Rassegna stampa 27 febbraio

 

Giustizia: la vita confiscata

di Andrea Boraschi e Luigi Manconi (Ass. "A buon diritto")

 

L’Unità, 27 febbraio 2006

 

Che cittadino è mai colui che sottostà all’interdizione legale, ovvero alla perdita della possibilità di disporre dei propri beni, e vede decadere, contemporaneamente, la propria potestà sui figli e i propri diritti civili? È un ergastolano: dunque, non è un cittadino. Non lo é nella libertà di avvalersi di un cospicuo numero di prerogative ritenute genericamente inviolabili. Solo per chi è condannato al carcere a vita si profila questo vero e proprio "sistema di privazioni" a tempo indeterminato. L’ergastolano non è un semplice condannato, è qualcosa di più: è un rimosso, un eliminato, un soggetto definitivamente e perdutamente espulso dal consesso civile. Non vi è nulla di retoricamente drammatizzante in ciò che scriviamo; è la semplice constatazione della natura e delle conseguenze di un profilo penale crudele. Che nella sua prospettiva di "carcere a vita" è tanto contrario alla nostra Costituzione - all’idea cioè di una pena che non sia totale privazione di futuro - da essere stato, in qualche modo, corretto, rivisto, modificato: e, tuttavia, mai revocato veramente.

Qualsiasi condannato a una pena temporalmente circoscritta dispone di un residuo di libertà e di un diritto a tornare, un giorno, uomo libero; per l’ergastolano non è così. Se anni addietro si poteva confidare solo nell’istituto della grazia, oggi si ripone la propria speranza nella possibilità che, trascorsi 26 anni di reclusione, scatti la libertà condizionale. Che è una concessione, non una certezza: che dipende dalla discrezionalità dell’autorità giudiziaria preposta a sorvegliare l’esecuzione della pena. Chi è condannato all’ergastolo, in altri termini, vive con la consapevolezza di non poter mai più decidere della propria esistenza: che, nel suo essere un "bene", viene confiscata a tempo indeterminato e gestita da un’autorità sulla quale è impossibile esercitare alcun controllo. Il tempo, il trascorrere della vita, in questa condizione, smarrisce qualsiasi valenza di trasformazione, se non - addirittura - di "divenire": non è più "durata", dal momento che ieri è uguale a oggi e oggi a domani; e, tantomeno, é "misura", laddove misurare diviene inutile.

Questo è l’ergastolo. C’è un libriccino, scritto da Annino Mele per la casa editrice Sensibili alle foglie, che ben descrive la vita di chi dal carcere non sa se mai uscirà. Si intitola proprio "Mai"; ed è la narrazione di un confronto impari, quello tra un uomo e una pena che lo sovrasta; la spiegazione di come il carcere, con il suo corredo di afflizioni e sanzioni gratuite, inefficienze, violazioni della dignità umana, renda quotidianamente ancor più intollerabile questo confronto, di per sé già soverchiante. Racconta di chi in carcere si toglie la vita per disperazione, delle conseguenze psichiche dell’isolamento, di cosa sia la malattia dietro le sbarre, di come i rapporti umani divengano impervi; e delle molte angherie, persino involontarie, alle quali si è esposti. È un libro bello, perché molto personale e, al contempo, molto "generale". Ci sono gli stati d’animo, i pensieri, i dolori, la rabbia e la frustrazione di chi scrive; e c’è la vita del carcere, come pochi la conoscono o la immaginano, e come i più non la sanno.

Forse è per questo, dev’essere proprio per questo che il libro di Mele ha suscitato qualche riprovazione. Il Sindacato Autonomo della Polizia Penitenziaria (Sappe) ha inviato, a otto indirizzi diversi tra cui quello del direttore generale del dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Giovanni Tinebra, quello del ministro della Giustizia Roberto Castelli e del suo sottosegretario Luigi Vitali e quello di Francesca Fabrizi, direttore del "Bassone" di Como, dove Mele è recluso, una lettera in cui si chiede "l’immediato allontanamento del detenuto dalla casa circondariale di Como per ovvi motivi di opportunità e di incompatibilità valutando, altresì, l’eventualità di sottoporlo a sorveglianza particolare". Il motivo è presto detto: "Il Sappe - prosegue la lettera - intende segnalare il proprio sdegno in merito alle notizie che pervengono dalla casa circondariale di Como dove un detenuto, privato della libertà personale a causa di gravissimi reati, dedica il suo tempo in cella a scrivere libri con l’unico obiettivo di offendere, nel modo più squallido e indecoroso, l’operato della Polizia Penitenziaria. Nella fattispecie, le invettive hanno un preciso scopo denigratorio dei compiti istituzionali e dell’intero sistema penitenziario, considerato ovviamente da una prospettiva meramente personale e in qualità di destinatario di provvedimenti, vissuti non secondo lo spirito ordinamentale del trattamento.

Per di più, la critica è talmente accesa che l’autore del testo parla di "regime di iniquità istituzionalizzata", terminologia che è più che sufficiente a identificare un rapporto quanto mai distorto e acceso nei riguardi di chi deve provvedere all’esecuzione della pena". Noi, il libro di Mele, lo abbiamo letto con curiosità e attenzione: e garantiamo, per quanto è nelle nostre possibilità, che non vi è nessun intento "squallidamente" e "indecorosamente" offensivo nei confronti della polizia penitenziaria di quell’istituto: a meno che si ritenga illegittima qualunque denuncia dei molti mali che affliggono il sistema penitenziario italiano; e a meno che sì pretenda di comminare, unitamente alla pena principale, quella accessoria dell’interdizione alla parola. Ma se fosse vero quanto sostiene il ministro della Giustizia, Roberto Castelli (le nostre carceri sono "alberghi a cinque stelle"), non é buona consuetudine chiedere il parere dei "clienti" sull’ospitalità ricevuta?

Giustizia: quel controllo mancato fuori dal carcere

di Mario Coffaro

 

Il Messaggero, 27 febbraio 2006


I casi drammatici che ultimamente sempre più spesso la cronaca ci propone impongono qualche riflessione. Il giudice che deve applicare le norme che regolano l’ammissione al regime di semilibertà e alle concessioni dei permessi premio ai detenuti, ha tutti gli strumenti per farlo? E dopo che il detenuto ha ottenuto la semilibertà o il permesso premio, i controlli sono efficaci? In realtà questi sono i due anelli deboli del sistema. Gli stessi giudici di sorveglianza, su cui è facile puntare il dito per un caso su cento che va storto, vorrebbero essere «illuminati» in modo più approfondito sulla personalità del detenuto che ha maturato «i presupposti». Ma un detenuto, se va bene, quante volte l’anno viene «osservato» da uno psicologo in carcere? Una, forse due. Questa relazione dello psicologo cosa può garantire al giudice? Né il giudice può sempre negare il beneficio. E poi, quando il detenuto è libero, la polizia fa i soliti controlli. Ma sono controlli «a campione», non così incisivi come ci sarebbe bisogno.

Giustizia: Castelli; permessi ai detenuti, troppa generosità

 

Il Corriere della Sera, 27 febbraio 2006

 

Ci avevano provato altre 60 volte a rapinare supermercati, banche, benzinai, negozi, farmacie. E ogni volta con le armi in pugno, minacciando, picchiando, prendendo in ostaggio e terrorizzando impiegati, cassieri, commesse, farmacisti e seminando il panico fra i clienti. Nel 1997, per tutte queste rapine, erano stati arrestati e condannati uno a otto anni di carcere, l’altro a nove. Gino Amenta, 42 anni, e Michele Trotta, 35 anni, i due banditi che sabato sera, a Cusano Milanino, hanno assaltato un supermercato, restando uno ucciso e l’altro gravemente ferito, erano conosciuti da tutti. Con un ricco curriculum di malavitosi che ha alimentato la polemica sui permessi che vengono concessi ai detenuti.

Il rapinatore ferito, infatti, detenuto a Bergamo, godeva di un particolare regime che gli consentiva di uscire dal carcere durante la giornata per rientrarvi la sera e, nel fine settimana, di essere libero. Per questo ha espresso "seri dubbi" il generale dei carabinieri Gianfrancesco Siazzu, comandante interregionale, che ieri mattina, insieme al generale regionale Antonio Girone e al comandante provinciale Enzo Bernardini, ha fatto visita all’ospedale Sacco a Francesco Castronovo, il carabiniere ferito nella sparatoria a cui è stato estratto un proiettile dal fianco. "Abbiamo notevoli perplessità - ha detto Siazzu - su questa situazione di permessi che vengono elargiti, a nostro avviso, con troppa generosità. Ritengo che si dovrebbero esaminare queste concessioni con maggiore severità e attenzione, altrimenti ci ritroviamo in continuazione di fronte a questi episodi che vedono coinvolta gente che già era stata reclusa".

Anche il ministro della Giustizia, Roberto Castelli, si è detto "pronto a riesaminare l’istituto della concessione dei permessi". In caserma, a carico di Gino Amenta e Michele Trotta, i carabinieri conservano due voluminosi faldoni. I loro nomi in paese fanno ancora paura, anche se gli ultimi dieci anni li avevano passati quasi tutti dietro le sbarre. Amenta era uscito dal carcere di Bollate soltanto nel dicembre scorso. Viveva a Nova Milanese con la moglie e tre bambini, l’ultimo di appena quattro mesi. Trotta, invece, non aveva ancora finito di scontare la sua pena, ed era in semilibertà. Di giorno, aveva ottenuto il permesso di lavorare come autista in un centro commerciale. Ma, di notte, doveva far ritorno nel carcere di Bergamo. Nell’ultimo weekend, gli era stata concessa la possibilità di andare a trovare l’anziana madre, a Nova Milanese. Amenta, freddo e razionale; Trotta, impulsivo e violento. I due avevano rafforzato la loro amicizia, rapina dopo rapina. Insieme anche sabato sera, per un colpo facile facile, finito nel sangue. Con un morto e due feriti.

Giustizia: rapina nel milanese, polemica sulla semilibertà

 

Libertà, 27 febbraio 2006

 

Ora rischia anche l’accusa di tentato omicidio Michele Trotta, 35 anni, il rapinatore rimasto ferito nella sparatoria con i carabinieri sabato sera, all’esterno del supermercato Sma di via Isonzo, a Cusano Milanino, dove aveva appena messo a segno un colpo con un complice, Gino Amenta, 40 anni, che è rimasto ucciso. Da una prima ricostruzione di quei momenti drammatici, infatti, sembra che sia stato dalla pistola di Trotta, con matricola abrasa, come quella di Amenta, che è stato esploso il colpo che ha ferito al fianco il carabiniere Francesco Castronovo, 28 anni, intervenuto davanti al supermercato.

Il militare è stato operato all’ospedale Sacco, dove gli è stato estratto il proiettile e ora è fuori pericolo, tanto da essere disponibile a rivivere quei momenti che gli potevano costare la vita.

"Hanno cominciato a sparare subito - racconta - uno è stato colpito, l’altro ha cercato di fuggire, rubando una macchina. Noi gridavamo alla gente: a terra, a terra!". Sono stati attimi concitati, durante i quali è stata sparata una decina di colpi. Gino Amenta, una lunga storia di rapine, specialmente in gioiellerie, e una altrettanto intensa storia di carcere, che aveva da poco lasciato per fine pena, cade, ferito a morte. Il collega di Castronovo si rende conto che il compagno di pattuglia non è ferito gravemente e si mette all’inseguimento di Trotta che riesce a fermare, nonostante il rapinatore abbia preso un’auto a una coppia di fidanzati.

Il malvivente, già ferito dai colpi dei carabinieri, esce di strada ed è arrestato. Un comportamento "molto professionale" quello dei carabinieri, elogiato dal comandante regionale gen. Antonio Girone. Ma nella vicenda c’è uno strascico di polemiche: Trotta era da un paio d’anni in semilibertà, concessagli dal giudice di sorveglianza di Brescia (gli investigatori sospettano che in questo periodo possa avere partecipato ad altre rapine). Lasciava il carcere di via Gleno, a Bergamo, dove si trovava per una serie di furti e rapine, alle 7.30 della mattina per farvi ritorno alle 22. Lavorava come magazziniere alla cooperativa Calimero di Albino, creata nel 1991 per offrire un’occupazione a persone con problemi di inserimento sociale, e avrebbe finito di scontare la pena nel 2009. Il 35/enne usufruiva di libertà il sabato e la domenica e aveva il permesso di andare a trovare la madre, a Nova Milanese, e, secondo quanto risulta, aveva sempre avvertito le forze dell’ordine. A esprimere "notevoli perplessità" sulle modalità con le quali vengono concessi certi permessi ai detenuti è stato il comandante interregionale dei carabinieri Pastrengo, Gianfrancesco Siazzu, che, nel corso della visita al militare ferito, ha commentato: "Abbiamo notevoli perplessità su questa situazione dei permessi che vengono elargiti, a nostro avviso, con troppa generosità. Io ritengo che dovrebbero esaminare queste concessioni con un pò di maggiore severità e attenzione, altrimenti ci ritroviamo in continuazione di fronte a questi episodi che vedono coinvolta gente che già era stata reclusa".

Gli ha fatto eco il ministro della Giustizia, Roberto Castelli, che non è stato tenero con i magistrati di sorveglianza: "Stante il fatto che i continui appelli a una meno restrittiva interpretazione della legge e alla discrezionalità del magistrato, restano inascoltati, occorre intervenire con una revisione delle norme inerenti l’ammissione al regime di semilibertà e le concessioni premiali ai detenuti". Poi il guardasigilli ha rivendicato una legge del suo governo, contestata dall’opposizione, la ex Cirielli che "andrà a punire maggiormente i recidivi e sarà quindi d’aiuto affinchè situazioni come questa non si ripetano".

Giustizia: permessi facili, certi criminali restino in cella…

 

Il Giorno, 27 febbraio 2006

 

Polemiche, garbate fin che si vuole, ma secche e precise: troppa facilità nel concedere premi ai detenuti, che poi ne approfittano per rapinare supermercati e sparare ai carabinieri. Parola di Gianfrancesco Siazzu, generale di corpo d’armata, comandante interregionale dei carabinieri Pastrengo. L’alto ufficiale ieri mattina è andato al Sacco a trovare Francesco Castronovo, 28 anni, il militare ferito a un fianco da un proiettile a Cusano, e a portargli i complimenti del comandante generale dell’Arma Luciano Gottardo. Con lui anche il generale di brigata Antonio Girone, comandante del "regionale".

Una polemica sicuramente destinata a rimbalzare sulla scena politica nazionale, visto che il ministro di Grazia e Giustizia Roberto Castelli ha già chiesto la revisione delle norme che regolano la concessione di premi e benefici ai detenuti. "Da rilevare - aggiunge Castelli - che una delle leggi varate da questo Governo e aspramente contestata dalla magistratura e dall’opposizione, la cosiddetta ex Cirielli, andrà a punire maggiormente i recidivi e sarà quindi d’aiuto affinché situazioni come questa non si ripetano". Il bandito ferito, Michele Trotta, 35 anni di Nova Milanese, era infatti in regime di semilibertà: usciva la mattina alle 7.30 dal carcere di Bergamo per andare a lavorare in una cooperativa, per poi farvi ritorno alla sera entro le 22. Salvo il fine settimana, che poteva passare dalla mamma a Nova Milanese. Peccato che nel frattempo facesse anche assalti a mano armata.

L’ultimo l’altra sera a Cusano Milanino, in compagnia di Gino Amenta, 42 anni. Ma all’uscita del supermercato di via Isonzo, i due incappano nei carabinieri. I militari vedendo i due con passamontagna e pistola intimano l’alt. Invece di fermarsi i banditi aprono il fuoco, i militari si difendono e alla fine sull’asfalto restano in tre: Amenta morto, Trotta e Castronovo feriti. Entrambi sono stati operati nella notte, il carabiniere sta già molto meglio. Mentre il malvivente è sempre in prognosi riservata, anche se non dovrebbe correre pericolo di vita. Dovrebbe essere presto incriminato per tentato omicidio: i colpi che hanno ferito il militare dovrebbero infatti essere partiti proprio dalla sua pistola. Impressionate la lista dei precedenti dei due balordi. Gino Amenta, 42 anni di Nova Milanese, sposato tre figli, uno ha appena cinque mesi, inizia la "carriera" a soli 14 anni con una denuncia per furto d’auto. Poi entra per la prima volta il carcere l’anno dopo, sempre per lo stesso reato. Nel 1989 viene arrestato per spaccio e nel ‘97 per una cinquantina di rapine, compiute con altri balordi tra i quali il fedele amico Trotta. Resta in prigione quasi dieci anni. Lo scorso mese è rimesso in libertà. Michele Trotta, il ferito, anche lui domiciliato a Nova, 35 anni celibe, nel 1990 viene prima denunciato per furto poi arrestato per rapina. Nel ‘92 finisce in cella per detenzioni d’armi e droga. Nel 1997 viene anche lui condannato a 10 anni per le rapine compiute insieme a Amenta ma da dicembre beneficia della semilibertà.

E proprio alla luce di questo discutibile "cursus honorum", arrivano le critiche del generale Siazzu. "Abbiamo notevoli perplessità - afferma l’alto ufficiale - su questa situazione dei permessi che vengono elargiti, a nostro avviso, con troppa generosità. Ritengo che dovrebbero esaminare queste concessioni con un po’ più di severità e attenzione, altrimenti ci ritroviamo in continuazione di fronte a questi episodi che vedono coinvolta gente che già era stata reclusa".

Castelli: occorre rivedere le norme, la ex Cirielli ci aiuterà

 

Il Mattino, 27 febbraio 2006

 

Dolore, rabbia e polemiche, dopo la tentata rapina al supermercato di Cusano Milanino di sabato sera, finita tragicamente per uno dei rapinatori e con un carabiniere ferito. Ora rischia anche l’accusa di tentato omicidio Michele Trotta, 35 anni, il rapinatore rimasto ferito nella sparatoria con i carabinieri sabato sera, all’esterno del supermercato Sma di via Isonzo, a Cusano Milanino, dove aveva appena messo a segno un "colpo" con un complice, Gino Amenta, 40 anni, che è rimasto ucciso. Da una prima ricostruzione di quei momenti drammatici, infatti, sembra che sia stato dalla pistola di Trotta, con matricola abrasa, come quella di Amenta, che è stato esploso il colpo che ha ferito al fianco il carabiniere Francesco Castronovo, 28 anni, intervenuto davanti al supermercato. Il militare è stato operato all’ospedale Sacco, dove gli è stato estratto il proiettile e ora è fuori pericolo. Ma nella vicenda c’è uno strascico di polemiche: Trotta era da un paio d’anni in semilibertà, concessagli dal giudice di sorveglianza di Brescia (gli investigatori sospettano che in questo periodo possa avere partecipato ad altre rapine). Lasciava il carcere di via Gleno, a Bergamo, dove si trovava per una serie di furti e rapine, alle 7.30 della mattina per farvi ritorno alle 22. Lavorava come magazziniere alla cooperativa Calimero di Albino, creata nel 1991 per offrire un’occupazione a persone con problemi di inserimento sociale, e avrebbe finito di scontare la pena nel 2009. Il 35enne usufruiva di libertà il sabato e la domenica e aveva il permesso di andare a trovare la madre, a Nova Milanese, e, secondo quanto risulta, aveva sempre avvertito le forze dell’ordine. A esprimere "notevoli perplessità" sulle modalità con le quali vengono concessi certi permessi ai detenuti è stato il comandante interregionale dei carabinieri Pastrengo, Gianfrancesco Siazzu, che, nel corso della visita al militare ferito, ha commentato: "Abbiamo notevoli perplessità su questa situazione dei permessi che vengono elargiti, a nostro avviso, con troppa generosità. Io ritengo che dovrebbero esaminare queste concessioni con un pò di maggiore severità e attenzione, altrimenti ci ritroviamo in continuazione di fronte a questi episodi che vedono coinvolta gente che già era stata reclusa". Gli ha fatto eco il ministro della Giustizia, Roberto Castelli, che non è stato tenero con i magistrati di Sorveglianza: "Stante il fatto che i continui appelli a una meno restrittiva interpretazione della legge e alla discrezionalità del magistrato, restano inascoltati, occorre intervenire con una revisione delle norme inerenti l’ammissione al regime di semilibertà e le concessioni premiali ai detenuti". Poi il Guardasigilli ha rivendicato una legge del suo governo, contestata dall’opposizione, la ex Cirielli che "andrà a punire maggiormente i recidivi e sarà quindi d’aiuto affinchè situazioni come questa non si ripetano". Duro commento ai fatti accaduti da parte di Maurizio Fistarol, responsabile sicurezza della Margherita: "Invece di garantire la certezza della pena il governo ha pensato a provvedimenti nell’interesse di pochi e a leggi ad personam".

Caltanissetta: in cella per 15 anni, scagionato da due pentiti

 

Corriere della Sera, 27 febbraio 2006

 

L’ergastolo per un delitto. Altri trenta anni per un duplice omicidio. E quindici anni dietro le sbarre da innocente. Giampaolo Ragusa ha 35 anni. In carcere ci è entrato quando ne aveva appena venti con l’etichetta di killer della famiglia dei Sanfilippo. Ora, dopo due processi di revisione, è di nuovo un uomo libero ed è tornato a vivere a Mazzarino, in provincia di Caltanissetta. Due pentiti lo hanno scagionato da tutte le accuse. "Ho sempre detto di essere innocente, ma non sono mai stato creduto - ricorda Giampaolo Ragusa -. Ho sempre combattuto con serenità, perché sapevo che prima o poi la verità sarebbe venuta a galla. Ora voglio rifarmi degli anni che mi sono stati tolti ingiustamente". Fu arrestato il 12 settembre del 1990 con l’accusa di essere uno dei tre killer di Clemente e Felice Bonaffini, rispettivamente padre e figlio. Le mogli delle due vittime avevano riconosciuto in lui il volto dell’assassino. Quando era già in carcere gli venne notificata un’altra ordinanza di custodia cautelare per un delitto avvenuto in precedenza, il 20 novembre 1989, sempre a Mazzarino, quando sotto i colpi di lupara cadde Pasquale Varsalona.

È il suo avvocato, Agata Maira, che non lo ha mai abbandonato in tutti questi anni a raccontare come si è arrivati a provare l’innocenza di Ragusa: "Un paio di anni fa siamo venuti a conoscenza delle dichiarazioni di due collaboratori di giustizia, i fratelli Calogero e Salvatore Riggio. Dissero che per il duplice omicidio in carcere c’era un innocente e Calogero si auto accusò di essere il killer. Abbiamo acquisito tutta la documentazione, le dichiarazioni, i verbali e abbiamo iniziato le pratiche per la revisione subito dopo la condanna di Calogero Riggio all’ergastolo per lo stesso delitto per cui c’era in carcere Ragusa".

Gli stessi collaboratori scagionarono il giovane anche dall’altro omicidio: Salvatore Riggio si accusò di essere il mandante e recentemente è stato condannato in abbreviato.

Le due assoluzioni per l’ex pastore sono arrivate una dietro l’altra: il 15 dicembre 2005 la prima, il 24 gennaio la seconda. "Non avevo detto nulla ai miei genitori di queste novità, non volevo illuderli - racconta Giampaolo Ragusa -. Quando sono uscito dal carcere li ho chiamati al telefono. È stata una bellissima gioia per tutti, io tremavo come un bambino. Ero rinchiuso in penitenziari del Nord, i miei non potevano permettersi di venirmi a trovare spesso, ma hanno sempre creduto in me. Mio fratello in questi anni mi ha anche costruito una casa. Sapeva che sarei tornato".

Quando verranno depositate le motivazioni della sentenza l’avvocato Agata Maira chiederà il risarcimento per ingiusta detenzione: "Giampaolo è stato condannato solo sulla base di un riconoscimento che si è rivelato falso". Ma l’ex pastore che ora si dedica all’edilizia non ha voglia di polemiche: "Guardo avanti, voglio una nuova vita. Me la merito".

Giustizia: la preoccupazione di Ciampi in una lettera al Sappe

 

Comunicato stampa, 27 febbraio 2006

 

"Il Signor Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi espresse, nel suo intervento del 20 dicembre 2005 per la cerimonia per lo scambio degli auguri con le Magistrature della Repubblica, tutta la sua preoccupazione per i dati di recente emersi sul grave problema dell’affollamento delle carceri, dati preoccupanti per le condizioni di vita dei detenuti e quelle di vita e di lavoro di tutti gli operatori penitenziari". A scriverlo in una nota pervenuta oggi alla Segreteria generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria è Salvatore Sechi, Consigliere del Presidente della Repubblica per gli affari giuridici e le relazioni costituzionali, che ha anche comunicato di avere interessato il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Giovanni Tinebra per le valutazioni e le determinazioni di competenza sulle richieste contenute nella lettera che il Sappe scrisse al Capo dello Stato lo scorso 29 dicembre.

"Illustre Signor Presidente, ci rivolgiamo a Lei, garante della Costituzione italiana e massima autorità istituzionale, per segnalare la precaria e difficile situazione delle carceri del Paese, auspicando un Suo autorevole intervento". Cominciava così la lettera inviata dalla Segreteria generale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria al Capo dello Stato.

"Se, come hanno scritto sia Voltaire sia Dostoevskij, il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri, il nostro non sembra proprio essere un Paese civile", perché - scriveva il Sappe – "vanifica di fatto" quanto previsto dalla Costituzione sul fatto che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato.

Il carcere - secondo il Sappe - è "il buco nero delle nostre coscienze": "abbiamo toccato un picco di detenuti mai raggiunto nella storia della Repubblica: 60 mila. Un terzo in più di quanti potrebbero ospitarne i nostri 207 penitenziari. Significa 6 o 7 persone in cella, con letti a castello che

radono il soffitto". E se si pensa che poche settimane fa nel carcere di Genova Marassi un detenuto è morto proprio dopo essere caduto dal terzo piano di un letto a castello, è facile comprendere a quale livello d’emergenza siano arrivate oggi le carceri italiane.

"E non è vero che il problema del sovraffollamento penitenziario" aggiunge il Sindacato più rappresentativo dei Baschi Azzurri "si risolverebbe solamente con la costruzione di nuovi penitenziari. Per costruire un nuovo carcere servono 15 anni di tempo e 200 milioni di euro di spesa. E aprire nuovi penitenziari vuol dire assumere personale, soprattutto di Polizia Penitenziaria perché è quello che sta letteralmente in prima linea. Tanto più che con l’approvazione della legge "ex Cirielli" la già vertiginosa cifra dei 60.000 detenuti attuali si incrementerà ulteriormente (sono previsti 4.000 detenuti in più alla fine del prossimo anno e saranno oltre 70.000 nel 2008). La Polizia Penitenziaria ha bisogno di fatti concreti e la finanziaria 2006 avrebbe dovuto garantire, tra le altre priorità, almeno l’assunzione definitiva di 500 ex agenti ausiliari, rispediti a casa senza alcuna remora, e maggiori fondi che permettano la predisposizione di piani straordinari per la sicurezza degli istituti di pena e per il personale.

Paola: convegno "A cancelli aperti, per prevenire l’illegalità"

 

Relazione di Francesca Rennis*, 27 febbraio 2006

 

Si è svolto il 4 febbraio scorso. È stato un convegno d’approfondimento teso ad individuare le possibilità di recupero e integrazione sociale dei detenuti ed ex detenuti e che, tra l’altro, ha fatto emergere le capacità critiche di cittadinanza attiva degli stessi studenti. Tuttavia a conclusione di un percorso di formazione e informazione sulle tematiche carcerarie (titolo del progetto: "Aspetti di emarginazione e devianza sul territorio: i detenuti della Casa circondariale di Paola") gli studenti hanno lasciato volutamente aperte domande che la società civile e le istituzioni sono chiamate a risolvere. "Non sarebbe più efficace cercare di conoscere e risolvere i problemi economici e sociali che spingono le singole persone a commettere reati?". "Sappiamo che nelle maglie della criminalità organizzata cadono ragazzi che non hanno risposte dalla società civile e che non riescono ad avere punti di riferimento. Come scardinare quei pseudo-valori offerti dalla criminalità e vissuti come valori da questi ragazzi?".

Superato il momento emotivo dell’incontro con i detenuti realizzato il 14 gennaio scorso presso la Casa circondariale di Paola, i ragazzi hanno evidenziato una seria presa di coscienza della complessità inerente al concetto di legalità scegliendo di scrivere virtualmente su quel lenzuolo bianco dei ragazzi di Locri l’alternativa della solidarietà sociale e della prevenzione che, oltre alla repressione detentiva, può scardinare i legami criminalità organizzata-devianza minorile. Infatti i ragazzi, nel corso del progetto, si sono trovati di fronte alla contraddizione derivante dalla condivisione della protesta dei ragazzi di Locri contro la criminalità e dal sentirsi parte, nello stesso tempo, di quella umanità che si trova "ristretta". Come mediare e quali soluzioni concrete proporre? Sul lenzuolo bianco sbandierato in una dolorosa circostanza come quella dell’uccisione del vicepresidente del Consiglio regionale, Francesco Fortugno, hanno voluto scrivere la loro soluzione: "Solidarietà e prevenzione sociale". Due concetti che possono tradursi in realtà se, come hanno mostrato gli stessi studenti, si prende coscienza del proprio ruolo di cittadino attivo, interessato non a delegare quanto a promuovere iniziative a sostegno dell’integrazione sociale di detenuti ed ex detenuti e a sollecitare l’attuazione di strategie previste dalle leggi sulla prevenzione della devianza minorile al fine di strappare la manovalanza giovanile dalle grinfie della criminalità organizzata.

Su questo fronte sono chiamati in causa le istituzioni educative e in primis la scuola dal momento che, ogni volta che un ragazzo viene catturato dalla maglie della criminalità, fallisce il proprio compito di formazione dell’uomo e del cittadino. Alle domande degli studenti presso la sala conferenze dell’Ipssar di Paola hanno risposto il criminologo Paolo De Pasquali, il direttore del Ser.T. di Paola Rocco Mazzeo, la city manager di Paola Carmen Carnevale, il sottosegretario di stato alla Giustizia Iole Santelli. Particolari momenti di suggestione sono stati creati da canzoni del repertorio tradizionale sul carcere offerti dal musicologo Maurizio Cuzzocrea (Consorzio Musicisti Calabresi) e dalla visione del cortometraggio "Maleeducati" del regista Giuseppe Grosso Ciponte. L’intensità e la varietà dei contributi sono state rilevate, a conclusione del convegno, dal dirigente scolastico Emilio Bianco che, nel ringraziare i presenti anche per essere riusciti a parlare agli studenti in modo semplice, comprensibile e accattivante, ha presentato una propria riflessione su aspetti legati alla devianza minorile, dal bullismo scolastico al fenomeno del drop-out all’equità educativa. "Quest’ultimo problema messo in luce dalla ricerca sociologica – ha detto il dirigente scolastico – è un vero e proprio problema di democrazia, di accesso alla formazione, di democratizzazione del sistema formativo italiano rispetto al quale la scuola pubblica non solo è tenuta ad essere ma ci tiene ad essere un presidio di legalità e di agevolazione soprattutto a tutela dei più svantaggiati".

 

*responsabile del progetto scolastico e direttore del giornale del carcere di Paola "DiversaMente".

Sofri: dimesso dall’ospedale, ora una lunga convalescenza a casa

 

Ansa, 27 febbraio 2006

 

Adriano Sofri è stato dimesso oggi dall’ospedale Cisanello di Pisa ed è tornato a casa, a Tavarnuzze, nella campagna fiorentina, dopo il nuovo intervento di chirurgia toracica cui era stato sottoposto il 14 febbraio scorso. È una lunga convalescenza - di 6-8 mesi ipotizzano i medici - quella che Sofri affronta ora dopo il primo gravissimo malore, provocato dalla lacerazione dell’esofago e per i postumi della malattia, tra cui proprio quella complicanza respiratoria che lo ha ricondotto in sala operatoria recentemente. Sofri si sentì male nella sua cella, nel carcere di Pisa, la notte tra il 25 e il 26 novembre dello scorso anno.

Fu ricoverato d’urgenza e subito operato per la rottura dell’esofago (sindrome di Boerhaave). Poi, nel reparto di rianimazione, l’ex leader di Lotta Continua cominciò un lungo e delicato decorso post-operatorio proseguito per 52 giorni. Il 4 dicembre i medici si erano visti costretti a sottoporlo a tracheotomia per migliorare la situazione respiratoria. È stato questo il problema con cui Sofri si è trovato a combattere nelle settimane dopo l’intervento e quello che lo ha portato ad entrare nuovamente in sala operatoria il 14 febbraio scorso. Infatti, la lesione all’esofago progressivamente aveva smesso di preoccupare, ma uno dei due polmoni faticava a tornare alla funzionalità normale.

È stato parzialmente lesionato dalla presenza di succhi gastrici che hanno invaso il suo torace al momento della rottura dell’esofago. Proprio per consentirgli di riprendere vigore, anche dal punto di vista psicologico, i medici avevano deciso di dimetterlo il 17 gennaio scorso e mandarlo per un breve periodo a casa, a Tavarnuzze, pur sotto terapia antibiotica preparando le condizioni per il nuovo intervento. Il nuovo ricovero era avvenuto il 27 gennaio. Sofri era anemico, ha spiegato il professor Alfredo Mussi, direttore dell’unità di chirurgia toracica, e il quadro indicava la necessità di una nuova operazione al polmone. Ora comincia una nuova delicata fase di riposo e guarigione, durante la quale l’ex leader di Lotta continua dovrà sottoporsi a "ulteriori esami". Nei prossimi mesi, spiega il professor Mussi, "dovrà essere completata la riabilitazione respiratoria e motoria onde ottenere i migliori risultati funzionali e respiratori ed arrivare ad una completa stabilizzazione pleuro-polmonare".

Afghanistan: secondo giorno di rivolta nel carcere di Kabul

 

Rai News, 27 febbraio 2006

 

Continua, per il secondo giorno consecutivo, la rivolta all’interno del carcere PoliCharki di Kabul, che ospita circa 1.350 prigionieri. Finora ci sarebbero una trentina di vittime, tra morti e feriti, stando a quanto reso noto da informazioni di stampa non confermate. Centinaia di poliziotti e soldati hanno circondato un edificio della prigione PuliCharkhi, indicato come l’ala occupata da talebani e membri di al Qaida. Finora, le forze di sicurezza hanno escluso l’ipotesi di fare irruzione nell’edificio, stando a quanto ha riferito un responsabile della sicurezza.

Ieri, i rivoltosi hanno gettato dalle finestre dell’edificio materassi in fiamme e mobili in legno. Alcuni gridavano "morte a Karzai", il presidente afgano, "morte a Bush" o anche "morte all’America", stando a quanto precisato dalla fonte. Il portavoce della Commissione indipendente afgana per i diritti dell’uomo, Nader Nadeery, ha precisato che la sommossa sarebbe iniziata nella serata di sabato nell’ala riservata ai prigionieri politici, dove si trovano circa 300 detenuti tra talebani e membri di al Qaida, per poi coinvolgere le celle occupate dalla criminalità comune. I ribelli non hanno presentato richieste precise, ha detto Nadeery, investito del ruolo di mediatore: "Non sono d’accordo su nulla, vogliono semplicemente essere liberati". Fra i rivoltosi figura anche il leader Timur Shah, condannato a venti anni di prigione per il rapimento della cooperante italiana Clementina Cantoni, liberata nel giugno scorso dopo 24 giorni di prigionia.

 

 

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