Rassegna stampa 26 agosto

 

Giustizia: Vassalli; magistrati, più coraggio contro gli incendiari

 

Il Giornale, 26 agosto 2007

 

"I magistrati hanno tutti gli strumenti per arrestare e tenere in galera gli incendiari che sconvolgono l’Italia. Ma, troppo spesso, non lo fanno e questo è di una gravità inaudita".

L’atto d’accusa è di Giuliano Vassalli, grande penalista, già ministro della Giustizia e presidente della Corte costituzionale. Che, di fronte ai roghi assassini, invoca "giusta severità". E punta il dito anche contro il "regionalismo eccessivo", che comporta ima frammentazione eccessiva di competenze come quelle dell’agricoltura e della Protezione civile, riducendo lo Stato a "funzioni sussidiarie".

 

Professore, l’allarme di questi giorni porta alcuni a chiedersi se ci sia bisogno di nuove fattispecie di reato per combattere efficacemente quello che è stato definito "terrorismo ambientale". Lei che cosa ne pensa?

"La verità è che, in queste circostanze, emergono i difetti della nostra magistratura. Le pene previste dal codice sono alte e gli strumenti necessari ci sono, perché non esiste solo la fattispecie dell’incendio doloso ma quella specifica configurata dall’articolo 423-bis di incendio boschivo. Ci sono tutti gli spazi per arrestare e tenere in prigione i sospetti piromani, nella fase istruttoria. Invece, molti magistrati purtroppo non si conformano a questa linea, disponendo la carcerazione preventiva. Così, alcuni colpevoli vengono presi e subito dopo rilasciati: è una cosa pazzesca!".

 

Perché? I magistrati non sono abbastanza preparati in materia? Così sembra pensarla il ministro per le Politiche agricole Pecoraro Scanio, che ha chiesto al Csm di organizzare corsi di formazione per le toghe su questi reati.

"Ma mi faccia il piacere! Non c’è alcun bisogno di corsi di formazione specifica, non siamo mica di fronte a reati particolarmente complessi: ce ne sono altri che lo sono molto di più. Certo, abbiamo ministri di competenza molto relativa! Qui si tratta solo di applicare le leggi, che offrono tutte le possibilità necessarie. Se invece aspettiamo i corsi di formazione...".

 

Da Napolitano a Prodi, da Mastella a Pecoraro Scanio vengono appelli ad essere inflessibili, alla "tolleranza zero"…

"Ci vuole giusta severità, nulla di più. I presupposti ci sono. Ma se neppure quando fermano uno, com’è successo, con gli inneschi addosso, lo tengono dietro le sbarre, dove arriviamo? C’è l’arresto in flagranza ma non bisogna sempre aspettare di fermare il colpevole mentre accende il fuoco. Queste sono sottigliezze".

 

Le condanne, per incendi boschivi, in questi anni sono state pochissime in Italia.

"Mi rendo conto della difficoltà delle indagini e di reperire le prove. Ma proprio per questo insisto: di fronte a fatti così gravi, la carcerazione preventiva, senza sconti, ha anche una funzione deterrente".

 

Parlare di "terrorismo ambientale" è corretto?

"Ci ho pensato, ma vedo che spesso ad appiccare gli incendi sono contadini, pastori, allevatori che hanno moventi mostruosamente egoistici e antisociali e difendono interessi individuali, però non hanno l’intenzione di far male agli altri. Non per questo sono meno pericolosi".

 

Mastella dice che i piromani sono come i terroristi e non si può sapere dove appiccheranno gli incendi. Per la prevenzione, si può fare di più?

"La prevenzione è difficile, sì. In questi giorni mi sono chiesto quanta colpa ha la Protezione civile. Ma poi ho letto che il 70 per cento degli addetti alla Protezione civile della Sicilia mentre esplodevano gli incendi era in ferie forzate. Si rende conto? Erano state imposte per risparmiare qualche soldo. Grandi responsabilità risiedono in questo regionalismo eccessivo, contro cui non si riesce più a far niente. Manca il potere centrale dello Stato.

Ma ci ricordiamo che i radicali vollero un referendum per abolire il ministero dell’Agricoltura e vinsero la loro battaglia? Ci sono volute, poi, varie acrobazie per ricostituirlo. Ma questo vuol dire che siamo di fronte ad un’abdicazione permanente dei poteri dello Stato e alcune funzioni fondamentali sono nelle mani delle regioni: agricoltura, Protezione civile. Si abdica anche alla giustizia. Così, lo Stato viene ridotto ad una funzione sussidiaria".

Giustizia: dopo ogni nuova tragedia si scatena la rissa politica

 

Famiglia Cristiana, 26 agosto 2007

 

L’applicazione della legge non può forzare le regole. Se si vuole maggiore rigore allora bisogna intervenire sulle norme, sulla società, sulla cultura e sulla prevenzione.

Forse la rissa non è la migliore reazione alla tragedia. Altra cosa, rispetto alla risposta collettiva, sono lo sconforto e l’esasperazione dei familiari. Volevo prendere in considerazione un incidente mortale causato in Piemonte da un conducente ubriaco; nel frattempo ci sono stati altri cinque casi simili. Allora non basta discutere delle sanzioni.

Certo, se si vuole una maggiore severità di fronte all’ecatombe occorre una specifica norma che preveda comunque l’arresto. Altrimenti sarà il magistrato a dover valutare l’esistenza e la consistenza degli elementi che tassativamente il codice prevede. L’interpretazione della norma e del fatto potranno portare a risultati diversi, difficilmente giudicabili da chi non ha gli elementi dei quali dispongono gli inquirenti.

Così anche per la detenzione di inneschi di fuochi: è prova di un’intenzione, è un atto preparatorio o e già un tentativo che autorizza l’arresto? Se si vuole maggiore rigore si può prevedere, per esempio, come per le armi, che il semplice porto di quegli oggetti consenta la privazione della libertà da parte del giudice. La conciliazione tra esigenze di sicurezza e garanzie della libertà personale non è facile.

Vi sono Paesi che danno maggior margine ai magistrati in rapporto al caso concreto, altri che ne disciplinano rigidamente i poteri, come in Italia. Il rumore delle manette ci preoccupa, giustamente, e altrettanto legittimamente vorremmo sicurezza. Non possiamo illuderci che l’equilibrio sia facile, certo non dobbiamo chiedere che la magistratura forzi in un senso o nell’altro le regole. La volontà di rigore si deve tradurre in nuove, ben formulate norme. Tuttavia non basta. L’alcol è una piaga che si estende, specie tra i giovani.

Se ne parla poco, come della crescente diffusione della droga. Gli interventi preventivi e curativi si riducono, le comunità calano, l’azione pubblica è inadeguata. Quei giovani sciagurati che dichiarano a un giornale che indaga nelle discoteche della Riviera di non voler rinunciare a bere e però guidare, di fregarsene della legge, hanno ragione in un punto: non basta la norma penale. Serve anche una lotta civile e morale.

Del resto, gli incendi richiamano l’urgenza di un impegno robusto contro mafia, corruzione, speculazione. Non per divagare e per rinviare "a monte", come si è detto meccanicamente per anni, ma per prendere decisioni esaurienti. A Sanremo è stata assassinata a coltellate una giovane per mano di un uomo già indagato per un delitto analogo. L’omicida, secondo le cronache, ingiuriava, minacciava e percuoteva la sua vittima.

Il delitto recente sembrerebbe aver chiarito il precedente, per il quale il pubblico ministero non aveva finora giudicato in coscienza di avere i gravi indizi di colpevolezza per applicare la custodia in carcere: donde accuse, insulti, truci striscioni al funerale dopo che un funzionario di polizia aveva, capovolgendo i ruoli, attaccato il magistrato per la sua valutazione dei fatti sui quali la stessa polizia aveva riferito. La procedura penale è il luogo degli indizi e delle prove, così vuole la legge. Il sospetto, la pericolosità per la sicurezza pubblica sono il campo delle misure di prevenzione, della polizia.

Almeno finché ingiurie e minacce, che non consentono ora l’arresto neppure se ripetute contro la stessa persona e vessatorie, non costituiranno un autonomo reato - con pene adeguate - che consideri il regime intollerabile cui danno vita, come avviene per i maltrattamenti in famiglia. Una previsione, finalmente, seria a protezione delle donne già tante volte straziate. Per non dire dei servizi di psichiatria, che aspettano troppo spesso di scoprire disagi mentali conclamati dopo i periti del tribunale. Ma preferiamo la rissa e poi la dimenticanza.

Calabria: territorializzazione della pena e miglior utilizzo agenti

di Pietro Fuda (Senatore calabrese del Gruppo Misto)

 

La Riviera, 26 agosto 2007

 

"Affrontare la materia penitenziaria, in Calabria come in Italia, significa cercare soluzioni per un problema che si trascina da decenni, e che registra forti ritardi. Mi sorprendono, e un po’ mi preoccupano, i giudizi estemporanei e frettolosi sui singoli dirigenti, staccati dal contesto nel quale si dovrebbe ragionare per dare un contributo reale: bisognerebbe invece interrogarsi sul compito dei parlamentari in materia, cercando di comprendere meglio punti di forza e di debolezza dell’intero sistema penitenziario.

Smettendo di illudersi che l’indulto sia la fine, e non l’inizio del riordino della materia. L’indulto, infatti, non è che il primo tassello di una strategia che doveva continuare verso il recupero ed il reinserimento dei detenuti, ispirata alle ottime esperienze dei sistemi del Nord Europa. Esiste una norma, che stabilisce il principio della territorializzazione della pena, secondo il quale il detenuto deve scontare la propria condanna in sedi penitenziarie prossime al luogo di residenza, ma è tuttora inapplicata, nonostante siano stati scarcerati oltre 20.000 detenuti e siano state svuotate le sedi penitenziarie su tutto il territorio nazionale.

In Calabria la sua applicazione immediata sposterebbe nelle carceri locali 1.865 detenuti (con sentenza passata in giudicato), attualmente ospitati in penitenziari di altre regioni. Noi politici e parlamentari calabresi dovremmo lavorare in sinergia per adeguare il sistema penitenziario al nuovo panorama configuratosi dopo l’indulto, facendo quadrato intorno alle persone che operano nel campo con ottimi risultati, per spingere a livello nazionale verso iniziative condivise volte a migliorare il sistema.

Il primo passo è proprio l’applicazione del principio di territorializzazione, che permetterà ai carcerati di ristabilire contatti e rapporti con i propri familiari, e dunque di accelerare il processo di reinserimento nella società, ma anche di consolidare sul territorio i vantaggi dell’indotto: nel pagare il proprio debito nei confronti della società, i detenuti potranno essere non solo un costo, ma anche una risorsa.

Ovviamente non stiamo parlando di 416 bis, ma di detenuti a regime ordinario. Una volta riequilibrata la distribuzione della popolazione carceraria, bisognerà spingere sull’aspetto umanitario e rieducativo dei detenuti, moltiplicando le esperienze positive del Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria calabrese, vero pioniere della materia.

L’ottima sperimentazione del carcere di Laureana di Borrello e del suo laboratorio del legno, le convenzioni stipulate con le province di Cosenza e di Reggio Calabria per dare lavoro ai detenuti, sono solo alcuni dei risultati ottenuti da Paolo Quattrone.

Risultati apprezzati dal Ministro Mastella che, ha parlato di un "modello Calabria" da esportare nel sistema penitenziario nazionale, sia dal precedente guardasigilli. Quattrone sta lavorando per il rinnovamento del sistema, superando, pur a fatica, le tante contraddizioni ed i troppi ostacoli che sono sulla strada di chiunque in Calabria operi per cercare di cambiare le cose. Fare quadrato attorno agli uomini è il miglior modo per ottenere risultati.

Dovremmo impegnarci in tal senso nei confronti della materia penitenziaria, per portare avanti iniziative in grado di colmare i ritardi. Tra quelle in corso c’è il riordino del Corpo di Polizia Penitenziaria, oggetto di un mio disegno di legge presentato nei mesi scorsi e firmato, tra gli altri, dal Presidente Cossiga: il migliore utilizzo dei 45.000 agenti cui è affidata la sicurezza degli istituti carcerari, qualificato ma esuberante rispetto al numero di detenuti, permetterebbe di recuperare centinaia di carabinieri e poliziotti e destinarli alle attività di contrasto alla criminalità. Di cui, inutile sottolinearlo, in Calabria abbiamo estremamente bisogno".

Belluno: una protesta da Baldenich; il degrado ci fa ammalare

 

Il Gazzettino, 26 agosto 2007

 

Scriverà una volta a settimana per un mese al presidente della Repubblica e al ministro della Giustizia. "Dopo la disperazione per il degrado in cui si vive a Baldenich inizierò così la mia protesta pacifica" dice nella sua lettera il detenuto G.G., da un anno a Belluno. Poi, se non arriveranno risposte, la frequenza delle missive raddoppierà.

"Prima di entrare in carcere conducevo una vita dignitosa - continua la lettera - ritengo però che anche a una persona detenuta debba essere riconosciuta la dignità e la possibilità di vivere in condizioni igieniche adeguate, quantomeno umane. In effetti io qui, giorno dopo giorno, mi sono ammalato, nonostante tutte le visite che ho fatto, attestando tutte le patologie di claustrofobico, iperteso e ansioso, ma che non vengono ritenute idonee dalla direzione per ottenere delle cure. Dopo la condanna che mi viene applicata dai magistrati, altra condanna ancora più pesante ci viene applicata dalla direzione carceraria".

L’uomo ha scritto anche al direttore generale della Ulss 1 Alberto Vielmo e al sindaco di Belluno Antonio Prade. Dopo aver sollevato la questione delle condizioni igieniche e strutturali nel carcere di Baldenich, una situazione in parte confermata anche dalla direzione del carcere, rappresentata in questi giorni da Tiziana Paolini, l’uomo punta il dito anche sui suicidi registrati all’interno della casa circondariale bellunese.

Le tre sezioni del carcere di Baldenich, quella maschile, quella femminile e quella destinata ai transessuali, possono ospitare fino a circa 120-130 detenuti. L’indulto della scorsa estate aveva praticamente dimezzato la popolazione carceraria che nei mesi successivi è tornata pian piano a crescere di nuovo. Attualmente la sezione trans, recentemente ristrutturata secondo i criteri stabiliti dalla nuova normativa carceraria, vede occupati un terzo dei posti disponibili.

Chieti: nuovo blackout elettrico al carcere, i detenuti protestano

 

Agi, 26 agosto 2007

 

Hanno rifiutato la cena i detenuti di un’intera sezione del carcere di Torre Sinello, a Vasto (Chieti), quale forma di protesta, attuata nei giorni scorsi in relazione all’ennesimo black-out elettrico, che ha lasciato completamente al buio un "braccio" del penitenziario. È stato il personale interno della casa di reclusione a riparare il guasto, generato da un cortocircuito che ha mandato in tilt l’impianto elettrico.

È probabile che la vicinanza dei cavi alle condotte idriche e fognarie sia la causa dei black-out che si sono verificati più volte negli ultimi tempi, ma anche in passato. In una circostanza, alcuni anni fa, il carcere di Torre Sinello rimase al buio per diverse ore. La rete elettrica, infatti, non sarebbe isolata dai tubi in cui scorrono i liquidi, cosa che renderebbe alto il rischio di interruzioni di corrente. Per il rifacimento e la messa a norma degli impianti servono fondi, che sono stati già in passato chiesti al Provveditorato di Pescara dell’Amministrazione Penitenziaria.

Spoleto: l’Associazione Boxe organizza un corso per i detenuti

 

Spoleto on-line, 26 agosto 2007

 

La Associazione Sportiva Dilettantistica Boxe Spoleto, impegnata da più di sessanta anni nella diffusione dello Sport del Pugilato, nell’ambito delle proprie attività che vedono diversificare il suo impegno anche oltre l’attività agonistica vera e propria, per approdare già da tempo in ambiti di assoluto interesse sociale, ha il grande piacere di comunicare che, d’intesa con la Direzione della Casa di Reclusione di Spoleto, organizza un Corso di Pugilato all’interno della struttura medesima, riservato esclusivamente ai detenuti, con inizio il giorno 12 Settembre alle ore 15.

La A.S.D. Boxe Spoleto e la Direzione della Casa di Reclusione di Spoleto, formalizzeranno l’avvio di questa interessante iniziativa con un semplice ma significativo momento inaugurale il giorno 12 Settembre p.v. alle ore 11 presso la Direzione della Casa di Reclusione in loc. Maiano di Spoleto.

Immigrazione: il mio incredibile "safari" tra i migranti di Foggia

di Angelo Ferracuti

 

Liberazione, 26 agosto 2007

 

Quello che ho visto stamattina non ha dell’umano, eppure è umanissimo. Certi parametri cambiano da luogo a luogo, sono le spugne sensibili dell’Epoca. Con Passpartout, reporter free lance che sa tutto di questi posti, e Issa, un ragazzo della Costa d’Avorio che vive nel foggiano da sette anni, siamo partiti stamattina in auto per un viaggio nelle campagne qui intorno.

Sembra incredibile come il paesaggio di questa parte di Puglia possa occultare certe vite. Improvvisamente da un’arteria di città, mentre stai transitando in una di queste superstrade semivuote con ai lati centri industriali dismessi, stradoni deserti sotto cieli pieni di nuvole prosperose, ti ritrovi in un pezzo di terra fantasmatico, che è tanto luogo, perché ci sono distese di campi immense tra due sagome lontane di monti, ma è anche una terra desolata, una terra di nessuno.

Raro infatti incontrare automobili, e quelle poche sono modelli in disuso, vecchie Mirafiori, Tipo dalla verniciatura variopinta fatte di pezzi e colori diversi, furgoni, Fiat Uno scassate, però capita di vedere gente a piedi, ragazzi neri sempre slanciati di corpo, eleganti nonostante lo stato di cattività, che camminano contro il vento, e autotreni con i rimorchi stipati di casse di pomodori che corrono all’impazzata perché anche per loro il tempo è denaro.

Tutto è danaro e tempo qui: per gli agricoltori, per i cinici spietati caporali che organizzano le uscite, per i lavoratori stagionali che poi migreranno in Trentino a raccogliere mele e in tutte quelle geografie possibili dove serve manodopera assoggettata e veloce. Hai la percezione di stare da un’altra parte dell’Italia, un piccolo spazio di realtà che nessuno riesce a vedere, oppure fa finta di non accorgersi che esista, e dove loro malgrado questi schiavi nomadi cercano di ricostruire una comunità, una cittadella di lavoratori, di uomini e basta.

Costeggiando la stazione di Rignano sostano dietro un cancello braccianti africani stanchi, sembra un luogo sperduto dove non immagineresti che davvero un convoglio possa passare per davvero, con tanto di vagoni e passeggeri, per quanto l’atmosfera è assurda. Hai la sensazione di esserti perso, che ti stiano portando a spasso nell’Altrove, e provi quasi un senso di angoscia a ritrovarti senza la minima protezione e a orientarti.

Non c’è presenza umana da nessuna parte, le strade polverose sono piene di buche, è come se sentissi la Storia indietreggiare, farsi beffe dell’uomo che eri prima nell’alberghetto dignitoso e pulito del centro storico di Foggia, con aria condizionata, telefono, abatjour, libri a iosa che ti sei portato dietro, per combattere in qualche modo contro il tempo che passa. E il tuo tempo, quello che vivi, vuole solo consumarsi e consumarti. Merci che chiamano merci. T’immagini come può essere qui la vita d’inverno, quando piove e i fulmini corrono lungo il cielo aggrottato per colpire un bersaglio, cosa può diventare all’improvviso questa prateria, e come può vivere uno che è catapultato qua da un altro Mondo come un boomerang: la Costa d’Avorio, o il Mali, il Senegal, per ritrovarsi solo nel Nulla, in uno spazio senza tempo. Uno che a Foggia non ci va mai, che non conosce i negozi del centro e che ha un solo problema: lavorare.

Dobbiamo arrivare al Ghetto, così lo chiamano, un villaggio africano a tutti gli effetti. La strada polverosa sembra infinita, non si vede mai un orizzonte. Mancano solo i leoni e le zebre lungo questi tratti di campagna brulla dove vedi solo grandi ragnatele per terra di pomodori a grappoli, eppure le zebre potrebbero starci davvero, potresti vedere anche giaguari correre e antilopi scappare e cacciatori con le lance inseguirli. Siamo nel mondo selvaggio, animale. Sono fermi oggi, non c’è lavoro, ci sono troppi controlli, perché i neri sono visibili e extracomunitari, i caporali preferiscono i bianchi polacchi, i rumeni, i bulgari. Danno meno nell’occhio. Piovesse sarebbe diverso, allora sì che si aprirebbe per loro uno spiraglio.

Issa, che nel suo paese significa Gesù, è una specie di sindacalista e caporale buono insieme: rivendica diritti per i suoi connazionali del Ghana, dell’Uganda, del Mali, del Senegal, però organizza la vita dei nuovi arrivati, li sistema, li colloca. In queste vecchie masserie cadenti ci vivono in parecchi. Sono case fatiscenti, gli intonaci sgraziati dall’umidità, i vecchi materassi polverosi ammassati, le tende che separano i corpi. Vivono come le bestie, bevono acqua inquinata e si ammalano. Fortuna che il dottore di Medici senza frontiere viene qui periodicamente a curarli.

Allora ti chiedi se questo è un uomo. Uno che vive lontano dal proprio paese, senza affetti, uno che ha solo bisogno di lavorare e mangiare per 18 bastardi euro al giorno. Ti chiedi se è umano in questo paese vivere senza l’acqua per bere, senza quella per lavarsi, se un uomo per sopravvivere deve infilarsi dentro i vasconi che raccolgono l’acqua piovana da usare per irrigare i campi, e magari morirci annegato perché la melma schiumosa gli ingoia il corpo e non è più capace di risalire.

Ti chiedi se gli occhi che hai visto, d’una tristezza infinita, in questi volti nerissimi, non debbano interrogarti e farti vergognare. Sono ragazzi partiti dall’Africa con un sogno, e che hanno pagato un sacco di soldi per traghettare, frutto di collette tra i parenti, sacrifici di tutta la vita in paesi poverissimi. Quei soldi dovranno restituirli. E se li beccheranno senza documenti per loro sarà una sconfitta atroce anche economica.

Ti chiedi perché un uomo che con le sue mani raccoglie ortaggi e crea un pezzo di ricchezza di questo paese non è un uomo, non esiste, non ha una cittadinanza, e questa cosa t’indigna.

Stanno in una specie di androne, seduti a bere coca cola o acqua, niente alcol perché sono musulmani. Il ghetto è fatto di un agglomerato di case distanziate di poco una dall’altra. Dentro materassi posticci, tramezzi di cartone, e tante mosche che svolazzano e cercano carni da succhiare. C’è persino un bar gestito da un tipo che sembra mezzo scemo, Gigino, vecchia conoscenza di Passpartout.

Lui sta lì perché il proprietario è in galera. Gli hanno messo le manette ai polsi, non vuole dirmi perché, forse per storie di droga e prostituzione. La notte scorsa hanno ballato, c’è stata una festa per un anniversario di matrimonio. Sugli scaffali organizzati c’è di tutto e sotto a ogni merce esposta, siano aranciate, cocacole o superalcolici, è scritto il prezzo come al supermercato. Le bibite fresche stanno dentro vecchi frigoriferi mantenuti dal gruppo elettrogeno alimentato a gasolio. Ci sono ancora i festoni in alto, sul soffitto, e un sistema audio che diffonde la musica, c’è persino un Grundig con un bello schermo e la stufa a legna al centro, i tavolini e le sedie per gli avventori che tornano dalle campagne strafatti di stanchezza.

Dietro il bar c’è lo scopatoio, un loculo di un metro per uno dove la sera due prostitute colombiane, a prezzi modici, sfamano sessualmente per pochi euro un intero popolo di africani che fanno la fila. Questo box è squallidissimo, somiglia a quelli degli autolavaggi. Per terra c’è un tappeto di plastica dura e intorno bottiglie di plastica vuote e cartacce. Qualcosa che non si vorrebbe vedere e che pure esiste, umilia lo sguardo.

Appena arrivato in questa terra di nessuno scatto delle foto e un ragazzo nero giovanissimo subito s’inalbera, sento che parla con un altro connazionale pieno di rabbia nel corpo. Un altro africano occhialuto, tuta adidas taroccata, ciabatte ai piedi logore mi dice: "vuoi fotografare questa merda? Ma che ci stiamo portando per il culo?" Ha ragione, ho sbagliato.

Gli chiedo subito scusa. Poi mi spiegheranno che ogni volta che un giornalista viene qui li individuano, così dopo qualche giorno arrivano i carabinieri a sgomberare. Molti sciacalli della carta stampata approdano in fretta e furia, li fotografano e poi se ne vanno dopo aver fatto lo scoop. Poco dopo saremo fianco a fianco a guardare gli scatti memorizzati dalla mia Pentax e sarò costretto a cancellare quelli che lui reputa giustamente compromettenti. Non vogliono farsi fotografare, a loro non importa esistere oggi.

Questo ragazzo sta costruendo una baracca vicino alla casa, con le travi di legno, e si muove ardimentoso tra le zolle. Anche in lontananza, nelle case vicine, stanno tirando su nuovi abitazioni. Lavorano nella calura tirando su le baracche. Vecchie automobili vanno e vengono, tutti si salutano animosamente ogni volta che passano, sembra un villaggio dell’America del Sud, quelli delle piantagioni di tabacco lontani nel tempo, quando la Storia indietreggia è così. Nella casa di Issa ci sono dei ragazzi seduti su sedie bianche di plastica, sono nerissimi e bellissimi, un vestiario per niente dimesso, anzi quasi elegante. Ridono, la mitezza dei loro atteggiamenti è palpabile.

Le mosche corrono lungo i piedi, si fanno beffe delle ciabatte di cuoio. Ma anche se vivono come bestie non perdono mai il controllo, li vedi sereni. La casa è piena di crepe. In cucina una donna africana giunonica, capelli nerissimi e faccia allegra sta davanti a due pentoloni dove bolle il riso. La rivendita delle bibite è gestita dalla compagna polacca di Issa, l’unica bianca, pallidissima e imbarazzata, stridente rispetto al contesto, i prezzi sono buoni e io e Passpartout ne approfittiamo per bere delle birre fresche. Siamo a Rignano, a pochi chilometri da Foggia, ma è davvero come se oggi fossimo partiti per un Safari.

Droghe: don Gelmini torna ad Amelia; benedizioni e attacchi

 

Il Manifesto, 26 agosto 2007

 

Il saluto ai suoi ragazzi: volevano colpire la comunità. "Pensavano di avere a che fare con un coniglio: si sono trovati di fronte un cane che morde".

"Credevano che don Pierino mollasse. Pensavano di avere a che fare con un coniglio invece hanno trovato un cane che morde. Volevano prendersi la comunità. Ah! Ah! Io li benedico, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen". E don Gelmini fa il gesto dell’ombrello.

Plateale, perfino sonoro. Strappa l’applauso delle circa trecento persone venute ad accoglierlo nella casa madre della Comunità Incontro di Amelia, al Mulino Silla, sull’argine della Fossa delle Streghe, un acquitrino tra le colline dell’Umbria trasformato "nella valle della speranza", con fiori, alberi e uno zoo con due leoni e una tigre. Che sonnecchiano mentre lui ruggisce. "Non sono sicuro di vincere ma sono certo di non perdere".

C’è un tifo da stadio ed accenna uno show. Don Pierino è arrivato dall’Aspromonte, dove da sempre passa le vacanze.

Ottantadue anni, un pace-maker, un occhio quasi cieco, 800 chilometri sulle spalle e il peso di un’accusa infamante da cinque dei suoi ex ragazzi: molestie sessuali. Don Gelmini agita il bastone di legno di ulivo fabbricato per lui. Ce n’è per tutti. Il colpo a chi lo accusa, a chi avrebbe orchestrato il complotto "per farlo fuori", arriva nel nome del Signore.

Con la benedizione. Un colpo pure ai giornalisti. "Accolti a Zervò sotto l’albero di Giobbe" ma che hanno scritto "il falso". Dell’inchiesta non vuole parlare perché i magistrati hanno chiesto silenzio. "Non sarò io a tradire anche se sono stato tradito. Ho risposto ai pm. L’infamia non mi tocca, perché ci siete voi ragazzi, che siete la mia vita, la mia forza".

Canti, applausi, baci e abbracci. Gli hanno preparato un palchetto sopraelevato con una sedia don Pierino fa un piccolo comizio lancia un’occhiata di sfida a sinistra, dove c’è una casetta con la famosa "stanza del silenzio", è lì che sarebbero avvenuti gli abusi. "Lì dove il fuoco rimane sempre acceso, come il verbo di Dio. Dove hanno detto che c’era la moquette che non c’è mai stata". "A chi mi accusa non ho niente da dire, se non l’invito alla verità. San Francesco spiega che non sempre chi ti copre di lordure ti fa del male".

Dentro l’Audi che lo ha riportato a casa ci sono sette faldoni con 2737 e-mail, centinaia di fax e telegrammi di solidarietà. "Non mi hanno abbattuto", dice don Pierino, con il dito indica una quercia. "Mi hanno scritto tra gli altri l’arcivescovo di Gerusalemme e quello di Damasco". Il testo dei messaggi viene fotocopiato per i giornalisti.

Perché l’impressione a Ferragosto che la Chiesa lo avesse lasciato solo. Il cardinale Francesco Marchisano, ex vicario papale per la Città del Vaticano, lo ha invitato ad abbassare i toni della polemica e a farsi da parte, il cardinal Bertone, segretario di Stato ha suggerito prudenza. E don Antonio Mazzi, fondatore di Exodus, è andato dai magistrati a confermare le confidenze ricevute da un ragazzo su un episodio del 1993. "Questo mi ha addolorato - dice don Pierino - e mi addolora ancora. Ma mi fa piacere che ora don Mazzi abbia chiesto di incontrarmi. Ci vedremo, lo accoglierò".

Brasile: rivolte, faide e omicidi, nelle carceri orrore senza fine

 

Liberazione, 26 agosto 2007

 

Uno squadrone della polizia militare circonda all’alba il carcere di Belo Horizonte, nello Stato di Minas Gerais, Brasile profondo. Poi, immobile, guarda una colonna di fumo nero e denso salire dalle celle. Dentro, oltre i cancelli sbarrati, ardono vive venticinque persone. Non si conoscono nemmeno i loro nomi. I cadaveri sono completamente carbonizzati. Due ore ci sono volute a spegnere l’incendio.

Il capo della polizia dirà che non ha ordinato di entrare perché i detenuti armati stavano minacciando di sparare addosso a chiunque ci avesse provato. La direzione del carcere ipotizza si sia trattato di una guerra tra bande. Un gruppo organizzato avrebbe tentato di prendere il comando dei traffici interni alla prigione (soldi, telefoni cellulari, armi, droga) e gli altri avrebbero risposto dando fuoco ai materassi per bloccare gli avversari dentro le celle. Ma c’è chi parla di una rivolta finita male. I familiari di alcuni detenuti denunciano "inspiegabili ritardi" nell’evacuare l’area incendiata. Il comandante della polizia militare, Geraldo Guimaraes, giura che "non c’era modo di salvarli, gli altri ci tenevano sotto tiro" e se la prende con il sovraffollamento: 174 detenuti in un posto dove al massimo ce ne potrebbero stare 85.

Sembra un tragico spot per il piano d’emergenza annunciato tre giorni fa dal governo. Centosessanta nuove carceri in tutto il Brasile "perché non sappiamo più dove metterli", hanno detto gli uomini del presidente Lula lanciando il Programma sicurezza nazionale: altre prigioni insieme alla promessa di programmi di alfabetizzazione nelle favelas più violente.

La questione carceri in Brasile è un orrore senza fine. Le bande interne, alleate con personale carcerario ed avvocati, si contendono spesso il potere con macabre esibizioni di violenza. Non è raro per i detenuti assistere a esecuzioni sommarie di compagni di cella.

Quando, in una mattina torrida dell’aprile del 2004, il pluriomicida Ednildo Paulo de Souza detto "Birinha", condannato a 130 anni da scontare nella prigione Urso Branco di Porto Velho, in Amazzonia, capì che la rivolta di detenuti da lui organizzata stava per sfuggirgli di mano, si fece portare quattro ostaggi, li decapitò ed espose le teste sul tetto del carcere.

Decisero di sorvegliarlo a vista in un penitenziario lontano 200 chilometri dalla sua vecchia cella, teoricamente isolato dal mondo. Non abbastanza, però, da impedirgli di trattare con una nuova rivolta coordinata a distanza il suo rientro nella roccaforte dove era venerato come il grande capo.

I suoi aspettarono qualche mese e poi, nella notte di Natale, i novecentotrenta detenuti di Urso Branco presero in ostaggio 196 persone. Ostaggi in maggioranza consenzienti, quasi tutti familiari venuti in visita per le feste. Dai telefoni cellulari chiamarono i giornali e dettarono le condizioni per il rilascio: assistenza sanitaria in cella, riduzione del sovraffollamento e l’immediato trasferimento del "Birinha". Un giorno di attesa e l’annuncio: "abbiamo già eseguito 16 condanne a morte". La mattina del 27 dicembre sopra due container dell’acqua del penitenziario spuntarono dei fagotti avvolti nelle lenzuola. "Ecco i primi cadaveri - minacciavano al telefono i capi degli insorti - o accettate le condizioni o uccidiamo altri 4 ostaggi".

Ottennero l’apertura della trattativa. Un gruppo di madri moglie e fidanzate dei detenuti si rifiutò però di uscire per scongiurare un blitz della polizia militare. I mediatori decisero allora di tagliare la luce nelle celle. Risultato: nel pomeriggio del giorno dopo tutti gli ostaggi sono stati rilasciati. Si scoprì poi che nessuno era stato ucciso, che nelle lenzuola erano stati avvolti mucchi di stracci e che i detenuti avevano festeggiato la notizia, non confermata ufficialmente dai mediatori ma nemmeno smentita, del ritorno a casa del "Birinha".

A sedare invece la violentissima rivolta di due anni fa nella prigione di Benefica, alla periferia di Rio, venne chiamato il predicatore di una setta evangelica molto seguita nelle favelas. In 62 ore di sommossa erano apparsi 30 cadaveri carbonizzati.

Furono le guardie di custodia a denunciare che l’istituto penale, inaugurato da tre mesi, era costruito con materiali infiammabili e pareti sottili. Un tentativo di evasione aveva dato il via alla rivolta. Una ventina di detenuti era riuscita a scappare attraverso buchi scavati a picconate, nei muri che il governo locale si vantava di aver coperto di placche di acciaio imbottite. Bloccata l’evasione, i detenuti rimasti dentro fecero 22 ostaggi fra agenti di custodia e visitatori.

Detenuti del Comando Vermelho, gruppo di trafficanti di droga delle favelas di Rio, affrontarono armati gli affiliati delle bande emergenti degli Amigos dos Amigos e del Terceiro Comando. Impotenti, le autorità locali chiamarono a mediare il pastore Marco Pereira da Silva, ex maitre di un ristorante di Copacabana e fondatore della setta Assembleia de Deus dos Ultimos Dias. Nel suo tempio sulle alture di Rio vivono migliaia di ex detenuti raccattati all’uscita degli istituti di pena. In due ore il pastore ottenne la liberazione di tutti gli ostaggi.

Discorso a parte meritano invece le rivolte nelle carceri minorili. San Paolo ne detiene il record: quindici in sessanta giorni. A provocarle sono quasi sempre non i detenuti ma i secondini, che non vogliono l’intervento di educatori e psicologi nel trattamento dei

detenuti minorenni. Usano le rivolte alternativamente alle fughe di massa come strumento di ricatto. Tre anni fa per un lungo periodo nei quattro penitenziari giovanili di San Paolo, dove sono rinchiusi oltre seimila adolescenti, c’era una rivolta una ogni tre giorni. In pochi giorni 330 ragazzini detenuti fuggirono dalla porta principale con l’appoggio delle guardie. Fu il modo scelto dagli agenti carcerari in servizio per protestare contro l’arresto di un centinaio di colleghi e il licenziamento di altri per maltrattamenti.

Iran: uomo 27enne frustato in piazza per aver bevuto alcol

 

La Repubblica, 26 agosto 2007

 

Il volto coperto da un passamontagna, in mano uno scudiscio rigido, l’agente colpisce con 40 frustate un uomo - colpevole di aver infranto "le leggi della morale" bevendo alcol - davanti a un pubblico di un migliaio di spettatori, in parte militanti mobilitati dai basiji e in parte gente comune pronta a fotografare "l’evento" con il cellulare.

Un video della macabra scena è finito al britannico Daily Mail. Vi si vedono quattro poliziotti delle guardie speciali del buoncostume che trascinano un giovane di 27 anni, Said Ghambari, al centro della piazza di Qazvin, antica capitale dell’Iran a nordovest di Teheran. Da un furgoncino viene fatta uscire una panchina di metallo sulla quale Ghambari è costretto a distendersi, lasciando la schiena scoperta.

Un agente gli regge le mani incrociate sotto la panchina, un altro gli blocca le gambe. Un quarto, col volto coperto, aspetta il suo turno per somministrargli altre 40 frustate. La fustigazione per "violazione delle leggi morali" è tutt’altro che una novità in Iran dove dopo la rivoluzione islamica - e fino alla fine degli anni ‘90 - bastava che studenti e studentesse decidessero di preparare un esame sotto lo stesso tetto per finire condannati a 35 frustate ciascuno (70 il padrone di casa).

Ma non era mai successo che avvenisse in un luogo pubblico sotto gli sguardi dei curiosi. La radicalizzazione compiuta dal presidente Mahmud Ahmadinejad non riguarda solo la politica estera. La stretta repressiva interna è stata altrettanto provocatoria e ha ottenuto i risultati voluti. In Iran la gente vive in una specie di continuo stato di emergenza, rassegnata al peggio e con l’unica speranza che nella lotta intestina tra moderati e ultrà i primi prevalgano quando nel 2009 scadrà il mandato di Ahmadinejad.

La stretta più impressionante ha riguardato le esecuzioni di condanne a morte, anch’esse pubbliche come non accadeva da decenni. Dodici uomini impiccati a una gru da costruzioni - morte efferata per lento strangolamento - sono stati mostrati al telegiornale della sera sulla tv nazionale un mese fa. Un quarto d’ora dopo un’annunciatrice ha detto che l’esecuzione era stata messa in onda "per errore".

Quello che sgomenta è la ripresa in gran numero, e in pubblico, delle lapidazioni. Nel 2002 il presidente Khatami s’impegnò con l’Unione europea per sospenderle e il capo del potere giudiziario ordinò ai giudici che si attenessero alla sospensione. Ma se la legge rimane invariata, dice l’attivista per i diritti umani Shadi Sadr che ha iniziato una campagna contro la lapidazione, i giudici non sono tenuti a seguire l’ordine contrario alla norma stabilita per legge. Gli stessi avvocati dei condannati sono sottoposti a pressioni così pesanti che non osano far sapere ai giornali delle esecuzioni.

"Lapidazioni pubbliche ci sono state in Iran nei primi anni dopo la rivoluzione khomeinista, ma dopo erano diventate sempre più rare e comunque eseguite unicamente all’interno delle prigioni, mai in un luogo pubblico", dice Shadi Sadr. Recentemente invece le lapidazioni sono riprese a Mashhad e a Takistan un uomo è stato lapidato in pubblico mentre la donna condannata con lui, e madre di suoi tre figli, è in prigione sebbene fosse stata costretta a prostituirsi dal marito tossicodipendente. L’ultimo numero del settimanale Zanan, che investiga le radici della lapidazione nei testi sacri islamici, afferma che non è prevista se non in casi rarissimi di flagranza di reato di fronte a quattro testimoni.

Stati Uniti: l’Alabama chiede aumento "tribunali della droga"

 

Notiziario Aduc, 26 agosto 2007

 

I membri di una commissione parlamentare di controllo si sono impegnati ad approvare una legge per la creazione di un maggior numero di "tribunali della droga" e di programmi mirati a ridurre la sovrappopolazione carceraria.

Ma uno dei membri della commissione ha avvertito che questo progetto di legge potrebbe essere strumentalizzato: "Ci accuseranno di non essere abbastanza duri contro il crimine", ha detto il senatore democratico Pat Lindsey.

Nonostante questo, la commissione di controllo sulle carceri ha deciso di riunirsi una volta al mese per giungere entro febbraio 2008 ad un testo di legge per contrastare l’aggravarsi delle condizioni dei carcerati, sempre più numerosi.

Ad oggi vi sono infatti quasi 25mila persone in prigioni costruite per ospitare un massimo di 10mila carcerati. Un terzo di questi sono in carcere per droga, mentre il 75-80 per cento per reati connessi all’uso di droga.

"Se non mettiamo fine a questo trend, la spesa per le prigioni eguaglierà quella destinata alla scuola", ha detto il presidente della commissione, il deputato democratico John Rogers. Ad oggi, vi sono "tribunali della droga" in 18 contee e nella riserva indiana. Altre 26 contee vogliono attivare programmi simili, ma sono necessari più fondi dallo Stato.

Nei tribunali della droga, gli imputati accusati di possesso di droghe o altri reati connessi a sostanze illecite sono sottoposti ad un intenso programma di disintossicazione e di esami sotto il controllo di un giudice. Se l’imputato riesce a rimanere pulito per un anno, le imputazioni vengono ritirate. "Stiamo cercando di creare un sistema giustizia per curare le persone e non per riempire le prigioni", ha detto Sue Bell Cobb, l’unico membro democratico della Corte Suprema dello Stato.

 

 

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