Rassegna stampa 2 luglio

 

I detenuti stanno sempre con gli occhi bassi, di Adriano Sofri

 

La Gazzetta del Sud, 2 luglio 2005

 

In regime di semilibertà, con un lavoro alla Normale di Pisa, Adriano Sofri racconta sensazioni tra immagini del passato e del presente. "È bellissimo guardare in su, verso il cielo" oppure "ormai sono diventato ignorante, ho dimenticato le cose che sapevo".

"Chissà perché mai in carcere i detenuti imparano a guardare in terra, a contare i passi. Chissà perché i prigionieri camminano a occhi bassi, forse perché cercano la strada". Così Adriano Sofri, detenuto in regime di lavoro esterno, parla a lungo di sé, dicendo che "è bellissimo guardare in su, verso il cielo" e che "ormai sono diventato ignorante, ho dimenticato le cose che sapevo". Adriano Sofri è sommerso da testi vecchi e nuovi, un computer, un telefono in quello che è lo splendido palazzo della Carovana, in piazza dei Cavalieri. Scuola Normale superiore di Pisa: Sofri è nel suo ufficio pieno di libri e carta, fuori dalla finestra, appena aperta per difendersi dal caldo, restauratrici arrampicate su impalcature lavorano alla chiesa dei Cavalieri di santo Stefano.

Dalle 9 Sofri ha lasciato il carcere don Bosco, dove tornerà stasera. Formalmente detenuto in regime di lavoro esterno, Sofri qui ha una dimensione altra. Ci sono libri. Una costante per Sofri, in carcere come qui: "ho una specie di feticismo per i libri, era bibliofilia una volta, era una passione forte. Siccome ero molto povero dovevo cercare espedienti per trovare i libri che erano necessari. I libri di cui mi sono riempito in carcere dipendevano dal fatto che un po’ per gentilezza un po’ perché pensavano che avessi molto tempo a disposizione, case editrici, autori, tutti mi mandavano libri con una certa pretesa di prefazione. Ma con Mark Block posso dire adesso che non solo non ho letto il libro, ma non ho nemmeno scritto la prefazione".

Questo, dice Sofri, vuol dire che "ho letto molto poco e ho dimenticato molte delle cose che sapevo diventando vecchio". Dice, Sofri, che i libri "hanno tutte le dimensioni: da quelle materiali al resto, contengono tutte le cose, tutte le persone, ma anche le cose mancate e le promesse a venire". E il pensiero va all’ incredibile biblioteca della Normale, "biblioteca a cielo aperto. Se penso a quello che era 42 anni fa - ricorda Sofri - adesso la definisco libreriola. Ora è una cosa magnifica, tentacolare, la immagini risalire dal sottosuolo fino al quarto piano della cosiddetta torre di Ugolino, da dove si vedono i tetti di tegole, la casa dove Leopardi ha scritto A Silvia e, dietro, la torre di Pisa, il duomo e il battistero. Questo è fantastico per una biblioteca a scaffali aperti che è anche a cielo aperto".

Tornare alla Normale. "Le persone che immaginano le cose, con una certa simpatia, pensano immagini appassionate, più travolgenti di come siano in realtà, ma la vita vissuta è altra. Queste sensazioni sono deboli, costruite a posteriori" smorza subito Sofri. Che poi parla delle impressioni che ha quando compie il tragitto dal carcere alla Normale: "Ho scritto oggi della simpatia che mi fanno i campanili di Pisa. Ci sono campanili bellissimi. Sulle guglie crescono piante di capperi, incredibili alberi di fico che cercano la strada verso il cielo. Il detenuto che esce di galera è abituato a tenere la faccia verso il basso. Uscire di galera e ricordarsi che si possono alzare gli occhi è bellissimo. Chissà perché ma in carcere i detenuti imparano a guardare in terra, a contare i passi. Chissà perché i prigionieri camminano a occhi bassi, forse perché cercano la strada", ripete.

Si sostanzia così il detto differenza tra il giorno e la notte; "il giorno trascorso qui e la notte trascorsa al don Bosco, nella sezione più infelice del carcere, in locali abbandonati, di infima qualità. C’è una differenza tra il giorno e la notte: sta nei due palazzi che rappresentano l’antitesi di Pisa, simbolici alla rovescia. Questo dà la stura a una possibilità di comparazioni anche umane, non tutte prevedibili. Qui ho ritrovato molti coetanei e amici, ho molto da imparare, da farmi raccontare la loro vita. Tutti pensano di sapere come è andata la mia, io sono curioso della vita degli altri".

È arrivato il momento di distinguere "tra la curiosità che riguarda me e questa specie di escrescenza che è il caso Sofri. Dubito fortemente che un popolo di leghisti che scandisce migliaia di slogan contro di me abbia curiosità su me. Come sono io come persona. Ho l’impressione che sia cancellata ogni curiosità su me, o persino la voglia di immaginare che io esista sul serio. Ma si pronuncia un nome per pronunciare uno slogan, sentirsi uniti, trovare un nemico". Ma questa specie di "proiezione del mio caso tramutandolo come un qualcosa di simbolico, a volte con solidarietà, spesso con inimicizia - dice Sofri - ormai mi pare un fatto del tutto irreparabile". Non sempre è così: Sofri riceve lettere di persone che hanno voglia di "raccontarmi le cose loro, di considerarmi una specie di orecchio".

Sofri non sorride quasi mai. Ma una domanda consente al suo sguardo di aprirsi un attimo solo: è quando ricorda Sarajevo, le circostanze estreme nelle quali è maturato il legame con la gente di Sarajevo. "Persone che mi hanno dimostrato una fedeltà commovente. Le signore dell’ ufficio postale di Sarajevo non hanno mai smesso di mandarmi le emissioni filateliche della Bosnia".

Sofri in semilibertà, "una cosa che non esiste, la libertà non è divisibile" che pensa ai merli che hanno nidificato sugli alberi di cemento di Michelucci, ai voli delle rondini quando torna in carcere, ai campanili, alla gente di Sarajevo. Sofri che legge Prosperi (Dare l’anima) e pensa alle tematiche referendarie, l’ultimo testo sulla Cina di Rampini. Che pensa ai fichi che nascono sui campanili: "E se ce l’ hanno fatta i fichi e i merli - conclude Sofri - forse ce la caviamo anche noi". Chiara Carenini

Sassari: Commissione regionale Diritti Civili visita il carcere

 

L’unione Sarda, 2 luglio 2005

 

La Seconda commissione regionale Diritti Civili ha visitato oggi il carcere di San Sebastiano di Sassari e denuncia, in una nota, "l’insostenibile situazione della struttura". La commissione segnala spazi angusti, mancanza di attività di lavoro per tutti, una struttura che, seppure non in sovraffollamento, ‘soffrè i problemi di 134 anni di vita. Tra le note positive, un miglioramento delle relazioni interne evidenziate dalla mancanza di suicidi negli ultimi quattro anni.

Fra poco saranno pronte le cucine, alcune celle sono state ristrutturate, la qualità dell’assistenza sanitaria è migliorata anche per la specialistica (17 i medici convenzionati); a ottobre ci sarà un reparto per i malati di aids. Ma alcune situazioni sono al limite, come sostengono i consiglieri in visita: il riparo per i familiari in attesa dei colloqui, la sezione femminile, il reinserimento dei detenuti nella società e il terzo braccio dove le celle "sono uguali a decenni fa".

"Purtroppo – ha detto la direttrice Patrizia Incolli – bisogna fare i conti con un vecchio compendio pensato quando vigevano altre regole". "Adattarlo alle esigenze di un carcere moderno è missione impossibile – segnalano i Commissari - essendo un cantiere aperto, e gli interventi non risolvono il problema. Anzi, rischiano di modificare un complesso vincolato, come tutte le costruzioni d’epoca. E la speranza di un nuovo carcere si allontana".

Altri problemi riguardano gli organici di polizia penitenziaria. Nel corso del lungo incontro e prima della visita alle struttura, sono intervenuti, per chiarimenti, i consiglieri Amadu, Masia, Lai, Vincenzo Floris, Licheri, Simonetta Sanna, Cassano e Rassu. Più tardi, in Comune, l’incontro col sindaco. Nel pomeriggio la Commissione ha visitato il carcere di Alghero.

Milano: riflettere con chi sbaglia, convegno a San Vittore

 

Ansa, 2 luglio 2005

 

Riflettere insieme a chi commette reati "fa evolvere il rapporto tra società e devianza più di quanto possano l’osservazione del reo e la pena che il condannato sconta in carcere". La frase è stata scelta dal Gruppo della Trasgressione, che opera all’interno del carcere di San Vittore, come cardine dei lavori del convegno su "Punizione e suoi protagonisti", che si è tenuto oggi a Milano. Perché la pena diventi parte di un progetto di reinserimento sociale e non un marchio indelebile e "statico" di delinquenza, è stato dunque rilevato, è necessario che gli operatori siano in grado di ascoltare e comprendere la situazione di chi subisce la punizione. La questione sulla quale si sono confrontati gli operatori sociali, i giuristi e gli psicologi che hanno partecipato all’incontro (ma anche alcuni detenuti del carcere milanese ai quali è stato concesso di essere presenti) è tanto semplice, quanto importante: il fine della sanzione, che sia quella dello Stato nei confronti del cittadino deviante o del genitore verso il figlio, deve essere quello di cercare l’interiorizzazione della norma più che la semplice obbedienza. E il rapporto diventa fondamentale per chi applica la punizione: se infatti per Gloria Manzelli, direttrice del carcere di San Vittore, "la pena deve essere tempestiva, giusta ed esemplare, ma equa" (come nell’idea che fu del Beccaria), è importante anche chiarire come debba comportarsi il giudice nell’applicarla.

"Nella mia attività - ha detto Francesco Cajani, sostituto procuratore del Tribunale di Milano - registro atteggiamenti diversi: da un lato c’è chi vede nel giudice soltanto la bocca della legge, dall’altro chi ritiene che il giudice debba sentirsi coinvolto al momento di comminare la pena". Secondo Cajani, il giudice dovrebbe cercare di comprendere chi ha davanti, cosa che invece "è troppo spesso delegata alla magistratura di sorveglianza". L’idea di fondo, che Cajani condivide con il teologo Guido Bertagna, è che "la pena debba rappresentare un percorso e non un marchio indelebile per il detenuto". È chiaro, però, che è più facile per l’educatore e per chi gestisce gli istituti di pena conoscere personalmente i soggetti, "piuttosto che per chi - ha aggiunto Cajani - si trova ad avere a che fare con migliaia di fascicoli". Il ruolo dell’educatore è dunque centrale in quel percorso che vuole fare del detenuto un soggetto da reintegrare nella società. Secondo lo psicanalista Enzo Funari, infatti, "solo il sentirsi compreso può generare un cambiamento nel condannato".

Nuove carceri: Corte dei Conti critica programmazione e scelte

 

Asca, 2 luglio 2005

 

La costruzione di nuove carceri, la ristrutturazione e l’ampliamento di quelle esistenti assorbono ingenti risorse finanziarie, ma non riescono a migliorare in modo tangibile le condizioni di vita dei detenuti, a causa del continuo aumento del loro numero. Lo sottolinea la Corte dei Conti nella relazione all’indagine su "edilizia penitenziaria: programmi di investimento, di ristrutturazione e di dismissione". Il sovraffollamento degli istituti di pena ha risentito, negli ultimi anni, rileva ancora la Corte, del tumultuoso aumento dei flussi migratori verso il nostro Paese, provenienti dapprima dall’altra sponda dell’Adriatico (Bosnia, Kosovo, Albania) e poi dal Nord Africa, che hanno contribuito ad aumentare le attività illegali, sia in termini di microcriminalità sia sotto forma di nuove occasioni di profitto per la malavita organizzata.

Tale fenomeno si somma a quello preesistente dell’eccessiva durata della custodia cautelare, causata dalle perduranti lungaggini dei processi, che interessa ben il 40% della popolazione carceraria: ne deriva - tra l’altro - anche il precoce deterioramento delle strutture esistenti, che necessitano di continui interventi manutentori. In tale contesto la Corte dei conti si è soffermata particolarmente sui Programmi di costruzione dei nuovi istituti e su quelli di ristrutturazione e dismissione del patrimonio edilizio esistente. Sul primo versante l’Organo di controllo ha espresso giudizi fortemente critici in ordine alla programmazione degli interventi, spettante al Ministero della giustizia e definita in seno ad un Comitato paritetico con il concertante Ministero delle infrastrutture, che gestisce i fondi per la realizzazione dei lavori attraverso i Provveditorati regionali alle OO.PP..

Richiamando precedenti pronunce, rese sia in sede di referto che di controllo, i Magistrati contabili hanno compiuto un lungo excursus fino ai primi anni ‘70 - epoca di avvio del piano pluriennale di edilizia penitenziaria, tuttora in corso -, rilevando "l’eccessiva mutevolezza delle scelte programmatiche e la conseguente precarietà delle relative assegnazioni di fondi". Gli stanziamenti recati dalle leggi n.41 e n.910 del 1986, per complessivi 2600 miliardi di lire, sono stati diluiti fino al 2000 vale a dire in un arco temporale di ben 13 anni, pari a più di tre volte quello originariamente previsto. Decisamente sconcertanti appaiono le vicende - riportate a titolo esemplificativo - concernenti la costruzione in Sicilia delle nuove carceri di Patti e Mistretta che, programmate da oltre 20 anni, entrano ed escono alternativamente dal programma ogni due anni, con storno dei relativi finanziamenti a beneficio dell’una e dell’altra.

Perugia: detenuti trasferiti nel nuovo istituto di Capanne

 

Agi, 2 luglio 2005

 

I circa 220 detenuti e 70 detenute del carcere S. Scolastica di Perugia, di Piazza Partigiani nel centro storico del capoluogo, sono stati trasferiti nel nuovo istituto di "Capanne" Perugia che sorge su un’area di 42 ettari, a pochi chilometri dal capoluogo. L’operazione di trasferimento, è stata effettuata nel massimo del riserbo, di notte, conclusa attorno alle 2 di domenica,con pullman dell’amministrazione penitenziaria e cellulari per trasporto detenuti.

Il trasferimento è stato pianificato e coordinato dal direttore dell’Istituto Bernardina Di Mario e dal comandante degli agenti di custodia Salvatore Mariano con i suoi 208 uomini e donne. I detenuti e detenute hanno preso posto nelle celle assegnate, tutte con servizio igienico e doccia, così, nell’altra ala separata le detenute, in un carcere modello, dove oltre agli spazi più moderni, sono state applicate tecnologie di controllo video ed allestite una sala musica, una sala biblioteca, due chiesette (uomini e donne) un grande recinto per l’ora d’aria con cancellata al posto del muro, nella logica dell’umanizzazione della pena. Tra le novità del nuovo istituto, un nido per le detenute che hanno bimbi, una sezione con 4 letti per disabili e per gli spostamenti interni degli agenti, anche piccoli veicoli elettrici. Il trasferimento dei detenuti dal vecchio istituto al nuovo, comporterà ora una diversa organizzazione per le traduzioni in Tribunale, essendo il carcere non più in città, ma a circa 12 chilometri.

Civitavecchia: accusato violenza sessuale tenta suicidio in carcere

 

Il Messaggero, 2 luglio 2005

 

Fabrizio Bernacchia ha tentato di togliersi la vita. Il quarantacinquenne civitavecchiese accusato di aver violentato una ragazza rumena di 28 anni, ha ingoiato una lametta da barba, o qualcosa di simile, e per questo è stato ricoverato presso l’ospedale civile San Paolo di Civitavecchia. Secondo quanto si è appreso, Bernacchia avrebbe tentato il suicidio dentro la sua cella del carcere di Aurelia, il giorno precedente dell’udienza di convalida dell’arresto, tanto che la stessa udienza si è tenuta presso la stanza del nosocomio civitavecchiese dove è tuttora ricoverato.

Ad accorgersi che l’uomo aveva compiuto un gesto altamente pericoloso per la sua vita, sarebbero stati gli agenti di polizia penitenziaria, i quali hanno immediatamente fatto scattare l’allarme. Subito dopo è stato trasportato all’ospedale. Non è chiaro se l’uomo si sia salvato in quanto la lametta, per pura casualità, non ha interessato nessun organo vitale, oppure se siano stati i medici ad intervenire prima che l’oggetto metallico producesse danni irreparabili.

Questo dunque il motivo del suo ricovero, e non i problemi alle ossa ed al fegato come avevano affermato i suoi avvocati difensori. Un gesto, quello del Bernachia, che potrebbe essere stato dettato da due motivi: o il pentimento per aver compiuto la violenza sulla giovane rumena appena arrivata in città e che avrebbe dovuto lavorare come badante presso la casa dei suoi genitori, oppure perché, ritenendosi innocente, come i suoi legali sostengono che continui a professarsi, non avrebbe retto alla vergogna di un’accusa così infamante. Ste.Pet.

Iran: nuove accuse al presidente, giustiziava i detenuti

 

Il Giornale, 2 luglio 2005

 

Se Washington si lamenta, Teheran non ride. I primi a mettere in discussione l’immagine di Mahmoud Ahmadinejad, il discusso ex ufficiale dei pasdaran nuovo presidente della Repubblica Islamica, sono stati i servizi segreti del suo Paese. Prima ancora che sei ex ostaggi americani incominciassero a riconoscere il loro aguzzino i funzionari dell’intelligence iraniana avevano inviato al ministro Alì Younessi una serie di veline in cui si segnalava l’inopportunità della candidatura di Ahmadinejad. E l’informatissimo sito Baztab, controllato dal potente ex capo dei pasdaran Mohsen Rezai, da una settimana cita uno scottante dossier attribuito agli uomini del presidente uscente Khatami.

Il documento, ripreso da Baztab senza confermarlo, accusa Ahmadinejad d’aver guidato i plotoni d’esecuzione all’interno del carcere d’Evin e d’essersi guadagnato il soprannome di "terminator" per il vezzo di infliggere personalmente il colpo di grazia ai condannati a morte. Ora l’allarme dei servizi segreti iraniani e le insinuazioni messe in rete dal "rivale" conservatore Moshen Rezai sembrano trovare una sponda sul fronte internazionale. Dopo i riconoscimenti degli ostaggi americani arrivano anche le accuse di Hossein Yazdan Panah, un rappresentante dell’opposizione curda in esilio in Irak pubblicate dal quotidiano di Praga Pravo. Secondo le dichiarazioni rese al giornale, Ahmadinejad sarebbe coinvolto nell’assassinio del leader dell’opposizione curda Abdel Rahman Ghassemlou, ucciso assieme ad altri due compagni nel luglio 1989 a Vienna. "Ahmadinejad, un comandante dei pasdaran responsabile delle operazioni contro i dissidenti all’estero, andò a Vienna - secondo Panah - per consegnare le armi provenienti dall’ambasciata iraniana al commando".

L’eliminazione di Ghassemlou, leader di una fazione sospettata di lavorare nel Kurdistan iraniano per conto del "nemico" Saddam Hussein, sarebbe stato pianificato dallo stesso Ahmadinejad ed eseguito materialmente da un secondo commando. L’oppositore, giunto a Vienna per trattative segrete con rappresentanti del governo iraniano, fu assassinato a colpi di pistola il 13 luglio ‘89 in un appartamento della capitale austriaca assieme al suo vice Abdullah Ghaderi-Azar e al cittadino austriaco di origine curda, Fadel Rasoul.

Il cruciale e imbarazzante ruolo svolto da Ahmadinejad emerge anche nell’allarmato rapporto "interno" indirizzato al ministro dei servizi dei sicurezza iraniani Alì Younessi. "Ahmadinejad - notava la velina - fu uno dei primi volontari ad aderire ai Comitati Islamici Rivoluzionari e a lavorare nell’ufficio del procuratore della Rivoluzione Islamica installato nel carcere di Evin mettendo in atto la prima ondata di esecuzioni dei funzionari dello scia e distinguendosi nella repressione delle forze controrivoluzionarie". Sulla base di queste rivelazioni il ministro dell’intelligence Alì Younessi, aveva consigliato al Consiglio dei Guardiani di non accettare la candidatura del neo eletto presidente. Il veto era stato scavalcato dal capo dei Guardiani, ayatollah Ahmadi Jannati, protettore e mentore di Ahmadinejad. La vicenda degli ostaggi americani verrà intanto riproposta lunedì e martedì mattina nel documentario "Teheran 444 giorni" trasmesso su Rai Tre da "La Storia siamo noi". Tra gli intervistati del documentario anche l’ex colonnello dell’esercito Usa Charles Scott che per primo ha accusato Ahmadinejad.

Immigrazione: Lampedusa, Arci denuncia nuove espulsioni di massa

 

Agi, 2 luglio 2005

 

A Lampedusa un gruppo di militanti dell’Arci ha iniziato un monitoraggio, che durerà per tutta l’estate, su quanto avviene in quella frontiera europea e denunciarlo all’opinione pubblica.

"Nel centro di Lampedusa in cui vengono detenuti illegittimamente i migranti sbarcati nei giorni scorsi (si tratta di un centro di detenzione in cui gli stranieri vengono trattenuti e privati della libertà personale senza alcun provvedimento di convalida da parte dell’autorità giudiziaria, ma solo a seguito di provvedimenti amministrativi, in contrasto col dettato della nostra Costituzione) - dice l’Arci - ieri erano presenti rappresentanti di ambasciate straniere, con tutta probabilità di Marocco ed Egitto. Questi hanno operato una identificazione sommaria di una parte dei detenuti e alle 15.00 un aereo C-130 si è alzato in volo da Lampedusa per una destinazione ignota, carico di immigrati. Un’altra espulsione di massa, nonostante l’esplicito divieto delle normative internazionali e la presa di posizione del Parlamento europeo che ne ha chiesto la sospensione".

Nella serata di ieri al largo di Lampedusa è stata avvistata un’altra imbarcazione, per il momento in acque internazionali. A dimostrazione che nessun proibizionismo può dissuadere chi, in questi viaggi compiuti in condizioni drammatiche, vede l’unica speranza di vita.

Libri: "Anguilla", un romanzo su immigrazione e carcere

 

Ansa, 2 luglio 2005

 

Un romanzo che, con delicatezza e semplicità, ci parla di immigrazione e di carcere, presentando come protagonista un giovane egiziano. È "Anguilla" (Salani, pagg. 128, euro 9,50) di Nino Ferrara. L’autore, nato nel 1957 a Portici, vive ormai da più di vent’anni a Novara, dove ha lavorato a lungo in una comunità alloggio per minori con problemi familiari.

È anche autore e illustratore di libri per ragazzi, mentre da un po’ di tempo tiene un corso di "scrittura creativa" con i detenuti del carcere di massima sicurezza di Novara. "Lo spunto di Anguilla è duplice: da una parte l’amarezza di scoprire che molti dei ragazzi da me seguiti nella comunità dove lavoravo erano finiti, una volta chiusa la struttura di accoglienza, in galera, e dall’altra l’esperienza del corso di "scrittura creativa".

 

Come definirebbe questo suo libro?

"Un racconto di evasione, mi verrebbe da dire. Una storia di speranza, di testarda convinzione che con la letteratura si possa sempre uscire, andare lontano pur restando fermi. L’idea era quella di lavorare soprattutto sul linguaggio, sul "come" raccontare, piuttosto che sul "cosa". Nel carcere non succede mai nulla, per cui il registro adoperato è stato quello del monologo interiore, che mi ha consentito di procedere per libera associazione di idee, schivando il problema della trama e provando intanto a narrare il più intensamente possibile le emozioni".

 

È una storia inventata o ci sono elementi di realtà?

"Il racconto risuona di tante altre storie reali, ma il tutto è una storia mai veramente avvenuta, proprio perché avviene continuamente. Una chiave di lettura della storia è il "ferro", pesante, chiuso, che abbonda in prigione e a cui si oppone il "vento", leggero, invece, che passa tra le grate".

 

Vuole parlarci del suo lavoro con la scrittura nel carcere di Novara?

"Di fronte a una società che si presenta sempre più orientata a sorvegliare e punire, che chiede di allontanare da sé ogni forma di insidia e di fastidio, il carcere si erge come simbolo, quasi un totem, della separazione tra buoni e cattivi. Come luogo di compressione dei più elementari diritti umani. Come se un uomo che commette un reato non sia una ricchezza da recuperare ma un ferro vecchio da buttare. Si resta così lì dentro fermi, a contare il tempo scandito dai riti quotidiani, in attesa che tutto passi. Il tentativo è stato dunque quello di passare dal tempo "contato" al tempo "raccontato", vissuto da protagonisti, rivisitando magari con ironia e distacco il proprio passato, per provare a trasformare e cambiare il presente. Abbiamo lavorato insieme sulle parole del distacco, parole come Ricordo, Attesa, Esilio, Fuga, Abbandono, Perdita, Nostalgia, Speranza".

Verona: Don Calabria e Comunità dei Giovani difendono operatori

 

L’Arena di Verona, 2 luglio 2005

 

La Comunità dei Giovani e il Centro Don Calabria rigettano le accuse e per chiarire la loro posizione hanno indetto una conferenza stampa per questa mattina al Centro polifunzionale del Don Calabria di via San Marco.

In una nota fatta pervenire ieri pomeriggio agli organi di stampa, "in relazione all’operazione "Gagio", portata a termine dal Comando provinciale dei carabinieri di Verona e dalla polizia municipale che riguarda presunti reati di pedofilia, sfruttamento della prostituzione minorile, spaccio di sostanze stupefacenti all’interno dei campi rom di Boscomantico e Monsuà", i responsabili delle due istituzioni Luca Picotti presidente della cooperativa Comunità dei giovani, e Stefano Schena, direttore del Centro Don Calabria, mettono in evidenza "che le accuse di presunta concussione rivolte agli operatori delle due onlus nulla hanno a che fare con la notizia relativa ai pesantissimi reati che ha portato all’arresto di quindici persone; non esiste infatti nelle ipotesi della magistratura, alcuna relazione tra i vari reati che riguardano fenomeni che le due onlus proprio all’interno del progetto Rom combattono da sempre e, anzi, aiutano a monitorare".

"In secondo luogo", continua il comunicato, "gli operatori dei due campi rom hanno sempre collaborato con le forze dell’ordine e con le istituzioni per prevenire ed evitare che fenomeni di questo genere trovassero sedimento nella città, attraverso una serie di azioni (inserimento di giovani nel mondo del lavoro, di bambini e ragazzi nel mondo della scuola). Inoltre è proprio in situazioni di degrado estremo che può trovare terreno fertile quell’alleanza tra soggetti, come gli arrestati per reati sessuali e di violenza contro i minori (in questo caso otto cittadini veronesi, tra questi alcuni già pregiudicati per reati che vanno dalla pedofilia alla detenzione di materiale pedopornografico) e i genitori di adolescenti che vivono in una condizione di pesante compromissione morale".

"La trasparenza e la capacità professionale degli operatori coinvolti", continua la nota, "nei confronti dei quali la fiducia della Comunità dei Giovani e del Centro Polifunzionale Don Calabria è rimasta intatta. A loro la solidarietà dei colleghi e dei responsabili delle Onlus che condividono quotidianamente il loro impegno in situazioni sociali di frontiera com’è quella della gestione dei campi rom". "Ovviamente ci dichiariamo fin da ora disponibili a collaborare in tutti modi con la magistratura", continuano i due responsabili, "perché il nostro lavoro possa risultare il più trasparente possibile". Solidarietà agli enti coinvolti nelle vicende dei campi nomadi è arrivata dal Cestim (Centro studi immigrazione).

In una nota la onlus veronese, in prima linea sui temi dell’immigrazione e dell’integrazione, manifesta sconcerto per il modo in cui si sta diffondendo la notizia dell’operazione antipedofilia conclusasi nel Veronese e "ritiene inaccettabile e vergognosa l’equivoca attribuzione mediatica di responsabilità ad alcuni operatori dei Servizi sociali e degli enti convenzionati con il Comune. Operatori che il Cestim sa da anni impegnati con onestà, generosità, intelligenza e competenza in progetti per i rom rumeni che vanno nella direzione esattamente contraria a quella di un’accusa infamante, che comunque non li può riguardare nella maniera più assoluta".

"Quanto al reato di concussione che verrebbe loro imputato", continua la nota, "nel Cestim si è convinti che si basa su riscontri che all’esame approfondito della magistratura risulteranno privi di fondamento. Alla Giunta comunale che giustamente si dichiarerà parte offesa, ai Servizi sociali del Comune, al Don Calabria e alla Comunità dei giovani, il Cestim esprime tutta la sua solidarietà, condividendo l’amarezza del momento".

 

 

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