Rassegna stampa 1 dicembre

 

Roma: il detenuto suicida a Rebibbia era gravemente malato

 

Il Messaggero, 1 dicembre 2006

 

La cartella clinica parlava chiaro: cardiopatia dilatativa, morbo di Parkinson, gastrite cronica. Giampiero M., 56 anni, un detenuto di Rebibbia, alla fine non ce l’ha fatta più. L’uomo, ex alcolista e tossicodipendente, ieri notte si è legato intorno al collo la cinta di un accappatoio, l’ha fissate alle sbarre di una finestra e si è impiccato nell’infermeria della prigione sulla Tiburtina. Era stato condannato per diversi reati e ne stava pagando il prezzo. Ma più volte, lui e i suoi avvocati, avevano chiesto dal nostro "misure alternative" al carcere "in considerazione delle condizioni di salute". La notizia della morte è stata divulgata dal garante regionale dei diritti dei detenuto Angiolo Marroni. "Sono indignato ha commentato Marroni, ex esponente di primo piano dei Ds regionali per il modo prevedibile ma assolutamente evitabile in cui si è chiusa questa vicenda. Esistono molti altri casi di questo tipo e sono stati segnalati più volte. Occorre agire subito per evitare altre tragedie".

Giampiero M. era in carcere dal 2000 e ci sarebbe rimasto fino al 2010 per reati connessi alla droga. L’uomo, senza famiglia e nullatenente, avrebbe avuto diritto a chiedere "le misure alternative alla detenzione", ma non sapendo dove andare (per gli arresti domiciliari o l’affidamento in prova è necessario disporre di una abitazione dove fissare il domicilio) era rimasto a Rebibbia. "La drammaticità del problema aggiunge Marroni è stata segnalata più volte. Ma abbiamo ricevuto soltanto risposte burocratiche o, peggio ancora, indifferenza. La vicenda era stata anche portata all’attenzione della stampa. Ma purtroppo per Giampiero, un detenuto "comune", non c’è stata alcuna eco mediatica".

L’allarme è stato lanciato da un altro detenuto ricoverato in infermeria. Quando sono arrivate le guardie giurate, per il sardo non c’era più niente da fare. "I finestroni sono piuttosto in alto dicono a Rebibbia lui si è lasciato andare dopo essere salito su e probabilmente è morto sul colpo". "Ha pagato il fatto insiste il garante dei detenuti di non essere una persona nota, il che, forse, gli avrebbe salvato la vita".

 

Suicida a 56 anni nell’infermeria di Rebibbia. Garante: "Era evitabile"

 

Redattore Sociale, 1 dicembre 2006

 

"Da tempo Giampiero, doveva essere da tutt’altra parte. avrebbe potuto godere di misure alternative alla detenzione, ma non aveva un posto dove andare. abbiamo segnalato più volte il suo caso, ricevendo solo risposte burocratiche, silenzio e indifferenza". Lo ha detto il Garante regionale dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni commentando il suicidio di un detenuto di 56 anni nell’infermeria del carcere di Rebibbia. "Sulla sua cartella clinica venivano dichiarate diverse patologie tra cui cardiopatia dilatativa, gastrectomia, parkinsonismo, il tutto dovuto alla sua storia di alcolista e tossicodipendente", ha detto Marroni. La notizia della morte è stata divulgata dal Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti Angiolo Marroni che si è detto "indignato per il modo prevedibile ma assolutamente evitabile in cui si è chiusa questa tristissima vicenda. Occorre agire affinché non si ripetano più casi di questo genere considerando che esistono, e sono stati da me segnalati, altri detenuti che si trovano in simili condizioni" .

A quanto risulta all’Ufficio del Garante l’uomo era recluso dal 2000, con fine pena 2010, per reati connessi alla droga e per lungo tempo ricoverato nei centri clinici delle carceri dove era stato ristretto. L’uomo non aveva famiglia ed era nullatenente avrebbe potuto godere di misure alternative alla detenzione ma non avendo un posto dove andare era rimasto sempre in carcere. Il suo caso era da tempo seguito dallo staff del Garante Regionale dei detenuti che aveva avviato le pratiche per fargli avere la carta di identità, necessaria per ottenere una pensione sociale e si era impegnato, cercando di coinvolgere le istituzioni preposte, nell’individuare una soluzione per consentire a Giampiero di scontare il residuo della sua pena in case di accoglienza o in strutture adeguate a questo tipo di problematiche. "Sono triste e indignato per il modo, assolutamente evitabile, in cui si è conclusa questa vicenda - ha detto il Garante Angiolo Marroni - Abbiamo più volte segnalato la drammaticità di questo caso ma in cambio abbiamo ricevuto solo risposte burocratiche, o, peggio ancora, indifferenza. Non posso fare a meno di notare che per un detenuto comune come Giampiero non c’è stato nessun eco mediatica, nonostante le nostre sollecitazioni ai mezzi di informazione. Purtroppo, Giampiero, ha pagato il fatto di non essere un detenuto eccellente e di non godere di una notorietà che forse gli avrebbe salvato la vita".

Giustizia: la "magia" dell’indulto e la questione criminale

di Giuseppe Mosconi (Università di Padova)

 

Il Manifesto, 1 dicembre 2006

 

Una paradossale contraddizione sembra, non a caso, segnare la situazione che si è venuta a creare dopo l’indulto del luglio scorso. Il gran rumore fatto e l’aggrovigliarsi delle polemiche si trovano a confrontarsi con una situazione in cui del provvedimento non si parla quasi più, quasi sfuggito o rimosso da un’opinione pubblica quantomeno distratta, comunque non così allarmata.

Dunque 23 mila ex detenuti rilasciati dalle "patrie galere" non hanno messo a ferro e fuoco nulla. Il temuto pericolo si sta allontanando nella più totale indifferenza, e le stesse retoriche politiche esibite per l’occasione stanno cadendo nel dimenticatoio. Il controllo esercitato per mezzo del carcere appare così realizzare la sua funzione primordiale: non tanto quella di deterrenza verso i potenziali devianti, quanto quella di definire e consolidare modelli sociali compatibili con il tipo di violenza che l’istituzione esercita. L’indulto sembra aver risolto il problema carcere, aver improvvisamente cancellato i molti aspetti drammatici associati all’immagine del sovraffollamento, insieme ai profondi processi strutturali che quella situazione hanno determinato.

Il fatto stesso che l’indulto si presenti come il limite massimo che nessuna forza politica oserebbe oggi varcare sulla strada dell’attenuazione dell’afflittività penale, mentre sfuggono del tutto all’attenzione pubblica i criteri che la commissione presieduta da Giuliano Pisapia sta discutendo e intende seguire nella proposta di riforma del codice penale, sono aspetti che sembrano confermare il carattere di risoluzione ultimativa che l’indulto sembra aver assunto.

Ma sono troppo note la precarietà e l’inefficacia di questi interventi, storicamente e strutturalmente seguiti da una rapida ripresa della crescita della popolazione reclusa, fino a raggiungere e superare i livelli precedenti. In questo senso le posizioni più consapevoli e avvedute, anche su questo giornale ( Emilio Santoro, Patrizio Gonnella, per Antigone) hanno giustamente sostenuto la necessità di neutralizzare, in primis, le disposizioni di legge che inevitabilmente accelererebbero questo processo: la ex Cirielli sulla recidiva, la Fini Giovanardi sulle droghe, la Bossi Fini, soprattutto per le disposizioni che sanzionano penalmente l’irregolarità.

Non dobbiamo però ignorare che, se è vero che quest’ultima legge ha determinato l’incremento di almeno diecimila detenuti immigrati, dalla sua entrata in vigore, tuttavia la popolazione carceraria aveva raggiunto e superato le 50 mila unità già dalla fine degli anni ‘90, mentre gli altri due provvedimenti in questione sono troppo recenti per aver inciso sul sovraffollamento.

È necessario allora porre attenzione ai processi di fondo che hanno determinato quell’emergenza: il controllo sulle aree povere, marginali, eccedenti, costruite come pericolose; un immaginario istituzionalmente prodotto di un’opinione pubblica spaventata e vendicativa, disposta ad attribuire consenso solo in cambio di rassicurazione repressiva; una cultura giudiziaria e poliziale che si fa interprete dei così diffusi sentimenti di insicurezza indurendo, l’apparato sanzionatorio; l’incapacità di gestire adeguatamente enormi emergenze sociali (processi migratori, precarizzazione del lavoro, impoverimento dei meno abbienti e di aree di ceto medio, aumento della marginalità, ecc..).

Questo è il quadro che dà ragione di un evidente, quanto inaccettabile paradosso, per cui quanto più emerge con evidenza il fallimento delle funzioni storiche, degli stessi fondamenti teorici della pena (retribuzione, rieducazione, prevenzione), tanto più si ricorre alla stessa, nella sua versione carceraria, a questo punto massicciamente applicata al di fuori dei necessari criteri di proporzionalità e di garanzia, soprattutto verso quei soggetti e quei comportamenti ( di devianza sociale) cui più frequentemente si associano immagini di insicurezza.

È significativo il fatto che gli oltre 20 mila "indultati", usciti grazie al provvedimento in questione avrebbero già potuto essere fuori dal carcere, in misura alternativa, semplicemente applicando la legislazione vigente (affidamento in prova al servizio sociale per condanne o residuo pena inferiore ai tre anni). Appare allora evidente come il sovraffollamento non sia un’episodica emergenza che può, in determinate circostanze, caratterizzare l’istituzione, ma il problema del carcere stesso, della natura e delle caratteristiche che lo stesso ha assunto nelle società di oggi, post-moderne e post-sviluppate.

A fronte di ciò, un intervento minimale preventivo che vada a intaccare il meccanismo del sovraffollamento non può che passare attraverso la modifica profonda del diritto penale, il superamento delle molte astrazioni su cui si regge, delle inutili afflittività che ne sono la conseguenza, attraverso un’apertura alla complessità e alla specificità dei fenomeni che sono oggetto del suo intervento. Da più parti si è da tempo parlato di un diritto mite, fraterno. È arrivato il momento di attuare a fondo queste ipotesi, a partire dal diritto penale.

Ciò significa principalmente almeno tre cose: adottare forme di depenalizzazione e di decarcerizzazione che incidano soprattutto su quelle disposizioni penali riguardanti la piccola criminalità, lo spaccio al minuto, la tossicodipendenza, l’immigrazione che determinano oggi la stragrande maggioranza degli ingressi in carcere. Applicare forme di privatizzazione del conflitto tra autore e vittima che conducano a soluzioni di mediazione, non come sanzione aggiuntiva all’afflizione penale, come si tende a fare oggi nei procedimenti di esecuzione, ma come sostanziale alternativa alla stessa costruzione penalistica degli illeciti. Sviluppare una vasta gamma di misure alternative al carcere, già applicabili nel giudizio di merito. Ma soprattutto si tratta di sviluppare una diversa rappresentazione sociale della "questione criminale", di far emergere e praticare un già presente "senso comune" del problema.

Giustizia: la galera non aiuta a salvare i giovani dalla droga

di Pierfrancesco Majorino (Consigliere DS della Provincia di Milano)

 

Affari Italiani, 1 dicembre 2006

 

Trovo davvero triste e sorprendente quanto accaduto, nella giornata di ieri, al Senato in Commissione Sanità. Ovviamente mi riferisco alla scelta di approvare, grazie al ruolo "attivo" dei senatori dell’Ulivo presenti, un ordine del giorno che impegna il governo a riprendere in esame il decreto Turco, quello che raddoppierebbe la dose massima detenibile di cannabis consentita ad uso personale.

La sorpresa e la tristezza risiedono nel fatto che si è deciso di colpire un atto capace di mettere in discussione l’approccio ideologico e "criminalizzatore" della Legge Fini-Giovanardi. Il Decreto Turco infatti ha, aveva, avrebbe (e adesso quale verbo dobbiamo usare?) l’obiettivo di limitare il "rischio carcere" per i consumatori (giovani, a volte giovanissimi) per i quali evidentemente si ritiene dannoso il trattamento penitenziario.

Con quel piccolo atto, al quale si deve assolutamente riparare, riaffermando l’approccio di cui si è fatta portatrice la Ministra Turco, si è compiuta una brutta variazione di rotta, producendo un messaggio verso i giovani di questo Paese estremamente ambiguo.

Adesso non si perda tempo e si rimedi immediatamente ripartendo dal punto da cui si è mossa, in coerenza con il programma dell’Unione, la Ministra : il carcere non serve a sconfiggere le droghe e i ragazzi consumatori di cannabis non devono essere trattati come pericolosi delinquenti.

Giustizia: Corte Costituzionale; più diritti per i detenuti-lavoratori

 

Ansa, 1 dicembre 2006

 

Con sentenza n. 341 del 27 ottobre 2006, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 69, comma 6, della legge n. 354/1975, nella parte in cui prevede la competenza del giudice di sorveglianza sulle rimostranze dei detenuti relative all’attribuzione della qualifica, alla retribuzione, al tirocinio ed alle forme assicurative. La Corte afferma che sia il detenuto che la controparte hanno diritto di far valere i propri diritti in un normale contraddittorio giudiziale così come avviene per gli altri rapporti di lavoro. La procedura camerale prevista dal comma cassato non assicura forme di tutela equivalenti.

Emilia Romagna: firmata intesa per recupero minori detenuti

 

Redattore Sociale, 1 dicembre 2006

 

Un accordo tra Regione Emilia-Romagna e Giustizia Minorile, per garantire percorsi di recupero dei giovanissimi con problemi giudiziari, è stato raggiunto con l’approvazione del Protocollo operativo tra la Regione Emilia-Romagna e il Centro per la Giustizia Minorile Emilia-Romagna e Marche, siglato tra l’assessore regionale dell’Emilia-Romagna, Gianluca Borghi ed il dirigente del Centro, Antonio Pappalardo, alla presenza del capo dipartimento Giustizia Minorile Rosario Priore.

La firma - si legge in una nota - darà piena attuazione alle linee contenute nel "Protocollo d’intesa tra il Ministero di Grazia e Giustizia e la Regione Emilia-Romagna, per il coordinamento degli interventi rivolti ai minori imputati di reato e agli adulti sottoposti a misure penali restrittive della libertà" (che fu deliberato dalla Giunta regionale il 10 marzo 1998).

Con quel protocollo erano state poste le basi di una collaborazione tra il mondo della Giustizia e la Regione, collaborazione che si sarebbe poi concretizzata nella ricerca e nell’attuazione di percorsi condivisi di recupero delle persone gravitanti nel circuito penale e nella promozione di specifici organismi collegiali permanenti di coordinamento. Nel 2002 i minori presi a carico dal Servizio sociale minorenni, tra quelli segnalati dall’Autorità giudiziaria, sono stati 342, di cui 161 per misure cautelari (prescrizioni, permanenza in casa, collocamento in comunità, custodia cautelare).

Con il Protocollo operativo che viene ora stipulato e che riguarda la materia dei minori imputati di reato, si intendono perseguire alcuni obiettivi di particolare rilevanza. In primo luogo - continua la nota della Regione - si promuoverà la "territorializzazione" degli interventi di protezione e recupero a favore dei ragazzi provenienti dal circuito penale. Ciò significa coinvolgere i servizi territoriali, non solo dell’area bolognese ma di tutta la Regione, nella costruzione, assieme ai servizi della Giustizia minorile, di un comune percorso integrato di recupero e di reinserimento sociale di ciascun ragazzo, che assicuri continuità agli interventi svolti dalle diverse Amministrazioni. Il Protocollo prevede lo sviluppo delle attività formative ed educative all’interno dell’Istituto penale "Siciliani" di via del Pratello a Bologna, estendendo ai minori in fase di dimissioni la possibilità di completare il percorso degli studi e della formazione iniziato all’interno.

Di notevole interesse sono anche le prospettive di collaborazione e di scambio che, con questo Protocollo operativo, la Regione ed il Centro per la Giustizia Minorile intendono consolidare relativamente alla formazione degli operatori dei servizi e della Giustizia e alla sperimentazione della mediazione penale: questo strumento, ormai ampiamente utilizzato in diverse realtà nazionali, offre diverse importanti opportunità. La mediazione conferisce un ruolo attivo alla parte lesa, consente al minore imputato di reato di responsabilizzarsi, anche mediante la riparazione del danno causato, e può consentire o comunque agevolare l’accesso di questi al collocamento in comunità, alla permanenza a casa, alla messa alla prova e alle misure alternative e/o sostitutive alla detenzione. "Noi - ha affermato l’assessore alle Politiche sociali della Regione Emilia-Romagna, Gianluca Borghi - vogliamo fare in modo che tutti i servizi sociali della regione siano ancor più coinvolti nel prendersi carico dei ragazzi imputati di reato, di coloro per cui sia necessario individuare strade alternative alla redenzione in un carcere minorile. Queste alternative ci sono, vanno rafforzate e per fare ciò il lavoro comune tra i servizi sociali dei Comuni e la Giustizia minorile dovrà produrre significativi avanzamenti.

"L’intesa - continua Borghi - discende da una nostra convinzione: tutto quel che è possibile fare per sostenere percorsi di mediazione, di accoglienza, di inserimento sociale rappresenta un dovere per le istituzioni pubbliche. Allora oltre alla territorializzazione sosteniamo la formazione comune tra gli addetti alla Giustizia minorile e gli operatori dei servizi dei nostri Comuni, incentiviamo la presenza del volontariato all’interno dei circuiti penali minorili. Inoltre, vogliamo fare in modo che i Comuni abbiano disponibilità di risorse per mettere in atto queste politiche: in tal senso il Piano sociale dell’Emilia-Romagna entro breve verrà presentato al Consiglio regionale".

Torino: la storia di Donato, tra carcere, aids e "buco"

 

Tifeo web, 1 dicembre 2006

 

Donato, fuma l’ennesima sigaretta. È da meno di venti minuti che aspetta fuori da un’aula del Tribunale "Bruno Caccia" di Torino e ha già acceso almeno tre Diana. Donato ha 40 anni, un curriculum penale che tocca quasi tutti i cosiddetti reati minori: rapina, furto, spaccio, possesso di stupefacenti. Magro, origini siciliane e una vita passata tra il carcere e i palazzoni popolari della Falchera, quartiere alla periferia del capoluogo piemontese. Sta aspettando che il giudice lo chiami.

Tra pochi minuti verrà emessa la sentenza per un furto. "Spaccata" viene chiamata nel gergo della microcriminalità: un giacca a coprire la mano per non ferirsi e poi un colpo secco al vetro di un automobile. La corsa per le vie cittadine con un autoradio che ben presto si trasformerà in una dose. Già, perché Donato è tossicodipendente, dagli anni ottanta. La sua vita, il suo mondo è da sempre lo stesso: alzarsi la mattina e cercare di tirare su qualche euro per il "buco". Così fino alla sera, fino al giorno dopo. Fino a quando tutto si concluderà, magari con la tanto sudata disintossicazione o, se va male, con un’overdose.

Ma lui non è solo un "tossico": è anche sieropositivo. Rientra in quelle statistiche dei carcerati che hanno vissuto la propria malattia all’ennesima potenza. Un conto essere malato in casa propria o in ospedale, un altro è esserlo dietro le sbarre.

"Ho scoperto di essere malato per caso - racconta Donato - in carcere mi hanno prelevato del sangue, ma non sapevo che fosse per vedere se avevo l’Aids. Poi mi hanno dato la notizia una mattina, mentre ero in cortile. Sinceramente non mi ha fatto un grande effetto. In quei giorni pensavo piuttosto a come smettere di farmi".

Nel 2002, quando la sieropositività è entrata nella sua vita, Donato era ancora alla Vallette, il carcere torinese. "La mia situazione dentro non è cambiata poi di molto. Forse ho notato che chi lavorava nel braccio (gli agenti di polizia penitenziaria) mi trattavano con distacco, come se avessero avuto paura del contagio. Invece gli altri detenuti non hanno cambiato atteggiamento. Anzi. Mi sono stati vicino" spiega l’uomo.

Invece cosa è cambiato nella vita di Donato? "Non ci penso. Per me è lo stesso. Ho messo in conto di morire. Per un’overdose o per l’Aids non vedo la differenza. Ma voglio dire che ci sono ragazzi dentro che lottano ogni giorno contro il menefreghismo della gente. Persone che subiscono il carcere più degli altri perché hanno questa malattia nel sangue. Forse bisognerebbe parlare di più di questo problema". Donato ci accende un’altra sigaretta, mentre risponde al telefonino. "Sua moglie Anna è morta meno di un anno fa di Aids e lui vive ogni giorno con il dubbio di essere stato colpevole di avergli trasmesso il virus - dice il legale di Donato - Ma chi lo può sapere? In fondo anche lei si bucava da una vita".

Per la "spaccata" Donato è stato condannato, ma grazie all’indulto, applicato subito dopo la sentenza, non tornerà in cella. Di sicuro tornerà per strada, alla ricerca dell’ennesima dose. Ma prima di andare via si volta e dice quasi commosso: "Scrivetelo. In carcere si muore ancora per l’Aids nell’indifferenza più totale". Vero: si muore ancora.

Giustizia: trans in carcere, intervista a Marcasciano Porpora

(Vice Presidente M.I.T, Movimento Identità Transessuale)

 

Associazione Papillon Bologna, 1 dicembre 2006

 

Ci puoi spiegare cosa é il MIT e quali attività svolge?

Il MIT é un’associazione che si occupa della difesa dei diritti e della dignità delle persone transessuali, sia transessuali uomini sia transessuali donne; ha sede a Bologna in un centro messo a disposizione dalla vecchia amministrazione comunale e offre una serie di servizi.

L’attività principale é il consultorio che segue le persone transessuali nel loro iter di adattamento psico-fisico e per quanto riguarda tutti i problemi legati alla salute. Nel consultorio operano psicologi, endocrinologi e un’assistente sociale. Ultimamente il consultorio é stato trasportato anche in carcere.

Un altro servizio del MIT é quello denominato "Prostituzione Sicura" che é temporaneamente sospeso perché il comune di Bologna con la sua nuova impostazione politica ha deciso di interromperlo. Questo servizio era rivolto a tutte le donne immigrate, prive di permesso di soggiorno, che si prostituiscono in strada (sfruttate). A queste donne é negato l’accesso ai servizi presenti sul territorio e "Prostituzione Sicura" era un servizio di facilitazione per l’accesso ai servizi socio-sanitari. Il Comune ha momentaneamente sospeso questo servizio, ma noi continuiamo a svolgerlo con i nostri mezzi. Po c’é lo Sportello dei Diritti, che si appoggia al sindacato, la CGIL, ed é uno sportello che si occupa della difesa dei diritti sul lavoro (licenziamenti, assistenza legale, ...). Infine c’é uno dei servizi più importanti che é l’intervento in carcere. Svolgiamo questo servizio dal 1996 nel carcere bolognese della Dozza. Ogni settimana quattro operatori del MIT si recano in carcere. Il servizio offre assistenza psicologica e medica alle trans in carcere.

Io uso l’espressione "le" trans in carcere perché in genere si tratta di trans MtF (cioè che da uomo diventano donna). Loro infatti sono quelle che, avendo tutta una serie di difficoltà e problemi nella vita sociale, risultano più esposte al rischio galera.

 

Quali sono le condizioni di detenzione delle trans all’interno del carcere maschile della Dozza?

In un’istituzione totale come il carcere i problemi legati a un’esperienza come il transessualismo emergono prepotentemente. Nel carcere di Bologna la situazione non é stata sempre la stessa. In questi anni di servizio svolto all’interno abbiamo incontrato condizioni diverse tra loro. Nel 1996, quando abbiamo iniziato, le trans detenute erano otto, adesso invece sono tre. In base al numero di persone cui si rivolge il servizio, cambiano le caratteristiche del servizio stesso. Con un lavoro certosino siamo riusciti a intessere una rete di rapporti con le trans detenute, la direzione del carcere e le altre associazioni che intervengono (ad esempio la LILA o altre associazioni di volontariato).

Al nostro arrivo le trans avevano una parte loro riservata, celle tenute separate dal resto del carcere per "ovvi" motivi. Quando poi sono diminuite fino a diventare tre trans recluse, grazie ad accordi con la direzione, sono riuscite a ottenere di stare insieme ai loro fidanzati, che avevano conosciuto in carcere. Questa richiesta é stata accettata dalla direzione per un certo periodo di tempo, venendo a creare una situazione anomala rispetto a quella delle altre carceri. Infine recentemente si é tornati al regime di isolamento di prima, anzi pure più rigido. Forse per via del clima innescatosi dopo i fatti di Sassari le trans sono tornate a essere separate dagli altri detenuti e anche la comunicazione con noi é stata resa più difficile.

 

Il tuo racconto é sorprendente, perché guardando alle condizioni di detenzione delle trans nelle varie carceri italiane sembra impensabile che alla Dozza sia esistita quest’esperienza di cui parlavi.

Ci rendiamo conto che la situazione bolognese é stata un’anomalia. Sarà stato per il numero di trans o per una sorta di dialogo che abbiamo avviato con la direzione del carcere, la quale ci ha chiesto addirittura di offrire il servizio anche agli altri carcerati, forse per supplire alle mancanze istituzionali. Per quanto ci é stato possibile abbiamo fatto anche questo, che poi consisteva in comunicazioni con l’esterno, lettere, pacchi, ...Ora la situazione é tornata come prima: ognuno al suo posto e anche noi operatori al nostro posto, solo con le trans.

Generalmente le trans sono detenute all’interno di reparti speciali ricavati all’interno delle carceri maschili, più raramente dentro quelle femminili (se hanno subito interventi chirurgici). Il transessualismo non viene affatto riconosciuto dalla direzione del carcere e questo può portare o all’isolamento in reparti speciali maschili oppure alla totale mancanza di considerazione dell’identità sessuale delle trans recluse.

 

L’istituzione si rivolge sempre al maschile nei confronti delle trans detenute?

Certamente e non solo per quanto riguarda il carcere. Questo é un punto fondamentale su cui invito a riflettere seriamente. La persona trans é colei che ha messo in moto un meccanismo di adattamento del proprio fisico alla percezione che ha di sé, il suo aspetto é molto femminile (non voglio usare le percentuali del 60% o 70%, comunque parliamo di una persona dall’aspetto molto femminile). Quando questa persona si confronta con l’istituzione, dall’ospedale al carcere, si viene a trovare in una situazione veramente brutta e imbarazzante che vi lascio immaginare.

Nel carcere l’esperienza può diventare traumatica; di casi allucinanti ce ne sono svariati e non mi va neanche di raccontarli. Nell’attività che svolgiamo ci occupiamo della salute e dell’assistenza psicologica perché é di questo che ha bisogno una trans detenuta. La salute psichica é di per sé un problema dentro il carcere, per una trans può essere un problema ancora più serio. Il mancato riconoscimento della propria identità può portare a situazioni di vivibilità molto pesanti: tagliarsi o tentare il suicidio per una trans detenuta sono esperienze "normali".

 

Un tempo nelle carceri capitava di incontrare solo trans italiane. Adesso la situazione é radicalmente cambiata e c’é una prevalenza di trans sudamericane.

Io personalmente sono stata in carcere a Regina Coeli, tanti anni fa, nel periodo in cui dentro c’erano soltanto trans italiane, perché ancora non c’era stata l’immigrazione massiccia dal Sudamerica. Le trans italiane appartenevano a una categoria fortemente penalizzata ed emarginata. Fino al 1985 quasi tutte le trans avevano l’articolo 1; oltraggio e articolo 85 si sprecavano. Molte mie amiche erano in libertà vigilata per il semplice fatto di essere trans.

La situazione adesso é cambiata: la realtà che prima vivevano le trans italiane, adesso la vivono le trans sudamericane. Una persona che non ha il permesso di soggiorno, non é in regola, é fortemente discriminata e penalizzata. È molto più facile per lei venirsi a trovare in una situazione che la porti a delinquere e quindi in carcere, sembra proprio matematico, non c’é da stupirsi.

Addirittura le varianti esistono tra le sudamericane stesse, tra brasiliane, ecuadoregne, colombiane. C’é sempre qualcuno più a sud di te, é la logica del capitalismo che viene amplificata dal carcere. Nell’istituzione totale le contraddizioni vengono fuori in maniera molto più forte, sono molto visibili.

 

Hai un’idea della consistenza numerica delle trans detenute in Italia?

È difficile dire con esattezza quante trans sono detenute, sempre per il discorso che il transessualismo non viene riconosciuto. In quelle carceri dove non esistono operatori tipo il MIT mancano le informazioni. Ti posso dire con esattezza che a Bologna ci sono tre trans, oppure posso recuperare il dato di Rebibbia, perché ho la possibilità di chiederlo a operatori che conosco, ma in molte carceri le trans non vengono neanche riconosciute come tali, sono identificate come detenuti maschi. Cifre ufficiali non ne esistono, ma si parla di circa 300 presenze medie, ma potrebbero essere molte di più (meno di 300 non credo proprio).

 

Esistono in Italia o all’estero esperienze di intervento in carcere simili a quella del MIT?

Un tentativo di intervento mirato alle trans é stato avviato a Roma, ma non so come stia procedendo ultimamente. Per il resto in Italia il MIT é l’unica esperienza di questo tipo, abbiamo anche cercato di creare una rete di coordinamento italiana, ma non siamo riuscite a trovare altre situazioni. C’é invece un progetto europeo con sede a Parigi e proprio insieme a un gruppo che già da tempo interviene in carcere a Parigi stiamo tentando di creare un coordinamento a livello europeo tra le realtà di intervento in carcere a favore delle trans: noi in Italia, il gruppo di Parigi e alcuni gruppi spagnoli delle Asturie e dell’Andalusia.

 

Quali difficoltà incontrate nel vostro intervento in carcere?

Le difficoltà sono fondamentalmente di natura burocratica: permessi, supervisioni, iter da seguire. Ogni volta che cambia la direzione devi ricominciare tutto daccapo. Nel 1999 abbiamo avuto difficoltà proprio nei rapporti con le trans che tutto a un tratto non ci volevano più ricevere. Poi venimmo a sapere che c’era un tipo di Alleanza Nazionale che visitava il carcere facendo promesse che aveva messo zizzania tra noi e le trans. Poi per fortuna i rapporti si sono ristabiliti.

Siamo riusciti a far ottenere la semilibertà a una trans brasiliana grazie a una borsa-lavoro presso la nostra sede che le consentiva di recarsi a lavorare da noi di giorno, mentre la sera rientrava in carcere. Per noi é stata una grossa conquista. Questa persona era assolutamente sola e disorientata come molte che si trovano in terra straniera, sentendosi una nullità e finendo poi in carcere si sentono sprofondare in un abisso. Lei, quando ha incontrato noi che le offrivamo le cure per la sieropositività che altrimenti non le venivano garantite e si sono creati i presupposti per poter ottenere la semilibertà, é rifiorita. Poi purtroppo finito il periodo di borsa-lavoro e carcerazione é stata espulsa e rispedita in Brasile. Abbiamo cercato in tutti i modi di farla restare, ma non c’é stato nulla da fare. Siamo invece riusciti a far avere il permesso di soggiorno ad altre persone: una trans albanese, una rumena.

 

A Bologna gli operatori esterni incontrano difficoltà a condurre attività miste tra trans e detenuti uomini?

Nel carcere della Dozza é possibile condurre attività in comune. Alle psicologhe che operano nel nostro consultorio ed entrano in carcere é stato addirittura chiesto dalla direzione di incontrare anche gli altri detenuti. A Bologna il MIT con i servizi che offre dentro e fuori il carcere é diventato il trait d’union tra varie situazioni. Grazie alla disponibilità che abbiamo di medici, psicologi, endocrinologi quando andiamo a chiedere qualcosa la direzione del carcere ci pensa due volte prima di tirarsi indietro. A Bologna poi c’é una vera e propria cultura del volontariato, associazioni, gruppi, persone che da ancor prima di noi intervengono in carcere ed esercitano una funzione di controllo dall’esterno su ciò che avviene dentro il carcere.

Lodi: indulto; sono usciti venti detenuti, ne sono rientrati cinque

 

Il Cittadino, 1 dicembre 2006

 

Parole, parole, parole... cantava la grande Mina. In questi mesi dopo l’approvazione dell’indulto abbiamo sentito numeri, numeri, numeri. Ma quali sono i vero dati? Quanti sono i detenuti che sono stati ammessi al godimento dell’indulto in Lombardia? E quanti sono quelli rientrati dalle Alpi alla pianura padana? E perché? Tra noi c’è anche qualcuno di questi, qualcuno che non ce l’ha fatta ancora una volta, qualcuno che non ha avuto l’opportunità per farcela, qualcuno che ha scelto di non farcela (sperando che la prossima volta vada meglio). Siamo andatati a vedere i dati forniti dal Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria in Lombardia.

Nella nostra Regione all’8 novembre 2006 erano usciti 3199 detenuti di cui 1731 uomini italiani, 1269 uomini stranieri, 88 donne italiane, 110 straniere. La più alta percentuale di questi a Bollate (519), San Vittore (396), Opera (369). Segue Monza (274) e Como (261). A Lodi (casa circondariale solo maschile) sono uscite 20 persone (18 italiani, 2 stranieri). Quanti sono rientrati in cella? A Lodi 5: 4 italiani e uno straniero. In Lombardia 190, di cui 71 uomini italiani, 114 uomini stranieri, 1 donna italiana e 4 donne straniere.

Una certezza: sono pochi. In percentuale sono il 6% in Lombardia. Nonostante le difficoltà, nonostante i servizi sociali non fossero pronti ad affrontare l’emergenza, coloro che hanno scelto di dare un addio definitivo all’esperienza carceraria sono la maggior parte. Questo dimostra ancora una volta come faccia più rumore un albero che cade che una foresta che cresce. Entrando nel merito dei numeri. Il primo dato che balza all’occhio è che le donne che sono state rimesse in carcere sono nettamente inferiori agli uomini. Sia che esse siano italiane sia che siano straniere. Questo perché le donne trovano più facilità a reinserirsi nella società? O forse perché hanno una maggiore forza di volontà dovuta magari al fatto che sono madri? Ù

Un’ulteriore riflessione di stampo sociologico va fatta guardando alla geografia. A Milano sono rientrate molte più persone rispetto alle città più piccole. Non solo. Quasi il 45% dei "rientrati" sono stranieri. Questo perché nella metropoli è molto più difficile trovare occasioni di reinserimento, essere seguiti dai servizi sociali, cercare un’occupazione. E non parliamo della casa. Gli stranieri usciti spesso si sono ritrovati sulla strada, senza un permesso di soggiorno, costretti a lavorare in nero, a spacciare droga pur di campare. E non si venga a dire che per loro vi sono strade aperte. A loro non resta che le case d’accoglienza o il lavoro in nero.

noltre anche il dato di Milano va analizzato nel dettaglio: il dato dei 114 "immatricolati dalla libertà dopo l’indulto" è un dato che comprende le carceri di Opera, Bollate e S. Vittore dal momento che gli arrestati vengono condotti in un primo momento (e quindi immatricolati) a S. Vittore. Ora, possiamo pertanto dire che l’indulto, che nemmeno molti di noi hanno apprezzato per come è stato fatto, non è vero che ha messo fuori un "carico"di delinquenti che è presto tornato in carcere. Forse è più corretto pensare che molti sono ancora fuori e stanno ancora cercando lavoro, stanno "pesando" sulle spalle delle loro madri o dei loro genitori perché i servizi poco hanno potuto fare. Il Gruppo Abele anni fa aveva chiesto di preparare l’indulto, di attivare le imprese, i sindacati, le cooperative. Questa era la strada. Questa resta la via da percorrere. Perché di indulto e di amnistia è facile parlare sulla pelle di noi detenuti.

Lodi: un giornale dal carcere; perché farlo? e per chi?

di Fabrizio Rinaldi (Direttore reggente della Casa Circondariale di Lodi)

 

Il Cittadino, 1 dicembre 2006

 

Un giornale che nasce all’interno di un carcere. È ovvio chiedersi, perché, per chi?Per le persone esterne al carcere, lettori e non del "Cittadino" di Lodi cui viene allegato, perché si possa conoscere, comprendere e interrogarsi sugli istituti di pena e sulla loro finalità (custodire, punire, tutelare la società, rieducare, risocializzare ?) e sulle persone che vi sono detenute (così diversi o così simili a "noi" ?). Per i detenuti che vi collaborano e vi collaboreranno in futuro come strumento per meditare sugli orrori commessi infrangendo le regole della convivenza civica, per non dimenticarsi delle vittime cui hanno fatto perdere dignità subordinandola al loro interesse e magari alla propria violenza, per riacquistare un posto nella società con la volontà di cambiare.

Uno spazio, dunque, che assume due precisi significati: da una parte un tentativo di collegare il carcere al territorio nella convinzione che una vera rieducazione può essere svolta anche con il concorso della società; dall’altra indicare lo sforzo di ciascun detenuto di andare "oltre" la detenzione recuperando i valori infranti e con un desiderio di ri-cominciare in modo positivo.

Un giornale per i lettori e i detenuti ricordando a entrambi che le vere "rivoluzioni" e le grandi scommesse non si fanno contro qualcuno ma in se stessi con l’obiettivo di dare un senso alla propria vita.

Immigrazione: diritto di asilo, una questione ancora aperta

 

Comunicato stampa, 1 dicembre 2006

 

Si è chiusa con successo la tavola rotonda "Diritto di asilo: una questione aperta" voluta dall’Assessorato alle Politiche Sociali del Comune di Roma per porre all’ordine del giorno dell’agenda politica nazionale il tema dell’asilo e dell’assenza di una normativa organica.

Dall’incontro, organizzato da Programma integra in collaborazione con Progetto Diritti Onlus, è emersa la necessità di elevare le buone prassi diffuse sul territorio nazionale a standard comuni in Italia affinché la nuova legge sull’asilo eviti che il destino dei richiedenti asilo continui ad essere lasciato al mero caso, alla possibilità di incontrare servizi di sostegno ed integrazione efficaci o , al contrario, l’assoluta indifferenza. In particolare tutti gli intervenuti hanno sollevato l’urgenza di riformare le procedure inerenti l’intervista dei richiedenti asilo in Commissione, prevedendo un sostegno psicologico della persona ascoltata, oggi costretta a dover raccontare in pochi minuti gli eventi drammatici che l’hanno portata a fuggire e a richiedere protezione.

L’invito che giunge dalla Tavola Rotonda è di procedere alla stesura della nuova legge partendo da un’ampia consultazione di tutti gli attori coinvolti, gli Enti Locali, il mondo dell’Associazionismo, le Organizzazioni internazionali, le Amministrazioni Centrali e territoriali che, con i loro operatori, a vario titolo "intercettano" i rifugiati e che possono apportare un contributo determinante nel prevedere politiche e definire procedure realmente rispettose e garanti dei diritti di questi cittadini.

Le sollecitazioni pervenute dai partecipanti, a partire dall’Assessore Milano, la Portavoce dell’ACNUR Laura Boldrini, il Giudice De Fiore, l’avv. Consoli dell’ASGI, il i Prefetti Messineo e Giuffrida, verranno riportate dall’on. Franco Russo del PRC all’attenzione del Parlamento affinché si arrivi finalmente all’approvazione di una legge realmente interprete delle istanze degli "addetti ai lavori".

 

 

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