Rassegna stampa 15 agosto

 

Giustizia: Pisapia; la galera non aiuta la sicurezza collettiva

di Giuliano Pisapia (Presidente della Commissione per la riforma del Codice Penale)

 

Liberazione, 15 agosto 2007

 

Di fronte a un fatto così tragico quale quello di Genova, in cui il Pm, in mancanza di gravi indizi di colpevolezza, non ha chiesto l’arresto di un indagato che ha poi colpito mortalmente una donna di 33 anni - sua ex-fidanzata - è inaccettabile la strumentalizzazione che da più parti si è fatta del dolore dei familiari della vittima, per finalità che nulla hanno a che vedere con la Giustizia.

Ed è altrettanto inaccettabile la demagogia di chi - di fronte ad altri fatti, meno gravi ma altrettanto complessi e delicati - si limita ad invocare sempre, e solo, più carcere, pur in presenza di una incontestabile realtà che dimostra come, spesso, questo non solo è inutile, ma controproducente e dannoso.

Un esempio? Gli Stati Uniti, dove negli ultimi dieci anni sono stati costruiti più carceri che scuole e ospedali e dove vi è stato un aumento esponenziale della criminalità da far impallidire tutti i Paesi europei.

Un altro? In Italia chi sconta l’intera pena in carcere ha un tasso di recidiva del 68%, mentre chi sconta pene diverse dalla detenzione ha un tasso di recidiva dell’11-12%. Il carcere, lo dimostra la realtà, è in molti casi inefficace non solo per i detenuti (non aiuta il reinserimento ma aumenta la recidiva), ma anche per la sicurezza della collettività (ogni condannato recuperato è un danno e un pericolo in meno per i cittadini) e per le vittime dei reati (sarebbero ben più utili attività riparatorie e/o risarcitorie).

È del tutto illogico, quindi, trasformare ogni drammatico fatto di cronaca in un pretesto per proporre nuove restrizioni, immaginare nuovi reati. Il che, d’altra parte, non significa non interrogarsi su fatti che comprensibilmente creano sconcerto e reazioni di dolore e di rabbia.

Porsi dei dubbi è doveroso, ma - prima di fare "riforme che si trasformano in controriforme" (cosa ben diversa da una efficace opera di prevenzione che non necessita di alcun intervento legislativo) - occorre riflettere con serietà e razionalità sulle diverse opzioni possibili: perché l’emotività ha sempre portato a scelte sbagliate in materia giuridica (e il senso comune spesso fa a pugni col buon senso).

Ci vuole mente fredda in un cuore caldo. Gli isterismi collettivi creano maggiore insicurezza, alimentano la sfiducia nella giustizia senza contribuire alla soluzione dei problemi, che non sono certo semplici. Chi ricopre posizioni di responsabilità ha il dovere di non ignorare la realtà e, nel contempo, di non cavalcare proposte di facile applauso immediato ma inefficaci e dannose.

Allora, cerchiamo di fare un po’ di chiarezza e di separare questioni diverse che sono state accomunate, creando solo confusione. Cominciamo dagli attacchi alla legge sulla custodia cautelare (mi riferisco alla polemica tra il Pm e il Capo della mobile di Genova).

Il magistrato, che ha dimostrato alta sensibilità morale e giuridica, ha dichiarato di aver applicato la legge e non vi è motivo, sulla base di quanto emerso, per dubitarne. Suo compito era quello di decidere se richiedere, o meno, un’ordinanza di custodia cautelare valutando gli elementi esistenti (non quanto avvenuto successivamente).

L’attuale legge sulla custodia cautelare, del resto - e va detto con forza - è la migliore possibile, in quanto concilia la doverosa tutela della collettività e dei singoli, con il dovere giuridico di evitare, per quanto possibile, l’arresto di innocenti. È, in breve, ciò che distingue uno Stato di diritto da uno Stato di polizia. Ecco perché, per un provvedimento restrittivo della libertà personale, sono necessari quei "gravi indizi di colpevolezza" (l’indizio è molto meno della prova necessaria per una sentenza di condanna) che, nel caso specifico, il Pm e gli investigatori che con lui collaboravano, hanno ritenuto insussistenti.

Una norma, quella prevista dal codice, per nulla "indulgente" o "lassista": lo conferma il fatto che sono di gran lunga più numerosi i casi di arrestati risultati innocenti di quelli di colpevoli nei cui confronti non sia stata accolta una richiesta di custodia cautelare (e ciò malgrado il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza).

La limitazione delle garanzie va a scapito, infatti, non dei colpevoli ma degli innocenti e ogni innocente condannato significa un colpevole rimasto in libertà e che continua a commettere reati. Troppo spesso si dimentica che, fino a qualche anno fa, la carcerazione preventiva - definita anche la "lebbra del processo penale" - poteva durare 12-14 anni anche in presenza di indizi labili ed era immenso il numero di imputati incarcerati ingiustamente.

I genitori di Maria Antonia, la donna uccisa a Genova, provati da un dolore senza fine, hanno il diritto di esprimere in ogni modo le loro critiche e le loro "accuse". Chi ha ruoli di responsabilità, invece, deve essere più lucido ed evitare di proporre modifiche che accentuerebbero i rischi sia di errori che di delitti tanto orrendi. Non è con l’emergenza o rimpiangendo un passato che si sperava definitivamente superato, che si migliora la giustizia e si garantisce la sicurezza dei cittadini.

E veniamo al secondo punto: abbiamo, in Italia, un codice penale di stampo autoritario che risale al 1930 e che quindi, in più punti, contrasta con i principi costituzionali. Basti pensare ai casi di responsabilità oggettiva, ai numerosi reati anacronistici e al fatto che le uniche pene previste siano il carcere e la multa, spesso non adeguate alla condotta illecita che si intende punire (un esempio: fino a sei mesi di carcere per "rappresentazione abusiva di spettacolo teatrale o cinematografico").

Sono invece completamente ignorati comportamenti delittuosi nuovi e diffusi, quale quello di cui era già vittima Maria Antonia: le molestie e le minacce persistenti (il cosiddetto stalking, dall’inglese "perseguitare", di cui sono quotidianamente vittime tante donne). Se quel comportamento fosse già stato reato, il magistrato avrebbe potuto prendere tutti i provvedimenti necessari per impedire quell’omicidio. Non con un carcere preventivo basato su sospetti labili che, se generalizzato, rischierebbe di colpire tanti innocenti, ma con una norma "preventiva", specifica e mirata.

Ecco perché è necessario e urgente un nuovo codice penale, accompagnato da una ampia depenalizzazione (che non equivale affatto a impunità ma significa immediata ed efficace sanzione amministrativa). Un nuovo codice per cancellare le tante fattispecie ormai polverose e, soprattutto, per introdurre un diverso sistema sanzionatorio che preveda, oltre alla pena detentiva e a quella pecuniaria, anche pene interdittive e prescittive (come i lavori socialmente utili e le attività riparatorie) in molti casi più efficaci, con una minore recidiva e un maggiore reinserimento sociale. La giustizia non può, e non deve, essere né vendetta né ricerca di capri espiatori, ma accertamento delle responsabilità e commissione di sanzioni eque, proporzionate quindi all’effettiva colpevolezza.

Questa mattina, al bar, un gruppo di persone, commentando i fatti di questi giorni, invocavano a gran voce la pena di morte. Avrei voluto rispondere che chi è pronto a sacrificare le libertà fondamentali per briciole di temporanea (e apparente) sicurezza, finisce col perdere la libertà senza ottenere la sicurezza.

Ho invece pensato che, proprio perché non si può e non si deve sottovalutare il comprensibile allarme suscitato da fatti così gravi, non ci si può limitare a contrastare chi cavalca strumentalmente il dolore e la paura, ma è indispensabile ricreare, anche a sinistra, una cultura realmente garantista e operare, quotidianamente, per una giustizia degna di questo nome.

Giustizia: Mastella; no alle scelte impulsive, sì alle riforme

 

La Repubblica, 15 agosto 2007

 

Un "peccato mortale" giudicare in base all’emozione del momento, pur motivata da fatti gravissimi e di forte impatto nell’opinione pubblica, oppure farsi prendere la mano da scelte impulsive. In realtà, la buona giustizia si fa apportando subito le correzioni necessarie, operando nel metodo e nel merito, conoscendo i fatti e con riforme in profondità, "riforme di lungo periodo" nel codice di procedura penale e del codice penale. Così, si arriva a prevedere pene certe, "escludendo in radice la possibilità della sospensione condizionale per pene pecuniarie e interdittive.

Misure particolarmente importanti per la repressione di reati, come la guida in stato di ebbrezza, che possono generare altri gravi reati". E si può ipotizzare che in sede di conversione del decreto sulla riforma del codice stradale, di recente varato dal Consiglio del ministri, "si potrebbero anticipare alcune delle misure proposte" dalla commissione di riforma del codice penale.

Così il ministro della Giustizia Clemente Mastella in una lettera al Corriere della Sera di oggi scritta alla luce di "demagogiche affermazioni di alcuni che non aiutano certe le vittime di reato". Per Mastella, bisogna bandire "le polemiche strumentali" e trarre invece dai fatti di cronaca , specie se tragici, "lo spunto per iniziative che aiutino il buon funzionamento delle istituzioni". Due le questioni di metodo e due le prospettive di merito, dice il ministro.

Sul piano del metodo, innanzi tutto "mai parlare senza conoscere i fatti", e dunque non appaia strano che il titolare della giustizia chieda informazioni. Seconda questione di metodo: "Mai neanche ipotizzare un uso intimidatorio dello strumento ispettivo, come in passato è accaduto".

Quanto al merito, va riconosciuto che "la stella polare di ogni magistrato, sia esso giudice o pm, deve essere il rispetto assoluto del diritto e dei diritti. Ma è lecito attendersi dagli stessi magistrati piena coscienza degli effetti dei propri provvedimenti, anche nella prospettiva della prevenzione di comportamenti delittuosi, rispetto ai quali è maturata una diffusa coscienza di estremo disvalore e pericolosità sociale".

Dunque né ricerca di responsabilità "a posteriori" in una "assurda rincorsa ad un illusorio rischio zero nell’attività giudiziaria" e neppure devono esistere "santuari intoccabili sottratti a un obbligo generale di trasparenza delle proprie condotte".

Giustizia: Mancino (Csm); va accorciata la durata dei processi

 

La Repubblica, 15 agosto 2007

 

"Garantire gli individui e assicurare al tempo stesso l’efficacia della norma". Queste, secondo il vicepresidente del Csm Nicola Mancino, le priorità per contrastare la crisi di fiducia nella giustizia italiana, aggravata dalle polemiche sulle scarcerazioni facili, una delle quali, quella del genovese Luca Delfino, ha portato a un nuovo efferato omicidio. Per raggiungere questi obiettivi, spiega Mancino intervistato dal quotidiano La Stampa, occorre "accorciare anzitutto la durata dei nostri processi, che è irragionevolmente lunga.

Giuseppe Pisapia - ricorda - insieme con altri studiosi sta approfondendo la riforma del diritto penale, mentre la commissione presieduta dal professor Riccio ha concluso i lavori sulla riforma della procedura penale, consentendo di approvare il relativo disegno di legge delega". In gioco, sottolinea Mancino, è "la durata del processo attraverso lo snellimento delle procedure, e la possibilità di saltare un grado di giudizio, limitando di molto i casi in cui si può arrivare alla Cassazione.

L’Italia è l’unico paese che si permette il lusso di avere molte migliaia di avvocati cassazionisti e un corrispondente numero di magistrati della suprema corte...". Quanto ai fatti di cronaca di questi giorni, Mancino spezza una lancia a favore dei giudici, che "sono esseri umani, possono sbagliare", invocando "rispetto per il loro ruolo. La giustizia - sottolinea - non può essere amministrata in piazza".

Tuttavia, ammette, c’è un problema di norma che talvolta è "debole": per questo "occorre rafforzarla anche attraverso interventi legislativi urgenti". "Di fronte alla flagranza - spiega Mancino - io sarei meno tollerante. Non è detto che l’ubriaco colto alla guida debba avere l’immediata scarcerazione".

Entrando nello specifico del dramma di Genova, Mancino si dichiara "solidale con la famiglia che ha perduto una figlia", rimarcando tuttavia che "la forte emozione per certi fatti di cronaca non può arrivare al punto da infrangere la presunzione di non colpevolezza, che è principio sacro per qualunque stato di diritto".

Indulto: Angiolo Marroni; Di Pietro sbaglia, lo dicono i numeri

di Angiolo Marroni (Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio)

 

Il Riformista, 15 agosto 2007

 

È passato giusto un anno da quando il Parlamento, con la legge 241 del 31/07/2006, ha varato il provvedimento di indulto. Da allora sono passati 365 giorni costellati da difese, a volte non troppo convinte, di quel provvedimento, da attacchi di chi l’indulto non lo voleva e da ripensamenti di alcuni che lo votarono.

Esempio del dibattito che in queste settimane è tornato ad agitarsi intorno all’indulto è l’intervista rilasciata giorni fa al quotidiano La Stampa dal ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro (che quel provvedimento non votò) intitolata "Giustizia: Di Pietro; l’indulto è stato fatto per motivi ignobili".

Come Garante dei diritti dei detenuti della regione Lazio sono stato fra quanti, un anno fa, chiedevano una misura di clemenza che alleggerisse la pressione all’interno delle carceri, pericolosamente vicina al punto di esplosione. La mia voce si unì a quella di centinaia di volontari, di operatori e di altri soggetti istituzionali che quotidianamente vivono l’esperienza del carcere.

La nostra era una richiesta d’aiuto che partiva "dal basso" con un solo e unico scopo: migliorare le condizioni di vita dei penitenziari per renderli luoghi idonei alle politiche di reinserimento sociale, come previsto dalla Costituzione. Sotto questo punto di vista l’indulto, a un anno dalla sua approvazione, può essere giudicato a seconda dei casi come un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto.

Secondo i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, a giugno 2006 in carcere erano ristrette 61.264 persone, a fronte di una capienza regolamentare di 43.140 posti. Un anno dopo le persone ristrette erano 43.952. Ha dunque torto il Ministro Di Pietro quando dice che "le carceri oggi scoppiano nuovamente".

Frasi come questa hanno creato, nella pubblica opinione, l’errata percezione che l’indulto abbia portato un aumento dei reati. Sempre secondo i dati del Dap, con l’indulto, dal 1° agosto 2006 al 9 luglio 2007, sono state scarcerate 26.491 persone. Coloro che sono rientrati in carcere per aver di nuovo commesso un reato sono stati 5.331 (il 20,12%).

Le notizie di reati compiuti da "indultati", e rilanciate con clamore dai mass media, hanno alimentato la sensazione sbagliata di una situazione fuori controllo dell’ordine pubblico; un timore che ha, però, messo indiscriminatamente alla gogna sia chi ha sbagliato di nuovo, sia chi nell’ombra sta lottando per ricostruirsi una vita nella società.

In un altro passo della sua intervista il ministro Di Pietro afferma, a ragione, che a distanza di un anno "chi si trova all’interno di un carcere sta male ugualmente". Forse al provvedimento di indulto dovevano precedere e seguire misure concrete in tema di tutela dei diritti dei detenuti, cosa che purtroppo non è avvenuta.

Forse il Parlamento avrebbe potuto pensare a norme in grado di fare del carcere un luogo di punizione ma anche di recupero sociale del reo. Forse, oltre che sul numero dei detenuti, si poteva riflettere sul fatto che gran parte di loro sono tossicodipendenti, immigrati senza permesso di soggiorno, portatori di disagio psichico per cui andrebbero finalmente immaginate nuove forme di sanzioni, dai lavori di pubblica utilità, all’affidamento in prova o alle comunità terapeutiche.

Si sarebbe potuto ragionare su un altro dato tanto importante quanto sottovalutato: cioè il tasso medio di recidiva di coloro che hanno scontato integralmente la pena in carcere è del 68%, mentre per quanti hanno beneficiato di misure alternative tale percentuale è solo del 19%. Ci sarebbe voluto e ci vorrebbe più coraggio, e un dibattito privo di pregiudizi, per affermare che in sostanza tanto più si ricorre a misure alternative alla detenzione, minore è la probabilità che i destinatari dei benefici commettano nuovi reati.

E partendo da ciò si dovrebbe lavorare a un diritto penale finalmente più adeguato che preveda il carcere come extrema ratio e comunque come luogo di attività di recupero e reinserimento sociale del detenuto, essenziali per il successo del sistema punitivo e quindi con il ricorso massiccio a forme alternative di detenzione per consentire la graduale rieducazione del reo. Tra l’altro questo risponderebbe meglio alla legittima domanda di sicurezza che viene richiesta da tutti i cittadini.

Questo, e solo questo, ci aspettavamo quando un anno fa accogliemmo con favore la misura di clemenza varata dal Parlamento. Noi, che il carcere lo viviamo ogni giorno, non avevamo alcune "inconfessabili motivazioni ignobili" in mente per chiedere l’indulto, come ha lasciato intendere il ministro Di Pietro.

In questi mesi abbiamo lavorato per aiutare centinaia di ex detenuti a trovare un lavoro, un alloggio, un’assistenza adeguata, una forma di sostentamento per loro e per le loro famiglie. Ognuno di questi che si è rivolto a noi, anziché delinquere di nuovo, ci fa dire con orgoglio che l’indulto non è stato, come lo ha bollato il ministro Di Pietro "il primo errore del governo e della maggioranza" ma un primo passo di grande civiltà rispetto al passato.

Giustizia: Gasparri (An); il 13 ottobre in piazza per la legalità

 

Agi, 15 agosto 2007

 

Maurizio Gasparri, dell’esecutivo di Alleanza Nazionale, afferma che "è intollerabile la sfrontatezza con cui il magistrato Zucca si sottrae alle sue gravi colpe per il killer ligure a piede libero. Le sue dichiarazioni sono una sfida alla morale e alla legalità. Va sanzionato con immediatezza. Così come è inaccettabile ciò che dicono persone come Mancino del Csm in difesa di giudici irresponsabili.

L’indulto e la politica pro-crimine del governo Prodi-Mastella-Caruso fanno il resto. Bisogna ribellarsi e fare della sicurezza il primo punto di azione della politica. Tenere i criminali in carcere, espellere i clandestini, impedire l’invasione di rom che abbandonano i figli a drammatici destini. Per tutte queste ragioni bisogna scendere in piazza. An lo farà a Roma il 13 ottobre per affermare i principi di legge e ordine travolti dalla sinistra.

Giustizia: gli operatori "civili" dell’A.P. si sentono discriminati

 

Blog di Solidarietà, 15 agosto 2007

 

Al Presidente della Repubblica Sen. Giorgio Napolitano

Al Presidente del Consiglio Sen. Prodi

Al Ministro della Giustizia Sen. Clemente Mastella

Al Sottosegretario di Stato per la Giustizia Prof. Luigi Manconi

Al Capo del D.A.P. Dr. Ettore Ferrara

Al Direttore Generale E.P.E. Dr. Riccardo Turrini Vita

Al Direttore Generale del Personale Dr. Massimo De Pascalis

Al Coordinamento Nazionale Assistenti Sociali Giustizia

Alle Organizzazioni Sindacali: C.G.I.L.-F.P. C.I.S.L.-F.P./P.P. U.I.L.-P.A. S.A.P.Pe O.S.A.P.P. Si.N.A.P.Pe. F.S.A.-C.N.P.P. Si.A.L.Pe.-A.S.I.A. S.A.G.-P.P. U.S.P.P.-UGL FNPP CLPP LISIAPP RDB/CUB

 

I lavoratori civili dell’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna di Trieste e della Casa Circondariale di Trieste trasmettono l’allegato documento che esprime profondo dissenso rispetto alle penalizzazioni subite con il rinnovo del contratto per gli Statali, che riguarda anche il personale civile operante nel Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.

Il personale civile del Dap (assistenti sociali e personale amministrativo) opera sia nei Provveditorati Regionali che negli Uffici di Esecuzione Penale Esterna (che gestiscono l’area penale esterna, con n. 42.290 persone in carico nel 2006 secondo i dati ufficiali del Dap nel 2006, di persone in esecuzione penale ma non detenute), sia ancora nelle carceri (dove svolge mansioni nelle aree amministrativa e trattamentale).

Oltre infatti alle penalizzazioni subite con il rinnovo del contratto (mancato riconoscimento dell’aumento per tredici mensilità, etc.), nel settore dell’amministrazione penitenziaria si evidenzia infatti una ulteriore, forte ed iniqua sperequazione di trattamento contrattuale, economico e di carriera rispetto ai Dirigenti ed alla Polizia Penitenziaria: non viene riconosciuto il lavoro usurante con lo scivolo di un anno ogni cinque, pur operando tutti, pur con ruoli diversi, con la stessa "difficile" utenza e nell’identico contesto usurante; non vengono riconosciute né le varie agevolazioni previste per la polizia penitenziaria (asili nido, alloggi ad affitti agevolati, assicurazioni, convenzioni, etc.) né l’aumento dei giorni di ferie, etc.

I lavoratori civili dell’Amministrazione Penitenziaria ricordano che tutto il settore penitenziario non si risolve nell’area sicurezza delle carceri (senza nulla voler togliere all’importanza ed alla gravosità di impegno della Polizia Penitenziaria), esiste anche un’area penale esterna che non è carcere ed esiste anche negli istituti carcerari l’indispensabile area amministrativa e l’area trattamentale, che da sempre soffre di croniche carenze di organico, di spazi e di risorse materiali: si chiede pertanto parità di riconoscimento dell’impegno profuso negli anni, di trattamento, di risorse. Speriamo nella Vostra attenzione.

 

Operatori Uepe e C.C. Trieste

Sanremo: inviato di Mastella attacca esternazioni della polizia

 

Secolo XIX, 15 agosto 2007

 

"La polizia può ritenere ciò che vuole, ma non è suo compito valutare la gravità degli indizi Gli investigatori portino delle prove, dei fatti riscontrabili e non opinioni", L’avvocato generale dello Stato, Luciano Di Noto, facente funzioni di procuratore generale (Luigi Rovelli è in ferie) ha appena ricevuto dal ministro della Giustizia, Clemente Mastella, la richiesta ufficiale di chiarimenti sul caso Delfino.

Ma ha già una posizione ferrea sull’argomento, meditata, preparata tornando in tutta fretta dalla pausa estiva: "La titolarità delle indagini fa capo al pubblico ministero e spetta a lui tirare le somme, in base alla legge, dopo aver letto i risultati dell’inchiesta della polizia giudiziaria. Mi auguro che anche la questura sappia attenersi alle regole. Ognuno deve svolgere il proprio ruolo con senso di responsabilità. E da chi ricopre un posto chiave come quello di dirigente di una squadra mobile ci si aspetta che non cavalchi Fonda dell’indignazione dei cittadini. È troppo facile".

Parole nette, riferite alle dichiarazioni del capo della mobile genovese, Claudio Sanfilippo. E alla sua reazione alle accuse, giudicate da tutti "legittime", al pm genovese, Enrico Zucca, dai genitori di Maria Antonia Multari, sgozzata per strada a Sanremo, da Luca Delfino. La polizia aveva segnalato alla procura di Genova la pericolosità del trentenne, chiedendone - con urgenza - la custodia cautelare in carcere: "Avevamo detto per tempo al Pm che Delfino avrebbe ucciso ancora".

"Troppo facile" apostrofa l’avvocato generale Luciano Di Noto. Sarà lui a coordinare l’inchiesta interna voluta dal Guardasigilli: "Finiremo in tempi brevi, non oltre la fine di agosto - assicura - Non entreremo nello specifico degli indizi raccolti a carico dell’indagato per l’omicidio Biggi e lo stesso ministro della Giustizia non avrà accesso agli atti d’indagine. Il segreto istruttorio vale anche per lui".

Una richiesta, quella di Mastella, che ha visto - incredibilmente dati i rapporti non idilliaci tra i due - d’accordo l’ex pm e ora ministro delle Infrastrutture, Antonio Di Pietro: "Condivido l’iniziativa del Guardasigilli che ha chiesto l’acquisizione degli atti d’indagine, perché aiutala giustizia e contribuisce all’accertamento della verità".

A cinque giorni dal delitto di Sanremo, l’eco delle polemiche non accenna a placarsi. Ai funerali della giovane massacrata da Delfino in mezzo alla strada, ieri mattina sono comparsi striscioni contro i magistrati. Il questore di Genova, Salvatore Presenti, ha tentato una mediazione con il pm. Ma la diplomazia non è ancora riuscita a ricucire lo strappo, al momento più profondo di quanto non appaia, che s’è creato nel tempo tra procura e questura, tra il sostituto procuratore Zucca e il dirigente della squadra mobile, Sanfilippo.

Una crisi che affonda le sue radici negli anni successivi al G8 del 2001, nelle inchieste contro la polizia (che vedono tra l’altro il pm in prima linea), e in alcune indagini che hanno visto arrivare allo scontro, a volte seguito da plateali prese di posizione, tra pubblici ministeri e investigatori. Il capo della mobile, richiamato all’ordine da Roma, ieri ha preferito non commentare ulteriormente le dichiarazioni che via via si susseguivano sul caso Delfino.

Per lui e i suoi uomini hanno parlato in questi giorni gli indizi, le intercettazioni, le continue rivelazioni sulla personalità del killer e dei suoi precedenti. Elementi che hanno indotto la questura genovese a uscire allo scoperto, dopo aver tentato di forzare la mano sulla richiesta di custodia cautelare in carcere nei confronti del sospetto omicida di Luciana Biggi, uccisa la notte tra il 27 e il 28 aprile 2006.

Non è nel merito degli indizi su Luca Delfino che il ministro Mastella, intende entrare: "Considerando la tensione e le polemiche che si sono create tra polizia e procura - prosegue Luciano Di Noto - ci è stato chiesto di valutare come sono state svolte le indagini e capire per sommi capi se la procura abbia agito tempestivamente, compiendo tutti gli atti che sono doverosi in un caso di omicidio. L’errore da non commettere è quello di giudicare sull’onda emotiva o, peggio, ragionare con il senno di poi. Sarebbe semplicistico".

Ragionando freddamente, codice di procedura alla mano, "nessuno potrà mai sottrarre al pm la sua titolarità nella valutazione della gravità degli indizi raccolti dalla polizia" prosegue l’avvocato generale nelle sue funzioni, provvisorie, di procuratore generale: "La responsabilità penale è personale e va provata in relazione al singolo fatto.

Lo stesso omicidio di Sanremo non può che essere considerato un indizio nell’inchiesta sul delitto precedente, di vico San Bernardo a Genova. Bisogna fare molta attenzione. Mettere in carcere una persona senza la certezza giuridica della sua colpevolezza può pregiudicare l’intera indagine, oltre che porre lo Stato in condizione di dover risarcire l’indagato per l’ingiusta detenzione. E nel caso del delitto Biggi, non si ha la certezza che l’autore fosse Luca Delfino. Dovremmo poterlo dire, ma ora non siamo in grado".

La legge obbliga la procura ad archiviare ogni accusa nei confronti dell’indagato, in assenza di nuovi gravi indizi di colpevolezza, nel caso in cui il gip risponda negativamente alla richiesta di misura cautelare avanzata dal pm. Ed è di fronte a questo rischio, a quanto pare, che il sostituto procuratore Enrico Zucca s’è fermato: "Conosco il pm per i processi nei quali le nostre strade si sono incrociate - avverte l’avvocato generale Di Noto - ma non ho mai avuto modo di lavorare con il dirigente della squadra mobile. In generale, posso dire che il caso di Sanremo ha sollevato una risposta emotiva senza misura, legittima solo da parte dei familiari della vittima, generando una polemica che è già finita fuori dai binari della corretta valutazione dei fatti e della legge".

Sulmona: i detenuti lavorano per il "carosello" rinascimentale

 

Famiglia Cristiana, 15 agosto 2007

 

Cavalli e cavalieri, costumi, corazze, scudi, lance, stemmi. Un carosello rinascimentale rivive ogni anno grazie al lavoro artigiano dei detenuti del penitenziario locale.

Vale la pena di andare a Sulmona. Perché è una bella città, di antiche e mitiche origini, bella e nota soprattutto per due cose: la Giostra e i confetti. Entrambe le cose c’entrano con i detenuti, e poi spiegheremo come. Mentre per i confetti non c’è stagione, se non quella delle ricorrenze liete (in tutta Italia, in tutto il mondo), per la Giostra, dal 1995 (anno in cui si è tenuta la prima edizione), tra luglio e agosto, Sulmona vive il suo momento più suggestivo.

La città si riappropria di un tassello importante della sua storia e ne recupera appieno il valore. Prima c’è la Giostra cordesca (dedicata ai bambini) poi quella principale, la cavalleresca; a seguire, la Giostra d’Europa, e, in mezzo, quella dei borghi più belli d’Italia. Tredici borghi (in attesa del 14°, Bugnara), tredici magnifici gioielli nel raggio di 30 km: Anverso degli Abruzzi, Castel del Monte, Castelli, Guardiagrele, Introdacqua, Pacentro, Pescocostanzo, Pettorano sul Gizio, Pietracamela, Rocca San Giovanni, Santo Stefano di Sessanio, Scanno, Tagliacozzo.

Uno spettacolo imponente, con un corteo storico e le gare equestri che invadono il centro. I primi spettacoli cavallereschi ebbero forse origine al tempo degli Svevi (che fecero di Sulmona la capitale degli Abruzzi), ma l’epoca d’oro delle giostre, riservate a cavalieri nostrani ed esteri, a modello di quelle di Napoli, "col romper lancie addosso ad un huomo armato, che aspettava l’incontro a cavallo", sono appannaggio del pieno Cinquecento, quando un certo Cornelio Sardi ne codificò le regole nei trentasette capitoli, dati alle stampe nel 1584. Adattata ai tempi, la moderna Giostra è stata ridotta a una semplice gara agli anelli, lungo un circuito di un chilometro che i cavalieri, sfidandosi a coppie, dovranno percorrere al galoppo nel più breve tempo possibile, cercando di infilare con la lancia uno dei tre anelli di diverso diametro, posizionati a intervalli regolari e sorretti da finti "mantenitori" a cavallo.

 

Il carcere incontra la città

 

Il punteggio finale sarà dato dalla somma delle botte messe a segno, ossia dagli anelli infilati. Vale la pena, dicevamo, di andare a Sulmona e assistere alla gara e al corteo: perché cavalli e cavalieri di legno a grandezza naturale, stemmi dipinti a mano, tamburi, abiti e calzature rinascimentali, oggetti creati con una perizia che va scomparendo nel tempo, hanno un valore in più: sono stati creati tutti, dall’A alla Z, nei laboratori del carcere di via Lamaccio, da un gruppo di una sessantina di detenuti, diventati protagonisti della Giostra.

C’è chi, nell’istituzione, ha avuto la determinazione e la fantasia di pensare un progetto di formazione professionale che potesse veramente far incontrare il carcere con la città: questa persona è Giacinto Siciliano (ora, da poco, direttore del carcere di Opera, Milano) che con il direttivo della Giostra cavalleresca, d’intesa con Comune, Provincia, Regione, ha attivato una serie di laboratori (calzoleria, serigrafia per bandiere e foulard, sartoria, falegnameria, piccola carpenteria metallica e accessori, mentre un laboratorio di ceramica partirà a settembre) affinché davvero "il carcere si mettesse al servizio della città". La Casa di reclusione (e Casa di lavoro) di Sulmona sta sulla Circonvallazione, a circa 2 km dal centro. Ha circa 400 detenuti, per lo più non sulmonesi.

 

Una storia con episodi drammatici

 

La sua storia passa attraverso episodi drammatici (il suicidio di alcuni detenuti, il suicidio di Armida Miserere, una delle prime donne direttore di carcere, dopo la morte del suo compagno Umberto Mormile, educatore carcerario, ucciso in un agguato di camorra nel 1990 a Milano), attraverso tempi bui. Anche se da sempre "dentro" si costruiscono le confezioni più scenografiche di confetti per i matrimoni, quei fiori di confetti che formano le corbeilles delle spose. Anche se fuori, forse, non si sa.

"Il carcere, oggi, non è più così estraneo alla città", dice Siciliano, che a Sulmona ha lasciato un pezzetto di cuore. "Il lavoro, la cultura servono per sentirsi parte della comunità. Nel nostro caso è stata veramente un’opera collettiva. I detenuti conoscevano la destinazione dei loro manufatti, erano e sono orgogliosi di aver utilizzato bene le mani; il personale di Polizia penitenziaria partecipa alla Giostra, ovviamente, come gli altri cittadini, e ammira le creazioni che ha visto nascere. Inoltre i detenuti si sono scoperti artigiani bravissimi, per realizzare delle cose che altrimenti non si potrebbero fare, perché ci vuole tempo, ci vuole spazio, ci vuole buona volontà...".

Il lavoro, in carcere, è una medicina. Perché una grande parte della pena è restare separati da quello che succede fuori, essere inutili, non sapere cosa si farà una volta usciti dal carcere, ma anche non fare nulla "durante", non fare nulla di interessante per la comunità dei liberi. A Sulmona, forse, non è più così.

 

Quei prodotti "fatti in carcere"

 

Giuseppe Cerroni, direttore generale della Comunicazione e affari istituzionali della Società Autogrill, è entusiasta: "Certo, è una prima operazione. Un esperimento, per ora, del volume di 40 mila euro. Un ordine: né piccolo né grande. Ma la nostra intenzione è quella di sviluppare questo rapporto di collaborazione, dando anche un riscontro che possa orientare qualitativamente i nostri fornitori. Informarli di quello che funziona, dare indicazioni di mercato, e anche aiutarli a correggere il tiro, eventualmente...".

Per ora l’esperimento funziona. Diventare un canale di vendita per prodotti che arrivano dal carcere (o dintorni); merce non distribuita con un logo "pietista", messa sugli scaffali degli Autogrill sparsi per l’Italia senza differenza alcuna con il resto dell’offerta...

La scommessa, cominciata, anche qui, per iniziativa dell’Istituzione (in particolare di Luigi Manconi, sottosegretario alla Giustizia, con delega alle Carceri), che si è fatta parte attiva nel promuovere un punto di incontro tra il mondo del carcere e il mondo... degli altri.

Parlano in inglese, all’Autogrill. E così anche noi descriveremo i prodotti come prodotti "no food" (come le magliette, fornitore è la cooperativa Made in jail, Roma, dove "Made in jail" significa, appunto, fatto in carcere) e prodotti "food": miele (fornitore "I germogli" di San Colombano al Lambro, una cooperativa sociale, a circa 40 km a Sud di Milano, che impiega i minori provenienti dal Beccaria e impegnati in un programma di formazione in cui è prevista una parte pratica); e i biscotti alla pasta di mandorla della cooperativa "L’arcolaio" (prodotti dalla casa circondariale di Siracusa). Ottimi.

"I prodotti sono di buona qualità, e per questo sono venduti. Noi non abbiamo ragionato in termini di compassione, ma di presa in considerazione. E siamo contenti di poter dire che i "prodotti dal carcere" hanno sufficiente dignità per poter stare nei nostri punti vendita". La cosa importante è proprio questa: avere la dignità, poter costruire qualcosa che sia alla pari degli altri, almeno al momento di partenza... Potersi confrontare.

Da Nord a Sud (5 in Piemonte, 3 in Liguria, 10 in Lombardia, 4 in Veneto, 2 in Friuli-Venezia Giulia, 10 in Emilia-Romagna, 5 in Toscana, 1 nelle Marche, 2 in Abruzzo, 11 nel Lazio, 3 in Campania, 1 in Puglia, 1 in Sicilia), negli Autogrill, sulle autostrade d’Italia, fino a metà settembre, i prodotti fatti in carcere saranno disponibili per essere indossati, sgranocchiati, assaggiati, gustati: proprio come gli altri, perché frutto di un lavoro: serio, regolare, onesto. E competitivo.

Torino: ieri Radicali hanno visitato carcere "Lorusso-Cotugno"

 

Comunicato stampa, 15 agosto 2007

 

Il deputato radicale della Rosa nel Pugno Bruno Mellano, accompagnato da Giulio Manfredi (Direzione Nazionale Radicali Italiani), ha varcato ieri alle ore 15.00 i cancelli dell’Istituto penitenziario "Lorusso-Cotugno" di Torino per una visita ispettiva, durata due ore.

Gli esponenti radicali sono stati accolti dalla vice-direttrice Di Rienzo e dal Comandante degli agenti di polizia penitenziaria Colella, che hanno illustrato la situazione esistente: 1.207 detenuti presenti alla mezzanotte di ieri; da gennaio a maggio vi è stato un aumento costante (da 1.067 a 1.221. detenuti), che si è poi stabilizzato negli ultimi mesi grazie anche allo spostamento di reclusi nelle altre carceri del Piemonte. I detenuti presenti nell’istituto un anno fa, alla vigilia del provvedimento d’indulto, erano circa 1.400.

Casi particolari: la presenza in istituto di nove bambini con madri detenute; 21 persone in regime di art. 21/semiliberi; una trentina i trattamenti metadonici in corso, di cui solo uno a mantenimento.

Sono in atto lavori di ristrutturazione del "block-house" all’entrata dell’istituto, che consentiranno una migliore sistemazione degli agenti e una migliore accoglienza dei parenti dei detenuti.

La presenza nell’ultimo anno di un minor numero di detenuti (vedi indulto) ha permesso il rifacimento dei tetti di alcuni padiglioni e di molte docce. Dal 1° agosto è operativa, almeno sulla carta, una circolare del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria relativa alle "regole di accoglienza", per migliorare il primo impatto dei nuovi arrivati con il carcere; prescrive, tra l’altro, di assicurare loro una doccia, un pasto caldo, un’adeguata assistenza medica. Mellano e Manfredi hanno, infine, visitato alcuni reparti del carcere e parlato con alcuni detenuti, fra i quali il signor Salvatore Costa, accusato dalla Procura di Torino di aver ricattato alcuni sacerdoti.

Mellano ha dichiarato: "Mi sono attenuto scrupolosamente a quanto consentito dalla legge penitenziaria; mi sono limitato, pertanto, a verificare le condizioni di salute del signor Costa e, avendo appreso che i suoi avvocati avevano rimesso il mandato, gli ho chiesto se fosse privo di assistenza legale; il signor Costa mi ha assicurato di avere già nominato altri avvocati.".

Potenza: Lapenna (Fi) ieri in visita alla Casa Circondariale

 

Asca, 15 agosto 2007

 

"La visita presso la Casa circondariale di Potenza che si svolge nell’ambito delle prerogative che la legge assegna ai consiglieri regionali - afferma Lapenna - rientra nel contesto caratterizzato dalla volontà e dalla necessità di conoscere in modo esaustivo la realtà vissuta dalla popolazione carceraria e le problematiche concernenti il ruolo fondamentale svolto dal Corpo di Polizia Penitenziaria".

"Nel corso dell’incontro - spiega Lapenna - sarà affrontata la questione della vigenza contrattuale delle norme che riguardano la Polizia Penitenziaria per verificarne la loro concreta attuazione. Con l’occasione - continua - saranno chieste notizie al Direttore della Casa circondariale sullo stato di attuazione della Legge sull’indulto e, in particolare, si cercherà di verificare come si è ricostituita la popolazione carceraria dopo l’uscita di numerosi detenuti che hanno beneficiato della Legge sull’Indulto".

"L’attenzione sarà, anche, rivolta - specifica Lapenna - sullo stato dell’immobile che ospita la Casa circondariale di Potenza per constatare se la struttura necessita di nuovi lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria, nonché sul problema dell’ingresso dei familiari nella Casa circondariale. Da troppi anni, infatti - sottolinea Lapenna - i familiari dei detenuti, ivi compresi donne e bambini, sono costretti a sostare letteralmente in mezzo alla strada in attesa del colloquio con il proprio familiare. Ebbene, tale situazione non può perdurare e, a tal proposito, è più che giusto sostenere le proposte della Direzione della Casa circondariale che contemplano la creazione di un ingresso autonomo per i familiari con l’eventuale possibilità di creare, anche, un piccolo parco giochi per l’intrattenimento dei bambini".

"L’altro problema che sarà affrontato - riferisce il consigliere - concerne il lavoro dei detenuti che devono essere impegnati, prestando la propria opera presso cooperative per poter effettivamente ambire ad un completo reinserimento nella società. Non ultima, la questione concernente le associazioni di volontariato che operano all’interno della Casa circondariale per verificarne la loro validità progettuale e per far sì che gli operatori di tali organizzazioni siano posti nella condizione di operare fattivamente all’interno della struttura".

Lapenna, infine, ribadisce che "la Casa circondariale di Potenza ha tutti i requisiti per avviare un progetto di nuovo modello per la vita quotidiana e futura della popolazione carceraria ed in questo avrà un ruolo di primaria importanza la Direzione della struttura".

Firenze: detenuto albanese evade durante un trasferimento

 

La Repubblica, 15 agosto 2007

 

Per quasi un mese aveva vissuto in uno stato vegetativo. Forse fingendo. All’improvviso si è svegliato, ha colpito il caposcorta ed è fuggito a piede nei boschi. È evaso così, scalzo e - secondo il racconto degli agenti di polizia penitenziaria - in manette, Ilir Paja, 34 anni, albanese, accusato di due omicidi. È scappato questa mattina in un’area di servizio dell’A1 a Reggello (Firenze) durante un trasferimento in ambulanza dal carcere di Livorno a quello di Carinola (Caserta). Per Paja è la seconda evasione: nel giugno dell’anno scorso era scappato dal carcere di Perugia durante l’ora d’aria, scavalcando uno dei muri del cortile. Senza esiti la caccia all’uomo delle forze dell’ordine toscane.

Ma Ilir Paja, secondo quanto appreso da fonti investigative, potrebbe non avere avuto le manette al momento della fuga. Alcuni testimoni lo avrebbero visto correre con le mani libere. Gli agenti della polizia penitenziaria che scortavano l’albanese, sono stati sentiti fino a tarda sera dagli agenti della squadra mobile.

I precedenti. Dall’omicidio al traffico di droga, dalle rapine in villa alla violenza sessuale, dalla prostituzione al sequestro di persona: sono questi i reati di cui Ilir Paja, soprannominato "Ufo", è stato accusato. Nel giugno del 2006 era stato protagonista di un’altra fuga, in quel caso dal carcere di Perugia. L’albanese era rinchiuso da cinque mesi in attesa di essere estradato in Germania, dove era ritenuto responsabile dell’omicidio di un suo connazionale a Duisburg. Durante l’ora d’aria, aveva scavalcato un muro di otto metri utilizzando una corda artigianale, realizzata con dei lenzuoli, all’estremità della quale aveva collocato una sorta di gancio rudimentale. Quindi aveva superato anche le altre recinzioni del carcere, riuscendo a far perdere le sue tracce.

Rifugiatosi a Milano, era stato subito coinvolto in un altro episodio di cronaca. Era stato infatti accusato di aver ucciso un ecuadoregno e di averne ferito un altro per questioni di donne. Catturato nel settembre scorso a Buscate, nell’hinterland del capoluogo lombardo, si sarebbe dovuto presentare davanti al giudice il 5 novembre per l’inizio del processo.

I fatti. L’evasione di questa mattina ha l’aria di non essere stata improvvisata. Paja era stato trasferito il 22 luglio a Livorno dal carcere di Carniola per essere sottoposto ad un periodo di osservazione psichiatrica. Ha trascorso questi giorni in uno stato vegetativo, senza interagire con il personale del carcere, che alla fine ha deciso di trasferirlo, con un’ambulanza, di nuovo nel carcere campano.

Stamani, intorno alle 10.30, l’ambulanza si è fermata in un’area di servizio sull’autostrada A1 in zona Reggello. Paja, sdraiato sul lettino e in manette, ha iniziato a gemere, ha aspettato che il caposcorta gli si avvicinasse e lo ha colpito con un pugno al volto. Quindi ha aperto con un calcio il portellone dell’ambulanza ed è fuggito. I sei agenti si sono messi all’inseguimento, sparando anche alcuni colpi in aria, ma l’albanese, hanno raccontato i poliziotti, è riuscito a scavalcare un alto muro, poi ha seguito il percorso di una linea ferroviaria e si è inoltrato in una zona boscosa.

Caccia all’uomo. La procura di Firenze ha aperto un’inchiesta. La squadra mobile di Firenze, in costante contatto con quella di Perugia che indagò sulla precedente evasione, ha ascoltato gli abitanti della zona, gli agenti penitenziari addetti alla scorta e i due sanitari che si trovavano sull’ambulanza. Polizia, carabinieri, forestale, unità cinofile, elicotteri hanno battuto il territorio. Hanno trovato i pantaloni del detenuto, perfino il cadavere di un’anziana scomparsa di casa giorni fa. Ma di Ufo, nessuna traccia.

Nomadi: Livorno; messi in carcere i genitori dei bimbi morti

 

Avvenire, 15 agosto 2007

 

Eva, Meuktji, Tanktji e Tenekza sono sdraiati sul tavolo di metallo d’una sala settoria. Li hanno stesi ieri pomeriggio, quando sono cominciati gli esami autoptici su quel che resta dei loro corpicini carbonizzati. Non sarà lavoro facile, né veloce, quello dei medici legali (Luigi Papi e Alessandro Bassi Luciani, incaricati dal pm Alessandro Giaconi): servirà loro qualche giorno per portarlo a compimento, perché le fiamme distruggono, nascondono, cancellano.

I genitori dei tre fratellini e del cuginetto rumeni, bruciati nella baracca sotto un cavalcavia della periferia livornese e ritrovati rannicchiati e vicini, sono in isolamento dentro celle del carcere "Le Sughere". Ve li ha fatti rinchiudere sabato notte il pm, dopo averli accusati d’abbandono di minore e di incapace, negligenza, concorso in incendio colposo: reati per i quali si può arrivare a prendere fino a sette, otto anni di galera. Proprio stamane il giudice per le indagini preliminari dovrà decidere se convalidare o meno. E neppure è detto che i provvedimenti siano già esauriti coi quattro fermi disposti dal magistrato.

Certo è che quei genitori hanno mentito su alcune circostanze (ad esempio dicendo che nelle baracche lì sotto non cucinavano o raccontando la tesi della bottiglia incendiaria lanciata sulla baracca) e che sono passate quasi due ore prima che denunciassero la scomparsa dei loro figli e tornassero al loro "campo". Certo è che gli altri adulti hanno mentito altrettanto, almeno sul raid punitivo, per coprirli.

Così anche ieri sono tornati i Vigili del fuoco e la scientifica a studiare la terra annerita, le sterpaglie bruciate, i resti di vita quotidiana e misera. A fare rilievi. A cercare di "leggere" fuliggine, cenere e quanto non è diventato fumo. Per capire com’è andata venerdì notte in quei pochi, spaventosi, minuti. Nel frattempo, anche una biologa genetista cercherà di fornire risposte: il pm Giaconi ha infatti affidato a Isabella Spinetti, esperta in indagini genetiche dell’università di Pisa, il compito di effettuare analisi sul dna dei bambini e su quello dei loro parenti (non solo quelli tuttora in carcere perché sottoposti a fermo).

Mentre è destinata a diventare certezza l’ipotesi che nessun adulto fosse lì vicino quando la baracca ha preso fuoco (a parte la donna che ha afferrato stretta la figlia ed è schizzata via dall’inferno): non è stata trovata neppure l’ombra d’una bruciatura sui vestiti che quella notte indossavano le donne e gli uomini che vivevano nel "campo".

"Uno dei due padri detenuti in carcere, Victor, fu ricoverato all’ospedale Cisanello di Pisa dopo aver partecipato a una rissa con un gruppo di livornesi un mese fa", ha riferito ieri sera il consigliere regionale dei Verdi, Mario Lupi, uscito dalla visita ai genitori dei bimbi morti: "È stato lui a raccontarmelo - ha aggiunto - senza altri dettagli. Né hanno voluto parlare di quanto accaduto, limitandosi a chiedere un funerale dignitoso per i loro figli".

Lungo la strada qui sopra intanto, in cima al cavalcavia, qualcuno ha lasciato un mazzo di fiori bianchi. Qualcuno si ferma per guardare giù. Qualcun altro accosta, recita una preghiera e se ne va. Livorno sembra ancora abbastanza sotto choc ed è nelle polemiche (per le bancarelle e i negozi rimasti aperti sabato sera durante la festa Effetto Venezia nonostante la sospensione disposta dal Comune). Il sindaco, Alessandro Cosimi, ha raccontato in un’intervista a Repubblica che sebbene loro cerchino di "intercettare le situazioni di rischio, i bambini del cavalcavia non li avevamo intercettati".

Immigrazione: Arci; la nuova legge, per evitare altre morti

 

Notiziario Aduc, 15 agosto 2007

 

L’unico antidoto alle tragedie del mare, che oggi contano l’ultimo bollettino di vittime al largo di Lampedusa, è l’approvazione della nuova legge sull’immigrazione. Lo afferma Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci.

"Spero che al più presto venga approvata la legge che il governo ha mandato in Parlamento. È questo l’unico antidoto ai morti di frontiera, unico modo per entrare legalmente. Una modalità che ora non è così". La gente continua a morire e a pagare 5 mila euro per arrivare dal Marocco all’Italia quando quegli stessi soldi, invece di alimentare le organizzazioni criminali, potrebbero essere utilizzati da queste stesse persone per mantenersi un anno, trovare lavoro presentatosi con la propria faccia. "Oggi purtroppo i migliori alleati delle organizzazioni criminali che sfruttano i clandestini sono proprio i Paesi europei, che non consentono un’entrata legale e mantengono regole rigide".

Stati Uniti: le vendono finta droga; lei denuncia, arrestata...

 

Notiziario Aduc, 15 agosto 2007

 

Una truffa subìta che le è costata l’arresto. Imbrogliata dai suoi spacciatori, chiama la polizia per "riavere indietro i soldi" e viene arrestata. È successo in Georgia, nella città di Rochelle. Una donna di 53 anni, Juanita Marie Jones, aveva acquistato alcune dosi di cocaina. Una volta a casa, però, si è accorta che la droga era contraffatta. A questo punto, piuttosto seccata, ha pensato bene di telefonare alla polizia pensando di poter avere giustizia. Quando gli agenti sono arrivati nella sua abitazione, li ha fatti entrare in cucina per mostrare la "prova" della truffa. Davanti alle dosi di cocaina contraffatta la polizia non ha avuto dubbi: è stata arrestata per possesso di droga.

 

 

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