Rassegna stampa 3 marzo

 

Verità e bugie sulle carceri, di Ernesto Galli Della Loggia

 

Corriere della Sera, 3 marzo 2006

 

Chi governa, si sa, non ama le critiche. C’è qualcuno però che per metterle a tacere pensa che sia lecito negare ogni addebito e in sostanza mentire: il ministro della Giustizia Castelli appartiene a questa non eletta schiera. Era poco più di due mesi fa, infatti, il 29 dicembre dell’anno scorso, quando, in risposta a un mio editoriale critico delle condizioni delle carceri italiane, egli scriveva a questo giornale una piccatissima lettera di risposta (lunga almeno il doppio, secondo un tipico costume nazionale), nella quale, oltre a sostenere il carattere malizioso e del tutto infondato delle critiche suddette, frutto naturalmente della più colpevole disinformazione, assicurava che sotto la sua guida l’amministrazione carceraria non aveva fatto che migliorare.

"Smettiamola - concludeva l’indignato Castelli - di accreditare i nostri penitenziari come un inferno, smettiamola di eccitare irresponsabilmente l’animo dei detenuti". Peccato che a dispetto di tanto nobili intenzioni sia proprio il ritratto di un inferno quello che invece emerge dai dati resi noti in un convegno organizzato l’altro giorno proprio dal Dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero cui sovrintende l’onorevole Castelli. Nelle carceri italiane sono ospitati oltre 15 mila detenuti in soprannumero (un sovraffollamento mai registrato nell’ultimo decennio), il 27 per cento di essi è tossicodipendente, il 20 per cento è affetto da patologie del sistema nervoso e da disturbi mentali; dal canto suo oltre il 20 per cento delle duemila e 800 detenute soffre di patologie tipicamente femminili come tumore dell’utero, della mammella, ecc. A fronte di questi dati c’è quello stupefacente della diminuzione della spesa sanitaria per ogni cittadino detenuto, passata da poco più di 1.800 euro di dieci anni fa agli attuali 1.607 (cifra che è sì un po’ superiore a quella destinata a ogni cittadino libero, ma che quindici anni fa lo era nella misura di più del doppio).

Ma non è solo questione di condizioni sanitarie o di sovraffollamento. Per esempio è drasticamente diminuito rispetto all’anno passato il numero dei detenuti iscritti a corsi professionali; di mille unità circa è diminuito il numero di quelli che hanno la possibilità di lavorare, mentre oltre il 63 per cento della popolazione carceraria italiana è tuttora costretta, all’inizio del XXI secolo, a lavarsi con l’acqua gelida. Come stupirsi se continua a contarsi ancora a decine il numero dei suicidi nelle prigioni della penisola?

Naturalmente questa situazione era la medesima anche due mesi fa, quando il ministro Castelli, che pure non poteva non esserne a conoscenza, scriveva al Corriere che nel suo dicastero, per carità, tutto andava per il meglio o quasi. Non solo, ma arrivava a dipingersi come la povera vittima della solita stampa superficiale e calunniatrice. Proprio in questo tentativo di nascondere la gravità di grandi questioni nazionali (nessuno è così sciocco da credere che il disastro delle carceri italiane sia cominciato con il governo Berlusconi), proprio in questa costante tendenza ad abbellire la realtà con le chiacchiere prendendosela con chi non sta al gioco, proprio qui, forse, sta la maggiore manifestazione del dilettantismo della classe politica e di governo che il centrodestra ha messo in campo. Dilettantismo di chi si ostina a pensare alla cosa pubblica come a una sorta di palcoscenico dove ciò che conta non è la serietà, magari anche sgradevole, dei comportamenti e dei provvedimenti, ma il "fare bella figura", e di chi, come l’onorevole Castelli, non si è ancora accorto, alla sua età, che le bugie hanno invariabilmente le gambe corte.

Carceri al collasso, nel nordest 1.400 detenuti in più

 

Il Gazzettino, 3 marzo 2006

 

Si aggrava il già pesante quadro del sovraffollamento nelle carceri italiane: secondo gli ultimi dati forniti, sono 59.523 i detenuti, a fronte di poco più di 43 mila posti regolamentari, di cui 16.185 sono tossicodipendenti, pari al 27\% dell’intera popolazione carceraria, mentre 1 detenuto su 5 soffre di disagio psichico. Le cifre sono state portate nel recente convegno "La salute in carcere, parliamone senza censura", promosso dalla Direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia.La situazione è particolarmente pesante a Nordest, dove si registrano cifre tra le più alte d’Italia (1.400 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare), e dove sono stati ripetutamente sottolineati i rischi derivanti dal sovraffollamento carcerario.

In dettaglio, in Veneto sono oggi recluse 2.733 personam a fronte di una capienza regolamentare di 1.782: dunque, quasi mille in più del dovuto, tenendo oltretutto presente che in un migliaio di casi si tratta di detenuti in attesa di giudizio. Da segnalare in particolare le situazioni della casa circondariale di Padova (200 detenuti a fronte di 98 posti), di quella di Treviso (252 contro 128) e di quella di Vicenza (275 contro 136). In Friuli-Venezia Giulia, i reclusi sono 830 a fronte di una capienza regolamentare di 541; la situazione più pesante è quella di Tolmezzo, con 244 detenuti per 148 posti. Infine, in Trentino-Alto Adige siamo a 422 detenuti a fronte di 257 posti regolamentari.

Fra i detenuti tossicodipendenti sono 1.525 gli affetti da Hiv ma, spiega Sebastiano Ardita presidente della Direzione generale dei detenuti, "è un dato poco preciso: i malati veri potrebbero essere anche tre volte quelli ufficiali, visto che solo un detenuto su tre accetta di sottoporsi al test Hiv". Molto rappresentate anche le patologie femminili: su 1.574 rilevazioni, eseguite sul totale di 2.804 donne detenute, oltre il 20\% presenta elementi patologici: 162 infezioni, 17 casi di endometriosi, 33 di tumore all’utero, 10 di tumori alle ovaie e 12 al seno, con ben 98 casi di alterazioni del ciclo mestruale. Di fatto, però, si stima che le persone colpite da Hiv siano circa il triplo. In questo contesto si inserisce la questione specifica dei bambini in carcere con le loro mamme detenute, attualmente 60, di cui alcuni anche nelle prigioni del Nordest(in particolare in Veneto, dove sono presenti 5 bimbi): "Uno scandalo dimenticato", lo definisce il Movimento Diritti Civili, il cui leader Franco Corbelli denuncia "la violazione della legge che tutela le donne detenute, madre di bambini da 0 a 3 anni", e chiede di "liberare dal carcere questi bambini, con la concessione degli arresti domiciliari alle loro mamme recluse". Corbelli sottolinea "la pesante, palese e oggettiva responsabilità del Governo, dello Stato italiano, che tiene in carcere le mamme di questi bambini non rispettando e non applicando la legge del 2001 che prevede per queste donne detenute arresti domiciliari, pene alternative al carcere o reclusione in strutture protette, come le case famiglia. Una grave omissione che abbiamo denunciato alla Corte Europea per i diritti dell’Uomo di Strasburgo". Sulla questione interviene anche Anna Finocchiaro, parlamentare dei Ds, che ha seguito sempre da vicino il problema, accusando che non è stato possibile trovare soluzioni alternative per mancanza di fondi". Finocchiaro affronta principalmente il tema dell’assistenza sanitaria: "Per cinque anni una cappa di ipocrisia ha gravato sull’attuazione della disciplina vigente in materia di sanità penitenziaria". Secondo la parlamentare Ds, il governo di centrodestra non ha mai chiarito se "si doveva applicare la legge oppure se si doveva attendere un altro ddl". In sostanza - rileva Finocchiaro - si è trattato di cinque anni nefasti su diversi fronti: per la mancanza di risorse, per il sovraffollamento e per la recente legge sulla droga.

Il problema dei minori in carcere assieme alle proprie madri è stato toccato, nel corso del convegno sulla salute in carcere, anche da Candido Cannavò, ex direttore della Gazzetta dello Sport autore di un libro che racconta storie di detenuti nel carcere milanese di San Vittore. "Ogni anno a San Vittore tra i sette e i nove bambini passano dalla sala parto al carcere con le proprie madri. Come uomo mi rattrista sapere - ha detto Cannavò - che ci sono così tanti bambini che vedono l’alba della loro vita in una cella".

Milano: solidarietà per Mohamed, detenuto che non sorride più

 

La Repubblica, 3 marzo 2006

 

Per Mohamed scatta la solidarietà di Milano: alla redazione di Repubblica sono già arrivate telefonate di specialisti disposti a regalare una protesi al cittadino tunisino che, dal carcere, chiede un aiuto "per riavere il sorriso", visto che i denti, cariati, gli sono stati estratti quasi tutti. Tutto nasce da una lettera in prima pagina ieri su Repubblica Milano in cui Mohamed Abassi, tunisino residente in Italia da 19 anni, finito a San Vittore in settembre per storie di droga, spiega di essere tossicodipendente e di trovarsi in una situazione economica molto precaria. Il suo problema principale, però, non è rappresentato dai soldi, ma dai denti che non ci sono più: "Qui me li hanno estratti tutti quanti - scrive Mohamed - tranne due superiori e tre inferiori, che sono del tutto cariati.

Adesso ho dei seri problemi di masticazione e da quando sono qui a San Vittore vivo solo con il latte del vitto, perché non posso prendere altro cibo". E soprattutto a far male è non potere più avere un sorriso. Un sorriso come quello degli altri. Ecco perché Mohamed chiede aiuto: "Una protesi mi è necessaria per poter mangiare e specialmente per poter sorridere come tutti".

E già in due danno la loro disponibilità. Alla mattina tocca a Grazia Fusetti, odontotecnica che tra l’altro ha il laboratorio non lontano dal carcere di piazza Filangieri: "È un caso che mi ha davvero impressionato, se posso dare una mano lo faccio davvero volentieri. Sarà un’operazione costosa, ma se si tratta di ridare un sorriso non ci sono problemi". Nel primo pomeriggio chiama invece Salvatore S. ("non metta il cognome, non lo faccio per farmi pubblicità"), dentista e odontotecnico che ha già un’esperienza di casi del genere: "Sono stato più volte in Sudamerica a prestare la mia opera. E in Italia aiuto spesso i giovani tossicodipendenti, perché per esperienza so che sono proprio i denti le prime vittime della droga: si perde l’appetito, poi parte il processo di decalcificazione, e alla fine la caduta è inevitabile.

Anche perché le condizioni igieniche di un carcere, per quanto pulito, non aiutano certo. Bisogna dare almeno la possibilità di mangiare a questo povero ragazzo". Presto quindi Mohamed riavrà un sorriso. Sorriso che ha già adesso Sergio Segio, del gruppo Abele, che si occupa anche di casi come questo: "Purtroppo, però, di Mohamed ce ne sono tanti. Non molti a San Vittore, per fortuna, sono parecchi di più a Roma, ad esempio. Ma questo è solo uno dei tanti casi dello sfacelo della situazione sanitaria nelle carceri: come ha appena rivelato il Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, un detenuto su quattro è tossicodipendente e il 13 per cento ha problemi di salute, contro il 7 della popolazione libera: soprattutto malattie al fegato e all’apparato digerente".

Cassino: stop ad attese all’aperto, centro Caritas per i parenti

 

Il Messaggero, 3 marzo 2006

 

I familiari dei detenuti nel carcere di Cassino non dovranno più aspettare davanti al portone di ferro di via Sferracavalli in attesa delle visite. Infatti d’ora in poi avranno a disposizione una struttura che è stata realizzata per interessamento della Caritas diocesana proprio davanti all’istituto di pena. Erano anni che la direzione del carcere aveva sollecitato un centro di accoglienza per i parenti dei reclusi costretti a rimanere all’aperto, con qualsiasi tempo, prima di entrare nella struttura per le visite. A portare aiuto a queste persone, spesso madri con i bambini piccoli, erano i volontari della Caritas. Adesso con l’interessamento dell’Abate Bernardo D’Onorio è stato realizzato il centro d’accoglienza che sarà inaugurato il prossimo 17 marzo.

Nella casa-accoglienza saranno disponibili una sala per le consultazioni psicologiche e pedagogiche, un angolo cottura, camere da letto per bambini e anziani, due bagni. Il Comune ha concesso l’area per la realizzazione dell’opera che ha scopi sociali costruendo per una spesa di centomila euro il parcheggio, i marciapiedi e l’illuminazione oltre alle fognature. "Sono soddisfatto - ha detto l’assessore ai lavori pubblici - per questa piccola opera ma dal grande significato umano.

In questo modo vengono alleviati i disagi per tante famiglie che arrivano da lontano, soprattutto gli immigrati, per visitare i detenuti. Il parcheggio realizzato dal Comune dovrebbe risolvere, speriamo, i problemi della circolazione nelle zone adiacenti. Per la prima volta sono stati costruiti i marciapiedi davanti al carcere e così i passanti non correranno più il rischio di investimenti".

Da qualche anno il numero dei detenuti è aumentato (sono oltre 200) e questa struttura, secondo la Caritas che opera all’interno del carcere con i propri volontari, era diventata indispensabile. Sarà intitolata ad un giovane che l’anno scorso è morto in un incidente stradale proprio davanti alla casa circondariale. Viaggiava in sella alla sua moto. Nella stessa giornata sarà aperto anche il centro di integrazione culturale con l’obiettivo di favorire l’aggregazione in città degli immigrati in costante aumento. Intanto con il parcheggio si dovrebbero eliminare le soste selvagge delle auto dei dipendenti del carcere e degli abitanti della zona che dall’anno scorso lasciano le loro auto lungo via San Pasquale sempre più trafficata.

Lazio: la Regione paga le tasse universitarie ai detenuti

 

Redattore Sociale, 3 marzo 2006

 

"Sovraffollamento, fatiscenza delle strutture, diritto al lavoro e alla salute sono i temi ricorrenti che toccano da vicino detenuti e operatori di polizia penitenziaria". Lo ricorda Luisa Laurelli, presidente della Commissione sicurezza, integrazione sociale e lotta alla criminalità della Regione Lazio, che rende noto come proprio il Consiglio Regionale nella seduta di ieri ha discusso e approvato un emendamento finalizzato al pagamento delle tasse universitarie per permettere ai detenuti la frequentazione dei corsi.

"La seduta di Consiglio - afferma la Laurelli - è stata la prima reale occasione per noi neo-amministratori di intervenire con azioni concrete. In quest’ambito sono previsti interventi economici per il risanamento della Casa Circondariale Regina Coeli di Roma e di Latina e misure atte alla tutela delle condizioni psico-fisiche dei detenuti. A questo proposito attenzione particolare è data allo stato di detenzione delle madri con figli di età inferiore ai tre anni". Questi interventi – conclude - dimostrano la sensibilità della nuova amministrazione su un tema che da anni sottovalutato è oggi al collasso".

Vicenza: dalla cella al lavoro, tramite il Consorzio Prisma

 

Giornale di Vicenza, 3 marzo 2006

 

Si sviluppa grazie ad un finanziamento della Fondazione Cariverona - annuncia un comunicato - il servizio di inserimento lavorativo che il Consorzio Prisma realizza presso la Casa Circondariale San Pio X di Vicenza. Già dal ‘96 il Consorzio, che riunisce più di cinquanta cooperative sociali della provincia di Vicenza, si dedica attraverso la propria Agenzia per l’Inserimento Lavorativo al reinserimento di detenuti nel mondo del lavoro: un insieme di attività fatto di contatti, ascolto e ricerca di possibilità di occupazione svolto in collaborazione con l’amministrazione penitenziaria.

Un’attività che fino al 2003 ha permessi di effettuare 70 inserimenti lavorativi, fra i quali le assunzioni sono state ben 52, oltre numerosi colloqui di orientamento. Dall’ottobre scorso questa esperienza si è ulteriormente strutturata con un progetto finanziato appunto dalla Fondazione e realizzato in collaborazione con la Caritas diocesana.

Esso consentirà, fino a settembre 2006, di mettere a disposizione un operatore specializzato per tre ore ogni settimana presso lo sportello polinformativo presente all’interno della Casa Circondariale. Un servizio al quale accedono sia detenuti che operatori ed educatori carcerari e che permette di orientare la ricerca di un lavoro una volta scontata la pena, rendendo più accessibile l’inserimento sia in aziende che in cooperative sociali associate al Prisma.

Oltre a questa attività all’interno della struttura carceraria, il servizio prevede anche una serie di contatti esterni con realtà produttive al fine di giungere alla definizione di percorsi lavorativi personalizzati, che per il detenuto diventano una vera e propria chance, a volte l’unica, di reinserimento sociale. Con un vantaggio significativo anche per la società, che riesce così a creare i presupposti per evitare alla persona di cadere di nuovo, una volta fuori, nella "tentazione" della delinquenza. Attualmente tale attività di inserimento lavorativo si rivolge a una sessantina di potenziali destinatari, sia perché che per le caratteristiche della pena possono beneficiare di misure alternative, sia perché già nella fase finale del periodo di detenzione possono iniziare la progettazione di un futuro da persone "normali". L’inserimento lavorativo dei detenuti è un servizio che trova riconoscimento nella stessa Costituzione italiana, che all’articolo 27 stabilisce il valore riabilitativo delle pene, che "devono tendere alla rieducazione del condannato". Il lavoro diventa così una vera occasione di promozione sociale ed umana, di inclusione sociale e di autonomia.

Cremona: la Cgil; carcere e territorio, intesa da ritrovare

 

Provincia di Cremona, 3 marzo 2006

 

Non si placano le polemiche sul carcere di Cremona. Dopo la Cisl, ecco ora l’intervento della Segreteria e della Funzione Pubblica Cgil che prima di tutto, chiedono "una posizione di sintesi condivisa, invece che uscite si singole sigle sindacali". I problemi ci sono perché sul carcere si concentrano "tutti i fattori di marginalizzazione sociale". Ma per il "reinserimento sociale e lavorativo" sono necessarie alcune condizioni. La prima è il coinvolgimento diretto di tutte le istituzioni del territorio che per Cremona significa attivare con la massima urgenza il "Comitato carcere-territorio". Bisogna poi promuovere progetti innovativi sul versante della formazione e dell’istruzione direttamente in carcere individuando canali di finanziamento. Ma va tenuta in considerazione, continuano nel loro documento Donata Bertoletti e Roberto Carenzi, l’altissima presenza di detenuti con problemi sociali e socio-sanitari gravi (dipendenza da sostanze, sieropositività, disagio sociale). Per questo si devono fare progetti fortemente innovativi coinvolgendo figure professionali interne al carcere, come avviene in altre carceri lombarde. Tornando ai problemi, la Cgil segnala l’altissima presenza di detenuti immigrati, per i quali sono necessari mediatori culturali. Il personale svolge con professionalità i propri compiti, ma mancano 25 operatori. Ma i carichi di lavoro vanno migliorati, pure sul fronte della sicurezza e della tutela della salute. La Cgil chiede che ad ogni livello si assumano le dovute responsabilità; rimandare i problemi o dividersi sulla loro soluzione non serve. I sindacalisti Cgil suggeriscono quindi un momento di dibattito-discussione-elaborazione che approfondisca i problemi a partire dalla necessità di "mettere ulteriormente in comunicazione il territorio con la casa circondariale", Un dibattito, concludono, che potrebbe avere la forma del seminario dove si potrebbero pure confrontare i progetti realizzati in altri istituti.

Milano: aggredito in carcere il leader delle Bestie di Satana

 

Il Gazzettino, 3 marzo 2006

 

Preso a pugni e anche derubato. È quel che è accaduto, una decina di giorni fa, nel carcere milanese di Opera a Nicola Sapone, presunto leader delle Bestie di Satana, condannato poco più di un mese al doppio ergastolo, poi per legge trasformato in uno, per i brutali omicidi di Chiara Marino e Fabio Tollis, eliminati e sepolti nel bosco di Somma Lombardo, in provincia di Varese il 17 gennaio del 1998, e di Mariangela Pezzotta, uccisa con un colpo di pistola e finita a badilate nello chalet dei Ballarin a Golasecca, sempre nel varesotto, il 24 gennaio di due anni fa.

Sapone, come ha riferito il suo difensore, l’avv. Francesca Cramis, che ieri mattina è andata a trovarlo, già da tempo temeva per la sua incolumità. Per questo aveva scritto al direttore di Opera chiedendo di essere trasferito dal primo reparto, quello dove è avvenuto il pestaggio, in uno più sicuro. "Chiedeva di andare dove ci sono le celle singole - ha spiegato il legale - e gli è stato risposto che non c’era posto". Poi i primi giorni dell’altra settimana, secondo lo stesso Sapone, mentre si trovava nel corridoio del reparto "il mio concellino - ha detto Sapone all’avvocato - mi ha sbattuto in una cella e subito sono arrivati gli altri tre. Non credo che sia dipeso da lui, penso sia stato istigato dagli altri". Di quel che è poi successo non ricorda molto. Sa solo che è stato preso a pugni e, quando si trovava in infermeria per le medicazioni (quattro giorni di prognosi), di essere stato derubato. "Dalla sua cella sono spariti - ha precisato il difensore - i vestiti, quelli nuovi, una radiolina e il codice penale che gli aveva regalato la sorella".

E di questo pestaggio c’è un rapporto del carcere dove, tra l’altro, sono state messe nero su bianco le due versioni: Sapone ha detto di essere stato aggredito per i delitti di cui è accusato. Il suo compagno di cella, un detenuto di 28 anni finito sotto procedimento disciplinare, ha invece affermato di essere stato offeso. Quel che è certo è che pugni e schiaffoni sono volati e che probabilmente poteva andare peggio se non fossero intervenuti gli agenti di polizia penitenziaria che comunque hanno tenuto e tengono sotto stretto controllo Sapone.Subito dopo la vicenda Sapone, che non ha voluto sporgere denuncia, è stato trasferito in un reparto speciale di Opera, chiamato ‘protettì, dove sono rinchiusi generalmente chi ha commesso crimini efferati, pedofili, transessuali o i collaboratori di giustizia. "Non voglio stare lì - ha protestato ieri mattina con il suo avvocato - perché sono innocente e adesso mi tocca stare con pedofili e pentiti. Devo stare in galera e lo accetto, però almeno mi facciano stare tranquillo".

Paola: studenti liceali in visita alla Casa circondariale

 

Comunicato stampa, 3 marzo 2006

 

Articolo di una studentessa del VB Liceo Scientifico "G. Galilei" di Paola che ha partecipato al progetto "Aspetti di emarginazione e devianza sul territorio: i detenuti della Casa circondariale di Paola". L’articolo è stato pubblicato sul mensile di attualità, cultura ed informazione "Progetto" Anno VII - n. 2 - Febbraio 2006 - pagg. 14-15.

Nella mente di buona parte dei ragazzi di oggi il carcere è visto come un angolo oscuro del monda da temere ed evitare; il detenuto invece è l’assassino incallito con lo stuzzicadenti in bocca, il tatuaggio sulla spalla, gli occhi glaciali, la palla di ferro al piede e la tuta a righe. Questa visione distorta tradisce la realtà in molti suoi fattori.

I ragazzi della VB del Liceo scientifico di Paola hanno avuto una possibilità unica, quella di partecipare al progetto "Aspetti di emarginazione oggi: i detenuti della Casa circondariale di Paola". Attraverso tale progetto hanno avuto l’opportunità di seguire alcune lezioni di informazione sulla realtà carceraria, conoscere i limiti dell’integrazione sociale e il rapporto tra legalità ed autonomia personale; hanno potuto visitare il carcere di Paola ed avere un colloquio diretto con alcuni detenuti facenti parte della redazione del giornale del penitenziario: DiversaMente; tale progetto si è concluso con un convegno tenuto dagli stessi ragazzi.

La visita alla casa circondariale di Paola si è tenuto lo scorso 14 gennaio. I ragazzi accompagnati dalla loro decenti di storia, Francesca Rennis, direttrice, fra l’altro, del giornale del penitenziario e dalla loro coordinatrice Mercedes Perrotta, hanno visitato il penitenziario, scortati da un minimo di tre uomini, compreso l’ispettore Russo. Durante il corso della visita sono stati messi al corrente delle diverse attività condotte dai detenuti all’interno del carcere: il corso di pizzaiolo, il corso di ceramica, di riciclaggio della carta, della redazione del giornale dell’istituto carcerario e la possibilità di frequentare le lezioni di scuola elementare, media e alberghiero. Naturalmente solo dopo una selezione ben accurata alcuni detenuti scelti possono condurre tali corsi, però il quadro che si stava profilando agli occhi dei ragazzi era già ben diverso da quello sino ad allora immaginato, è pur vero però che i ragazzi non sono potuti entrare all’interno delle sezioni, quindi la loro conoscenza di è fermata ad una parte, forse la meno cruda del carcere…

Una delle cose che più ha colpito i giovani visitatori è stata la scritta all’entrata della biblioteca: "Un libro apre le porte della prigione più pericolosa: l’ignoranza" e pensare a quante volte uno studente chiuso in classe si sente in gabbia… solo in quell’istante i ragazzi dello Scientifico si sono resi conto che forse il momento durante la giornata in cui sono veramente liberi è proprio dentro le loro aule, fra i loro libri, fra i loro compagni, le loro idee e i loro sogni, ma questa in fondo è un’altra storia e si rischia di cascare nella banalità.

Nella biblioteca avviene l’incontro con il primo detenuto. Il bibliotecario. Se qualcuno dovesse chiedermi: "Che faccia ha un detenuto?" probabilmente lo deluderei perché dovrei rispondere: "È proprio come la tua, normale". Perché i detenuti sono persone come altre, non hanno palle di ferro ai piedi né divise a strisce bianche e nere, né nei loro occhi si vede la sete di sangue, scene del genere si vedono più facilmente con un pacco di pop corn nelle mani, una coca nell’altra in una sala cinematografica che non nel carcere di Paola.

Il colloquio tra i ragazzi e i detenuti è durato circa un’ora e mezza; i ragazzi hanno tempestato di domande gli interlocutori. Le domande sono state tra le più varie: a cosa si deve il fattore della recidiva? A quali pensieri ci si aggrappa in carcere per non impazzire? Cos’è che manca di più all’interno di quelle mura? Le risposte sono state svariate, tutte sincere. Ma ogni risposta era permeata da un unico massimo comune divisore: la libertà.

Il diritto essenziale per ogni uomo, la libertà, è ciò che spinge il detenuto a "sopravvivere in attesa di ricominciare a vivere" per citare alcune parole dette da uno dei reclusi. Il messaggio che ognuno di loro ha voluto trasmettere ai giovani studenti è stato quello di pensare prima di agire, di frenare gli impulsi più reconditi che sono presentati in ognuno di noi e che spesso se soddisfatti portano a sbagliare, mai scegliere la via più semplice che spesso si dimostra la più errata. Mai sottrarsi al dolore, alla fatica, alla paura che provoca spesso la scelta della via più difficile, ma che frequentemente è la più giusta. Non c’è stata ansia per quel colloquio da parte dei ragazzi, dopo un primo momento di timore, le riflessioni, le domande sono venute da sé; è stato come parlare fra amici, tanto che lasciarsi è stato anche un po’ triste, soprattutto per i detenuti che nei giovani animi dei ragazzi dello scientifico hanno potuto intravedere la vita esterna, la vita che continua vorticosamente a girare fuori, quella vita così caotica che li ha travolti, ma che profuma di libertà, di speranza, di voglia di riscatto. Proprio per trasmettere questo messaggio a chi quella realtà non l’ha potuta conoscere, i ragazzi del liceo scientifico guidati dalla prof. Rennis hanno creato uno staff di otto persone (Sabrina Valitutti, Gianmaria Macrì, Valentina Signorelli, Ilenia Salerno, Daniele Provenzano, Federica Mantuano, Angela Aloise e la sottoscritta) che si è occupato dell’organizzazione di un convegno "A cancelli aperti. Prevenire l’illegalità". A questo convegno, che si è tenuto all’istituto IPSSAR di Paola lo scorso 4 febbraio, hanno partecipato diversi interlocutori illustri tra i quali: il crimologo Paolo De Pasquali, il direttore del Ser.T. di Paola Rocco Mazzeo, la city manager di Paola, Carmen Carnevale, il sottosegretario di Stato alla Giustizia Iole Santelli, il vicesindaco di Paola, che hanno risposto a diverse domande fatte dai ragazzi della VB. Nel convegno si è parlato di legalità, di provvedimenti da prendere per placare il fenomeno delinquenza; si è parlato della situazione delle carceri italiane e calabresi, che sono state definite "la punta di diamante" fra gli istituti carcerari in tutta Italia, dal sottosegretario Iole Santelli. Sarà pur vero, ma chissà perché entrando in quell’istituto di pena, l’ultima cosa che è venuta in mente ai ragazzi è stata la punta di un diamante… ma soprattutto si è voluto analizzare la realtà carceraria da ogni prospettiva, di modo che la visione distorta che si ha sul detenuto, e che è presente in molti di noi, possa essere modificata.

La volontà dei giovani visitatori della Casa circondariale è stata quella di dimostrare che al di là delle sbarre c’è un’altra parte di noi; perché il detenuto non è un alieno, né una persona che deve essere giudicata o emarginata; il detenuto è un’altra parte di ognuno di noi, quella parate che può sbagliare, può pentirsi e chiedere scusa e chi siamo noi per non concedergli un’altra possibilità?! D’altronde sbagliare è umano, perdonare è divino. Forse è per questo che fra di noi si sta sviluppando un forte senso di ateismo!

Viterbo: all’ospedale Belcolle primo reparto per le detenute

 

Il Messaggero, 3 marzo 2006

 

Verrà inaugurato ufficialmente il 13 marzo il reparto di medicina protetta dell’ospedale Belcolle di Viterbo, il terzo per detenuti in tutta Italia (dopo il San Paolo di Milano e il Sandro Pertini) e l’unico in grado di ospitare detenute. In sinergia con il Pertini il reparto viterbese finanziato dalla Regione Lazio, si occuperà principalmente dei pazienti afflitti da patologie che riguardano le malattie infettive, l’urologia, la cardiologia e l’oncologia. La struttura opererà sul bacino di utenza del Centro Italia, con particolare attenzione alle carceri laziali. La medicina protetta di Belcolle, proprio per la configurazione dell’edificio, sarà in grado di riservare un’area alle donne.

Venezia: penso spesso alla morte, ormai non ho più nulla...

 

Il Gazzettino, 3 marzo 2006

 

"Penso spesso alla morte. Ormai non ho più nulla da perdere, mi hanno portato via tutto. Quello lì (Felice Maniero, ndr) ha rovinato anche la mia di vita, non solo quella di mio padre". A pronunciare queste parole piene di rabbia e di dolore è Martina (il nome è di fantasia), una bella ragazza di poco più di trent’anni. Questo lato oscuro riguarda il padre, condannato all’ergastolo. Negli anni Ottanta era uno di quei malavitosi che operavano tra le province di Padova e Venezia con la banda capeggiata da "Faccia d’angelo" e, da una dozzina d’anni ormai, sta scontando la sua pena nelle anguste celle delle carceri d’Italia.

Per questo lo Stato ha fatto man bassa delle proprietà di Martina e, nel giro di qualche anno, le ha sequestrato casa e automobile. "Oggi non ho più niente. Ero titolare di un’attività commerciale che ho dovuto per forza interrompere. Avevo un appartamento che valeva 200 mila euro lasciatomi in eredità da un parente defunto, ma l’agenzia del Demanio me l’ha strappato di mano accusandomi di averlo occupato abusivamente e imponendomi di pagare l’affitto arretrato. La casa è stata comprata con il denaro di tuo padre, mi è stato detto, e ora spetta a te pagare".

Martina racconta, mentre si asciuga con un fazzoletto di carta le lacrime che continuano a scendere. "Io quei soldi non li ho: sono anni che lavoro giorno e notte senza badare a feste o domeniche. Prima facevo l’operaia, ma quando in ditta ha cominciato a circolare la voce che mio papà era un ergastolano, hanno preferito lasciarmi a casa. Da due anni lavoro in un altro posto, ho un contratto a tempo determinato e faccio molta fatica a tirare avanti: solo se faccio una botta di straordinari arrivo a portare a casa 800 euro. Con questo denaro e con il piccolo sussidio che percepisco (43 euro al mese), devo pagare l’affitto dell’appartamento di 45 metri quadrati dove sto adesso (450 euro), le spese vive come luce, acqua e gas e la rata dell’automobile che non mi appartiene più ma che mi è consentito utilizzare solo per lavoro".

Una volta al mese, poi, Martina affronta diverse centinaia di chilometri per raggiungere il penitenziario dove è rinchiuso il padre. A lui si è riavvicinata solo di recente dopo molti anni trascorsi a muso duro, tra tensioni e rancori. "L’Italia l’ho girata visitando le carceri - dice, passandosi una mano sulla guancia per cancellare una lenta goccia di pianto - da quando avevo quattro anni. E da allora nulla è cambiato: intere mattinate trascorse al freddo in attesa del nostro turno di visita e nessuna parola gentile da parte degli agenti di custodia i quali, anzi, non nascondono il loro fastidio di fronte alle richieste di un colloquio".

La ragazza non ha dimenticato il giorno in cui tutto questo è cominciato. "Ricordo come se fosse ieri quella mattina in cui la polizia è arrivata a casa per arrestare mio papà. Erano le 4.30, lungo le scale era pieno di agenti della Questura, il frastuono era enorme. Non posso dimenticare neppure quando, a 15-16 anni, io e il mio morosetto di allora siamo stati fermati in centro da alcuni poliziotti in borghese e, dopo avere accertato chi ero, perquisiti davanti agli sguardi della gente. Quante volte, Dio solo lo sa, ho rinfacciato a mio papà di avermi rovinato la vita, di aver voluto mettermi al mondo nonostante l’esistenza che conduceva. Perché - è il rimprovero che ha disperatamente rivolto all’uomo - devo pagare io per le tue colpe? Poi, con il tempo, ho capito che io e lui siamo soli. E l’affetto dell’uno per l’altro è tutto quello che ci è rimasto".

Al padre, continua la ragazza, in questi dodici anni non è mai stato concesso alcun permesso premio. "Mi piacerebbe vederlo di più, ma con il mio lavoro non è facile: lì nessuno sa niente e quando devo chiedere una giornata di permesso, accampo la scusa di una visita medica. Non so, però, per quanto potrò andare ancora avanti". Sopravvive così, Martina. Niente lussi, niente feste, niente serate in locali alla moda. Una vita ben diversa da quella di Elena, la primogenita del boss del Brenta suicidatasi la scorsa settimana a Pescara. "È vero che Elena è stata costretta a cambiare identità, ma è pure vero che lei ha potuto godere del patrimonio accumulato dal padre, conducendo una vita agiata. Ho visto la casa dove viveva. A Maniero e alla sua famiglia i giudici non hanno tolto nulla, a parte la villa di Campolongo. Perché, chiedo io, gli permettete di vivere ancora con quei soldi? Dove è quel famoso tesoro di cui da sempre si parla? In Austria? In Svizzera? Perché i magistrati non sono andati a chiederlo alla vecchia madre?".È la prima volta che Martina accetta di parlare con un giornalista. Un tempo chi lo faceva era considerato un infame, spiega. È rimasta molto colpita dalla fine di Elena ma non risparmia parole dure, pesanti, nei confronti del pentito Felice Maniero. "Ha rovinato molte famiglie, molti figli come me. E oggi teme che ad uccidere la sua siano stati gli ex sodali, quelli che avevano giurato vendetta. Ha dichiarato di aver paura, ma quelli ad essere terrorizzati, ora, siamo noi".

Con Martina c’è un’amica, moglie di un ex collaboratore di Maniero. Allunga una carezza quando la giovane non riesce a trattenere le lacrime e dice: "Per come la vedo io, Maniero doveva seguire la figlia, doveva uccidersi subito dopo perché è proprio lui l’artefice di tutto. Una volta, in un momento di stizza a causa delle tante difficoltà che dovevo affrontare da sola, ho chiesto a mio marito perché non si pentisse. Lui mi ha guardata negli occhi e mi ha risposto: solo se non vi avessi voluto così bene avrei scelto quella strada".

La giovane prosegue, rivolgendosi a Martina: "Ricorda che i giudici ci hanno tolto tutto ma non la dignità. Questo no, non ci riusciranno mai. Io ho tirato su un bambino da sola, contro tutto e tutti, mentre mio marito era in carcere. So di aver fatto soffrire mio figlio. Anche lui mi ha chiesto per anni "perché mi avete messo al mondo?", ma oggi sono una madre orgogliosa e lui un ragazzo onesto. Io ho approfittato dei privilegi che la vita con mio marito mi ha offerto e ora accetto di essere tra coloro che ne pagano le conseguenze. Non è giusto, però, che le colpe dei padri ricadano sui figli. Loro vanno aiutati, sempre".

Manicomi: Storace; 12 proposte per riformare la legge 180

 

La Repubblica, 3 marzo 2006

 

Il ministro della salute Francesco Storace intende migliorare la legge 180, senza intaccare né la filosofia né l’impianto. "Abbiamo preparato 12 punti per una riforma integrale della legge che riguardano la durata del Tso (trattamento sanitario obbligatorio) e la sua riforma, la codificazione di un’assistenza sanitaria di medio-lungo periodo a carico del servizio sanitario nazionale, il sostegno alle famiglie, un sistema informativo omogeneo che consenta di sapere quanti sono i malati e la loro gravità, strutture di alta specializzazione per trattamento e cura (non ricovero), l’assistenza psichiatrica domiciliare prolungata nel medio e lungo periodo, il potenziamento dell’intervento psichiatrico per l’infanzia e adolescenza (affinchè si possa intervenire finché si è in tempo), strumenti residenziali di media e lunga degenza più adeguati, interventi nelle carceri, un sistema omogeneo in tutto il paese, ed altro".. Così il ministro della salute ha voluto caratterizzare l’azione, in un programma specifico, del Centrodestra alle associazioni dei familiari, riuniti a Roma in un convegno.

 

 

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