Articolo di Antonio Morelli

 

Il detenuto è l’anello debole della società, di Antonio Morelli

Responsabile Conferenza Regionale Volontariato Giustizia della Calabria

 

Gazzetta del Sud, 8 settembre 2006

 

"Caduta e rialzata, non è caduta". Sono queste le parole che una mamma ha usato per farmi capire il percorso che stava compiendo suo figlio. Aiutare a rialzarsi, sì, proprio così. Tutto ciò che facciamo può ridursi anche ad autoreferenzialità se non è finalizzato a uno scopo: la "rialzata", la riaffermazione cioè della dignità della persona umana. E chi ha più bisogno di essere aiutato a rialzarsi di chi sta pagando le conseguenze dei "suoi" errori, cioè la persona detenuta?

Ho virgolettato il possessivo perché spesso è l’anello più debole della catena che si spezza e la "sua" debolezza, non è qualcosa di connaturale, ma è insita in un sistema sociale che non lo sostiene, anzi lo esclude sempre di più.

E oggi il carcere, all’80%, è pieno di povera gente, di "anelli deboli". Il carcere è un apartheid sociale: disoccupati, alcool e tossicodipendenti, persone con varie patologie, stranieri sono il bacino di utenza di questa struttura totalizzante. Ma non è coprendo la polvere con il tappeto che si può sostenere di avere la casa pulita. Il problema deve essere affrontato alla base.

Se il detenuto è, per buona percentuale, il frutto delle contraddizioni di una società "malata", è questa che va curata: bisogna cioè evitare che i "suoi" problemi ricadano sull’anello più debole. Allora prima di tutto è da pretendere che i due "piatti della bilancia" stiano tra loro alla pari.

È un riaffermare il sacro concetto di Giustizia, che non si traduca in vendetta, ma in opportunità di riscatto e di "rialzata". Una giustizia che non deleghi al carcere la funzione di contenere il disagio e l’esclusione sociale, ma che sappia prevedere percorsi alternativi nel rispetto della legalità e della sicurezza, per coloro, e sono i più, che commettono reati minori connessi allo stato di povertà, alla condizione di alcool o tossicodipendenza, alla sussistenza di patologie, alla violazione di norme sull’immigrazione.

Il carcere non può risolvere i problemi sociali, ma può e deve offrire anche una speranza e non ridursi a un luogo che solo chiude una vita. Ecco allora che anche il recente provvedimento dell’indulto è da intendere, come già affermato da Sua Santità Giovanni Paolo II, come un tentativo di riequilibrare "i piatti della bilancia". Dico tentativo perché, pur approvandolo e condividendone i principi, è inutile se non seguono riforme sostanziali, non solo della giustizia, ma del modo di impostare e gestire le politiche sociali. Esso, per evitare che si inneschi il sistema della "porta girevole", va accompagnato da scelte politiche precise e di sostegno.

Oltre 21.000 poveri ed emarginati si sono trovati fuori dal carcere senza una rete capace di accoglierli e molti, "è assurdo", avrebbero preferito "non uscire". Istituzioni, Enti Locali, Chiesa, privato sociale, tutti dovremmo attivarci per creare un sistema rete, e non a parole, che attutisca l’impatto di queste persone con una società chiusa, spesso, a riccio e prevenuta.

Ogni ente locale deve sentire in modo nuovo la responsabilità della prevenzione sociale e deve quindi essere disposto a superare tutte quelle stanche e obsolete procedure che impediscono di avere risultati apprezzabili e duraturi, i soli che contribuiscono ad aumentare realmente la sicurezza quotidiana dei cittadini. Tutti, dentro e fuori dalle carceri, dobbiamo operare affinché l’indulto sia soltanto il primo di una lunga serie di importanti risultati sulla strada di una Giustizia più Giusta, nella quale non ci siano cittadini di serie A, nei confronti dei quali si organizzano sit-in, si mobilitano politici e i mass-media, e cittadini di serie B, poveri cristi già emarginati e da emarginare, le cui voci non contano e di cui nessuno parla, perché marchiati con l’inchiostro indelebile dell’infamia e dell’indifferenza.

Da sempre chi esce da un penitenziario non sa dove sbattere la testa e la boccata di ossigeno che l’indulto ha portato nelle nostre carceri, piene all’inverosimile, non ha evidenziato alcunché di nuovo. I detenuti si troveranno con gli stessi problemi di ogni fine pena: quando ci chiedono i soldi per il biglietto del treno, altrimenti non saprebbero andare a casa, o dove mangiare e dormire. È un problema cronico di chi esce dal carcere, dove entrano sempre più persone con disagio sociale, che hanno difficoltà a vivere.

Lo stesso Ministero della Solidarietà Sociale nella lettera di convocazione della Cnvg per il 5 settembre così afferma: "Al di là dell’emergenza, è stato evidenziato come il nostro Paese sia ancora carente di un organico programma nazionale di reinserimento e accoglienza per le persone che escono dal carcere ed è stata sottolineata la contingente necessità di elaborare ed attuare un coordinamento tra le strutture e i servizi interessati al problema".

Si spera solo che dai buoni propositi si riesca a concretare delle buone prassi. All’indulto allora devono seguire riforme sostanziali non solo della giustizia, ma delle politiche sociali, diversamente i problemi si ripresenteranno. L’indulto va quindi accompagnato da scelte politiche precise.

Scelte che diano un sussulto ai nostri territori. E qui, di conseguenza, deve subentrare il ruolo delle istituzioni a tutti i livelli e di tutti gli organismi che si interessano del settore. In base alla legge 328/00, Regioni (ma guarda caso ancora in Calabria, pur essendo stata recepita con la legge 23/03, mancano di decreti attuativi) e Comuni hanno la responsabilità di programmazione e operativa rispetto a persone che presentano disagio e problemi di inserimento sociale.

Si pensi ai problemi di ex-detenuti tossicodipendenti in trattamento o ai sieropositivi o a coloro che hanno patologie psichiatriche. In molti casi l’interruzione improvvisa delle terapie può causare danni seri. È quindi indispensabile che queste persone siano avviate ai Ser.T. o alle strutture sanitarie locali, superando i limiti della non residenza, per una presa in carico urgente.

È anche urgente che si intervenga, tramite le Prefetture, sui Servizi territoriali, per la presa in carico dei soggetti più bisognosi. Anche la Chiesa, come sempre, deve svolgere il suo ruolo nei confronti del mondo del penale: anche nel carcere infatti ci sono "battezzati", "membra" del popolo di Dio. È da dire però che la Chiesa non ha mai trascurato il mondo del penale, l’istituzione carceraria e, in particolare, la persona detenuta.

 

 

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