Rassegna stampa 26 ottobre

 

Giustizia e pene alternative: cifre non giustificano allarmismi

 

L’Unione Sarda, 26 ottobre 2004

 

In una lettera pubblicata lo scorso 17 ottobre ("Le richieste di grazia. I condannati scontino la pena") un lettore afferma, tra l’altro, che "bisognerebbe indignarsi per la concessione di permessi o alternative alla pena a soggetti pericolosi che forse dovrebbero espiare la condanna, usufruendo meno di tali benefici". Mi occupo da molti anni di volontariato penitenziario e vorrei dire che non vengono concessi permessi o misure alternative alla detenzione a soggetti pericolosi, ma a detenuti che si trovino nelle condizioni previste dalle norme dell’Ordinamento penitenziario.

Tali condizioni vengono verificate attraverso l’osservazione del detenuto da parte di diversi soggetti e la cosiddetta "sintesi" perviene alla Magistratura di sorveglianza, il cui provvedimento di concessione dei benefici certifica l’affidabilità della persona. Che poi questa possa ingannare osservatori esperti e specialisti, o che possa impazzire e commettere altri delitti durante un permesso, è pur sempre possibile, ma decisamente improbabile. Non solo.

C’è un "esercito" sconosciuto in Italia di circa 40 mila persone condannate che beneficiano di misure alternative alla detenzione (e che si aggiungono alle 54 mila detenute), per le quali la percentuale di revoca dei benefici per fughe o altro è al di sotto dell’1 per cento, quindi vicina allo zero. Ritengo si possa affermare che, paradossalmente, da parte di persone condannate, si compiano più reati dietro le sbarre che fuori. Certamente il caso di chi, in permesso premio o agli arresti domiciliari o in semilibertà e così via, compie un reato, desta clamore e allarme.

Infondato, perché dovremmo raffrontare i dati complessivi con la percentuale di reati che si compiono in un campione di popolazione di 40. mila persone. Ben vengano quindi le misure alternative e ci auguriamo, anzi, che migliori condizioni dei nostri istituti penitenziari e del personale che vi lavora consentano ad un maggior numero di condannati di accedere a questi vantaggi che la legge consente. E, se qualcuno sbaglia ancora, non può essere preclusa ad altri 10 mila la possibilità di essere recuperati alla società, alla famiglia, a se stessi. Con vantaggi per tutti: un detenuto in meno fa risparmiare allo Stato, cioè a noi, circa 70 mila euro all’anno; e non è poco. Bruno Asuni Coord. Volontariato Giustizia.

La ringrazio per la testimonianza e, soprattutto, per le cifre che fornisce. Le misure alternative alla pena sono un segno di civiltà, coerente con il dettato della Costituzione, che pone allo Stato l’obiettivo di rieducare e riabilitare il reo. Purtroppo, il detenuto in fuga durante il permesso suscita clamore, specie se è famoso. Passano inosservate invece migliaia di uomini e donne che nei benefici loro concessi colgono l’occasione per rifarsi una vita.

Napoli: Russo Spena visita l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario

 

Ansa, 26 ottobre 2004

 

Una delegazione composta dal parlamentare di Rifondazione comunista Giovanni Russo Spena, dal presidente dell’associazione Citta Invisibile Samuele Ciambriello e da Francesco Caruso del movimento delle/dei disobbedienti, ha visitato l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Napoli.

Si è potuto verificare che le condizioni di vita dei reclusi sono indegne di un paese civile. Livelli di igiene pessimi; strutture edilizie degradate e inadeguate ad ospitare persone; prestazioni sanitarie da terzo mondo, con gli infermieri che vengono dotati soltanto di un paio di guanti al giorno, con cui dover medicare una ferita dopo, magari, aver dovuto pulire un ammalato dei suoi escrementi.

Eppure in questo carcere si spende per la voce ‘sanità’ il doppio o il triplo di quanto non si spenda nelle carceri di Secondigliano e Poggioreale: 3.495 euro pro capite per l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario e, rispettivamente, 1.888 euro e 1.277 per Secondigliano e Poggioreale.

Eppure in questo carcere per assistere 190 internati ci sono 24 medici e 6 psichiatri, pagati, tra l’altro, per produrre quelle perizie di revisione della pericolosità sociale che decidono del futuro di queste persone.

E sono perizie del genere che hanno tenuto chiuso nell’ospedale psichiatrico per 50 anni Vito De Rosa, un ex internato graziato un anno fa dal Presidente della Repubblica dopo che un consigliere regionale aveva scoperto l’oscenità del suo caso. Il direttore di quel carcere dichiarò allora alla stampa che Vito poteva uscire perché "non più pericoloso". Ma se non era più "pericoloso" perché lo tenevano ancora dentro? E da quanto tempo non era più "pericoloso"? E quanti Vito De Rosa ci sono a Sant’Eframo?

"Questo carcere va chiuso immediatamente garantendo che non subiscano nessuna deportazione in istituti lontani dai luoghi dove risiedono i loro familiari", sostengono Russo Spena, Ciambriello e Caruso. Russo Spena dichiara inoltre: "La sanità penitenziaria deve passare immediatamente alle Asl, come prevede già una legge approvata dal Parlamento italiano, perché al cittadino detenuto sia assicurato lo stesso diritto alla cura ed alla salute dei cittadini liberi e perché non si verifichino più situazioni indegne come quella che abbiamo visto oggi a Sant’Eframo. E vogliamo che l’Amministrazione penitenziaria ci comunichi la spesa annua di Sant’Eframo per le visite specialistiche, per le perizie mediche e per le forniture farmacologiche; quanto negli ultimi anni è stato speso per la manutenzione ordinaria e straordinaria di questo posto; quali sono le procedure con cui si assumono medici, specialisti e psichiatri."

Ciambiello dichiara "È urgente accertare contemporaneamente che l’amministrazione penitenziaria e la magistratura di sorveglianza mettano fuori tutti i Vito De Rosa nascosti dentro questo manicomio, attuando quei provvedimenti di decarcerizzazione che impone la Costituzione e la legge penitenziaria. Gli internati hanno bisogno di cure, ospedali, case famiglie e non di carcere. Faccio appello al mondo della solidarietà, alle associazioni, al terzo settore per trovare luoghi diversi dove ospitare queste persone."

E Caruso aggiunge: "Continueremo a tenere aperti gli occhi su Sant’Eframo, per attivare dal basso e allargare una rete di controllo democratico su questo manicomio e sugli altri cimiteri dei diritti che sono le vecchie e le nuove istituzioni totali. Che Nell’Irak occupato e bombardato si chiamano Abu Ghraib; nell’Occidente in guerra permanente si chiamano Guantanamo; nell’Italia xenofoba e razzista si chiamano campi di permanenza temporanea per migranti; nella Napoli della disoccupazione e dell’esclusione sociale si chiama Ospedale Giudiziario di S. Eframo."

Sala Consilina: il "caso carcere" oggi arriva alla Camera

 

La Città di Salerno, 26 ottobre 2004

 

La giunta provinciale di Palazzo Sant’Agostino stila un documento per sancire la contrarietà alla soppressione del carcere di Sala Consilina, e decide di costituirsi accanto al comune di Sala Consilina nel caso in cui questo farà riscorso al Tar Lazio contro il decreto ministeriale. Ieri mattina, il punto all’ordine del giorno sul decreto di soppressione della casa circondariale di Sala, è stato oggetto di discussione della giunta a cui è seguito un documento stilato sulla base della lettere che il presidente Villani il 21 ottobre aveva spedito al ministro Castelli.

Un documento, dunque, in cui si chiede fermamente la sospensione del provvedimento che altrimenti determinerebbe una grave penalizzazione per la provincia di Salerno e per il comprensorio del Vallo di Diano. L’atto precede l’intenzione di portare l’argomento in consiglio nel caso in cui la questione continui ancora.

Anche perché, come ha riferito lo stesso Villani, in questo momento è necessario agire prima che i fatti accadano, prima che il carcere venga realmente chiuso. Questo pomeriggio alle 15, inoltre, l’onorevole Franco Brusco dovrebbe interrogare il ministro Castelli sul futuro della vicenda carcere nel corso del question time, che sarà ripreso in diretta dalla Rai. Nel Vallo di Diano continua intanto la turnazione degli avvocati per presidiare la struttura di via Gioberti.

Ogni quattro ore, sei avvocati si danno il turno assicurando di andare avanti a oltranza fino alla revoca del ministro. La data più attesa resta, al momento, il 3 novembre con l’incontro tra Castelli, una delegazione del comitato carcere e i parlamentari della zona. Le ragioni del decreto di soppressione, intanto, sembrano ancora poco chiare. Le carenze strutturali non sono del tutto fondamentali, anche perché il senatore Borea e il provveditore Contestabile, dopo l’ispezione hanno giudicato il carcere carente dal punto di vista della manutenzione e non da quello strutturale. Una delle ragioni più marcate invece sembra essere il numero degli impiegati, 32 dipendenti che a turnazione svolgono il lavoro di sorveglianza per un massimo di 40 detenuti.

Roma: prosegue sciopero della fame a Regina Coeli

 

L’Espresso, 26 ottobre 2004

 

Una delegazione dell’Ufficio del Garante per i diritti dei detenuti del Comune di Roma, è tornata oggi in visita al carcere di Regina Coeli, dove ha incontrato nuovamente la rappresentanza dei detenuti che coordina la mobilitazione iniziata lunedì 18 ottobre. I detenuti hanno intrapreso domenica pomeriggio lo sciopero della fame: sono attualmente 400 quelli che vi partecipano. Fin dall’inizio della mobilitazione, i detenuti hanno scelto di mandare il vitto dell’amministrazione a due case di accoglienza esterne - la Casa dell’Amore Fraterno e il Sospe, Casa di Solidarietà e Speranza - così come molti altri stanno facendo in tutta Italia.

La mobilitazione viene portata avanti, oltre che con lo sciopero della fame e la battitura delle sbarre, anche attraverso lo strumento giuridico delle istanze al tribunale di sorveglianza e alla procura della Repubblica. La scorsa settimana sono state presentate 700 istanze: 80 condannati in via definitiva, con pena inferiore ai tre anni, hanno inviato al tribunale di sorveglianza la richiesta di sospensione della pena; 20 detenuti invece, con sentenza definitiva e pena superiore ai tre anni, hanno fatto richiesta di grazia; i detenuti ancora giudicabili hanno, invece, inviato 600 istanze di scarcerazione con revoca o sostituzione della misura cautelare. Per ogni istanza rigettata, i detenuti hanno deciso e già iniziato a presentare reclamo presso il tribunale della Libertà.

Simona Filippi e Laura Astarita, componenti dell’Ufficio del Garante per i diritti dei detenuti del Comune di Roma hanno che "oggi, inoltre, i 700 detenuti che aderiscono alla mobilitazione, hanno presentato istanza di colloquio: i 100 definitivi hanno richiesto la visita del magistrato di sorveglianza e i 600 detenuti giudicabili hanno fatto istanza di presentazione spontanea alla procura della Repubblica". Si aspettano in questo modo che venga alla luce il collasso dell’amministrazione della giustizia e degli uffici ad essa preposti, la mancata applicazione delle leggi vigenti e, quindi, l’uso eccessivo ed indiscriminato della custodia cautelare e la mancata applicazione delle misure alternative. Tutto ciò grava sul crescente sovraffollamento degli istituti di pena, determinando una violazione quotidiana dei diritti delle persone recluse.

Enna: protestano i detenuti del carcere di Nicosia

 

Enna on line, 26 ottobre 2004

 

Da lunedì i detenuti che si trovano ristretti nel carcere di Nicosia hanno deciso di attuare uno sciopero pacifico. Uno sciopero, ad oltranza, che prevede il rifiuto del cibo offerto dall’amministrazione, rinunzia all’acquisto dei prodotti che servono per integrare il vitto. Con una lettera aperta inviata, in redazione, i detenuti hanno evidenziato i disagi con i quali vivono da tanto tempo e che sono stati segnalati alla direzione. La lettera è stata inviata, oltre che alla direzione, anche al tribunale di sorveglianza di Caltanissetta.

"Siamo costretti a vivere in celle poco igieniche e piccole. Tutti i muri, in gran parte sono scrostati, sporchi e pieni di umidità – scrivono i detenuti – le bilancette dei letti a castello sono in equilibrio pericoloso e possono cadere; i servizi igienici sono carenti e in pieno degrado perché da tempo non si fanno lavori di ristrutturazione".

I detenuti evidenziano che "più volte hanno sollecitato le difficoltà e la necessità di interventi immediati ed urgenti", le risposte sono state sempre le stesse "si provvederà nel più breve tempo possibile", solo che non si è fatto ancora nulla.

Una situazione, quindi, di estremo disagio per i detenuti, che vorrebbero un ambiente migliore di quello che hanno attualmente. Gli interventi non sono grandemente costosi.

Stranamente la commissione senatoriale, che è stata in visita nelle carceri di Enna e Piazza Armerina, ha ignorato il carcere di Nicosia, dove avrebbero potuto registrare quello che i detenuti hanno evidenziato con la loro lettera e che ha provocato lo sciopero pacifico con il rifiuto del cibo dato dall’amministrazione carceraria e l’acquisto di prodotti all’interno del carcere.

Da parte della direzione del carcere un sollecito alla direzione regionale carceraria dovrebbe essere fatto per migliorare la situazione ambientale delle celle e dei servizi igienici del carcere di Nicosia.

Sant’Egidio: incontro con due ex detenuti in braccio della morte

 

Roma One, 26 ottobre 2004

 

Nick Yarris e Ray Krone sono stati condannati a morte e detenuti per oltre 40 anni per crimini che non hanno commesso. Li incontriamo a Sant’Egidio: chiedono al Vecchio continente di porre fine "alla cultura della barbarie". Le loro storie.

"Mi dovete scusare, ma ho soltanto nove mesi". Nick Yarris ha lasciato il braccio della morte il 16 gennaio del 2004, dopo 23 anni fatti di "carcere e torture". Solo allora lo Stato della Pennsylvania ha riconosciuto la sua innocenza.

Oggi alla comunità di Sant’Egidio insieme a Yarris c’è Ray Krone, anche lui un ex condannato a morte, lasciato libero dopo 12 anni di ingiusta prigionia. Entrambi fanno parte degli "Abolizionisti della Pennsylvania", un movimento che combatte per ottenere una mozione che sospenda le esecuzioni. Questi due uomini oggi ci ricordano che il 30 novembre è la giornata internazionale contro la pena di morte, che alle 01.00 ora italiana di questa notte Dominique Green, verrà giustiziato in Texas, "senza che gli sia stata data una giusta difesa, perché Green, un nero di 30 anni, non può permettersi un legale". E ci ricordano che la pena di morte è "ingiusta, che agli uomini non è dato di sostituirsi a Dio, e che uno Stato che riconosce la morte come punizione, è uno Stato che legittima una cultura di violenza".

Yarris e Krone oggi parlano all’Europa, perché alimenti e sostenga la battaglia loro e di quel movimento civile che mira a sensibilizzare le pubbliche opinione per la "fine della barbarie". All’Italia chiedono: "Non collaborate con la Pennsylvania, né col Texas, la Californi o la Florida, tutti Paesi che riconoscono e applicano la pena di morte". Per convincerci, ci raccontano la loro storia.

"Sono stato nel braccio della morte per 23 anni. Non ho toccato un uomo per 11 anni. Intanto sopravvivevo in una cella non più grande del vostro bagno. Certi giorni mi chiamavano e mi portavano in una stanza. Mi spogliavano nudo. Senza mai toccarmi. Mi facevano indossare una tuta arancione e un collare legato a una fune. Così mi portavano in giro. Ma non è che una delle torture subite per un delitto che non ho mai commesso". Nick Yarris racconta e serra le mascelle. Si ferma e si innervosisce: "Avete domande?", chiede alla sala gremite di giornalisti. Non un fiato. Nessuno riesce a lasciar andare il respiro. Yarris continua dopo essersi lamentato: crede che il suo ‘pubblico’ non dimostri interesse. Gli spiegano che fare domande in certi casi è difficile, perché sembra una perpetuazione della violenza. Allora Nick va avanti: "Nel braccio della morte tra i miei aguzzini c’era Charles Graner. L’ho visto diventare l’aguzzino che torturava i prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib".

Yarris beve un sorso d’acqua. E chiede ancora scusa, "perché ha solo 9 mesi". "Il presidente Bush ha permesso che fossero condannati a morte 144 uomini: l’uomo più potente del mondo ha fatto più vittime di qualsiasi serial killer mai esistito. Bush va in giro per il mondo e porta morte, tristezza, dolore e miseria. Lo fa e dice che porta democrazia.

Aiutateci a fermarlo, aiutateci a dire alla gente che un altro mondo è possibile". Nick parla poco della sua storia: riusciamo a sapere solo che un giorno lo hanno fermato a un posto di blocco per un’infrazione stradale e che quattro mesi dopo si è sentito dire che era stato condannato a morte. Un informatore aveva comprato la sua libertà dicendo alla polizia che Yarris gli aveva confessato di aver commesso un omicidio. Nick è uscito da quella cella solo 23 anni dopo. "Ma lì dentro ci sono altri uomini. A loro ho promesso che non li avrei abbandonati e che avrei parlato con dignità"

Ray Krone, rilasciato dal braccio della morte il 18 Aprile 2002 per essere stato riconosciuto innocente, nel carcere della Pennsylvania ci ha passato 12 anni. "Ero il centesimo in America a uscire da lì. Fino ad oggi gli Usa hanno rilasciato 117 innocenti dopo averli ingiustamente condannati. E io ero il centesimo. Ho pensato che cento è un numero importante e allora i giornalisti hanno iniziato a farmi domande.

Un giorno uno di voi mi ha chiesto come potevo credere in Dio visto che sono stato ingiustamente in carcere per 12 anni. E io avevo la luce rossa della camera accesa, i riflettori puntati addosso, il microfono e tutto il resto. E non sapevo che dire. Poi mi sono sentito rispondere che forse non contavano quei 10 anni, ma quelli che sarebbero venuti, quello che avrei fatto e sarei stato dopo". Ray era stato condannato per omicidio e violenza sessuale. Lo ha salvato la prova del DNA, la stessa che "viene negata alla stramaggioranza dei condannati". "So che l’Europa conosce la dignità dell’essere uomo. Aiutateci, insieme vinceremo la nostra battaglia. "

Cagliari: la Sardegna è un deposito di detenuti italiani

 

Sardegna Oggi, 26 ottobre 2004

 

Audizione, in seconda commissione "Diritti civili", di don Ettore Cannavera, di don Giovanni Usai e Evelino Loi sulla situazione delle carceri della Sardegna. Nelle nostre strutture manca il rispetto della dignità della persona, hanno sostenuto, ma non c’è l’urgenza di aumentare le strutture carcerarie: bisogna potenziare le misure alternative per recuperare la dignità delle persone recluse.

Prigioni sovraffollate e strutture semideserte. Mancanza di personale e del rispetto della dignità della persona. Nelle prigioni isolane, come in tutte le altre d’Italia, non si tende alla rieducazione del recluso. Le condizioni sanitarie sono critiche e il detenuto è condannato all’inattività. È questo l’allarmante situazione delle carceri isolane emersa stamattina davanti alla commissione "Diritti civili" del Consiglio regionale.

L’organismo consiliare, presieduto da Paolo Pisu, si è posto l’obiettivo di esaminare in maniera capillare la situazione delle carceri sarde per capire quali sono i problemi più urgenti da affrontare. I primi ad essere sentiti, in audizione, sono stati don Ettore Cannavera e Don Giovanni Usai, rispettivamente cappellani del carcere minorile di Quartucciu e di Isili e Evelino Loi, presidente dell’associazione "Detenuti non violenti". "La situazione rispetto al passato non è cambiata, ha detto don Ettore Cannavera, a volte ci troviamo davanti a vere e proprie emergenze. Le strutture sono vecchie, manca il personale, i detenuti ancora in attesa di giudizio convivono con i condannati". In più, spesso, la Sardegna viene usata come "deposito" di detenuti che non trovano posto nelle altre carceri italiane. Tra le emergenze da affrontare ci sono il problema sanitario e il lavoro. "I reclusi sono, infatti, condannati all’ozio. Questa inattività aggrava ulteriormente la loro situazione".

Sul sovraffollamento Don Ettore Cannavera ha chiarito che nelle 13 carceri isolane, compreso il carcere minorile, ci sono 1800 detenuti. La capienza regolamentare è di 1997 posti. "Quindi, in Sardegna non si deve parlare di sovraffollamento ma, semmai, di una non ottimale distribuzione della popolazione carceraria. Secondo una ricerca, infatti, davanti a strutture che scoppiano come il carcere di Sassari (238 detenuti uomini contro una capienza regolamentare di 177), quello di Cagliari (388 detenuti contro una capienza regolamentare di 332) o quello di Macomer (80 detenuti contro una capienza regolamentare di 46), ci sono strutture semivuote come la colonia penale di Mamone dove vivono 140 persone (la capienza regolamentare è di 378) . Per Ettore Cannavera non c’è l’urgenza di aumentare le strutture carcerarie, ma bisogna potenziare le misure alternative per recuperare la dignità delle persone recluse. "Sarebbe auspicabile, invece, istituire in Sardegna un ospedale penitenziario giudiziario, cioè una residenza protetta dove prevale l’aspetto terapeutico".

Per contribuire al recupero dei detenuti, secondo Don Cannavera, potrebbe essere utilizzata anche l’Isola dell’Asinara che passerebbe da carcere a "Isola Aperta". Per Don Giovanni Usai il principio della Costituzione "le pene devono tendere alla rieducazione del condannato" è da sempre disatteso. "In carcere il detenuto non viene rieducato e quando esce, nell’80% dei casi, compie un altro reato. Il cappellano della casa di reclusione di Isili è convinto che sia necessario creare strutture dove si possano scontare le pene in maniera alternativa. "Ci deve essere la certezza della pena e dell’esecuzione penale, ma non è detto che l’esecuzione penale debba essere fatta in un carcere". Quindi, una politica carceraria che tenda alla rieducazione del detenuto ma anche al suo reinserimento nella società. Per questo è necessario che il detenuto lavori, producendo reddito, venga formato e istruito. È stato poi sentito Evelino Loi, presidente dell’associazione detenuti non violenti che ha denunciato la grave situazione delle carceri isolane, la violazione dei più elementari diritti alla privacy e alla salute, la mancanza di personale. Loi ha annunciato uno sciopero della fame che inizierà giovedì prossimo sotto il carcere di Sassari per protestare contro la situazione della struttura.

Giustizia: test Dna a imputati, il giudice potrà imporlo

 

Ansa, 26 ottobre 2004

 

Il giudice potrà ordinare il prelievo del Dna degli imputati: lo prevedono due proposte di legge, presentate dai deputati di Alleanza Nazionale Francesco Onnis e Daniele Franz, che sono all’esame della commissione Giustizia della Camera. Oggi non è possibile eseguire l’esame del DNA se manca il consenso dell’interessato. Le due proposte di legge in sostanza rendono possibile il test in modo analogo a quanto è previsto per altre "prove", come il guanto di paraffina (che serve a scoprire se si è usata un’arma da fuoco) o l’etilometro (la cosiddetta prova del palloncino che individua chi guida ubriaco). Il test del Dna, sottolinea Franz, può essere definito "una formidabile fonte di prova, dotata di un elevatissimo grado di affidabilità in grado di fornire la precisa identificazione di un individuo".

Le due proposte hanno l’obiettivo di colmare un vuoto normativo. È del 1996 la sentenza della Corte Costituzionale che sollecita il Parlamento ad intervenire per definire i casi in cui la giustizia può incidere su determinate libertà personali e decidere ad esempio quando effettuare un prelievo del sangue o, di conseguenza, anche l’esame del Dna. Il testo proposto da Onnis cerca un punto di equilibrio "tra il rispetto dovuto alla persona che non accorda il consenso e la necessità di ricercare la verità nel processo penale". Onnis propone che sia il giudice a chiedere il test e regola i criteri di acquisizione della prova. Onnis ha scelto la strada di non limitare ad alcuni reati specifici i casi nei quali è possibile procedere all’esame del Dna, partendo dal presupposto che quando la prova d’innocenza dell’imputato può essere ottenuta solo attraverso questa perizia, è giusto sacrificare un "minimo della libertà personale dell’interessato".

Deve trattarsi però di un atto, sottolinea, "assolutamente indispensabile e che non metta in pericolo la vita e la salute della persona". Il testo Franz limita il test obbligatorio solo ai delitti gravi in cui si rischiano da tre anni di carcere all’ergastolo. Entrambe le proposte pongono come condizione indispensabile per procedere all’esame del Dna il rispetto della dignità e della riservatezza della persona: sarà il giudice a richiedere la perizia e, se necessario, l’accompagnamento coattivo. Il rifiuto a collaborare potrà essere punito con una reclusione fino a 4 anni. La necessità di colmare il vuoto normativo in materia è stata riconosciuta anche dal diessino Giovanni Kessler.

A suo avviso però "sarebbe più opportuno limitare il test a reati di una certa gravità". Onnis ha anche espresso perplessità sul fatto che ad oggi "il rifiuto dell’imputato di sottoporsi all’esame del Dna possa essere interpretato quale elemento di prova integrativo": un’ammissione di colpevolezza, insomma, quando invece il rifiuto può dipendere anche da motivazioni etiche o religiose.

Appello a Commissioni Giustizia: riprendere ipotesi indulto-amnistia

 

Ansa, 26 ottobre 2004

 

Un appello ai Presidenti delle Commissioni Giustizia della Camera e del Senato e al Presidente del Comitato Carceri della Camera per riprendere la discussione sull’ipotesi di un provvedimento di indulto e amnistia. È quanto scrivono in una lettera i detenuti dell’associazione Papillon, che chiedono anche "modifiche legislative che consentano una limitazione degli abusi che si compiono nell'uso della custodia cautelare in carcere e immediate modifiche legislative che impongano un applicazione piena ed integrale della Legge Gozzini e di tutte le misure alternative".

Papillon inoltre ricorda che "da una settimana dall’inizio delle pacifiche proteste in 49 carceri italiane, si S ormai praticamente raddoppiato il numero degli istituti che vi partecipano richiamando in tal modo alle loro responsabilità tutte le forze politiche, soprattutto adesso che S stato avviato l’iter parlamentare di una sorta di Grande Riforma della Giustizia che non contiene neanche l’ombra di quei provvedimenti che sarebbero necessari per affrontare una realtà penitenziaria che scivola ogni giorno di pi- oltre i limiti della legalità". "Chi sostiene che un provvedimento di indulto e amnistia sarà possibile soltanto dopo il varo del nuovo Codice Penale, dovrebbe dimostrare oggi almeno la sensibilità necessaria per presentare da subito delle proposte per abolire finalmente la vergogna dell’ergastolo e per una reale, ampia depenalizzazione, altrimenti i suoi discorsi rischiano di suonare come l eterno rinvio di un provvedimento di indulto e amnistia che ristabilisca un minimo di equilibrio e di vivibilità nelle carceri italiane", conclude l’appello di Papillon.

Ascoli: processo a tre medici per la morte di Giuliano Costantini

 

Il Messaggero, 26 ottobre 2004

 

"Bisogna integrare la vecchia perizia", "no facciamone una nuova affidandola a tre clinici". Prime schermaglie fra accusa e difesa nel processo che si è aperto ieri per la morte di Giuliano Costantini. A parte le modalità, sulle quali si pronuncerà a gennaio il giudice Emilio Pocci, sarà probabilmente necessaria una nuova perizia per stabilire se tre medici del carcere di Ascoli sono responsabili della morte di Costantini avvenuta il 28 settembre del 2000 all’ospedale Mazzoni a poche dal trasferimento dal carcere di massima sicurezza dove l’uomo di origini fermane era detenuto per scontare una pena e dove si era sentito male.

Davanti al giudice Pocci si è aperto ieri il processo a carico si S.C., A.D.S. ed E.P., i tre sanitari accusati di omicidio colposo. Secondo il sostituto procuratore Umberto Monti, titolare dell’inchiesta, Costantini si poteva salvare se i medici che, in vari momenti lo ebbero in cura all’interno del supercarcere di Marino del Tronto, avessero disposto prima il ricovero in ospedale. Sempre secondo l’impianto accusatorio, i segnali sulla necessità di trasferirlo al Mazzoni c’erano; tra questo il cosiddetto "addome acuto" che avrebbe dovuto consigliare di prendere in maniera più tempestiva la decisione di ricoverarlo in una struttura ospedaliera.

In apertura del processo il pm Monti ha chiesto al Tribunale di Ascoli che la perizia già effettuata in sede di udienza preliminare davanti al giudice Falco dai periti settore Tombolini e Corradini, sia integrata con un’altra perizia. L’obiettivo della pubblica accusa è quello di dimostrare il nesso di causalità fra il comportamento dei tre medici e la morte di Costantini.

Alla richiesta non si è opposto l’avv. Alessandro Trofino che però ha chiesto che la perizia inizi da capo e sia affidata a tre clinici. La difesa tende a dimostrare che non ci sono responsabilità dei sanitari nel decesso del detenuto. I legali di parte civile Francesca Palma, Ugo Ciarrocchi (per il patrigno e la zia del deceduto) e Francesco De Minicis per l’associazione Antigone (un ente esponenziale che si occupa della tutela delle vittime di soprusi nelle carceri) si sono associati alla richiesta del pubblico ministero.

Il giudice Pocci si è riservato di decidere sulle richieste e ne darà comunicazione nella prossima udienza fissata per il 17 gennaio 2005. In quell’occasione saranno anche sentiti i primi testimoni citati dall’accusa. Ma è chiaro che un ruolo importante sull’esito del delicato processo lo avranno i periti.

Costantini era stato trasportato nel nosocomio ascolano dal carcere di Marino dove stava scontando una pena per un furto. Era arrivato all’ospedale febbricitante ed in preda a forti dolori addominali. I medici del pronto soccorso riscontrarono una grave emorragia interna che richiese un intervento chirurgico d’urgenza condotto dall’equipe del primario Emidio Senati. L’operazione durò tre ore, ma purtroppo non servì a salvare la vita del quarantenne di Fermo che morì per setticemia.

Trento: protesta dei detenuti, le motivazioni in una lettera

 

L’Adige, 26 ottobre 2004

 

Domani i detenuti della casa circondariale di Trento daranno vita ad una giornata di protesta che si articolerà nel rifiuto del vitto fornito dall’amministrazione penitenziaria e nell’astensione dalle attività lavorative. Per spiegare le ragioni di questa iniziativa, i detenuti hanno fatto pervenire una lettera.

"Ringraziamo innanzi tutto della possibilità che ci viene concessa di far sentire la nostra voce - scrivono i carcerati - Una voce di protesta pacifica con la quale intendiamo far conoscere le condizioni di vita all’interno del carcere". I detenuti chiedono alla società di prendere coscienza di come si vive fra le mura di un penitenziario: "Secondo noi è necessario che ci si cali di più nella vicenda giudiziaria del condannato.

La società può farlo attraverso gli operatori di polizia ed il magistrato di sorveglianza guardando all’uomo prima che al condannato. Vi deve essere il desiderio sincero di aiutare i condannati. La persona deve venire prima di tutto e alla persona deve porgersi la mano con tutti quei mezzi giuridici a disposizione del magistrato di sorveglianza, senza ritardo e con singolare riguardo alla personalità dell’individuo/condannato per cercare di farne uscire il meglio".

I detenuti in particolare invocano un utilizzo più rapido e puntuale dei benefici previsti dalla legge Gozzini: "Questa legge tanto criticata, forse perché non ben capita e interpretata, quante persone ha salvato e rimesso in società - scrivono -. Certo in alcuni casi si assiste, e siamo obiettivi vivendo la realtà del carcere, anche a dei fallimenti. Ma a chi ha avuto ed ha il coraggio di concedere dei benefici di legge, diciamo di non perdersi di coraggio e lo esortiamo ad andare avanti su questa strada, perché vi sono tanti altri detenuti da aiutare!".

Un altro aspetto che i carcerati intendono sottolineare e censurare con la loro protesta è quello dei tagli alle spese previste per l’amministrazione carceraria: "In questo solidarizziamo con gli operatori carcerari. Per chi non lo sapesse la Finanziaria ha previsto tagli dei fondi di circa il 10% per gli istituti di pena e le amministrazioni penitenziarie. Unendo comunque l’accelerazione e l’integrale e piena applicazione delle leggi sui benefici e migliore utilizzo delle risorse finanziarie crediamo si arriverebbe ad un miglioramento della situazione delle carceri.

La protesta, ripetiamo, è volta a migliorare in senso pacifico le condizioni dei condannati, sia nei locali adibiti all’espiazione della pena che nel considerare la pena nella società moderna. Una società che si dice pluralistica ma che per esserlo veramente deve essere retta dal senso di umanità".

Tolmezzo: condizioni di lavoro difficili, si mobilitano gli agenti

 

Il Gazzettino, 26 ottobre 2004

 

Ancora pesante il clima all’interno delle carceri di Tolmezzo. Infatti, entro i primi dieci giorni di novembre, gli agenti di Polizia penitenziaria terranno nuovamente una manifestazione di protesta davanti all’ingresso della casa circondariale del capoluogo carnico. Già lo scorso 14 ottobre gli agenti assieme all’Osapp, l’organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria, avevano proclamato lo stato di agitazione del personale dando vita ad un sit-in di protesta e distribuendo un volantino che giustificava l’azione "a fronte degli annosi eventi che si verificano a danno dei colleghi della casa circondariale di Tolmezzo".

Le lamentele, emerse durante la manifestazione, sono rivolte contro la dirigenza locale e l’amministrazione penitenziaria che "organizza il lavoro penalizzando il personale nella propria dignità professionale ed utilizza in modo indiscriminato il regime disciplinare", spiega un comunicato dell’Osapp. In discussione ci sono i rapporti interni fra le parti, la gestione degli straordinari, il rispetto degli accordi di lavoro. Dice uno dei circa 200 agenti che lavorano a Tolmezzo: "A volte lavoriamo per ore al chiuso senza il minimo ricambio di aria".

"In effetti - racconta un collega - ci sono in gioco anche problemi di disciplina e sicurezza. Il tentativo di fuga che si è verificato il 18 ottobre non può che essere imputabile a questo: un detenuto, con l’aiuto di un amico che ha distratto la guardia, ha tentato di evadere". È riuscito quasi a raggiungere il campo sportivo presente all’interno delle mura, dopodiché, ritrovato da altri agenti che facevano il solito giro di controllo e ricondotto in cella, ha preso uno sgabello e malmenato i presenti. "Non c’è sicurezza - continua l’agente - lavoriamo in condizioni estreme: non si può lasciare uno sgabello all’interno di una cella dove si fa entrare un detenuto che è appena stato ripreso". Così i poliziotti delle carceri tolmezzine non demordono, vogliono una riorganizzazione del lavoro e l’appuntamento è per i primi di novembre.

Caltanissetta: "Un lavoro con gli ex detenuti? No, grazie"

 

La Sicilia, 26 ottobre 2004

 

Un lavoro insieme agli altri ex detenuti? No, grazie! Per cambiare veramente vita, bisogna stare assieme a chi non sa neanche lontanamente come sono fatte le patrie galere. In un Comune che ha impegnato risorse per dare agli ex detenuti l’opportunità di voltare pagina guadagnando qualcosa in lavori socialmente utili (hanno disegnato le strisce pedonali, hanno pulito le aree verdi dei cimiteri, si occupano della pulizia della villa comunale) accade anche un ex detenuto volti le spalle a questa opportunità non ritenendola veramente idonea a cambiare vita.

Un cittadino nei giorni scorsi ha fermato il sindaco Crocetta per prospettargli il suo stato di bisogno. Crocetta lo conosceva, sapeva dunque che quel cittadino aveva avuto problemi con la giustizia ed era stato in carcere. Poi però aveva deciso di voltare le spalle al suo passato. Al sindaco ha chiesto un lavoro. "Vieni a trovarmi - gli ha detto il sindaco - abbiamo il progetto sperimentale per gli ex detenuti. Vediamo se è possibile inserirti".

"No caro sindaco, io con gli ex detenuti non voglio starci - gli ha risposto il cittadino - perché se devo veramente cambiare vita, non devo avere contatti con gli ex detenuti. Devo lavorare a fianco di chi non ha mai fatto un giorno di carcere per prendere esempio da loro". Una richiesta che ha un suo fondamento e su cui il sindaco ha promesso una riflessione con i vertici dei Servizi Sociali.

Accanto al no di ex detenuti ad essere inseriti nel progetto specifico di recupero di quanti hanno avuto a che fare con la giustizia, dobbiamo registrare però la "gelosia" di tanti indigenti in cerca di lavoro che, non essendo ex detenuti, bussano invano alle porte del Comune per un’occupazione. Se non rientrano nel gruppo Rmi, difficile avere lavoro dal Comune. C’è gente con così tanti problemi di sopravvivenza che accetterebbe senza pensarci due volte anche di lavorare nel progetto degli ex detenuti, pur non essendolo.

Civitavecchia: sit in agenti penitenziari arriva davanti al Pincio

 

Il Messaggero, 26 ottobre 2004

 

Sedicesimo giorno di sit in dell’Osapp nel piazzale del carcere di Aurelia e assemblea interna della Cgil-fp per discutere della piattaforma da sottoporre all’Amministrazione del dipartimento penitenziario di Roma. La Cgil cerca il confronto e l’Osapp porta in piazza Monte Citorio la protesta regionale. "Il Provveditore non ha saputo rispondere alle richieste del 14 ottobre - afferma Giuseppe Consalvi Proietti, segretario regionale dell’Osapp -. Le unità di rafforzamento Gom non sono state inviate al carcere di Aurelia e il Dipartimento ha reso noto che delle 1500 unità in via di assunzione, solo 60 saranno destinate al Lazio. Un numero insignificante rispetto ai 269 agenti richiesti dalle case di detenzione regionali".

Il sit in prosegue e nei prossimi giorni è prevista l’apertura di una seconda tenda a piazzale Guglielmotti, sede del Comune di Civitavecchia. "In sedici giorni di presidio permanente - conclude Proietti - le istituzioni locali e i politici sono stati gravemente assenti. Scriveremo una lettera al sindaco De Sio per sottoporgli un protocollo d’intesa sulla formazione e i servizi sociali come già sottoscritto col sindaco Veltroni a Roma".

La Cgil-fp intanto ieri ha convocato un’assemblea con gli agenti all’interno del carcere. "Risolvere il problema della carenza d’organico nell’immediato, ridurre i carichi di lavoro degli agenti e ristabilire gli adeguati livelli di sicurezza, igiene e programmazione". Questi i punti salienti presi ieri in considerazione. "Prima di ridisegnare la pianta organica degli agenti - ha specificato Diego Nunzi, segretario locale della Cgil-fp - dobbiamo ristabilire la sicurezza interna al carcere. E l’unico modo per farlo è chiudere due o tre reparti, recuperando così circa 40 unità. Discuteremo questa piattaforma con l’Amministrazione del dipartimento che ha dato la sua disponibilità quanto prima".

Iran: una ragazza di 13 anni è stata condannata a morte

 

L’Opinione, 26 ottobre 2004

 

Ricordate quanti illustri opinionisti e studiosi ci spiegavano, al tempo di quello psicodramma nazionale che fu il sequestro delle due Simone da parte di terroristi "educati" che, testuale, "per l’islam infierire sulle donne è sacrilegio"?

Obiettammo che nel confinante Iran, punto di riferimento culturale e religioso anche di tanti imam iracheni, era stata da poche settimane impiccata una ragazza di 16 anni, Ateqeh Sahaleh, che era accusata di reati lievi, e che però il giudice islamico ritenne di condannare ugualmente a morte perché aveva ritenuto "impertinenti" alcune sue risposte.

Ora apprendiamo che a Marivan, nel Nord-ovest dell’Iran, ne hanno presa una più piccola. Si sono accorti che Zhila Izadi, 13 anni, era incinta. L’hanno arrestata, hanno atteso che partorisse in carcere, e subito dopo l’hanno processata per "comportamento sessualmente deviato" e condannata alla lapidazione. Il neonato, che in sentenza è stato definito "frutto del peccato morale" e "bambino impuro", per il momento sta bene. Almeno questa è una buona notizia.

Libia: un racconto dall’inferno delle prigioni...

 

Il Manifesto, 26 ottobre 2004

 

Sono nato nella regione di Tahoua e per diversi anni ho vissuto e lavorato in Libia. In occasione dell’ondata di espulsioni, ho trascorso due mesi in un carcere libico prima di essere preso, un mattino, e caricato su un camion in partenza per il Niger. Il mio non è un caso isolato. Seicento persone (uomini e donne) sono state arrestate dalle forze di polizia libiche e incarcerato, anche per diverse settimane. Le condizioni di detenzione erano disumane, tanto che due nigerini sono morti. Durante la detenzione, i libici ci davano una mezza pagnotta e un po’ d’acqua al giorno.

Dopo il mio arresto sono stato chiuso in un container in cui faceva un caldo insopportabile. Poi ci hanno trasferiti in un carcere, con condizioni igieniche deprecabili. I poliziotti libici che mi hanno arrestato mi hanno preso 1.200.000 franchi Cfa (circa 1830 euro).

Uno dei miei compatrioti si è visto confiscare 800.000 franchi Cfa (circa 1220 euro). Il console del Niger non ha fatto nulla per farci restituire il denaro. In compenso, ha fatto sborsare a ogni nigerino espulso 30.000 franchi Cfa (45 euro) per un lascia-passare che non ci è servito a nulla.

Kenya: per decongestionare carceri liberati 20.000 detenuti

 

Ansa, 26 ottobre 2004

 

Almeno 20.000 detenuti, che scontano pene fino ai tre anni, sono stati liberati in Kenya per decongestionare le prigioni, ormai al collasso per pochezza di infrastrutture e eccessivo numero di ospiti. Lo ha reso noto oggi il quotidiano Nation.

I prigionieri liberati dovranno però per il restante della pena compiere lavori di pubblica utilità: in particolare disboscamenti, pulizia di uffici, ospedali, scuole ed altri centri pubblici. La decisione è stata presa da un comitato ad hoc guidato dal vicepresidente della Repubblica Moody Awori.

Le liberazioni dovrebbero iniziare, questa almeno la raccomandazione, il 12 dicembre, e concludersi entro Natale, o subito dopo. Nelle carceri keniane sono attualmente stipati 50.000 detenuti: in realtà, ed in condizioni normali, non quelle a dir poco precarie in cui versano, non dovrebbe contenerne più di 15.000.

La commissione è stata velocemente creata dopo lo scandalo delle prigione di Meru (Kenya centrale), dove lo scorso mese 11 prigionieri erano morti dopo essere stati selvaggiamente picchiati poiché si rifiutavano di entrare in una cella già piena di un metro per due. In quel periodo nel carcere di Meru, previsto per contenerne 150, si trovavano circa 1.400 detenuti.

 

 

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