Rassegna stampa 8 agosto

 

Giustizia: Sappe; a un anno dall’indulto i reati sono in aumento

 

Ansa, 8 agosto 2007

 

A un anno dall’entrata in vigore della legge sull’indulto aumentano i reati, soprattutto quelli commessi da stranieri, a dirlo il Sappe. Per il consigliere nazionale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria, Aldo Di Giacomo: ‘in Molise - da dove si è partiti per analizzare la situazione a livello nazionale - si è registrato il record di furti in appartamento.

I delitti totali, stando al Ministero dell’Interno, che erano in diminuzione nel primo semestre 2006, sono aumentati nel secondo. "Si tratta, prosegue Di Giacomo, del periodo che include le scarcerazioni post-indulto: furti e rapine erano scesi del 5% e 7%; nel secondo semestre sono invece aumentati del 6% i furti e del 15,5% le rapine. In agosto-settembre 2006 ci sono stati 28.830 furti e 1.952 rapine in più dello stesso periodo del 2005".

"Primato non invidiabile quello del Molise, sottolinea il consigliere Sappe, dove i furti in appartamento, solo per parlare di Campobasso, sono aumentati del 1.000%". Altro problema, dice, è quello degli stranieri - pari al 4% dei residenti in Italia - ma al 36,5% dei denunciati e a un terzo dei detenuti. "Il fatto che il ministro della Giustizia, spiega, tenti di rassicurare facendo notare che i recidivi sono solo il 21% (pari a 5.700) è in realtà un autogol: il 21% di rientri significa anche che il 79% è ancora in libertà, il fatto che in pochi mesi sia rientrato il 21% indica che il ritmo di rientro è molto alto".

Giustizia: caso don Gelmini; l'inchiesta si avvia a conclusione

 

Ansa, 8 agosto 2007

 

L’inchiesta della Procura di Terni sulle accuse a don Pierino Gelmini per le molestie sessuali ai danni di ospiti poi espulsi dalla sua Comunità Incontro di Amelia sembra avviata alla fase finale, corroborata anche dalla recente deposizione di don Antonio Mazzi. Stamani negli uffici della Procura si è svolto un incontro tra gli inquirenti per fare il punto di questi mesi di indagine. E poi l’annuncio a sorpresa dell’avvocato Franco Coppi: "lascio la difesa".

Già lunedì il pm Barbara Mazzullo aveva detto che era intenzione della Procura "fare presto" per concludere l’inchiesta, avendo "tutti gli strumenti per farlo". È la Mazzullo, pm storico della Procura di Terni, a tirare le fila dell’indagine. Era stata lei ad interrogare in gran segreto in un pomeriggio del maggio scorso Don Gelmini nelle vesti di indagato ed è stata ancora lei, la scorsa settimana, a sentire don Antonio Mazzi, quale persona informata dei fatti, in relazione alle confidenze che quest’ultimo aveva avuto da un suo assistito su presunte violenze subite nella Comunità Incontro.

In questi primi giorni di agosto, la Mazzullo, seppure ufficialmente in ferie, ha continuato a frequentare gli uffici della Procura. Lo ha fatto anche stamani quando si è incontrata con il dirigente della Squadra mobile, Luca Sarcoli, ed alcuni suoi collaboratori. Da indiscrezioni sembra che il vertice sia stato voluto dal pm per fare una sorta di punto finale sulle indagini. Si sarebbero insomma esaminate le testimonianze raccolte, i riscontri sulle dichiarazioni di don Gelmini e sembra anche su alcune intercettazioni.

Il sacerdote, nell’unico interrogatorio in Procura, si era proclamato con forza innocente, sostenendo anche che nel periodo indicato dai suoi accusatori per le molestie lui non era in comunità. Gli inquirenti, in questi mesi, avrebbero verificato anche questa circostanza. Don Gelmini ha poi rivelato che i suoi accusatori avrebbero agito per vendetta, cercando poi di estorcergli denaro per ritrattare. Gli avevano fatto una telefonata anche la mattina del giorno dell’interrogatorio con l’invito ad incontrarsi per discuterne. Sembra che gli inquirenti siano in possesso anche di intercettazioni di telefonate di don Gelmini nelle quali si farebbe riferimento a queste offerte di ritrattazione.

C’é poi l’interrogatorio di don Mazzi il quale aveva avuto delle confidenze da uno degli ospiti della sua comunità e che prima era stato in quella di don Pierino. Il giovane aveva parlato con il prete di violenze a sfondo sessuale subite nella comunità di Mulino Silla nei sei mesi che vi aveva trascorso nel 1993. A lui, nel 2003, don Mazzi aveva anche inviato una lettera - il sacerdote ne ha parlato in una intervista al Corriere della Sera - con riferimenti a quella vicenda. L’interrogatorio in procura ha riguardato anche i contenuti di questa lettera.

La deposizione di don Mazzi - secondo indiscrezioni - avrebbe confermato gli elementi sinora raccolti dagli inquirenti ternani, contribuendo a rendere ancora più chiaro il quadro investigativo. Ma il religioso ha precisato che da parte sua non c’é stato alcun atteggiamento accusatorio nei confronti di don Pierino Gelmini: "ho solo risposto a una lettera di un ragazzo disperato, con parole di incoraggiamento. Sono sicuro che don Pierino al mio posto avrebbe fatto lo stesso. Non ho accusato, né mi sento di accusare nessuno".

Nell’incontro di stamani la dottoressa Mazzullo avrebbe deciso con il dirigente della Squadra mobile le ultime verifiche e gli ultimi adempimenti, salvo eventuali nuovi sviluppi. L’impressione è insomma quella che, dopo alcuni giorni di ferie vere che il pm si accingerebbe a prendere a cavallo del Ferragosto, si giunga presto ad una conclusione dell’inchiesta.

A Terni intanto si erano anche diffuse notizie di imminenti sviluppi importanti dell’indagine, che sono stati però smentiti dalle fonti ufficiali. Stamani, tra l’altro, era stato visto entrare in Procura anche l’avvocato Frezza, difensore di don Pierino, il quale ha poi detto ai giornalisti di essere andato dalla Mazzullo "solo per un saluto prima delle ferie". L’altro avvocato, Franco Coppi, ha invece annunciato a sorpresa di aver rinunciato al mandato. Alla base dell’iniziativa, secondo quanto si è appreso, la mancata condivisione da parte del penalista di alcuni commenti fatti da don Gelmini. L’avv. Coppi ha lasciato la difesa pur consapevole - è detto in un telegramma inviato all’entourage di don Gelimini - dell’assoluta innocenza del suo ex assistito.

Intanto si moltiplicano giorno dopo giorno, su internet, gli spazi di discussione riservati alla vicenda: su molti blog sono anche fiorite le testimonianze di presunti ex ospiti della Comunità che accusano il sacerdote. Si tratta di commenti, tutti in forma anonima, di persone che raccontano genericamente di aver subito abusi; accuse che non è in alcun modo possibile verificare. In almeno un caso, poi, c’é chi si firma con il proprio nome e cognome, ma riferisce di presunte molestie subite da una terza persona, che gliele avrebbe raccontate. Anche qui nessuna verifica è possibile, anche se l’uomo si è detto disposto a riferire tutto alla magistratura.

Giustizia: caso don Gelmini; da Mastella nessuna interferenza

 

Adnkronos, 8 agosto 2007

 

"In alcun modo il ministro della Giustizia ha manifestato l’intenzione di interferire nell’inchiesta che ha coinvolto don Gelmini". È quanto sottolinea l’ufficio stampa del ministero della Giustizia.

"Con rammarico - prosegue - leggiamo sui giornali che le espressioni di rispetto verso la magistratura pronunciate dal Guardasigilli sono oggetto di strumentalizzazione da parte di alcuni. Agli scienziati del diritto e del ‘rovesciò che ogni volta intervengono, ricordiamo che il Guardasigilli ha sempre preso posizione a favore del rispetto della persona, chiunque essa sia, e su questo ha sempre vigilato e vigilerà, senza mai mettere in discussione l’indipendente esercizio del potere di indagine della magistratura, come dimostra un intero anno della sua azione di governo".

L’ufficio stampa del ministero ricorda anche che la Procura di Terni "ha aperto una indagine sulla fuga di notizie e il potere di vigilanza del Guardasigilli è strettamente funzionale al buon andamento della amministrazione della giustizia, ciò che costituisce comune interesse del ministro, dei magistrati, della magistratura inquirente e di tutti i cittadini italiani".

Giustizia: caso don Gelmini; intervento dello psichiatra Meluzzi

 

Affari Italiani, 8 agosto 2007

 

La vicenda di don Pierino impone alcune riflessioni e qualche osservazione critica. Primo: gli esiti di questa vicenda e quello che produrrà sul mondo delle comunità terapeutiche e in generale sul mondo del disagio, sono ancora da misurare. Se questo è stato fatto al legno verde, come dice il Vangelo, che sarà del legno secco?

Questa dimensione di poter vedere colpito direttamente, immediatamente, mediaticamente senza prove un uomo della forza, del carisma, e anche della caratura umana e sociale di don Pierino spingerà domani chiunque voglia tentare di affondare qualsiasi barca, alla pratica della calunnia e della denigrazione. Segnali di tutto ciò mi dicono già stanno emergendo, in una sorta di emulazione negativa che assomiglia a quella del lancio dei sassi dal cavalcavia. Credo che dovremmo ancora misurare fino in fondo tutti i suoi esiti. Questo ci fa riflettere un’ennesima volta sul rapporto che lega le inchieste giudiziarie con i meccanismi dell’informazione di massa. Ci diceva già Mortati che il processo penale è già in sé una pena.

Nell’era mediatica si può essere distrutti, o perlomeno si può cercare di distruggere, ancora prima che l’interessato sia stato informato su quali sono le cose di cui viene accusato da chi, come e quando. Questo potrà produrre una specie di orrenda mutazione antropologica nel costume, e non solo nella giurisprudenza e nel diritto ma in tutto il funzionamento della vita civile e della convivenza in particolare in quelle aree in cui il disagio e la fatica di vivere, la follia, la devianza e quant’altro, si manifestano e vivono. Un mondo trasformato in una specie di legge del carcere in cui gli agenti di custodia sono terrorizzati spesso dalla legge del ricatto di coloro che sono detenuti nel carcere stesso perché la conoscenza dei meccanismi e una certa spietatezza attraverso la calunnia può distruggere chiunque. La seconda considerazione riguarda invece la Chiesa. In questo caso mi pare che le emergenze siano due. La prima è quella di questa singolare denuncia-intervista di don Antonio Mazzi circa la vicenda di don Pierino, citando i racconti di un ragazzo ospitato in passato dalla sua comunità. Raccontando una storia di disagio e di malessere è un po’ come se uno psichiatra rivelasse i suoi segreti professionali o rivelasse i contenuti di una seduta psicoterapeutica di un suo paziente su un giornale.

Insomma, siamo in una dimensione in cui non soltanto l’etica professionale è chiamata in causa ma direi la natura stessa della riservatezza delle funzioni di un prete cattolico. Voglio ricordare che c’è nel Santuario delle Grazie sopra Rimini l’urna di un santo frate martirizzato con un elmo arroventato nel 1450 circa da Sigismondo Pandolfo Malatesta perché non voleva rivelare i contenuti della confessione dell’amante di Sigismondo, Isotta da Polenta. Invito don Mazzi a un pellegrinaggio di preghiera e di riflessione di fronte all’urna di questo santo frate. Non è in causa la presunta omertà nei confronti dei magistrati inquirenti. Qui non si tratta tanto di fatti giudiziari quanto di un presenzialismo mediatico totalmente fuori luogo.

Circa poi le esternazioni del cardinale Marchisano a proposito dell’opportunità che don Pierino si ritiri, come fece Gabriel Maciel, fondatore dei Legionari di Cristo, accusato di omosessualità. Devo dire che la richiesta appare intempestiva, anche perché don Pierino ancora non sa neppure da chi e di che cosa è accusato. E oltretutto stupisce un po’ oltre all’intempestività anche l’imperfetta conoscenza del problema da parte di questo Principe di Santa Romana Chiesa.

La Comunità Incontro, infatti, non è come i Legionari di Cristo un’organizzazione di vita consacrata o forse, come credo, un’associazione riconosciuta di fedeli, quindi comunque un ente ecclesiastico; bensì, come recita il suo stesso statuto, una fondazione laica e autonoma che esplicitamente ha voluto essere tale per non coinvolgere direttamente la chiesa e la sua autorevolezza in una esperienza di frontiera.

Pensare che don Pierino debba disgiungere i suoi destini da quelli della comunità, è un’autentica follia. La comunità, se sarà necessario, si farà processare insieme al suo fondatore e condividerà insieme a lui fino in fondo questa gioiosa salita al calvario. Una salita al calvario che ha come orizzonte la verità. Quella verità, che come dice il nostro Maestro Gesù di Nazareth, è l’unica forza che ci può rendere liberi.

 

Alessandro Meluzzi

Giustizia: anche l’Assistente Sociale è un "lavoro usurante"

 

Blog di Solidarietà, 8 agosto 2007

 

Con preghiera di inviare l’appello agli onorevoli promotori della proposta di legge e per conoscenza alle varie OO.SS. del settore penitenziario. Agli On.li Silvio Crapolicchio e Ferdinando Benito Pignataro.

Illustri Onorevoli, gli Assistenti Sociali firmatari, nel ringraziare le S.S.L.L. per l’attenzione posta alle figure professionali che operano nel mondo penitenziario, con la Loro proposta di legge recante "Norme in materia previdenziale in favore di lavoratori e lavoratrici del sistema penitenziario" chiedono che vengano indicate più esplicitamente le "figure professionali, sia interne che esterne" che operano in connessione con l’istituzione carceraria, visto che non viene fatto riferimento né all’area trattamentale né al ruolo del Servizio Sociale.

Invero, la Loro proposta, pur se apprezzabilissima perché considera una serie di problemi e disagi vissuti da chi opera nel mondo carcerario, ha però il limite, ci si consenta la critica, di muovere da una visione dell’esecuzione penale "monodimensionale", cioè solo come "intramuraria". Orbene, anche in ambito strettamente carcerario è fondamentale il ruolo attribuito al Servizio Sociale dall’Ordinamento Penitenziario.

L’Assistente Sociale, infatti, non solo partecipa come soggetto obbligatorio all’équipe di osservazione e trattamento, ma è la professionalità di collegamento cui il detenuto si rivolge per il mantenimento del rapporto con il suo ambiente familiare e di provenienza.

Spesso gli interventi dell’Assistente Sociale sono estremamente utili per "tranquillizzare" il detenuto, ed abbassare così anche la tensione nella struttura penitenziaria, aumentandone la sicurezza. Tuttavia, come dicevamo, la visione dell’esecuzione penale, così come prospettata nella Loro proposta non considera tutta un’ altra dimensione che essa ha: quella dell’esecuzione penale esterna.

Questa dimensione, che ha pari dignità con quella intramuraria, sia per numeri che per contenuti, e che dà compiuta attuazione al secondo comma dell’art. 27 della Costituzione, vede il Servizio Sociale come professionalità di base a cui il legislatore affida il reinserimento sociale del condannato ed addirittura il controllo di una particolare Misura Alternativa che è l’Affidamento in prova al Servizio Sociale.

Fino ad oggi gli Assistenti Sociali hanno sempre adempiuto al loro compito nel modo migliore possibile (fanno fede gli stessi dati del Dap), nonostante la scarsità di personale, con i Cssa (oggi Uepe) sempre endemicamente sotto organico, con carichi di lavoro spesso ingestibili; da soli ad "inseguire " gli utenti in ambienti non certo rassicuranti (pensino alle Vele di Secondigliano o a Comuni ad altissima densità criminale come Casal di Principe, San Cipriano d’Aversa nel Casertano ecc.); in rapporto continuo con una umanità (dentro e fuori dal carcere) che, comunque la si voglia giudicare, si trova in un periodo difficilissimo della propria vita, e che perciò stesso tende a scaricare sulla figura professionale dell’Assistente Sociale il proprio disagio, la propria sofferenza, i propri problemi, che annichiliscono l’operatore quando si rende conto di non poter intervenire in maniera compiuta, spesso nel silenzio di un territorio non attrezzato e talvolta non interessato al reinserimento sociale effettivo della persona condannata; e ciò è particolarmente vero, come è noto, in alcune realtà geografiche.

Se le S.S.L.L. avessero la possibilità di parlare direttamente con questi operatori, verrebbero a conoscenza di una miriade di casi drammatici che non lasciano indifferenti e che coinvolgono nel profondo l’umanità dell’operatore.

Quello dell’Assistente Sociale Penitenziario è un lavoro che non consente di "staccare la spina", di attenersi rigidamente all’orario di lavoro: "il caso" e le sue implicazioni drammatiche seguono l’operatore anche a casa, anche in ferie!

Non a caso il burnout è una malattia professionale molto diffusa.

Tutto ciò però non è mai stato valorizzato, anzi oggi viene del tutto misconosciuto: agli Assistenti Sociali è stata tolta l’indennità di missione (che già di per sé era una miseria: pochi centesimi a ora); non viene riconosciuto l’aumento dei giorni di ferie annuali, col passare degli anni; così come non viene riconosciuto nessuno dei benefici che vengono invece elargiti alla Polizia Penitenziaria e ai Dirigenti, pur non avendo questi ultimi, per la funzione che svolgono, nessun contatto con le persone condannate e con gli ambienti a rischio; soprattutto, il lavoro dell’Assistente Sociale Penitenziario non viene riconosciuto come lavoro usurante.

Ecco perché i firmatari di questo appello chiedono alle S.S.L.L. di indicare chiaramente nella proposta di legge di cui sono autori, il Servizio Sociale come professionalità importante nel mondo penitenziario, con l’estensione anche agli Assistenti Sociali del riconoscimento del lavoro usurante e dei benefit di cui gode la Polizia Penitenziaria, al fine di sancire la "pari dignità" tra tutte le figure professionali che operano nel Penitenziario.

Polizia Penitenziaria negli Uepe: un "bel mistero da svelare"...

 

Blog di Solidarietà, 8 agosto 2007

 

Un altro mistero che dovrebbe essere svelato è questa decisione di introdurre la polizia penitenziaria negli Uepe. Ripetutamente sui giornali di tutta Italia si susseguono le lamentele degli agenti di polizia penitenziaria relativamente alle carenze di personale. A che scopo, quindi, trasferirli presso un servizio che dovrebbe essere appannaggio degli assistenti sociali? Forse che gli assistenti sociali non lavorino bene? Siano impreparati? Non diano un buon servizio? Perché non si è più chiari su queste decisioni?

Mi sembra che fra tanto dire, sia sfuggita una sfaccettatura che andrebbe posta in evidenza, una sfaccettatura d’immagine. Un’immagine non apparente, ma sostanziale. 32 anni di lavoro degli Assistenti Sociali della Giustizia tenuti nascosti dall’Amministrazione penitenziaria, un lavoro di costruzione di reti sul territorio, sia con gli Enti Locali che col Volontariato ed il Terzo Settore, non meno che con la Polizia di Stato ed i Carabinieri, con cui sono state condivise le misure alternative alla detenzione e le misure di sicurezza extradetentive.

I Cssa prima e gli Uepe dopo, hanno sempre vissuto e vivono un oscurantismo da parte del Dap, mentre ora, coi nuclei di verifica, i Poliziotti Penitenziari, saranno i portatori dei buoni risultati ottenuti in questi anni dai Cssa/Uepe, pur non essendo cambiata la tipologia di condannati e a fronte dei positivi riscontri sulle misure alternative alla detenzione delle ricerche universitarie.

Quale migliore momento per mietere il successo? Il Dap, attraverso la Polizia Penitenziaria, già in TV, porterà l’immagine di questi buoni risultati alla popolazione.

Nuclei di verifica di polizia penitenziaria, con quei mezzi ed uomini sempre negati agli Uepe, che in accordo con il Ministero degli Interni ed un impiego di controllo limitato a stretti ambiti territoriali e su indicazioni degli Uepe daranno il via ad una sperimentazione ben preparata, a rischio zero, che cioè non può fallire! Ne perderebbe l’immagine non solo il Corpo di polizia Penitenziaria, ma la stessa Amministrazione Penitenziaria. E, si sa, quel che conta è un buon inizio per presentarsi sul territorio.

I giornalisti percepiranno solo così la realtà delle misure extradetentive, finalmente, anche se invero, sarebbe tempo, che quegli stessi giornalisti ed i mass-media in generale, si accorgessero anche della realtà reale, per quella che è, e non solo pescando informazioni solo dagli uffici stampa ministeriali.

Gli assistenti sociali si possono usare e denigrare quando non soddisfano le aspettative di chi li vorrebbe come li desiderano. Essi non hanno immagine, non sono tutelati nell’immagine dal proprio datore di lavoro, né dai Sindacati in maniera adeguata.

La loro visibilità è diafana, non si sono resi visibili alla gente in 32 anni, e di questo ne sono in buona parte colpevoli, eppure seguono oltre 50.000 condannati adulti l’anno, sopratutto in esecuzione penale extradetentiva con trattamenti psico-sociali individualizzati e progetti, di sicuro valore professionale che incide significativamente sull’abbattimento della recidiva.

L’invisibilità è tuttavia la loro connotazione, un non essere presenti nella storia, nella politica, nell’Amministrazione penitenziaria ed il Dap sceglie altri, per dare visibilità all’esecuzione penale extra-detentiva, cogliendo la richiesta di una società che vuole "vedere polizia" più che "sapere" che le misure alternative alla detenzione funzionano anche senza altra polizia, perché già funziona quella che c’è. Così, c’è chi ha costruito, ma non si vede e chi si vede e raccoglie.

Forse però, lo dico senza rinunciare alla speranza, sarebbe tempo che anche gli assistenti sociali della Giustizia uscissero dal nascondimento, che accettassero una veste, che fossero categoria, che evitassero le divisioni sindacali, che mostrassero con forza la loro identità professionale, che c’è, che si unissero al di là del colore, che incominciassero a dimostrare di "essere", che incominciassero a fare politica.

Trentadue anni di storia d’Italia, di esecuzione penale extradetentiva dei condannati adulti, con una recidiva bassissima, che ha fatto venire meno l’ergastolo bianco, che ha riconvertito i condannati in cittadini rispettosi delle leggi, che ha prodotto reinserimenti sociali significativi, che ha permesso a tossico ed alcool-dipendenti, ammalati di mente, ma anche comuni cittadini di sperimentare un rapporto con l’autorità non violento, seppure sotto un regime di controllo e direttivo, di non può passare inosservata, coperta da un fascio di luce blu che tende a coprire, cancellandolo, tutto un passato, fatto d’impegno, di sofferenza, di studio, di confronto, di aperture e promozioni, di sensibilizzazione ai vari soggetti sociali ed istituzionali, con mezzi e risorse ridottissimi.

Così, senza nulla togliere a chi di questa luce blu sarà portatore, perché la politica ed i tempi storici vanno rispettati, ritengo che proprio per la democrazia e la giustizia, quella giustizia che non è controllo formale e rispetto di regole, si deve vedere emergere quella luce bianca che gli assistenti sociali della giustizia non hanno finora saputo proiettare, in parte per impedimento, in parte per inconsapevolezza, in parte per incapacità di sapersi mostrare nell’agorà sociale e politica, ma che è parte stessa di un agire professionale che continua a permettere quell’inclusione sociale pacifica, senza la quale si rischia di tornare con un balzo all’indietro, ad un’esecuzione penale meramente retributiva, in un periodo storico in cui tutta l’Europa sta riscoprendo una variabilità di misure alternative e sostitutive alle detenzione, affidate ad agenzie di mediazione sociale.

Vercelli: detenuto in permesso fa incidente con auto rubata

 

Adnkronos, 8 agosto 2007

 

Per sfuggire ai carabinieri, a bordo di un'auto rubata ha causato un incidente nel quale è rimasta lievemente ferita una bimba di 7 anni: è accaduto ieri a Trino Vercellese dove i carabinieri sono poi riusciti a bloccare e arrestare per violenza e resistenza a pubblico ufficiale, omissione di soccorso e furto aggravato un torinese di 33 anni pluri-pregiudicato che in quel momento si trovava in permesso premio dal carcere di Castelfranco Emilia dove era detenuto. L'inseguimento è iniziato intorno alle 13 quando una pattuglia dell'Arma ha intercettato una Fiat Punto che è risultata rubata poco prima a Verolengo. Durante la fuga, a causa dell'alta velocità, la vettura dell'uomo si è scontrata con una seconda macchina su cui viaggiavano una donna con la figlia di 7 anni, andandosi poi a ribaltare in un campo. Il fuggitivo è riuscito a uscire dall'abitacolo e ha tentato di scappare a piedi ma è stato raggiunto dai carabinieri che lo hanno immobilizzato dopo una colluttazione durante la quale uno dei militari ha riportato alcune lesioni che sono poi state curate al pronto soccorso di Vercelli. Dai controlli dopo l'arresto è emerso che l'uomo era detenuto e che in quel momento stava usufruendo di un permesso premio di 15 giorni. Nello scontro fra le due vetture la donna alla guida dell'auto speronata dal malvivente è rimasta illesa mentre la bimba ha riportato alcune lesioni al volto, fortunatamente di lieve entità.

Bologna: niente cure ai detenuti stranieri tossicodipendenti

 

Sesto Potere, 8 agosto 2007

 

Nel 2006 il Servizio tossicodipendenze (Ser.T.) ha seguito all’interno del carcere della Dozza di Bologna ben 928 persone, di cui 468 stranieri. Ma per i cittadini extracomunitari clandestini con problemi di tossicodipendenza che finiscono dietro le sbarre "non c’è nessuna possibilità di concretizzare percorsi di cura, per ragioni economiche, ma anche per l’ambiguità normativa del Testo unico sull’immigrazione".

È lo stesso Ser.T. a certificare, nero su bianco, che per questi detenuti non è possibile l’accesso ai percorsi di recupero. "Di fatto, i tossicodipendenti irregolari restano in carcere anche se richiedono di sottoporsi a programma terapeutico, fatta salva la somministrazione del metadone", afferma Desi Bruno, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna. E questo, aggiunge, non è un problema solo di Bologna, ma "di carattere nazionale".

Per cui, Bruno ha deciso di sottoporre la questione al ministro della Salute, Livia Turco, e al ministro dell’Interno, Giuliano Amato, con una lettera (pubblicata poi sul suo sito).

Infatti, scrive il Garante, "si tratta di un problema di gravità assoluta, che si inserisce in un contesto di forte disagio per la popolazione extracomunitaria". Il Garante dei detenuti, dunque, ritiene che la tossicodipendenza "debba rientrare tra le malattie per le quali va garantita la possibilità di cura, da ritenersi essenziale, per ovvi motivi, a tutela del diritto alla salute individuale e collettiva". Ma ottenere questo riconoscimento appare difficilissimo. Messi in fila problemi e norme in vigore, il Garante chiede quindi a Turco e Amato "di voler esprimere il loro autorevole parere" sulla faccenda.

Bari: è partito Progetto "Chiccolino", un presidio di legalità

 

Comunicato stampa, 8 agosto 2007

 

Mercoledì 25 luglio 2007 sul lungomare di Fesca (Bari), gli assessori ai Lavori Pubblici, Simonetta Lorusso, e alle Politiche Sociali Susi Mazzei del Comune di Bari, insieme alla dottoressa Maria Luisa Ciaravolo, Direttore dell’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni di Bari e alla Dottoressa Antonella Bellomo, funzionario della Prefettura di Bari, hanno inaugurato il cantiere del progetto "Chiccolino".

L’opera è finanziata per circa 450.000 Euro con i fondi del Pon "Sicurezza per lo sviluppo del Mezzogiorno d’Italia" del Ministero dell’Interno e con quelli della Civica Amministrazione barese. L’intervento prevede la ristrutturazione dell’immobile sito al n. 78 del lungomare IX Maggio, confiscato alla malavita, e la sua successiva destinazione a Comunità educativo - residenziale per minori provenienti dall’area penale (come previsto dall’art. 10 del decreto legislativo 28.07.1989, n. 272).

Nello specifico verranno realizzati spazi destinati alla relazione (sala incontri, sala da pranzo, 2 sale laboratorio, biblioteca), all’amministrazione, alle udienze e colloqui, ai servizi e agli impianti, oltre - ovviamente - spazi personali per i minori residenti. I percorsi educativi destinati ai minori tra i 14 e i 18 anni, selezionati dall’autorità giudiziaria, si articoleranno in tirocini formativi, completamento degli studi e sostegno alla socializzazione, consentendo a ciascuno di scoprire le proprie inclinazioni e reinserirsi nel contesto sociale. Anche la scelta di non spezzare i legami con il territorio, pur allontanando i minori dalle famiglie di provenienza, rientra in un approccio complessivo teso al riscatto dei ragazzi. Si tratta di un presidio di legalità in un territorio segnato da storie di criminalità e violenza. Un segnale inequivocabile.

"Chiccolino" è un progetto che guarda alla condizione complessiva dei minori "a rischio" sul nostro territorio e mette in rete i Comuni di Bari, Bitonto e Modugno con il coinvolgimento dell’Istituto Penale Minorile "Fornelli". Oltre alla Comunità residenziale per minori provenienti dall’area penale di Bari, grazie a "Chiccolino", in territorio di Modugno e Bitonto sorgeranno due centri per minori e famiglie in difficoltà, mentre all’interno del "Fornelli" sono già in corso di avanzata realizzazione un campo di calcio ed uno di calcetto in erba sintetica.

Droghe: Venezia; guida "drogata", investe e uccide due turisti

 

La Repubblica, 8 agosto 2007

 

Guidava sotto l’effetto della droga. Ha fatto una strage: ha ucciso due turisti rumeni che stavano rientrando in albergo dopo aver mangiato una pizza. La tragedia si è consumata a Stra, cittadina a una ventina di chilometri da Venezia, in Riviera del Brenta. Le due vittime, Georg e Mariana Duta di 47 e 45 anni, marito e moglie, facevano parte di un gruppo di turisti giunti dalla Romania per un tour in Italia e alloggiavano al Park hotel Venezia.

Erano circa le 22 di lunedì quando la Suzuki Baleno, condotta da Paola Castegnaro di 44 anni, residente a Fiesso d’Artico, un altro paese della Riviera del Brenta, ha falciato e ucciso la coppia di turisti rumeni che stava attraversando la strada sulle strisce pedonali. L’auto ha "abbattuto" i coniugi come birilli e ha concluso la sua folle corsa dopo una cinquantina di metri. Dalla vettura è scesa Paola Castegnaro in evidente stato confusionale: nervosa, assente, agitata. L’arrivo dei carabinieri è stato provvidenziale, perché gli altri connazionali delle due vittime avevano tutta l’intenzione di regolare i conti con la donna.

Dopo una notte trascorsa al reparto psichiatrico dell’ospedale di Dolo, ieri mattina, Paola Castegnaro è stata trasferita nel carcere femminile della Giudecca. Il magistrato di turno, Alessia Tavernesi, le contesta il reato di omicidio colposo dando applicazione alle nuove norme introdotte dal decreto legge Bianchi che inasprisce le pene in materia di infrazione al Codice della Strada. Subito dopo il tremendo incidente, i carabinieri di Dolo l’hanno salvata da un vero e proprio tentativo di linciaggio dà parte dei connazionali delle due vittime.

Il primo sospetto era che fosse ubriaca, ma l’alcol-test ha dato esito negativo. I militari non si sono fatti ingannare e hanno deciso di portare la donna in ospedale per approfondire gli accertamenti: troppo innaturale la sua confusione emotiva. E la percentuale di "fumo" riscontrata nel sangue in fortissime concentrazioni fa ritenere che l’assunzione di hashish possa essere avvenuta poco prima del terribile investimento.

Disperati i componenti della comitiva, fra cui il fratello della rumena deceduta. Era il primo giorno di vacanza. La cena nella pizzeria di fronte all’albergo, poi un gelato, quindi il rientro in camera: il giorno seguente li aspettava un programma impegnativo. Invece i sogni si sono infranti assieme alla vita, sull’asfalto della statale, spazzati da una macchina, che viste le condizioni dell’automobilista, era una vera e propria bomba a orologeria. Georg è morto sul colpo, Mariana è spirata nell’ambulanza del Suem.

Da quanto si è potuto ricostruire i problemi di Paola Castegnaro con gli stupefacenti sarebbero iniziati durante l’adolescenza, imprigionandola in una spirale sempre più devastante. La sua famiglia - i genitori, che ormai non ci sono più, e i suoi tre fratelli - ha fatto di tutto per aiutarla. Senza un lavoro fisso era seguita dal Ser.T. di Dolo dove pare le avessero trovato anche un impiego. Resta da capire come mai, visto la storia personale border-line costellata da un disagio a quanto pare anche psichico, nessuno abbia pensato anche alla sospensione della patente.

Droghe: Rifondazione; in carcere per 12,5 grammi di "fumo"

 

Notiziario Aduc, 8 agosto 2007

 

"Le nostre peggiori ipotesi sui danni nefasti della legge Fini-Giovanardi sono confermate": lo afferma il responsabile droghe del Prc, Francesco Piobbichi, commentando la notizia dell’arresto a Terni di due sorelle incensurate, rinchiuse in carcere perché trovate in possesso di 25 grammi di hashish.

"Se a Terni - argomenta Piobbichi - tutti quelli che hanno qualche decina di grammi di fumo in tasca venissero arrestati, non basterebbe lo stadio Liberati a contenerli. In un paese dove scorrono tonnellate di cocaina controllate dalla ‘ndrangheta, e dove i politici si danno ai coca party, non passa giorno in cui non si rovina la vita a persone normali, incensurate, che vengono arrestate solo perché non calcolano bene le quantità minime".

"Visto che l’Unione non si sbriga ad abrogare la Fini-Giovanardi, come prevede il programma è utile che diamo la scossa e la sveglia a questo governo il 20 ottobre" con la manifestazione indetta da Manifesto e Liberazione contro il precariato. Le due sorelle, di 33 e 39 anni, sono state arrestate dai carabinieri della compagnia di Terni per detenzione di sostanze stupefacenti. Le due donne erano a bordo di una Opel Corsa, che è stata fermata alla periferia della città per un controllo. Il loro nervosismo ha insospettito i carabinieri, che hanno perquisito la vettura trovando 25 grammi di hascisc. Le due sorelle sono state subito rinchiuse nel carcere di Vocabolo Sabbione.

India: dal carcere di Mandi l'appello di un giovane italiano

 

Libertà, 8 agosto 2007

 

"Ti voglio bene, un grosso bacione. Non lasciarmi morire in India". Si conclude con questo appello disperato la lettera che Angelo Falcone ha spedito qualche giorno fa al padre Giovanni dal carcere indiano di Mandi. Quattro pagine scritte di proprio pugno che fanno venire la pelle d’oca. "Qui non ci dicono niente di niente, speriamo che gli avvocati si diano da fare altrimenti siamo finiti - si legge nella missiva -. Il tempo non passa mai, non si sa con chi parlare. Ci sono momenti che vorrei che tutto finisse".

Il bobbiese finito nei guai, assieme all’amico Simone, per una confusa storia di droga ringrazia genitori e familiari per la loro battaglia: "Provate tutte le strade per farci tornare presto a casa. Ti prego pà, fate di tutto. Perché devo stare in carcere per niente? Perché devo soffrire così? Perché a me va sempre tutto storto?". Ancora una volta, il 27enne ribadisce la innocenza sua e dell’amico: "Non siamo delinquenti, questo caso è stato montato dalla polizia". Angelo racconta anche delle dure condizioni di vita in carcere ("C’è un’afa da morire, anche muoversi diventa una sofferenza. Non mettono il becco nel cortile nemmeno gli indiani, figuriamoci noi che siamo abituati al clima di Bobbio") e manda un saluto a tutti coloro che in questi mesi gli hanno scritto (a questo proposito l’indirizzo è Mr. Angelo e Mr. Simone c/o Superintendant Sub-Jail - Jail Road 175001 Mandi - India).

Intanto è slittata a venerdì l’udienza davanti al giudice di Mandi che dovrà decidere il rinvio a giudizio o meno di Angelo e Simone. "Mercoledì (domani, ndr) proverò a chiamare direttamente mio figlio per saperne di più. Parlando con gli avvocati mi è parso di capire che questa sarà la volta buona", spiega Giovanni Falcone. Proprio ieri il padre del 27enne ha costituito ufficialmente l’associazione Onlus "Le ali della libertà" che si occuperà di aiutare i parenti di italiani ingiustamente detenuti all’estero. Il sito sarà on-line al più presto.

Nei giorni scorsi, infine, il ministro degli Affari esteri Massimo D’Alema ha risposto al sottosegretario del ministero dell’Economia Mario Lettieri: "Il caso è seguito con la massima attenzione sia da questo ministero, sia dall’ambasciata italiana a New Delhi. L’ambasciatore in persona è intervenuto ad alto livello al fine di sollecitare uno svolgimento il più rapido possibile della fase istruttoria". All’ambasciata italiana sarebbero già pervenute le prime documentazioni prodotte sul caso dalla polizia indiana e nei giorni scorsi Giovanni Falcone avrebbe dovuto riceverle per mostrarle anche ad avvocati italiani. Ma al momento nessuna busta è giunta a destinazione.

India: 700 donne all’anno uccise dalla "caccia alle streghe"

 

Redattore Sociale, 8 agosto 2007

 

Oltre 700 le donne uccise l’anno scorso, ma meno del 2% dei responsabili viene condannato per omicidio. La testimonianza di Tara Ahluwalia, assistente sociale: "Manca una legge nazionale".

In India sono numerosi i casi di caccia alle streghe nelle aree rurali di circa dodici stati, principalmente nel nord e nel centro del paese. Oltre 700 donne sono state uccise lo scorso anno perché sospettate di essere streghe, secondo quanto riportano i media nazionali. Swati Safena, giornalista indiana indipendente, dedica a questo problema un articolo pubblicato da "La nonviolenza è in cammino", quotidiano telematico del Centro di ricerca per la pace. "Sono zone in cui la povertà è estrema, e in cui le persone hanno scarso o nessun accesso ai servizi sanitari di base e all’istruzione", racconta alla giornalista Tara Ahluwalia, un’assistente sociale della città di Bhilwara, che aiuta le vittime della caccia alle streghe.

"In queste circostanze, la superstizione acquista forza. I problemi sono tanti: cattivi raccolti, morti in famiglia, la perdita di un bimbo, malattie croniche o il prosciugarsi dei pozzi, ma la soluzione resta identica: identificare la strega responsabile e punirla". Etichettare una donna come strega è il modo comune di avere più terra, cancellare le dispute o vendicarsi se lei ha rifiutato una proposta sessuale.

Ci sono anche casi documentati in cui una donna viene presa di mira perché ha un carattere forte ed è perciò vista come una minaccia. Nella maggioranza dei casi è difficile per le donne accusate ottenere aiuto dall’esterno, ed esse sono forzate a lasciare la casa e la famiglia o a suicidarsi, oppure vengono brutalmente assassinate.

"Molte vicende non sono documentate perché è difficile per le donne viaggiare da regioni isolate sino ai luoghi in cui possono fare denunce", spiega ancora Ahluwalia. "E poiché la violenza è diretta largamente contro le donne, la polizia spesso omette di prenderla sul serio. Nel migliore dei casi, la rubricano come un disagio sociale che deve essere risolto all’interno della comunità. Quando una donna ce la fa a raggiungere la stazione di polizia, l’atteggiamento apatico dei funzionari le rende ancor più difficoltoso il processo di sporgere una denuncia".

Una soluzione adottata da Ahluwalia è quella di non condurre le vittime alla polizia, ma di sollecitare la riunione del "jaati panchayat", e cioè del gruppo di persone più rispettate in seno ai villaggi a cui è demandata la risoluzione delle dispute. La pressione sociale assicura che le decisioni prese in questo modo verranno rispettate. L’assistente sociale usa questo sistema da venticinque anni. Solo pochi tra i 28 stati indiani, come Jharkhand e Bihar, hanno una legge contro la caccia alle streghe.

"È l’handicap maggiore", dice ancora Ahluwalia. "Nella maggioranza degli stati non c’è legge sotto cui la polizia possa rubricare il reato. Si tratta di tentato omicidio, ma in assenza di una legge specifica, la polizia registra la denuncia sotto la più mite Sezione 323. Che consiste in questo: diciamo che io ti dia uno schiaffo oggi, e il reato cade sotto la 323. Se dico che sei una strega, e quindi ti costringo a mangiare escrementi, ti faccio sfilare nuda in pubblico e ti picchio sino a che muori, questo va ancora sotto la 323". La pena massima che questa legge prevede è un anno di prigione o una multa di mille rupie (circa 25 dollari).

Nel Rajasthan, la Commissione statale per le donne ha presentato una proposta di legge che inasprisce le pene, chiedendo dieci anni di prigione per chi ferisce una donna durante una caccia alla strega. "Un notevole numero di casi avviene nel Rajasthan, eppure il progetto di legge sta aspettando da un anno, e ancora non è passato all’esame del governo", nota Kavita Srivastava, segretaria nazionale della più antica organizzazione per i diritti umani indiana, l’Unione del popolo per le libertà civili. Meno del 2% di coloro che vengono accusati di aver effettuato cacce alle streghe sono effettivamente condannati, secondo uno studio compiuto dal "Free Legal Aid Committee", un gruppo che lavora a favore delle vittime nello stato di Jharkhand.

"Le punizioni per questa orrenda violenza devono essere severe", dice la dottoressa Girija Vyas, presidente della Commissione nazionale per le donne. "Ed è di uguale importanza pubblicizzare l’esistenza delle leggi. Voglio dire, negli stati in cui abbiamo una legge contro la caccia alle streghe, quante sono le donne che ne sono a conoscenza?". La Commissione ha raccomandato la formazione per le forze di polizia, affinché i funzionari diventino più ricettivi nel considerare i casi di caccia alle streghe, e sta pensando a una legislazione a livello nazionale. Ma l’educazione e la consapevolezza sociale sono le vere chiavi. In numerose comunità rurali l’ohja, o medico-stregone/strega, è una figura potente, soprattutto in assenza di ambulatori e servizi sanitari di base. Nei casi riportati dai media, l’investigazione della polizia ha spesso rivelato che gli "ohja" accettano prebende per accusare una donna di essere una strega.

"Etichettare una donna come strega non solo la depriva economicamente, ma erode il suo senso di fiducia e autostima", dice ancora la dottoressa Vyas. "Anche se ottiene di salvarsi la vita, porta il peso del sospetto e dell’odio della sua comunità, e a volte persino della sua stessa famiglia. È un problema sociale a più dimensioni e richiede un piano d’azione complesso e a più livelli".

 

 

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