Rassegna stampa 28 giugno

 

Una pietra sopra la galera

di Adriano Sofri

 

Panorama, 28 giugno 2004

 

Al suicidio di un detenuto si dedica un trafiletto. Per fortuna, ogni tanto, viene qualcuno in visita. Come Roberto Vecchioni, grazie al quale il cortile del carcere ha cambiato nome.

Abbiate pazienza: parlerò di galera. Del resto ammettete che non se ne parla quasi più. Una pietra sopra. La settimana scorsa si sono suicidati cinque detenuti, a Bologna, a Roma, a Firenze, e sì e no qualche trafiletto. Se cinque evadono segando sbarre e calandosi coi lenzuoli dalla finestra, un buon titolo se lo guadagnano. Ora io non dico che un’evasione rocambolesca non meriti un buon titolo. Ma anche a quegli altri cinque che i lenzuoli se li sono annodati al collo e se la sono squagliata direttamente all’altro mondo, un titoletto non andava negato. Per lo più si tratta di disgraziati ancora da giudicare, o condannati a pene brevi. Però a morte. Stasera, mentre scrivo, passa su un telegiornale un titolo che dice: "Un’insegnante portava seghetti per denaro nel carcere di Ivrea, con la complicità di due agenti". Notizia piccante, non dico di no. Sono pur sempre degli statali che arrotondano singolarmente lo stipendio, e passano al lato d’ombra del muro di cinta. Ma su quel telegiornale non l’ho visto scorrere, un titolo sui suicidi della settimana scorsa, né sulle altre morti in carcere, né sulla macabra sequela di suicidi sardi di un po’ di tempo fa.

Va bene, dopotutto si tratta di galera, nero fondo di pozzo: alla larga! Mi ha impressionato che un alto dirigente per le carceri del ministero di Giustizia, che si chiama Emilio Di Somma, sia andato l’altro giorno a un convegno di persone di buona volontà e abbia spiegato schiettamente che l’indultino ha avuto un effetto irrisorio, che i detenuti usciti nell’arco di un anno sono stati più che rimpiazzati dai nuovi arrivi, e che oggi, a estate entrata, i detenuti sono 56.500 per una capienza ufficiale, cioè molto ottimista, di 42 mila.

Di Somma si è perfino congratulato col senso di responsabilità dei detenuti cui soltanto finora si deve l’ordine che regna nelle tristi prigioni, il triste ordine. E ha perfino lamentato la ostinata renitenza delle competenti autorità ad alleviare la condizione carceraria, dal Giubileo in poi. Ha fin troppa ragione, naturalmente. Nemmeno del palloncino gonfiato dell’indultino si è più parlato, neanche per un minutino. Anche di allora mi ricordo i titoli di telegiornale: "11 mila delinquenti stanno per uscire dal carcere". Ne sono usciti meno di un terzo, e non in un giorno, ma in un anno. È tutto uno scherzo, vedete.

Nelle prigioni le attività tese a dare qualche dignità ai giorni dilapidati dei detenuti ("trattamento", si chiama) sono sempre più ridotte, in nome del risparmio e della sicurezza. D’altra parte, la stessa cosa succede con le cure mediche e i farmaci, in nome del risparmio e della sicurezza, benché chiunque sia pronto a proclamare che la salute prima di tutto. Se sapeste che cambiamento nella vita dei detenuti viene dalla disponibilità di qualcuno ad ascoltarli, dall’attribuzione di una responsabilità anche infima, dall’occasione di un lavoro, fosse pure un paio di settimane da scopino. Sono altrettante piccole resurrezioni, alla lettera: corpi giacenti e abbandonati che si drizzano e riprendono vita, facce schiacciate che riprendono un’espressione. Dove queste attività si svolgono, la proporzione fra costi e ricavi è così sbilanciata a favore dei secondi che solo un’ottusità burocratica o una banale cattiveria possono non accorgersene.

Nel carcere pisano dove vivo (vivo? muoio? Le due cose finiscono con l’avvicinarsi per tutti, ma qui sconfinano presto l’una nell’altra) ci sono dei corsi scolastici. Ci sono scuole elementari e medie, preziose soprattutto per i ragazzi cosiddetti extracomunitari. C’è un corso di scuola superiore, un istituto agrario condotto parallelamente a quello esterno.

La dozzina di detenuti che ne ha seguito le classi ha concluso con altrettante promozioni, spesso con voti distinti. E non per qualche speciale indulgenza dei docenti, che hanno sì una comprensione peculiare per quella chiusa succursale della loro scuola, e d’altronde se non fosse così non verrebbero assiduamente in un posto come questo, ma danno e chiedono agli allievi di dentro con l’impegno che mettono e si aspettano dagli allievi di fuori. A incontrarli nel corridoio mentre vanno a lezione, questi detenuti hanno un’orgogliosa serietà che fa scommettere sul loro futuro. Ci sono anche alcuni studenti universitari, anch’essi seguiti da docenti all’interno: i loro esami sono frequenti, i loro voti quasi sempre eccellenti. La sezione riservata a scolari e studenti ha un’austerità da collegio inglese.

Ogni tanto il mondo di fuori entra per qualche speciale occasione. Qualche giorno fa la chiesa del carcere ha ospitato la mostra di dipinti di Sergio e Isabella Staino che avevano illustrato il volume della Einaudi dedicato al mio racconto natalizio. La mostra era già andata a Palazzo Strozzi a Firenze, al Campidoglio a Roma. Ma qui era bellissima.

Che le pareti delle galere possano animarsi di figure e colori, rinunciando al culto della bruttezza che vi vige per ufficio, è un bel pensiero, e qua e là si è tradotto nei fatti. Non so se la bellezza salverà il mondo: so per certo che la bruttezza lo perderà. Né si può immaginare che la bellezza riscatti la galera: certo la bruttezza la danna. La bellezza, e la musica. La galera è fragore di ferri battuti e stridore di denti. La musica entra con ali d’angeli.

All’inaugurazione della mostra è venuto Roberto Vecchioni, per amicizia. Per amicizia ha tenuto un concerto impegnato e generoso quanto e più di un concerto tenuto a un gran pubblico di gente libera e pagante. Detenuti, agenti, ospiti erano trascinati e commossi. Ha raccontato, Vecchioni, il cartello sgangherato incontrato in Kenya con la pretenziosa scritta: "Rotary Club of Malindi". Gli farà piacere sapere che dopo la sua visita i detenuti hanno cominciato a chiamare il cortile dei giorni sfortunati, quello che finora era "l’aria piccola", col nome di "Rotary Club of Malindi". I detenuti sono devoti fino alle lacrime alle belle canzoni, e però sono capaci di umor nero.

Sulmona: ergastolano di 58 anni si impicca in cella

 

Kataweb, 28 giugno 2004

 

Francesco Piazza, 58 anni, condannato all’ergastolo per omicidio e associazione mafiosa, si è impiccato alla grata della sua cella nel super carcere di Sulmona (Chieti). Era ritenuto componente del clan di Giovanni Brusca.

Quando è stato trovato da uno degli agenti di custodia Piazza era ancora vivo, ma è morto durante il trasporto d’urgenza all’ospedale di Sulmona mentre i medici tentavano di rianimarlo. Sull’episodio la Procura ha aperto un’inchiesta disponendo l’autopsia.

I soli noti badano al sodo

di Sergio Segio

 

Fuoriluogo, maggio 2004

 

"Ogni dollaro, ogni euro investito oggi nella lotta alla droga può salvare vite umane e può garantire un futuro più sicuro e prospero alle nuove generazioni": così Gianfranco Fini concludeva il suo intervento a Vienna, alla 46ª Sessione della Commissione stupefacenti dell'ONU, nell'aprile 2003. A margine dei lavori, come si usa, il vice premier annunciò anche l'intenzione di promuovere una revisione della legislazione italiana sulle droghe all'insegna della tolleranza zero.

Ma, in verità, non si trattava del primo annuncio: il giro di vite era già stato promesso (o, meglio, minacciato) dal significativo pulpito di San Patrignano il 26 ottobre 2001, in una sessione dei lavori (trasmessi in diretta dal Maurizio Costanzo Show) dal titolo sorprendente: "Libertà, Uguaglianza, Fraternità. La rivoluzione da fare". Nella medesima sessione era intervenuto Giuseppe Arlacchi, detto Pino, l'allora vice segretario generale dell'ONU che nel giugno 1998, dai lavori dell'UNGASS di New York, promise (o, meglio, minacciò) un mondo senza droghe entro il 2008.

La minaccia dell'ultrà proibizionista Arlacchi, ora candidato alle europee nella lista Di Pietro-Occhetto, non pare proprio si stia avverando. E speriamo lo stesso per quella di Fini, il cui disegno di legge è stato infine presentato al Senato il 10 maggio 2004, con il numero 2953. Mentre in questi mesi si costituivano cartelli di associazioni e mobilitazioni di operatori, si lanciavano appelli e si promuovevano manifestazioni contro la legge Fini, il cui iter parlamentare è appena agli inizi e non del tutto scontato, altri - connessi e anticipatorî- pezzi della strategia repressiva e accentrante promossa dal leader di An andavano però già a segno nella distrazione generale. In particolare, con la legge Finanziaria 2004, è stato istituito il Dipartimento nazionale per le politiche antidroga, cui viene conferito "il coordinamento delle politiche" sulle tossicodipendenze e, soprattutto, cui vengono "trasferite le risorse finanziarie, strumentali e umane connesse allo svolgimento delle competenze" comprese quelle previste dall'articolo 127 del DPR n. 309 del 1990, ovvero il Fondo nazionale antidroga.

Sinora i circa 110 milioni di euro annui del Fondo erano in carico al ministero del Welfare e venivano gestiti per il 75% dalle Regioni. In base alla Finanziaria 2004 avrebbero dovuto essere centralizzati al nuovo Dipartimento. Alla faccia del federalismo. Tuttavia, per il momento, lo scippo non è del tutto riuscito. Stante l'opposizione delle Regioni e dopo un probabile braccio di ferro tra ministero del Welfare e vicepresidenza del Consiglio, la dotazione finanziaria del nuovo Dipartimento dovrebbe, per il 2004, limitarsi a 17 milioni provenienti dal Fondo, mentre altre risorse andranno reperite altrove. Indovinate chi andrà a dirigere il Dipartimento, dopo la nomina del Consiglio dei ministri? Sarà Nicola Carlesi, psichiatra, acceso proibizionista e già deputato di An.

Se non bastasse, il Consiglio dei ministri del 2 aprile scorso ha conferito a Gianfranco Fini una specifica delega di funzioni relativa al coordinamento delle politiche di prevenzione, monitoraggio e contrasto delle tossicodipendenze, per lo svolgimento delle quali il vicepremier si avvarrà, appunto, del Dipartimento nazionale per le politiche antidroga. E il cerchio si chiude. In questo quadro, assume un valore particolare una dichiarazione di Pietro Soggiu, il commissario governativo antidroga, le cui funzioni sono destinate a essere soppiantate da Carlesi: "Auspico che colui che sarà chiamato a dirigere il nuovo Dipartimento per la lotta alle tossicodipendenze provveda a una sempre più cristallina gestione della distribuzione dei fondi". E, per chi non avesse capito, Soggiu aggiunge: "I fondi vanno erogati non ai "soliti noti", ma anche a coloro che ne hanno davvero bisogno". Insomma, mentre si discute di leggi, politiche, valori, metodologie terapeutiche ed educative, i soliti noti hanno badato all'essenziale. Vale a dire, alla cassa.

Notizie troppo confidenziali

di Sergio Segio

 

Fuoriluogo, giugno 2004

 

Il Rapporto della Croce Rossa sugli abusi in Iraq risale a febbraio, eppure lo scandalo è scoppiato solo in aprile. La discrezione delle denunce può far pensare alla connivenza, ammette Massimo Barra.

"Il Comitato, abituato a lavorare nell'ombra e in silenzio, è terribilmente preoccupato per la propaganda seguita alle denunce": così, pochi giorni dopo l'esplodere dello scandalo delle torture nella prigione irachena di Abu Ghraib, osservava da Ginevra Massimo Barra, vicepresidente della Federazione internazionale delle Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa. E aggiungeva: "Nel mondo arabo si potrebbero domandare come mai la denuncia è arrivata molto tempo dopo, se sia stata solo discrezione, o se invece è stata connivenza con gli occidentali".

La domanda, per la verità, dovrebbe sorgere spontanea anche da noi. Lo stesso Barra sembra coltivare qualche perplessità sull'eccesso di riservatezza delle informazioni raccolte dal Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR). Informazioni (ma meglio e più proprio sarebbe definirle notitiae criminis) "sul trattamento da parte delle Forze della coalizione dei prigionieri di guerra e di altre persone tutelate dalle Convenzioni di Ginevra in Iraq durante il loro arresto, la loro detenzione e i loro interrogatori" che il CICR ha condensato in un Rapporto datato febbraio 2004. Le torture sono diventate di dominio pubblico solo a fine aprile.

Lo scarto temporale rende la domanda di cui sopra ancor di più fondata, poiché si tratta di un periodo nel quale molti hanno continuato a essere torturati e probabilmente qualcun altro è stato ucciso dalle sevizie. Le risposte possono essere non semplici. Pure, vi sono casi in cui la riservatezza può e deve essere infranta, laddove ci siano vite umane effettivamente a rischio e sia evidente una volontà politica di coprire e continuare nelle pratiche infami di violenza sui prigionieri.

Ad esempio, il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d'Europa, pur se vincolato nel rendere pubblici i rapporti sulle proprie ispezioni al consenso delle autorità dello Stato interessato, in alcune pur eccezionali occasioni ha ritenuto di rompere il vincolo della riservatezza, rendendo noti i propri rilievi e censure senza l'accordo dei governi coinvolti. "Gravi violazioni del diritto umanitario internazionale" sono state direttamente riscontrate dal CICR in Iraq tra marzo e novembre 2003.

Le violazioni principali descritte nel Rapporto e "presentate in via confidenziale alle forze di occupazione" includono: violenza nei confronti delle persone tutelate al momento della cattura e della custodia preventiva, che spesso hanno causato il loro decesso o gravi ferite; mancata notifica dell'arresto dei prigionieri ai loro famigliari; coercizione fisica o psicologica durante gli interrogatori per strappare delle informazioni; prolungata reclusione in isolamento in celle senza luce naturale; utilizzo eccessivo e sproporzionato della forza contro prigionieri che ha causato il decesso o il ferimento durante il loro periodo di reclusione.

Peraltro, le torture erano state riscontrate dal CICR già da tempo e "confidenzialmente" segnalate senza apprezzabili effetti. Le osservazioni contenute nel Rapporto, infatti, "sono in linea con quelle precedentemente fatte in numerose occasioni, oralmente e per iscritto, alle Forze della coalizione per tutto il 2003". Tra marzo e novembre il CICR aveva condotto 29 visite in 14 strutture di detenzione nelle zone centrali e meridionali dell'Iraq, compreso il complesso carcerario di Abu Ghraib.

Nelle pagine del Rapporto, che pure contiene alcuni omissis, sono dettagliatamente descritte tutte quelle torture che poi, grazie alle immagini diffuse, sono state conosciute e hanno provocato indignazione in tutto il mondo. Vengono poi segnalati anche altri aspetti, non meno drammatici. Tra i quali il ripetuto uso di armi da fuoco nel corso di proteste dei detenuti, che ha provocato numerosi morti. Uno dei casi riferiti, accaduto il 24 novembre 2003 ad Abu Ghraib, ha visto l'uccisione di 4 reclusi che assieme ad altri protestavano per la mancanza di cibo, vestiti e garanzie giuridiche.

Il CICR afferma che molte delle procedure di arresto, interrogatorio e detenzione, per come descritte nel Rapporto, "sono proibite ai sensi del Diritto Umanitario Internazionale" e chiede alle Forze della coalizione di rivederle "prendendo gli opportuni provvedimenti per migliorare il trattamento dei prigionieri di guerra e di altre persone protette che siano sotto la loro autorità". Il Rapporto, concludono gli estensori del documento, "è parte di un dialogo bilaterale e confidenziale tra il CICR e le Forze della coalizione.

In futuro il CICR continuerà a dialogare in via bilaterale e confidenziale con le Forze della coalizione ai sensi del Diritto Umanitario Internazionale sulla base del monitoraggio delle condizioni in cui vengono svolti gli arresti, gli interrogatori, e la reclusione dei prigionieri". Visto come sono andate le cose, viene da pensare che, forse, sono proprio quella "bilateralità" e "confidenzialità" a dover essere messe in discussione, a favore di una maggiore pubblicità dei riscontri, qualora questi configurino, come in questo caso, crimini contro l'umanità, perseveranza dei criminali e connivenza di gerarchie militari e autorità politiche. L'"ombra" e il "silenzio", infatti, si addicono ai torturatori, non a chi deve vigilare sul rispetto dei diritti dei prigionieri.

Papa Wojtyla condanna tortura, contraria dignità dell’uomo

 

Reuters, 28 giugno 2004

 

La tortura è contraria alla dignità dell’uomo e va per questo messa al bando. È quanto ha detto ieri Giovanni Paolo II nelle parole pronunciate all’Angelus. "Ieri era la Giornata mondiale contro la tortura. Possa il comune impegno delle istituzioni e dei cittadini bandire completamente questa intollerabile violazione dei diritti umani, radicalmente contraria alla dignità dell’uomo", ha detto il Pontefice.

Ieri, la Giornata internazionale dedicata alle vittime della tortura è stata celebrata da associazione umanitarie come Amnesty International, "dando voce alle donne e agli uomini che hanno vissuto sulla propria pelle l’esperienza della tortura, ricordando l’enorme diffusione di questa pratica, premendo sulle autorità di singoli Stati e sulle organizzazioni internazionali affinché siano adottate leggi e convenzioni per la sua messa al bando", come ricorda Amnesty in una nota.

La tortura è presente in 132 paesi, secondo il Rapporto Annuale 2004 di Amnesty) e premendo sulle autorità di singoli Stati e sulle organizzazioni internazionali affinché siano adottate leggi e convenzioni per la sua messa al bando. Il tema, quest’anno, ricorda ancora Amnesty, è più che mai al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica. La terribili immagini scattate nel carcere iracheno di Abu Ghraib e le parole di unanime condanna nei confronti della tortura impongono che il 26 giugno 2004 sia una giornata di fatti concreti.

La Sezione Italiana di Amnesty International ha chiesto che il Parlamento approvi, "dopo oltre quindici anni di ritardi e di indugi, una legge che introduca il reato di tortura e lo punisca con pene adeguate alla sua gravità". Una legge attesa dal 1988, anno in cui l’Italia ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura.

"Inoltre, chiediamo al Governo la presentazione di un disegno di legge per la ratifica del Protocollo Opzionale alla Convenzione, che istituisce un sistema di ispezioni nei centri di detenzione", ha detto ancora Amnesty, che ieri ha celebrato la giornata contro la tortura con una manifestazione nella piazza romana di Campo dei Fiori.

Parma: giornata mondiale contro le dipendenze

 

Gazzetta di Parma, 28 giugno 2004

 

"Ho l’impressione che la Giornata mondiale contro la droga di quest’anno abbia lanciato un messaggio che è caduto nel vuoto", dichiara amareggiato don Luigi Valentini, responsabile della comunità di recupero per tossicodipendenti Betania, al termine del concerto conclusivo della manifestazione contro la droga svoltosi sabato sera nel prato antistante la Casa Francesco della comunità di Betania.

E aggiunge: "Le iniziative presentate durante la settimana hanno coinvolto un numero ristretto di persone, questo ci dice che oggi Parma, o più in generale l’Europa, è abitata da persone che investono il proprio tempo nelle cose materiali e "comode".

Il discorso droga è molto diffuso e pericoloso, una serata bella e stimolante come questa poteva avere ripercussioni sulle coscienze della gente, pochi hanno saputo cogliere l’occasione. La mia preoccupazione è che il nostro futuro possa essere abitato dai "fantasmi della repressione" come unico strumento risolutorio della malattia, senza idee o percorsi che partano dal rispetto della persona".

Lo spettacolo, presentato da Robi Bonardi, direttore artistico della rassegna organizzata dalla comunità di Betania in collaborazione con il Comune di Parma, Azienda Usl e il centro Orizzonte, prevedeva delle esibizioni di gruppi musicali blues intervallati da voci registrate di attori che recitavano poesie e scritti di alcuni detenuti del carcere di Parma, cercando di creare stimoli di riflessione.

Maria Teresa Guarnieri, assessore ai Servizi sociali e alle Pari opportunità del comune di Parma, sottolinea l’importanza della collaborazione tra associazioni ed enti per risolvere il problema droga: "Crediamo che lavorare assieme sia la chiave per fare una buona prevenzione e dare un aiuto concreto a chi già vive questa brutta realtà. Abbiamo previsto un calendario di incontri che pone particolare attenzione ai giovani; devono capire la valenza distruttiva della malattia sia su loro stessi che sulle loro famiglie. Speriamo che non passi questa giornata senza che nessuna coscienza venga smossa".

"Ho iniziato a lavorare in questo mondo all’età di 53 anni, prima d’ora avevo svolto parecchi tipi di lavoro ma questo è il più gratificante e quello dove ho imparato di più", spiega Mirco Moroni, responsabile del Ser.T., e conclude: "Bisogna sconfiggere l’estraneità istituzionale che caratterizza il mondo della lotta alla droga, perché questo servizio ha una grande dignità e non deve essere lasciato "solo".

Napoli: famiglie rom abbandonano container di Secondigliano

 

Il Manifesto, 28 giugno 2004

 

Una bambina in bicicletta su un cumulo di immondizia, uno dei tanti da queste parti. Pochi metri più in là, il ciglio di una strada ad alta percorrenza, la circonvallazione esterna, bretella che unisce Secondigliano fino alla zona flegrea di Napoli.

Alle spalle i palazzi della 167 e il carcere di Secondigliano. Benvenuti nel "villaggio d’accoglienza rom" di Napoli; l’unico allestito dalle istituzioni in questi anni nonostante la massiccia presenza di rom slavi e rumeni sul territorio partenopeo. Rispettivamente circa 1250 e 1000. Fino a giovedì sera solo nel campo di Scampia c’erano 900, in due campi da 43 container l’uno.

Il comune fornisce acqua, luce e gas. Dopo la morte di Vujo (chiamato dalla stampa Mirko) e Goran, i due giovani uccisi il 17 giugno, forse per vendetta della camorra, nel campo sono rimaste solo una decina di famiglie. A terra ci sono ancora dei fiori che li ricordano. L’esodo è iniziato giovedì sera, i residenti della baraccopoli, la maggior parte serbi, hanno deciso di caricare la loro "roba" sulle roulotte e auto e rimettersi in giro. In cerca di un posto più sicuro. Una decisione presa in fretta dopo le telefonate che hanno minacciato di appiccare il fuoco nel campo e qualche presenza che continua a bazzicare nella zona per ricordargli che qui non sono i benvenuti.

Tanta la paura di una seconda via Zuccarini, sempre a Scampia, dove nel giugno del ‘99 il campo nomade fu incendiato perché un rom ubriaco aveva ucciso due ragazze, investendole. E allora via, "i figli del vento" si sono messi alla ricerca di un altro luogo. L’ennesimo.

"Chissà dove sono ora, io sono rimasta qui perché non ho dove andare - racconta Elisabetta, 34 anni, rumena - di notte però no, con mio marito e i nostri due figli ci mettiamo a dormire in macchina, molto lontano da qui. Abbiamo paura che qualcuno entri e ci bruci vivi. La polizia non viene mai, è venuta subito dopo la sparatoria e poi è sparita".

Elisabetta per la stanchezza sembra una donna più adulta, ha gli occhi spaventati di una ragazzina però e invoca l’aiuto della protezione civile. "Questo campo non è mai stato una grande sistemazione per noi - continua Elisabetta - si trova sulla strada, non ci sono pullman, siamo isolati e quando esci devi stare attento altrimenti le macchine di buttano sotto".

Sanela, infatti una ragazza di 17 anni, 2 settimane prima dell’omicidio di Vujo e Goran, è stata investita un’auto ed è stata 2 settimane in ospedale. Poiché non aveva il permesso di soggiorno e stata portata in un Cpa. E si trova ancora lì. "Il problema però adesso è più grande di noi, non si tratta più delle difficoltà del campo - prosegue Elisabetta - qui non ci vogliono e ce l’hanno fatto capire. Qualcuno deve aiutarci".

Nessun viso amichevole osa infatti avvicinarsi al campo, neanche la polizia. Ad aiutare ancora il popolo nomade di Secondigliano c’è solo l’associazione Opera Nomadi, ma non basta. I rom da sempre hanno chiesto tutela. Ora più che mai. "È un’indecenza, già dopo 2 ore dall’omicidio il presidio della polizia era scomparso - spiega Amedeo Curatoli, referente regionale di Opera Nomadi - le nostre accuse ore vanno al comune, alla questura e alla prefettura. Queste persone stanno chiedendo aiuto, sono terrorizzate".

Sulla strada intanto continuano a sfrecciare auto a tutta velocità per raggiungere le località di mare, il sole batte forte sulle baracche, mentre d’inverno invece il freddo è tanto da far rimpiangere questo caldo. Nel campo oramai deserto arriva una donna serba con 7 figli, il più piccolo di un anno, documenti alla mano, chiede di rimpiazzare una famiglia che è scappata. "Quando posso entrare in casa? Ieri sono venuta qui e l’ho già pulita".

Valeria di Opera Nomadi le spiega che non sa se le famiglie che sono fuggite torneranno ma la mette comunque in lista d’attesa. Spesso capita che le richieste di spostamento non le fanno al comune ma le gestiscono tra loro. Questa volta chissà cosa accadrà, le baracche ora sono vuote, le famiglie terrorizzate non hanno voluto attendere che il comune trovasse una sistemazione altrove. Si pensava di ospitarli nelle scuole.

Molti dei rom fuggiti vivono in Italia da decenni però e sanno che tra una decisione e un’altra, qui ci scappa il morto. Così hanno messo fine a questa storia a modo loro. Andandosene di loro iniziativa, come le loro famiglie hanno da sempre fatto negli anni. Però è stata comunque la camorra a vincere e il loro girovagare anche questa volta non è stata una scelta.

"Fatti bene. Come cambiano i consumi delle droghe"

 

Galileo, 28 giugno 2004

 

Le leggi non sempre riescono a rispecchiare la realtà. Se poi la materia da disciplinare ha a che fare con i cosiddetti "temi sociali", il divario con le istituzioni può raggiungere dimensioni preoccupanti. È accaduto varie volte in passato e le cose negli ultimi tempi non sono certo migliorate. Anzi, analizzando alcune scelte governative, sembrerebbe che l’attuale maggioranza abbia perso ogni contatto con la vita reale . È quanto emerge dalla lettura di cinque ottimi libri di formato tascabile pubblicati tra il 2002 e il 2004 da Edizioni La Meridiana a cura del Cnca (Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza).

In poco più di cento pagine ogni volume della collana intitolata "libri neri" ("in contrapposizione al sapore dolciastro e ininfluente dei libri bianchi di area governativa" - si legge nella prefazione al primo volume) riesce a fornire un quadro completo della tematica affrontata: immigrazione, disagio psichiatrico, mondo minorile, tratta delle donne, tossicodipendenza.

Dal primo al più recente (Non passa lo straniero; Matti da levare; Che bravi ragazzi!; Corpi a tratta; Fatti bene), il lettore, dopo aver affrontato un’analisi del fenomeno, delle attuali risposte, confrontate con quelle del passato, e delle proposte future, riesce senza fatica a smascherare la natura ideologica di certi provvedimenti. E non per una particolare astuzia o malizia usata dagli autori. La cosa viene fuori da sé. La polemica condotta da chi ha scritto i cinque volumi, pacata nei toni, non sembra infatti forzare in alcun modo dati e situazioni a vantaggio della tesi sostenuta, ed è sempre puntualmente argomentata.

Così le critiche esplicite alla legge Bossi-Fini sull’immigrazione riguardano alcuni passaggi ben precisi del provvedimento, come ad esempio l’abolizione dell’ingresso per ricerca di lavoro, il cosiddetto "istituto di sponsorizzazione" previsto nella legge del 1998 Napolitano-Turco. "L’istituto rappresentava invece una validissima alternativa al sistema dell’ingresso del lavoratore straniero mediante l’autorizzazione nominativa, che presuppone, invece la conoscenza del lavoratore" (Luigi Mughini, Non passa lo straniero. L’Italia, gli italiani e l’immigrazione, p. 67).

Insomma mentre prima un garante (quasi sempre un parente) si assumeva l’obbligo di provvedere a tutto il necessario per permettere allo straniero di trovare, entro un anno, un impiego nel nostro paese, oggi invece è il datore di lavoro a dover fornire l’alloggio e affrontare le spese di ritorno nel paese di provenienza del lavoratore straniero assunto "a distanza". Il confronto tra vecchia e nuova normativa, tra quanto è stato e fatto e quanto si vorrebbe fare, è ripreso negli altri volumi e permette al lettore di farsi un’idea dell’evoluzione (o involuzione) del dibattito politico sui vari argomenti trattati.

Come quando si parla della legge 180 sul disagio mentale nel libro di Annachiara Valle Matti da levare. Se tornano i manicomi. Anche qui è interessante riportare il commento dell’autrice del volume (il secondo della serie) ad un recente tentativo di revisione della famosa legge Basaglia: "Nel mirino c’è l’intera cultura che secondo il governo starebbe alla base della 180: una cultura che mira a delegittimare la psichiatria e gli psicofarmaci in nome di un approccio esclusivamente psicologistico e sociologico alla salute mentale". Il paziente psichiatrico insomma dovrebbe essere considerato come un malato di mente e curato esclusivamente con criteri biologici e medici. Un approccio contestato da anni e anni di esperienza sul campo. L’ennesimo atteggiamento anacronistico delle istituzioni.

Anche la criminalizzazione di chi fa uso di sostanze stupefacenti, avvallata dall’attuale governo, si inserisce in questo filone. Se ne parla nel quinto volume della collana (Giorgio Morbello, Fatti bene. Come cambiano i consumi delle droghe) che affronta molti temi legati alla tossicodipendenza, con un capitolo dedicato all’alcolismo e alla recente normativa sull’uso di alcolici (2001), che però attende ancora i decreti attuativi. Dal carcere , ai vari approcci terapeutici, ai Ser.T., al metadone "a scalare" e "a mantenimento", vengono analizzati nel dettaglio, vantaggi e svantaggi delle diverse soluzioni proposte. Con un unico obiettivo, comune anche agli altri volumi della serie: "incrementare la lotta all’esclusione sociale e dare un contributo forte e deciso all’esame e alla soluzione di problemi che affliggono milioni di persone, che per motivi diversi si sentono e sono abbandonate".

 

Giorgio Morbello Edizioni La Meridiana, 2004. pp. 111, euro 10,00

Stati Uniti: il cellulare si insinua nelle carceri

 

Portel, 28 giugno 2004

 

Sembra ormai destinata a tramontare per sempre l’immagine del detenuto che batte, con la propria scodella di ferro, sul tubo dell’acqua per comunicare con altri detenuti. Anche nelle carceri, infatti, i detenuti hanno scoperto che il cellulare è molto più comodo per comunicare. D’altronde, i detenuti da sempre sono molto abili nel trovare metodi di comunicazione nascosti: è ovvio che, prima o poi, scoprissero il cellulare.

Dalle carceri del Texas arriva l’allarme: i detenuti utilizzano sempre di più i cellulari introdotti di nascosto per mantenere i contatti con l’esterno. Da tempo c’era il sospetto che i detenuti utilizzassero cellulari introdotti furtivamente. In una lettera scritta al figlio detenuto, una madre lo avvisava di aver aumentato il credito del cellulare. Un’altra madre, sempre in una lettera al figlio detenuto, si lamentava per la cattiva ricezione delle chiamate. Nel corso di una perquisizione in un carcere del Texas, molti detenuti avevano gettato nel water il cellulare. Alla fine della perquisizione, erano stati recuperati moltissimi terminali nelle fogne della prigione.

Alcuni funzionari delle carceri statunitensi hanno affermato che il fenomeno è in crescita e che aumentano i casi di guardie carcerarie sorprese a passare cellulari ai detenuti. Gli stessi funzionari avvertono che il problema è preoccupante perché i detenuti non solo possono usare il cellulare per parlare con la mamma o con la fidanzata, il che non sarebbe grave, ma possono utilizzarlo anche per comprare droga, per minacciare i testimoni, per progettare evasioni o per mantenere i contatti del crimine organizzato.

In moltissimi istituti di pena americani, i detenuti non possono avere un cellulare. In Texas, i detenuti che vengono sorpresi con un cellulare rischiano fino a 10 anni di carcere. Nonostante queste severissime pene, i cellulari nelle carceri continuano a crescere. Si potrebbero utilizzare tecnologie che blocchino l’uso del cellulare, ma sfortunatamente queste tecnologie bloccherebbero anche la radio che è ascoltata dai detenuti. Inoltre, è probabile che queste soluzioni bloccherebbero le comunicazioni via cellulare non solo nelle prigioni, ma anche in un’ampia area circostante.

Portare un cellulare ad un detenuto non è certamente facile per un visitatore esterno. Di conseguenza, quasi sempre sono le stesse guardie carcerarie che, in cambio di soldi, lo fanno avere ai detenuti. Il problema è preoccupante e non soltanto negli Stati Uniti. I rimedi non sono facili da trovare e, per adesso, risulta efficace soltanto un attento e frequente controllo.

Milano: asta per finanziare i progetti dei detenuti-scultori

 

Redattore Sociale, 28 giugno 2004

 

Si terrà il 30 giugno a Palazzo Marino, Milano, una mostra-asta benefica per finanziare i progetti dei detenuti-scultori del carcere di Milano Bollate. All’asta, patrocinata dal comune di Milano e dal ministero di Giustizia, 11 sculture in polistirolo realizzate in carcere da altrettanti studenti del Naba, la Nuova accademia di belle arti di Milano (www.naba.it) in collaborazione con 16 detenuti del terzo reparto del carcere di Milano Bollate.

"L’asta arriva a coronare un workshop di scultura realizzato a Bollate da novembre 2003 ad aprile 2004, con incontri settimanali - racconta Stefania Vaccari, responsabile delle pubbliche relazioni del Naba -. Il titolo scelto per il workshop è "Uomini nulla", come abbiamo definito i carcerati, persone dalla libertà limitata ma che credono che il lavoro estetico possa ricoprire un ruolo importante per la sopravvivenza spirituale".

"I detenuti scultori sono stati scelti tutti nel primo reparto - spiega Mimma Buccoliero, vicedirettore del carcere di Bollate -, una sezione che ospita detenuti particolarmente attivi nel percorso trattamentale. Abbiamo accettato di buon grado la proposta di un corso di scultura all’interno del carcere perché vogliamo appoggiare quelle iniziative che portino il carcere ad aprirsi all’esterno. Iniziative come queste sono fondamentali per i detenuti; permettono uno scambio di esperienze con l’esterno e dimostrano che il carcere non è solo emarginazione ma anche desiderio di rimettersi in gioco. Vorremmo sempre più realizzare un carcere trasparente, aperto alla società".

Positiva anche l’esperienza degli studenti: "Abbiamo avuto l’occasione di affrontare direttamente una realtà conosciuta solo per sentito dire - spiega Antonio Barletta, studente di arte e design, che ha partecipato al workshop -.

Le procedure burocratiche che bisogna affrontare ogni volta che si entra sono la cosa più fastidiosa. Mentre il rapporto che si instaura con la persona è la cosa più importante. Questo rapporto smonta il pregiudizio che tutti noi abbiamo sul carcere. Poi, dal punto di vista artistico io sono stato fortunato: ero in coppia con un detenuto modellista brasiliano e un ragazzo che faceva murales. Sono io che ho imparato da loro".

Pescara: si è insediato nuovo provveditore, Aldo Fabozzi

 

Il Messaggero, 28 giugno 2004

 

Si è insediato negli uffici attigui alla casa circondariale di Pescara, Aldo Fabozzi, nuovo provveditore dell’amministrazione penitenziaria per l’Abruzzo ed il Molise. Sostituisce Nello Cesari che è stato destinato a Cagliari.

Fabozzi, cognato dell’ex sottosegretario alla giustizia Franco Corleone, è arrivato a Pescara nel contesto di un disegno disposto dal ministro Castelli. Il provvedimento dovrebbe avere il carattere di una missione trimestrale. Ma potrebbe trasformarsi in trasferimento a tempo indeterminato.

Como: il ministero: "Nessun sovraffollamento al Bassone"

 

Corriere di Como, 28 giugno 2004

 

Da anni gli agenti di polizia penitenziaria del Bassone denunciano un sovraffollamento giunto ormai "ai limiti della sopportabilità", ma secondo il ministero della Giustizia "non sembra" invece "denotarsi una situazione di eccessivo disagio, sotto il profilo del tasso di affollamento". In sintesi è questo il nocciolo della risposta che il direttore generale della sezione "Detenuti e trattamento" del ministero ha inviato nei giorni scorsi all’onorevole Marte Ferrari.

L’ex parlamentare di San Fermo aveva scritto a Roma facendosi portavoce delle proteste del personale in servizio alla casa circondariale comasca e ora la missiva firmata dal funzionario del ministero, Sebastiano Ardita, è la risposta a quelle denunce. "Al 4 maggio - si legge nella lettera della direzione generale detenuti e trattamento - risultavano presenti 540 detenuti a fronte di una capienza di 581 unità".

Da qui la conclusione secondo cui al Bassone non vi sono problemi di sovraffollamento, "specie se" la situazione lariana viene "confrontata con le realtà di altri istituti penitenziari" nel resto d’Italia. Una risposta che sembra non piacere, però, ai delegati sindacali del Bassone. "La quota di 581 unità - replica Massimo Corti della Cisl - è la capienza massima tollerabile.

La capienza regolare è decisamente inferiore. Il problema è che il ministero non fa le considerazioni dovute. Secondo la norma ci dovrebbero infatti essere tre detenuti per cella. Però alcuni devono essere messi in isolamento, sia esso giudiziario, sanitario o disciplinare. Ne consegue che, soprattutto nelle sezioni protette, abbiamo anche fino a sei detenuti in una cella. Per questo noi denunciamo il sovraffollamento del Bassone".

Sul fronte della carenza d’organico, il ministero ammette che a Como mancano almeno 70 agenti, ma niente viene detto su come si intenda risolvere questo problema. "Ci attendiamo molto - conclude Corti - dall’incontro che il ministro Roberto Castelli ha promesso di avere quanto prima con noi. Siamo speranzosi che in quell’occasione la situazione si possa finalmente risolvere".

Milano: presentazione del Rapporto sui Diritti Globali 2004

Mercoledì 30 giugno 2004 - ore 17.00 - Milano

Centro Culturale San Fedele Piazza San Fedele, 4

 

Promosso da Cgil, Arci, Antigone, Legambiente, Coordinamento nazionale comunità di accoglienza realizzato dall'Associazione Società INformazione.

 

Intervengono

 

Aldo Bonomi, sociologo

Roberto Della Seta, presidente nazionale Legambiente

Gad Lerner, giornalista

Giorgio Roilo, segretario generale Camera del lavoro di Milano

Sergio Segio, curatore del Rapporto

Padre Bartolomeo Sorge, direttore Aggiornamenti sociali e Popoli

 

 

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