche questo modo di operare tipico del nostro paese. L’azione si sviluppa solo di fronte all’emergenza e ad essa si limita. L’impossibilità di andare oltre l’emergenza e di programmare ci caratterizza. Il paese dei provvedimenti emergenziali e delle misure cautelari. Un occasione persa. Il sistema penitenziario è rimasto immutato. La Galera borbonica è ancora lì, con circa cento persone sepolte vive, che ogni giorno costano allo Stato trecento euro l’una. Inspiegabile.

Giustizia: carcere di Favignana; la cella a 10 metri sotto terra!

 

www.radiocarcere.com, 12 aprile 2007

 

La mia pena? Tre anni in una cella messa a dieci metri sotto il livello del mare. Così si sconta, ancora oggi, una condanna nel carcere dell’Isola di Favignana. Una vecchia nave mi ha portato da Trapani a Favignana. La Pietro Novelli della Siremar. Dovevo capire dalla traversata, cosa sarebbe stata la mia detenzione. Ammanettato mi hanno chiuso sotto, ovvero dentro un piccolo magazzino messo in un lato della stiva, dove ci sono le automobili. Un incidente e avrei fatto la fine del topo. Il viaggio: chiuso in quel magazzino e seduto su corde, bidoni ed altri attrezzi. Come una bestia. Arrivati a destinazione, c’è voluto poco a raggiungere il carcere. Ad andare di nuovo sotto. A Favignana, infatti, a pochi metri dalla piazzetta dove d’estate si prende l’aperitivo, c’è il carcere. Superato il protone del carcere: silenzio. Mi turbava quel silenzio. Sembrava di stare in un monastero. Si chiude il protone dietro di me. Davanti: solo una discesa che porta sotto. Il carcere di Favignana è tutto sotto terra. Gli uffici, l’infermeria, le celle.

Scendo all’ufficio matricola, scendo in infermeria e alla fine scendo in cella. Dieci metri sotto il livello del mare. Quando si dice toccare il fondo. Entrato in cella, capisco quel silenzio. Una vera e propria caverna.

Sotto terra e senza finestre. Lì sotto, solo pareti introno a noi. Lì sotto un muretto separava la cella dal cesso. Cesso con un piccolo fornello da campo per farci la pasta. Lì sotto altri 3 detenuti pallidi e muti interrompevano un sonno sedato per darmi un’occhiata. Lì sotto c’era la muffa, l’umidità, gli intonaci che si staccavano. Vado al cesso, apro il rubinetto per bere. Qualcuno sulla branda ride, mentre mi sente sputare. Lì sotto l’acqua non si può bere, perché è salata. È quella del mare.

Così è iniziata la mia detenzione a Favignana. E così è continuata. Una vita da sepolti vivi. Una vita sempre uguale e degradata, a cui non riesci ad abituarti. Ti senti una merda e non ti abitui a stare chiuso in cella (senza finestre) per 22 ore al giorno. Ti senti una merda e non ti abitui ai topi che stanno in cella con te. Non c’è mai abitudine alla perdita di dignità. Ti senti solo sgretolare piano, piano. Ti abitui a capire se il mare è mosso, perché le onde sbattono sui muri delle celle. Ti abitui a capire quando arriva l’aliscafo, perché un altro tipo di onda sbatte sui muri della cella.

Ma non ti abitui a fare l’ora d’aria in un cortile che sta a 10 metri sotto terra. Cielo a quadretti anche di giorno e la fine del muro di cinta al livello del mare. Ogni tanto qualcuno di noi provava a saltare per riuscire a vedere qualcosa che non fosse muro. Una mano sulla spalla di un compagno era il punto di appoggio per conquistare un po’ panorama. "Hai visto qualcosa?" "No, niente è troppo alto il muro". In un angolo un vecchio detenuto si godeva la scena e scuoteva la testa. Non capiva l’inutile tentativo. L’orizzonte, lui, l’aveva dimenticato.

Poi di nuovo in cella. In quella cella. Alcuni detenuti fortunati potevano andare ogni tanto nella "saletta artigianato". C’è un tavolo e qualche attrezzo. Per noi detenuti a Favignana quella pena non aveva domande o alternative, né misure alternative. Se uno di noi chiedeva di parlare con l’educatore, rischiava di prendere rapporto.

Io sono uscito l’indulto, se no stavo ancora il quella topaia. In un carcere così tu detenuto sei un numero. E come numero non puoi chiedere più di tanto. Succede che qualche detenuto non ce la fa più e protesta. Allora loro lo mettono nella cella di isolamento. La colpa: essersi ricordato di esser un uomo. Lo lasciano nudo, in mutande, al freddo. Senza neanche il materasso, ma solo la rete di ferro per dormire.

Io l’ho visto un ragazzo messo all’isolamento. Dovevo pulire lui e la cella. C’era uno schifo che non ti dico…poveraccio. Un paio d’anni fa un ragazzo si è impiccato in quella cella. Non ce l’ha fatta a resistere. Il carcere di Favignana sembra fatto a posta per farti sentire una merda. Anche il solo mangiare è occasione per avvilirti. 19 euro a settimana, questo è quanto il carcere spende per far mangiare un detenuto. Mò, con 19 euro a settimana, che manco un cane, cosa potevamo mangiare? Sbobba. Sbobba condita. E sì perché il carrello col vitto ce lo portavano in cella passando dal cortile esterno del carcere. E qui sta il bello! Quando pioveva ci arrivava la pasta piena di pioggia, e quando c’era il sole i piccioni ci facevano i bisogni dentro. Nel carcere di Favignana non ti puoi lamentare col direttore perché non c’è. Lì c’è solo, come lo chiamiamo noi, Barbabianca.

Io da poco sono uscito, ma nel carcere di Favignana ho conosciuto l’ansia. Oggi, a pochi mesi dalla libertà, sembro un reduce di guerra. Di notte ho gli incubi. Spesso sono depresso. Mi aiuta lavorare, vado avanti con 309 euro al mese. Ma la cosa più difficile per me non è andare avanti. È dimenticare. Dimenticare quella pena. Dimenticare il carcere dell’isola di Favignana, e gli occhi di chi sta ancora lì sotto.

 

Claudio 35 anni

Giustizia: la Gorgona; un carcere dove tutti i detenuti lavorano

 

www.radiocarcere.com, 12 aprile 2007

 

La mia pena? Beh, hai presente la canzone che faceva "…da la sua cella lui vedeva solo il mare ed una casa bianca in mezzo al blu..", credo fosse di Dalla. Ecco per 4 anni di carcere, le mie mattine da detenuto sono iniziate così. Con quello sguardo sul mare dalla mia cella. Alle 6 e 30 la sveglia poi, verso le 7, mi aprivano la porta e uscivo per andare a lavorare. Alle 9 di sera di nuovo in cella. 4 anni in carcere dove ho fatto il pescatore e ricevevo anche un piccolo stipendio. È così che si sconta la pena nel carcere dell’Isola della Gorgona. Un carcere dove tutti i detenuti lavorano e, se non sanno lavorare, lì imparano un mestiere.

L’isola della Gorgona è più che altro uno scoglio in mezzo al mare. Messa tra Livorno e la Corsica. Ci sono una sessantina di detenuti. Le celle sono singole, doppie o triple. Certo c’è la porta blindata, ci sono le sbarre alle finestre, ma tutte le celle sono pulite, decorose e dalla finestra vedi il mare. Il bagno è separato da dove si dorme. E in ogni cella c’è addirittura la doccia con l’acqua calda. Un eccezione rispetto alle altre carceri italiane. La regola alla Gorgona. Oltre che per dormire, rientravo nella struttura del carcere per mangiare. Alla Gorgona i detenuti non mangiano nelle loro celle, come nelle altre carceri. Alla Gorgona si mangia tutti insieme in una grande stanza, che noi chiamiamo refettorio.

Il cibo è buono e cucinato da noi detenuti e con i prodotti fatti sull’isola dai detenuti. Ciò che rende particolare il carcere della Gorgona è il fatto che tutti i detenuti lavorano. Alla Gorgona il detenuto non sta con le mani in mano. Non conosce la noia. La giornata è scandita dal lavoro che ti è stato assegnato. Pescatore, fabbro, falegname, meccanico, macellaio. Non c’è differenza. I detenuti e il loro lavoro sono il cuore del carcere della Gorgona. Lì non è ammesso battere la fiacca. Se vedono che non lavori, o se non lavori con impegno, ti mandano via. Alla Gorgona i detenuti si muovono liberamente sull’isola, anche se sempre sotto il controllo degli agenti.

I lavori fatti dai detenuti sono tanti. Prima di tutto i lavori di manutenzione del carcere. Dall’idraulico al muratore, al fabbro. Poi c’è l’allevamento degli animali. Mucche, pecore e maiali. Così si produce carne, ma anche latte e formaggio. Per non parlare del vigneto e della produzione di olio. Oltre al lavoro, per chi vuole e ha tempo, ci sono dopo le 16 i corsi scolastici e professionali. Ma c’è anche una palestra e un campo di calcetto. La domenica si va a messa nella Chiesetta, ovviamente ristrutturata dai detenuti.

Io per 4 anni ho fatto il pescatore alla Gorgona. Ogni mattina all’alba uscivo in mare per ritirare le reti, tornavo sull’isola per sistemare il pescato e poi la sera riuscivo in mare e ributtavo giù le reti. Io detenuto pescatore venivo pagato per il mio lavoro. Prendevo circa 400 euro al mese. A volte un po’ di più, a volte di meno. Dipendeva dalle ore che lavoravo e da quanto pescavo. Per uno che è libero 400 euro al mese non è una grande cifra, ma è un tesoro per un carcerato. Un tesoro in tutti i sensi e soprattutto per quello che quei soldi rappresentano. Il senso di una pena. Il guadagno per un lavoro ben fatto. È un pezzo di libertà futura.

Ora, capisco che può sembrare assurdo che un detenuto, condannato al carcere, possa fare il pescatore. Uscire con una barca e andare per mare. Ma quando la vivi un’esperienza così tu detenuto non pensi che sei libero. Pensi che sei molto più fortunato di tanti tuoi compagni, ma non pensi che sei libero. Tante volte mi è capitato, quando stavo lì da solo in mezzo al mare, di fissare un onda. La guardavo andare via, finché non la vedevo sparire lontano. Lei era libera non io.

Dicevo prima che i detenuti sono il cuore della Gorgona, non solo perché tutti lavorano, ma anche perché è molto limitato l’intervento di insegnanti esterni. Voglio dire che quando arriva un nuovo detenuto, assegnato per esempio alla macelleria, sarà il detenuto più anziano ad insegnagli il mestiere. E questa è una gran cosa, anche in termini di costi per l’amministrazione. Per esempio, io il pescatore non l’avevo mai fatto, ma alla Gorgona un detenuto anziano, sotto la supervisione di un agente, mi ha insegnato a pescare.

Da qualche mese sono andato via dalla Gorgona, ma la mia pena non è finita. Finirà nel 2012. Ora sono nel carcere Montorio di Verona. Ho il lavoro esterno. La mattina esco dal carcere e lavoro con i bambini disabili, la sera torno in carcere. Ma non mi lamento. Verona è la mia città e la mia pena è continua costruzione.

Una costruzione iniziata all’isola della Gorgona. Io, voglio dirvi la verità, non mi sento migliore di altri detenuti. Ma solo più fortunato di loro. Se come tanti altri detenuti fossi stato sbattuto per anni in una cella qualsiasi, se come altri fossi stato condannato a non fare nulla per tutto il giorno, non sarei quello che sono ora. Una persona migliore.

 

Nicola 35 anni

Giustizia: le lettere di alcuni detenuti per "Radio Carcere"

 

www.radiocarcere.com, 12 aprile 2007

 

Francesca detenuta nel carcere di Como

 

"Cara Radio Carcere e caro Riccardo, ti scrivo per informarti com’è la situazione qui nella sezione femminile del carcere di Como. Purtroppo anche dopo l’indulto, per chi è rimasto in carcere, la situazione non è di molto migliorata. Prima eravamo un’ottantina e ora siamo circa 20 donne, tra cui 2 mamme con i loro bambini detenuti. Un’oscenità consentita dallo Stato. Tra noi donne detenute nel carcere di Como, ora c’è anche la signora Rosa, quella indagata per la strage di Erba.

Dico che dopo l’indulto la situazione è quasi peggiorata perché, mentre prima gli agenti di custodia giravano per le celle e ci chiedevano di cosa avevamo bisogno, ora invece che siamo in poche questi agenti non li vediamo più. La sensazione è che avendo meno detenute, gli agenti pensano di avere meno lavoro. E noi rimaniamo in cella a chiamare. Questo significa che per noi donne detenute nel carcere di Como è diventato assai difficile ottenere l’attenzione di un agente per andare a fare la doccia, per uscire all’ora d’aria o per andare all’ufficio matricola.

Molto spesso, troppo spesso, quando li chiamiamo la risposta è la stessa: "un attimo, tra un po’ arrivo!". Noi aspettiamo, li richiamiamo e loro arrivano arrabbiati. In questo scenario un po’ surreale, non manca di vedere la sera verso le 21.30, che aprono la cella di una zingara per farsi leggere la mano o il fondo della tazzina di caffè. In quei momenti vorrei avere una telecamera!

Noi facciamo l’ora d’aria in un ambiente che ricorda una piccola piscina svuotata. E noi lì dentro a camminare su e giù. La cosa peggiore è che con noi, in quel piccolo spazio di cemento ci sono anche le mamme detenute con i bambini detenuti. Una vergogna.

Le celle poi sono pietose. Noi detenute dopo l’indulto ci siamo offerte di imbiancarle, ma loro ci hanno risposto che non era possibile perché non avevano i soldi per la vernice. Come se non bastasse, da quando hanno arrestato Rosa, accusata della strage di Erba, noi dobbiamo stare molto più tempo chiuse in cella. Rosa è stata messa infatti, non nella cella di isolamento che sono al piano di sotto, ma è da sola in una cella nella sezione comune.

La sicurezza per la sua presenza influenza i nostri piccoli spazi di libertà in carcere. Così ci chiudono in cella prima del tempo se Rosa deve uscire, oppure se qualcuno viene a visitarla.

Addirittura per paura che Rosa sia avvelenata, due agenti controllano se anche noi mangiamo quello che ci dà il carcere e che è destinato anche a Rosa. La cosa incredibile è che sui vari telegiornali dicono e ripetono che Rosa è in isolamento! Sta in cella da sola ma non è in isolamento. Cella n. 1 della sezione comune… controllare per credere… noi la chiamiamo la cella Bazzi! Caro Riccardo, sono ormai le 6 di pomeriggio ed ecco il carrello del vitto davanti alla mia cella. Ma non mangerò. Sono troppo amareggiata. Continuerò ad informarti sulle nostre condizioni qui nel carcere di Como. Grazie per quello che fai per noi, per l’ascolto e la voce che nessuno ci da. Un caro abbraccio."

 

Francesco dal carcere Poggioreale di Napoli

 

"Caro Riccardo, sono un detenuto del carcere Poggioreale e sono un detenuto c.d. comune, ovvero non ho reati gravi. Purtroppo le mie condizioni di salute non sono buone. Soffro di una rara malattia genetica del sangue e Poggioreale non è il luogo migliore per la mia salute. Se avessi soldi per pagare un avvocato, potrei ottenere la detenzione domiciliare, così da poter pagare la mia pena e poter andare in ospedale per curarmi. Quando ero libero infatti, ero costantemente curato in ospedale, dove mi facevano esami e mi davano le medicine.

Invece da quando sono qui nel carcere di Poggioreale non vengo mai controllato e di conseguenza non mi vengono date le medicine di cui ho tanto bisogno. Il fatto è che io sto sempre peggio e mi sento spegnere piano piano. Qui mi trattano come se valessi zero. Ovvero meno, molto meno di una persona. Vorrei sapere se il diritto alla salute, sancito dalla nostra costituzione, vale anche per me. E poi verri domandare: come mai il ministro della salute Livia Turco non si preoccupa anche del diritto alla salute dei detenuti? Che significa? Che una volta in carcere dobbiamo morire? C’è in Italia una pena di morte di fatto, non scritta ma funzionante? Ti saluto con affetto e stima."

 

Khalid dal carcere di Pavia

 

"Cara Radio Carcere, sono un extracomunitario, sono l’ultimo degli ultimi. Io sono in carcere accusato di spaccio di droga, ma la verità è che io la droga la uso perché sono tossicodipendente. Io ho cercato di dirlo, ma loro non mi hanno creduto o ascoltato. Sta di fatto che sono 7 mesi che aspetto il processo. Un processo che voglio proprio per poter dimostrare la mia innocenza. Ed invece nulla. Silenzio e cella. Purtroppo non ho soldi per pagarmi un avvocato e temo che per me di giustizia ce ne sarà poca. Spero solo di trovare un Giudice che valuti le mie accuse pensando anche alla mia difesa, a quello che gli dico. A te Riccardo ti voglio solo dire di non fermarti mai..vai avanti sempre così. Ciao Khalid"

 

Due donne detenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere

 

"Cara Radio Carcere e caro Arena, siamo due detenute del carcere femminile di Santa Maria Capua Vetere, reparto Senna. Ti volevamo dire che nel nostro istituto non avviene alcun tipo di riabilitazione. Dopo varie istanze ci hanno concesso il corso di preparazione al teatro e per la realizzazione di uno spettacolo ci siamo dovute affidare alla nostra fantasia ed alla nostra volontà. Non ci viene fornito il materiale necessario, neanche colori, colla ed altro perché in questo istituto non è consentito né l’ingresso tramite corrispondenza o pacco colloqui, né l’acquisto degli stessi. Siamo rimaste molto incuriosite dall’intervento del Vice Capo Dap dottor Emilio Di Somma durante la trasmissione "Altrove" di qualche mese fa. Il dott. Di Somma in TV disse che in ogni istituto è indispensabile esercitare un programma di rieducazione e di riabilitazione, per rendere la carcerazione meno afflittiva e meno disumana, ma anche al fine di restituire alla società le "persone" e non gli "ex detenuti".

Vogliamo replicare a questo intervento precisando che in questo carcere, e pensiamo anche in altri, queste belle parole sono purtroppo solo utopia. Noi donne detenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, tranne sporadiche iniziative, non sappiamo cosa sia la rieducazione. Poco o nulla si fa per farci uscire da qui migliori. Spesso ci sentiamo private anche della nostra dignità. Ti diciamo solo che qui gli educatori, ricordano di più quelle vecchie maestre degli anni 50, che sgridavano ed intimorivano i propri alunni. Considerando che tra di noi c’è un gran numero di mamme e nonne, tutto questo è una vera umiliazione.

Abbiamo una direttrice, ma personalmente non l’abbiamo mai vista in circa 9 mesi di detenzione, l’educatore fa meno apparizioni della madonna, l’area verde esiste ma non è utilizzata nonostante le nostre richieste. Abbiamo quindi deciso di non scoraggiarci e di praticare l’auto riabilitazione. siamo iscritte entrambe alla facoltà di giurisprudenza e lo studio avviene esclusivamente con volontà e mezzi propri.

Siamo consapevoli che la nostra "voce" è silenziosa ed ha meno peso di quella delle persone libere, che la nostra "verità" non ha lo stesso valore di chi vive dall’altra parte del muro, che la certezza del nostro "domani" dipende dagli altri. Questa mentalità ci fa sentire dei "diversi" e paradossalmente non ci sentiamo persone dentro ma fuori dalla società, però sempre libere di sperare. Con stima."

Misure alternative: solo 2 su 10 commettono nuovi reati

 

Redattore Sociale, 12 aprile 2007

 

Ministero della Giustizia e Dipartimento amministrazione penitenziaria smentiscono con 6 ricerche l’idea che il carcere sia la soluzione migliore: la recidiva di chi è detenuto avviene sette volte su dieci.

Cresce l’importanza delle misure alternative al carcere e cresce anche la qualità del servizio offerto dalle strutture (Uepe, gli uffici di esecuzione penale esterna), anche se l’opinione pubblica continua a pensare esattamente il contrario, ovvero che sia il carcere come istituzione totale la soluzione migliore per controllare chi ha commesso reati e quindi per abbassare il tasso di criminalità del paese. I dati scientifici mostrano invece l’esatto contrario soprattutto a proposito dei tassi di recidiva. Sono questi i messaggi più importanti emersi oggi durante un interessante convegno organizzato dal ministero della Giustizia e dal Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) nelle sale della Lumsa (Libera Università Maria SS. Assunta). Al convegno ha partecipato anche Ettore Ferrara, capo del Dap.

Molto netto il dato sul rapporto tra tasso di recidiva che si riscontra tra i detenuti usciti dal carcere (e poi rientrati a fronte di nuovi reati commessi) e quello che si riscontra tra i condannati assegnati alle misure alternative. Il rapporto è nettamente a favore delle misure alternative, dato che solo due condannati su dieci commettono nuovi reati, mentre tra i detenuti "normali" il rapporto è sette a dieci, ovvero sette persone che escono dal carcere commettono nuovi reati e vengono poi incarcerate di nuovo. La differenza è netta dunque: 2/10 contro 7/10. Come si spiega questo trend? Andiamo con ordine.

La prima cosa da dire è che le misure alternative sono in netta crescita e che la loro qualità è in netto miglioramento. Dal 1975 al 2005 - ha spiegato oggi durante il convegno Fabrizio Leonardi, direttore dell’Osservatorio delle Misure Alternative - le esecuzioni esterne si sono decuplicate (moltiplicate per dieci) mentre la detenzione in carcere (indulto escluso) si è triplicata. Dopo le leggi Gozzini e Simeone, insomma, si è sempre più fatto ricorso alle misure alternative e anche il dato confortante sulle revoche dimostra l’efficacia del nuovo sistema. In media le revoche dei provvedimenti di esecuzione esterna incidono solo per il 5%. Un altro indicatore molto importante è quello sulle recidive (ovvero le condanne di detenuti o ex detenuti per nuovi reati). Ebbene da un’analisi dei dati storici dal 1998 al 2005 si evince appunto il dato del rapporto 2/10 della recidiva tra le persone in misure alternative al carcere. Tra tutti coloro che in quel lasso di tempo sono stati assegnati a misure alternative al carcere 1.677 hanno commesso nuovi reati (pari al 19% del totale), mentre i non recidivi sono stati la maggioranza: 7.140 persone. Tra i detenuti nei carceri tradizionali il tasso di recidiva (al momento dell’uscita dal carcere) è molto più alto. Siamo infatti intorno al 67%, con un rapporto tra chi commette altri reati e il totale di 7 a 10.

Secondo Fabrizio Leonardi si possono avanzare varie interpretazioni del fenomeno e comunque ci sono concause. Una delle spiegazioni più semplici riguarda il tipo di persone che vengono selezionate per le misure alternative. La selezione è già un passo perché si basa sull’affidabilità, quasi dunque una scrematura che abbassa (almeno virtualmente) le possibilità che poi le stesse persone, gli stessi ex detenuti commettano nuovi reati. In ogni caso, durante il convegno di oggi della Lumsa, si è capita l’importanza della ricerca sociologica e della ricerca applicata a questi fenomeni e si è capita soprattutto l’importanza - anzi forse la centralità - della comunicazione. Lo ha voluto sottolineare il professor Luigi Frudà, esperto di ricerche nel campo penitenziario e da anni collaboratore del Dap e del ministero.

Conoscere per che cosa? Si è chiesto retoricamente Frudà durante il convegno sulle alternative al carcere. Conoscere soprattutto per "restituire", si è risposto. E i dati eclatanti sul basso tasso di recidiva stanno a dimostrare che serve un grande lavoro di comunicazione/informazione nei confronti dell’opinione pubblica. Dal continuo allarmismo sociale rilanciato dai media emerge infatti un’immagine del carcere come l’istituzione comunque più sicura e funzionale nel controllo del crimine, mentre le misure alternative vengono viste con paura. E invece i dati di tutte le ricerche svolte sul tema dimostrano l’esatto contrario. "Queste cose vanno dette e ridette - ha spiegato Frudà - si devono organizzare grandi campagne che possano ben indirizzare un’opinione pubblica distratta o mal indirizzata". È l’antico, difficilissimo tema, delle "good news". "Fa più rumore un albero che cade - ha detto il professor Frudà - che una foresta che cresce". Tutto bene dunque? No, c’è ancora molto da fare per migliorare il sistema degli Uepe, gli uffici per l’esecuzione penale esterna. Dal convegno sono arrivati i primi spunti critici di una riflessione che dovrebbe portare a nuovi interventi per il futuro.

Misure alternative: il maggior beneficio ai tossicodipendenti

 

Redattore Sociale, 12 aprile 2007

 

Le ricerche del Ministero della Giustizia e del Dap rovesciano i luoghi comuni diffusi dai grandi media, dimostrando l’utilità sociale di tali esperienze per il reinserimento e la rieducazione.

Le misure alternative al carcere producono effetti molto positivi e comunque molto più positivi di quello che in genere circola nei luoghi comuni diffusi dai grandi media. Molti sono stati i progressi negli anni di applicazione (vedi lancio precedente) e molti i risultati raggiunti. Ci sono però ancora parecchi punti critici, nodi da sciogliere, o comunque strumenti da affinare.

Nel convegno di questa mattina alla Lumsa sono emersi parecchi spunti dagli interventi degli studiosi, degli esperti e dei funzionari dell’amministrazione penitenziaria, a partire dall’intervento del Capo del Dipartimento, il dottor Ettore Ferrara, sia dall’introduzione e dai commenti di Riccardo Turrini Vita, Direttore generale dell’Esecuzione Penale Esterna.

Uno degli spunti ricorrenti nelle varie ricerche realizzate e presentate durante il convegno (interessanti per esempio le presentazioni dei ricercatori Cristina Sofia e di Folco Cimagalli) è quello relativo alle tossicodipendenze. È infatti ormai dimostrato che i tossicodipendenti o gli ex tossicodipendenti hanno un rapporto diverso con le misure alternative rispetto a quello che viene vissuto da ex detenuti o condannati che non sono tossicodipendenti e che non lo sono mai stati.

Anche in questo caso le ricerche empiriche e le analisi sui dati raccolti hanno smontato un luogo comune. O meglio lo hanno rovesciato. Le ricerche presentate oggi alla Lumsa dimostrano infatti che i tossici o ex tossici hanno un beneficio maggiore degli altri dalle misure alternative al carcere e che gli stessi soggetti intervistate ne rimandano poi il giudizio sullo stesso servizio. Sono loro, infatti, a restituire un’immagine più a tutto tondo dell’utilità sociale delle misure alternative che sono giudicate molto più funzionali e una vera reintegrazione sociale rispetto al carcere tradizionale. Il messaggio che emerge dalle ricerche scientifiche è duplice: le misure alternative abbassano il livello di recidiva e sono più funzionali al processo di rieducazione/reinserimento.

Secondo il professor Frudà (Università La Sapienza di Roma), che ha coordinato le ultime ricerche sono due i temi che andrebbero approfonditi per capire i reali punti deboli di queste esperienze alternative al carcere tradizionale. Uno dei punti deboli riguarda sicuramente la rigidità procedurale. Secondo Frudà sia dalle analisi sul processo, sia dalle interviste ai diretti interessati, emerge appunto una eccessività rigidità burocratica di queste esperienze che viene affiancata da una forte domanda di personalizzazione del servizio stesso.

È chiaro che dipende molto anche dalle condizioni geografiche e dalle diversità territoriali e culturali l’efficacia del servizio offerto dall’amministrazione. L’altro punto - che è stato poi approfondito durante il convegno dal professor Francesco Mattioli (anche lui dell’Università La Sapienza) - è quello che riguarda il sistema della rete e quindi il funzionamento degli Uffici di esecuzione penale esterna nel loro coordinamento. Si deve sviluppare anche qui la cultura della valutazione e del controllo in rete appunto, un tema che è stato poi l’oggetto delle conclusioni di Rita Andrenacci, dirigente di Esecuzione Penale Esterna.

Napoli: riapre il "padiglione detenuti" dell'ospedale Cardarelli

 

Il Mattino, 12 aprile 2007

 

Chiuso da sei anni, il padiglione detenuti del Cardarelli viene riconsegnato oggi al Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, diretto da Tommaso Contestabile. Dalla prossima settimana - in attesa dell’inaugurazione ufficiale della struttura clinica che avverrà alla presenza del ministro di Grazia e Giustizia, Clemente Mastella - la sezione di massima sicurezza tornerà a ospitare nell’ultimo piano del padiglione Palermo, detenuti provenienti dai carceri di Poggioreale, di Secondigliano e da altre strutture della Campania.

Una novità importante per il Cardarelli e per i cittadini ricoverati nella grande azienda ospedaliera che - salvo rare eccezioni - non saranno più accolti in divisioni costrette a ospitare anche detenuti tenuti costantemente sotto scorta armata dalla polizia penitenziaria. Finirà il via vai di cellulari e di macchine di servizio delle guardie carcerarie costrette da sei anni ad alternarsi in più turni nei vari reparti del Cardarelli: i detenuti dai prossimi giorni saranno ospitati nella struttura di sicurezza realizzata proprio per loro nel padiglione Palermo. La ristrutturazione dell’edificio è stata più lunga e tormentata del previsto. I lavori si sono conclusi a ottobre. Ma i detenuti tornano nei reparti di sicurezza realizzati per loro con diversi mesi di ritardo. Il 25 gennaio, un acquazzone, ha allagato proprio il reparto destinato ai detenuti provocando infiltrazioni di acqua anche nel piano sottostante.

Torino: giornata formazione sulle emergenze cardiovascolari

 

Farmacia.it, 12 aprile 2007

 

Il 13 aprile prenderà il via in diverse città italiane la prima Campagna nazionale di prevenzione e primo soccorso dell’arresto cardiaco negli istituti penitenziari, promossa dall’Associazione nazionale medici cardiologi ospedalieri (Anmco) e dal Ministero della giustizia, in collaborazione con Heart Care Foundation.

Un’iniziativa che in Piemonte ha raccolto l’adesione, oltre che dei cardiologi dell’associazione, dell’amministrazione penitenziaria e del personale che opera nelle carceri, anche del Servizio di emergenza 118. Si è così giunti alla messa a punto di un progetto, che inizierà sperimentalmente venerdì 13 presso la Casa circondariale "Lo Russo e Cotugno" di Torino, finalizzato a fornire ai detenuti elementi e supporto per la prevenzione delle malattie cardiovascolari e ad addestrare il personale di polizia penitenziaria alla gestione delle emergenze cardiovascolari.

"Negli istituti di pena - spiega Rita Trinchero, presidente regionale Anmco e direttore del Dipartimento di cardiologia dell’ospedale Maria Vittoria - intervenire sugli stili di vita non è semplice: l’attività fisica è difficile da incoraggiare, il fumo è diffusissimo. Se a questo aggiungiamo anche i fattori di rischio individuali, come l’ipertensione arteriosa, le dislipidemie o il diabete, il carico di stress tipico dei detenuti e il fatto che in molti casi si tratta di soggetti che provengono da un forte disagio sociale, si comprende quanto sia opportuno intervenire con un programma educativo per la salute del cuore dei carcerati".

La giornata di venerdì si articolerà in due momenti distinti. Al mattino, dalle 10 alle 13, si terrà un incontro con i detenuti, il personale di polizia penitenziaria e quello sanitario e amministrativo, nel corso del quale i cardiologi tratteranno i temi relativi ai fattori di rischio cardiocircolatorio ed illustreranno le manovre di primo soccorso, spiegando come attivare il sistema di emergenza in modo corretto. Seguirà quindi una tavola rotonda, cui prenderanno parte rappresentanti del Ministero della giustizia, medici, responsabili del 118 ed esponenti delle associazioni di volontariato.

Nel pomeriggio, invece, istruttori Anmco terranno un corso teorico-pratico di gestione dell’emergenza e di uso del defibrillatore per gli agenti di polizia penitenziaria che, dopo una valutazione finale, otterranno un certificato di abilitazione all’utilizzo di questo strumento in caso di arresto cardiaco, secondo le normative vigenti.

"La legge 120 del 2001 - aggiunge Gianluca Ghiselli, responsabile 118 di Torino - prevede che i defibrillatori semiautomatici possono essere usati anche al di fuori degli ospedali, purché da personale adeguatamente addestrato. Tutti i penitenziari sono in possesso di questo tipo di apparecchiatura, in grado di salvare la vita a chi è colpito da arresto cardiaco con fibrillazione ventricolare. Estendere il più possibile la capacità di utilizzarla in tempi brevi si configura come un momento decisivo per ridurre il numero di decessi nelle carceri".

Volterra: cene galeotte, per solidarietà con Camerun e Libano

 

Toscana In, 12 aprile 2007

 

Promossa da Unicoop Firenze in collaborazione con il Ministero di Grazia e Giustizia, e la direzione della Casa di reclusione di Volterra, l’iniziativa prevede quattro cene a tema interamente preparate e servite dai carcerati, che cucinano personalmente piatti tipici dei loro paesi di provenienza per promuovere la prima iniziativa culinaria solidale del carcere. Sono ventisette i detenuti impegnati nell’organizzazione delle serate, coadiuvati dai sommelier della Fisar. Si mangia nella cappella sconsacrata del carcere e i diversi menù sono stati ideati dai detenuti stessi, in collaborazione con Slow Food.

L’inconsueto "ristorante" sarà aperto al pubblico che potrà partecipare alle serate, a prenotazione obbligatoria, versando un contributo di 25 euro a persona. Il ricavato sarà interamente devoluto alla campagna "Il Cuore si scioglie", che dal 2000 vede impegnata Unicoop Firenze, insieme al mondo del volontariato laico e cattolico, in progetti di solidarietà per realizzare scuole e centri di accoglienza, per garantire cure mediche, per creare opportunità di lavoro e per promuovere l’adozione e l’affidamento a distanza dei bambini in molte realtà povere del Sud del mondo: Brasile, Burkina Faso, Camerun, Filippine, India, Libano, Palestina, Perù. È la prima volta che da un carcere italiano parte un messaggio di solidarietà di questo genere.

Questo il programma delle prossime cene: Venerdì 13 aprile: cena a base di pesce (a favore dei progetti per il Camerun e per il Libano, a cura del Movimento dei Focolari e dell’Arci); Venerdì 18 maggio: cena vegetariana (a favore dei progetti per l’India e per le Filippine, a cura delle Suore Santa Elisabetta e dell’Arci); Venerdì 22 giugno: cena a base di carne (a favore dei progetti per il Brasile e per il Perù, a cura dell’associazione Agata Smeralda e dell’Arci).

Minori: progetto cinematografico con il "Giffoni Film Festival"

 

Il Mattino, 12 aprile 2007

 

Il Giffoni Film Festival porterà le pellicole cinematografiche anche negli Istituti penali italiani per minorenni. Il direttore artistico Claudio Gubitosi ha incontrato il ministro guardasigilli Clemente Mastella per presentargli i punti chiave del progetto di formazione e produzione cinematografica, denominato "La mia vita in un ciak".

L’idea di Claudio Gubitosi, fondatore del festival del cinema per ragazzi di Giffoni è quella di dedicare agli Istituti penali per minorenni del territorio italiano tale iniziativa. Il ministro della Giustizia Clemente Mastella nel corso del colloquio, tra l’altro presente anche il capo della segreteria, Francesco Borgomeo, ha manifestato notevole interesse per la nuova idea che Giffoni Valle Piana intende promuovere nei carceri minorili italiani che ospitano soggetti a provvedimento dell’Autorità giudiziaria in custodia cautelare o giovani già sottoposti a condanna penale.

È tutto pronto, invece, per l’ultima tappa del Movye Days on tour in programma dal 23 al 27 aprile a Nuoro con proiezioni riservate a ragazzi delle scuole superiori. Altri Movye Days in programma a Giffoni dal 24 al 27 aprile dedicheranno il tema delle giornate all’handicap. Il film scelto è "Rosso come il cielo" e racconta di un bambino cieco che rivoluziona il sistema didattico del collegio in cui viene ospitato.

Alla giornata saranno presenti anche esperti in grado di approfondire il tema con i ragazzi. Intanto, il direttore Gubitosi ed i componenti del consiglio di amministrazione guidato da Carlo Andria, hanno ricevuto la tanto attesa comunicazione da parte del segretario generale della Presidenza delle Repubblica, Donato Marra che il Presidente, Giorgio Napolitano, ha concesso il suo Alto Patronato alla 37ma edizione del festival e che viene anche assegnato un premio di rappresentanza.

Quest’anno il Giffoni Film Festival si tiene dal 12 al 21 luglio con il tema Confini. È un viaggio per un anno attraverso i paesaggi affascinanti e vibranti della gioventù contemporanea. La meta è la Frontiera. "Il confine - scrive Gubitosi - è il luogo per eccellenza dell’incontro o dello scontro. È la linea che separa la zona d’ombra da quella di luce. È la porta senza cardini che unisce e divide due dimensioni.

La vita e la morte?. Perché no. Ma non solo. Il 2007 sarà l’anno in cui esploreremo i confini, provando a gettare lo sguardo e il cuore oltre quella linea di demarcazione. Metteremo in cantiere, dalle novità che realizzeremo ai nuovi strumenti di connessione col popolo dei teenager. E in spalla avremo un zaino e dentro dei versi che ci accompagneranno sempre, quelli di Pessoa: "La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo, non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo". Ed a proposito di confini è tutto pronto per la terza edizione di Giffoni - Hollywood - Los Angeles, in programma dal 23 al 29 aprile prossimo.

Droghe: Ferrero; il problema dell’alcool è molto sottovalutato

 

Redattore Sociale, 12 aprile 2007

 

Il ministro all’Alcohol Prevention Day dell’Iss annuncia un giro di vite sugli spot televisivi che associano il consumo di alcolici al successo sociale e al benessere.

"Finora in Italia non si é fatto nulla", c’è stata una "sottovalutazione dei problemi legati all’alcol, pecche fa parte della cultura del nostro Paese". Lo ha detto oggi all’Alcohol Prevention Day dell’Istituto superiore della Sanità il ministro della Solidarietà sociale, Paolo Ferrero. Secondo quanto riferito dall’Agenzia Dire Ferrero ha annunciato che é in arrivo, sul modello francese e come già previsto per le sigarette, un giro di vite sugli spot televisivi che associano il consumo di alcol al successo sociale e al benessere.

Il provvedimento riguarderà anche le etichette delle bottiglie di alcolici, a partire da 1,2 gradi (quindi birra, vino e a crescere), un messaggio informativo. "Abbiamo predisposto un disegno di legge, che dovrebbe andare in Consiglio dei ministri nelle prossime settimane - ha detto il ministro all’Agenzia - che vieta, come in Francia, la pubblicità degli alcolici in tv". Non sarà un divieto a 360 gradi: "Intendiamo riportare la pubblicità degli alcolici al livello informativo, ma vogliamo rompere invece il legame tra consumo di sostanze e successo, benessere, modello sociale positivo". Altro tassello della strategia di prevenzione del governo contenuto nel disegno di legge annunciato da Ferrero é l’introduzione, sulle etichette degli alcolici, di "messaggi di tipo informativo - ma c’è ancora una limatura in corso, avverte il ministro - per segnalare che l’abuso di alcol fa male alla salute". Ferrero tranquillizza i consumatori moderati di alcolici: "Parlare di abuso significa che non c’è il proposito di arrivare ad un consumo zero".

Droghe: ogni anno circa 25 mila decessi correlati all’alcool

 

Redattore Sociale, 12 aprile 2007

 

Il fenomeno colpisce più gli uomini: 17 mila. Circa il 10% delle morti premature sono da addebitare all’alcol: l’11% tra i maschi e il 5,2% tra le donne. Le morti più frequenti per cirrosi epatica e incidente.

Ogni anno in Italia circa 25 mila decessi sono associati all’alcol e riguardano più di 17 mila uomini e circa 7.000 le donne. Il tasso di mortalità è di 35 decessi su 100 mila abitanti per i maschi e di 8,4 decessi su 100 mila abitanti per le donne attribuibili all’alcol, secondo la stima della mortalità alcol correlata, prodotta nell’ambito delle progettualità internazionali dell’Oms e realizzata per l’Italia in collaborazione con il Centro Oms per la Ricerca sull’Alcol dell’Istituto Superiore di Sanità.

A questi si aggiunge la quota relativa ai più giovani: circa 2000 quella nota all’Iss per gli incidenti stradali, prima causa di morte per i ragazzi. Circa il 10% di tutti i decessi registrati nel corso di un anno (dati 2002) sono da ritenersi, secondo gli esperti, decessi prematuri causati dall’alcol: l’11 % di tutti i decessi tra i maschi e il 5,2% tra le donne): decessi evitabili parzialmente o totalmente a fronte di un corretto atteggiamento nel bere.

Il numero dei decessi alcol-attribuibili è calcolata al netto dei possibili "guadagni" dell’effetto protettivo associato a bassi consumi di alcol (meno di un bicchiere al giorno). Le condizioni che presentano la più elevata frequenza di mortalità alcol-attribuibile sono la cirrosi epatica e gli incidenti. Per i decessi da cirrosi epatica, il 47,7 % per i maschi e il 40,7 % per le donne sono attribuibili all’alcol; analogamente, il 26,35 % e l’11,4 % di tutti i decessi che riconoscono la causa di morte in un incidente sono alcol correlati. Il 5,31 % di tutti i tumori maligni maschili ed il 3,01 % di quelli femminili è attribuibile all’alcol.

Droghe: Roma; in aumento la fascia d’età del consumo

 

Notiziario Aduc, 12 aprile 2007

 

 

L’omicidio di un ragazzo ventiduenne da parte di un suo coetaneo, per una piccola partita di droga del valore di 300 euro, sembra essere l’indice di un mercato della droga che cambia. Secondo l’Agenzia dei tossicodipendenti del Comune di Roma se l’aumento numerico dei consumatori non è così incisivo, è invece rilevante l’ampliamento delle fasce di consumo, in precedenza concentrato nello spettro anagrafico compreso tra i 25 e i 45 anni di età. Oggi l’età dei consumatori si è abbassata fino a 14 anni e si è alzata fino a 57: è la tendenza del consumo di sostanze stupefacenti a Roma a partire dal 2002.

Secondo quanto risulta ai nostri servizi - ha spiegato il direttore dell’Agenzia, Guglielmo Masci - è cambiata l’utenza, si abbassa l’età e si allarga la fascia alta. L’Agenzia ha anche un identikit del consumatore medio: l’86 per cento è costituito da maschi di età media 36 anni; il 64 per cento non è sposato, il 53 per cento ha un diploma, il 75 per cento ha una regolare occupazione. Il primo marzo scorso è partito il Masterplan prevenzione dell’Agenzia dei tossicodipendenti: in circa ottanta scuole di varie zone di Roma sono stati individuati cento educatori fra gli studenti, che avvieranno tra i coetanei azioni informative sulle sostanze stupefacenti e i danni che provocano. Il progetto avrà la durata di un anno e mezzo.

Droghe: vaccino anti-cocaina pronto per la sperimentazione

 

Notiziario Aduc, 12 aprile 2007

 

Anche l’Italia è pronta alla sperimentazione del vaccino anti-cocaina. Lo dicono i risultati dello Studio preliminare di fattibilità per la sperimentazione del vaccino anti-cocaina in Italia, realizzato dal Cocaina Verona Group in collaborazione con Asl e comunità terapeutiche italiane, nel percorso di attuazione degli obiettivi dell’ accordo con la multinazionale produttrice della molecola e proprietaria del brevetto, che prevede la sperimentazione in fase 3 del vaccino in alcuni Paesi Europei compreso il nostro. I primi test dovrebbero partire alla fine dell’anno.

Lo studio è stato condotto in Italia nel 2006 attraverso questionari e interviste a consumatori di cocaina quale sostanza primaria d’uso (50% del campione) e professionisti di servizi e comunità terapeutiche (50%) allo scopo di verificare l’ accettabilità del vaccino e della sua sperimentazione in fase 3 in Italia in termini di percezione di efficacia, percezione di utilità, importanza di un sostegno psicologico annesso, eventuale rischio di discriminazione sociale dei partecipanti alla sperimentazione e dei "vaccinati", eventuali pregiudizi in merito a un intervento farmacologico di carattere preventivo. I risultati dello studio indicano in particolare che, riguardo alla percezione di efficacia, l’88% dei professionisti di servizi e comunità terapeutiche e il 60% dei consumatori di cocaina ritiene utile il vaccino anti-cocaina, abbinato però a un adeguato sostegno psicologico; soltanto il 14% di consumatori e il 6,5% di operatori ne considera infatti l’utilità in termini di pura somministrazione farmacologica.

Riferito invece alla percezione di utilità il 55% di consumatori e il 63% di professionisti ritiene utile il vaccino per vincere la dipendenza da cocaina. Sia consumatori (78%) che professionisti (83%) ritengono indispensabile che la futura sperimentazione venga condotta nel completo anonimato. Il direttore del Dipartimento delle dipendenze di Verona, Giovanni Serpelloni, rileva che "i dati sono incoraggianti; stiamo solo aspettando il via per capire le condizioni che pone l’azienda proprietaria del brevetto".

L’importante è considerare prioritario il rispetto di due condizioni: primo le implicazioni etiche, secondo la necessità di un adeguato supporto psicologico da affiancare alla somministrazione farmacologia del vaccinò. In Italia più del 4,5% della popolazione ha provato la cocaina almeno una volta nella vita, con età media di primo utilizzo di 18 anni (in Europa l’età di primo utilizzo è intorno ai 22 anni); l’89% dei consumatori abituali sono maschi e hanno età media di 33 anni; il 62% dei consumatori ha un’occupazione e più del 70% risulta coniugato; negli ultimi 5 anni è stato rilevato in Italia un aumento del 10% del numero di soggetti segnalati in possesso di cocaina.

Usa: pena di morte; in Texas giustiziato un ritardato mentale

 

La Repubblica, 12 aprile 2007

 

Sono stati accompagnati dalle note di un pianoforte appartenuto a John Lennon gli ultimi istanti di vita di James Lee Clark, un ritardato mentale giustiziato ieri mediante iniezione letale nel penitenziario texano di Huntsville. Clark era stato condannato a morte per aver rapinato, violentato e infine assassinato nel ‘93 a Denton la studentessa liceale Shari Crews, diciassettenne. Fino all’ultimo la difesa aveva cercato di bloccare l’esecuzione sulla base delle condizioni psichiche di Clark: negli Stati Uniti in genere non si possono mettere a morte persone con un quoziente intellettivo inferiore a 70, e quello del condannato risultava oscillante tra 65 e 74. La Corte Suprema federale ha però respinto il ricorso.

Mentre lo legavano alla brandina sulla quale avrebbe ricevuto in vena il veleno, Clark sembrava non rendersi conto di che cosa stesse succedendo. Un funzionario gli ha infatti chiesto se volesse rilasciare una dichiarazione, ma lui è parso sorpreso, persino imbarazzato: "Beh", ha balbettato, "non so che cosa dire, non lo so proprio".

Non ha nemmeno chiesto il tradizionale ultimo pasto del condannato. Ai testimoni che si trovavano al di là del vetro divisorio, tra i quali il suo patrigno, ha detto: "Non sapevo che ci fosse qualcuno", e poi "Heilà!, salve, come va?". Poi ha cercato di mormorare ancora qualcosa, ma ormai il veleno stava facendo effetto: sono occorsi sette minuti perché morisse. All’esterno del penitenziario si era frattanto radunata una piccola folla di oppositori della pena capitale per protestare; sono stati proprio loro, i manifestanti, a scegliere di accompagnare gli ultimi momenti di vita del condannato suonando il pianoforte appartenuto a John Lennon.

 

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