Luigi Grimaldi

 

Meno carcere per sperare nel recupero

di Luigi Grimaldi

 

L’Arena, 11 aprile 2004

 

Cavallina parla delle polemiche sul suo ex compagno dei Pac Cesare Battisti e del reinserimento

 

Il Volontario scontò 12 anni di pena. insiste sulla necessità di riforme dopo la richiesta di estradizione per il leader dei proletari armati per il comunismo

 

Dalle polemiche sollevate per la richiesta di estradizione e per la liberazione a Parigi di Cesare Battisti, esponente di spicco dei Proletari armati per il comunismo fino all’attuale scenario del carcere per i detenuti comuni. Il professore veronese Arrigo Cavallina, operatore sociale e volontario di due associazioni veronesi di recupero di ex tossicodipendenti, ex componente dei Pac e compagno proprio di Battisti negli Anni Settanta, interviene nel dibattito proponendo un nuovo modo di applicare le pene ai detenuti. Lei ha scontato la sua condanna con oltre dodici anni di carcere, Battisti invece no.

 

Cosa ne pensa di una sua possibile estradizione?

Mi fa impressione la miseria della discussione sull’argomento. Ho visto in televisione la strumentalizzazione dei poveri familiari delle vittime e la mancanza completa di un pensiero. Siamo di fronte all’idea che per le persone che hanno subito il male, l’unica cosa che possiamo fare è del male a Battisti.

 

Però, le condanne vanno eseguite…

Sì, ma c’è uno spiraglio nelle maglie dell’amministrazione penitenziaria. Il discorso della mediazione, per esempio.

 

Cos’è la mediazione?

Esiste già nel diritto minorile e può essere introdotta anche nel diritto penale che riguarda gli adulti. In pratica, tentare di trovare uno spazio tra autore del reato e vittima o parenti della vittima. Uno spazio nel quale è possibile far emergere la verità.

 

E come si fa a pagare il conto con la giustizia?

Ecco, appunto, lo si chiama "pagare". Invece la detenzione è il contrario di "pagare". Una persona che è in carcere non può farlo, non è messa in condizioni di farlo. Meglio sarebbe se invece si riuscisse a pensare a forme per le quali la vittima possa ritenersi risarcita non con la sofferenza inflitta all’autore del reato. Possibile che non si riesca a immaginare altro che una stanza chiusa a chiave?

 

Può fare un esempio?

Ho letto di una commerciante vittima di un giovane rapinatore che adesso, ogni sera, all’ora di chiusura va nel suo negozio per dare, diciamo così, una mano con il suo "occhio esperto". Dico che bisogna pensare alla pena come le possibilità pratica di un progetto di ricostruzione. Questo non vuol dire che non si tratti di una sofferenza maggiore. Ci sono ragazzi tossicodipendenti che preferiscono stare in carcere piuttosto che andare in comunità.

 

E con Battisti come pensa che si possa fare?

Intendiamoci: il ragionamento che viene fatto è che in Italia ci sono persone che sono detenute per reati gravi. Pertanto, giustamente, si sta tentando di far scontare la pena anche a chi è fuori. Forse Battisti dà un’immagine di sé che alimenta questa voglia di punizione. La domanda piuttosto è "perché" accade? Ripeto: bisogna rimettere in discussione la pena. Un Battisti nel 1982 era ancora una persona reinseribile. Fu liberato da Prima Linea che pensava di poter avere un combattente in più. Invece lui si allontanò, disse che non voleva più saperne, criticava quei matti che pensavano di continuare a combattere. Ma, pur consapevole di non essere d’accordo con quei metodi e del fatto che non avrebbe mai più commesso i reati del passato, la sua prospettiva era di stare per tutta la vita in carcere. Se questo è il progetto di ricostruzione, è chiaro che, anche per istinto di sopravvivenza, si tenta di scappare dove si può e di ricostruire il proprio passato in funzione di un’autodifesa, magari dicendo che le sentenze erano ingiuste, che eravamo una generazione di combattenti che ha perduto la guerra, e così via.

 

Walter Pedrotti che insegnava ai detenuti sosteneva che il carcere è un'industria e che bisogna mettercela tutta per farla fallire. Voleva dire che si deve fare di tutto per non entrarci. È un’utopia?

Sì, purtroppo lo è. Penso alla mia esperienza. Conoscevo Walter fin dagli Anni Sessanta, prima ancora della mia scelta di entrare nei Pac. Ebbene, a mano a mano che noi ci spostavamo sull’asse della violenza, andando a trovare Curcio prima e poi iniziando frequentazioni con Potere Operaio, Walter e il gruppo dei trentini non ci hanno mai seguito su questa strada. Lui, mentre noi proseguivamo nel "tutto politico", andava avanti alla riscoperta della creatività, delle relazioni, del femminismo. Quando tornai a Verona, dopo la prima carcerazione, mi sembrò il punto di riferimento per la direzione nella quale avrei potuto arricchirmi io. Eppure rimasi nei Pac, nonostante la mia insoddisfazione per la convinzione che ci fosse povertà del soggetto rivoluzionario rispetto a una ricchezza che cresceva fuori. Speravo che la banda Pac potesse tenere insieme tutte queste cose, invece non fu così.

 

La violenza, come la droga, è una specie di dipendenza?

La violenza è un mostro che assorbe tutto. Io avevo la fortuna di stare a Verona, ma quei disgraziati che stavano a Milano avevano il compito di avere contatti quotidiani con le formazioni, dovevano procurare i soldi, difendere i latitanti, cercare armi e soldi.

La vita girava attorno solo a questo. Per quanto riguarda il rapporto tra droga e violenza, mi sembra che la questione sia di identità debole, poco costruita".

 

Cioè?

La mia generazione di violenti era arrivata alla scelta delle Brigate Rosse per una forma di coerenza culturale. Il percorso non era costituito dal fatto di avere una rabbia dentro e andarla a sfogare. Il percorso era questo: cosa dice "Il Capitale", quali sono le azioni da compiere, cos’è lo Stato che va combattuto. Era un periodo in cui c’era una larga diffusione di testi, la predicazione della necessità della violenza era molto più larga di quei quattro cretini che sul serio l’hanno adoperata.

 

A chi è diretta questa riflessione?

Anche a chi siede in parlamento oggi e si scandalizza. Eppure ce ne sono tanti tra loro che all’epoca avevano tra le mani le chiavi inglesi durante le manifestazioni.

 

Quanti giovani immigrati in Italia rischiano oggi di confluire nelle file del terrorismo islamico?

Non penso che corrano questo rischio. L’immagine che abbiamo noi del pericolo islamico non è reale. Lo si può vedere anche dalle iniziative di preghiera qui a Verona. Sono manifestazioni che convergono verso Dio. E gli islamici, per esempio, hanno presentato un modo di pregare che è piaciuto moltissimo.

 

 

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