Articolo di Mario Nasone

 

Il carcere non può essere una porta girevole, di Mario Nasone

Direttore dell’Ufficio dell’Esecuzione Penale Esterna della Calabria

 

Gazzetta del Sud, 8 settembre 2006

 

L’approvazione della legge sull’indulto, con la messa in libertà anche in Calabria di un numero consistente di detenuti, può essere l’occasione per ripensare profondamente la pena ed il rapporto con il carcere.

Il carcere non può continuare ad essere una sorta di porta girevole dalla quale entrano ed escono sempre gli stessi soggetti e per i quali il trattamento penitenziario, anche quando è adeguatamente garantito come in Calabria, rischia di essere vanificato se a momento della dimissione non c’è una continuità d’interventi.

Misure come l’indulto possono servire a decongestionare temporaneamente le carceri sovraffollate, ma bisogna prendere atto che il reinserimento nella società è un’altra cosa. Dalle esperienze passate sappiamo che statisticamente, due detenuti su tre che hanno goduto in precedenza d’analoghi provvedimenti, sono poi rientrati in carcere a seguito della commissione di nuovi reati.

In particolare in una realtà sociale ed economica come quella calabrese che non offre adeguati sostegni e sbocchi occupazionali il rischio della recidiva, è ancora più alto anche per la presenza di una criminalità organizzata che ha buon gioco a cooptare i soggetti, soprattutto giovani, che non hanno punti di riferimento e prospettive occupazionali.

Servono quindi interventi strutturali per innovare il sistema penitenziario, c’è bisogno del coinvolgimento della regione e degli Enti Locali all’azione di recupero sociale, è necessaria una politica di reale sviluppo delle misure alternative al carcere che coinvolge quella parte della popolazione penitenziaria e a quei condannati che hanno un reale interesse ad uscire dai circuiti della devianza.

Quella che si auspica è una svolta radicale rispetto a quelle che sono state le attuali politiche d’esecuzione penale che hanno prodotto un aumento indiscriminato della carcerazione, anche per reati che potevano avere una sanzione alternativa e che non hanno aumentato la sicurezza dei cittadini.

Sono necessarie scelte coraggiose che non devono certamente significare buonismo ed automatismo nella concessione dei benefici penitenziari.

Chi ha commesso un reato è una persona che non ha saputo gestire la propria libertà, anche se bisogna tenere sempre presente li condizione di disagio sociale, i pregiudizi che spesso condizionano le scelte devianti.

Non si può dimenticare che oggi il carcere è un contenitore di situazioni di povertà, di miseria ed emarginazione che riguarda soprattutto le fasce sociali più deboli. Molte delle persone in difficoltà che entrano in contatto con le realtà socio - assistenziali del territorio, hanno un’elevata possibilità di essere coinvolte nei meccanismi di devianza e di criminalità. Un’azione sociale più intensa, più ricca d’attenzione nel territorio, durante e dopo l’esperienza del carcere, può ridurre significativamente il numero di carcerati evitando in particolare alle loro famiglie ed ai minori l’esperienza della detenzione che ha effetti devastanti dal punto di vista economico, affettivo e educativo.

In particolare va perseguita una politica di flessibilità della pena cosi come chiesto autorevolmente e da temo da Carlo Maria Martini, Cardinale Emerito di Milano «si affronti il nodo delle pene alternative al carcere. Bisogna superare il concetto di detenzione inteso come unico strumento nei confronti di chi sbaglia. Il carcere è necessario per prevenire il crimine organizzato ed il terrorismo ma per reati minori si prevedano forme di riconciliazione, impegni onerosi capaci di riportare alla vita civile chi ha sbagliato».

A seguito dell’indulto tutte le organizzazioni sindacali e di volontariato che si occupano di carcere concordano nel chiedere al Governo Nazionale ed al Parlamento urgenti e concreti provvedimenti di potenziamento dell’area penale esterna, di quell’area che riguarda i soggetti che scontano la loro pena fuori del carcere e il cui numero è già oggi consistente: 45.000 in Italia, oltre 2.000 in Calabria.

In Calabria lo sviluppo del sistema delle misure alternative alla detenzione è particolarmente difficile. Vi è una carenza degli organici degli Uepe, uffici di esecuzione penale esterna, in particolare degli Assistenti Social, uffici che hanno un carico di lavoro non adeguato alle risorse umane e finanziarie che sono a loro disposizione. In più va tenuta presente la specificità del territorio calabrese e delle sue problematicità.

Le scarse opportunità occupazionali e sociali, la debolezza degli enti locali e dei servizi, la presenza di una criminalità organizzata che condiziona ed ostacola anche il lavoro degli operatori penitenziari, sono tutti fattori di cui bisogna tenere conto ma che non debbono spingere alla cultura del lamento e della passività. L’esecuzione penale esterna in Calabria registra nonostante tutto un bilancio positivo, nell’ultimo anno degli oltre 2.000 soggetti che hanno fruito di una misura alternativa meno del 4% hanno avuto revocato il beneficio per comportamento negativo, diversi Enti Locali nonostante la scarsità di risorse economiche ed umane stanno iniziando a collaborare ed a coinvolgersi in questa sfida del reinserimento.

È questa una strada da percorrere con maggiore convinzione ed i risultati saranno migliori se ci sarà il concorso di più forze ed in particolare della regione Calabria che in forza del protocollo d’intesa stipulato nel 2003 con il Ministero della Giustizia potrebbe dare un apporto maggiore nel settore in particolare della formazione professionale, del lavoro, della sanità. Così come una risposta importante deve venire dalle imprese e dal mondo del lavoro in generale che possono svolgere un ruolo determinante nelle politiche d’inclusione sociale di questi soggetti.

In questo quadro essenziale è il ruolo della Chiesa e del volontariato d’ispirazione cristiana che già in Calabria è lodevolmente presente nel settore penitenziario calabrese con una qualificata ed insostituibile presenza. Il carcere e anche questione di Chiesa: di quanti avendo un’esperienza segnata dalla fede in Cristo, sono chiamati a tenere gli occhi ed il cuore aperto verso di chi fa fatica ed ha bisogno di essere aiutato a recuperare in pieno la capacità di vivere serenamente e di reinserirsi socialmente.

Per questo è importante che, dopo l’atto di clemenza chiesto da Giovanni Paolo secondo al Parlamento, e che con l’approvazione dell’indulto è stato oggi recepito, le comunità cristiane s’interroghino sulle proprie responsabilità nell’accoglienza di che esce dal carcere. Iniziative come quella di Mons. Nunnari, Vescovo di Cosenza e Bisignano, di un incontro pastorale dentro il carcere di Cosenza vanno in questa direzione, perché aiutano la Chiesa a riscoprire una delle povertà più difficili che il vangelo chiede però sia condivisa da tutti i cristiani.

 

 

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